La peste in letteratura… Introduzione La peste è stata spesso trattata dagli scrittori che hanno tentato di descriverla o di esorcizzarla, di spiegarla o di divinizzarla. Attraverso il nostro percorso esamineremo vari scritti di quattro autori riguardanti il fenomeno della peste. Tucidide Tucidide ci descrive la peste scoppiata ad Atene all’inizio della grande guerra del Peloponneso combattuta dalla città dell’Attica contro Sparta (430/429 a.C.). Quando scoppiò l’epidemia ad Atene, i medici, che non conoscevano quel male, erano i primi a caderne vittime in quanto erano loro a trovarsi più a diretto contatto con chi ne era colpito. I primi contagiati furono quelli del Pireo, poi il morbo si diffuse anche nella città alta. Improvvisamente le persone sane presentavano vari sintomi come calore alla testa, infiammazione agli occhi, alla gola e alla lingua, forte tosse, evacuazione di bile. Il corpo era cosparso di piccole pustole e ulcere. Vi era poi l’impossibilità di trovare riposo. Gli animali che si cibavano dei cadaveri insepolti morivano. Nessun corpo, forte o debole che fosse, si rivelava in grado di resistere. Ma l’aspetto più grave di questo male era da un lato lo scoraggiamento dei contagiati perché subito si abbandonavano alla disperazione e non opponevano nessuna resistenza. Per timore evitavano di avvicinarsi gli uni agli altri e morivano abbandonati. Chi si occupava di più dei malati erano coloro che si erano salvati dall’epidemia. Il morbo della peste, infatti, non colpiva mai due volte. La peste segnò l’inizio del dilagare della corruzione. La paura degli dei o le leggi umane non rappresentavano più un freno. La pena sospesa sulle loro teste era molto più seria e per essa la condanna era già stata pronunciata: era naturale quindi, prima che si abbattesse su di loro, godersi un po’di vita. Giovanni Boccaccio Giovanni Boccaccio ci parla della peste del 1348 nelle novelle del Decameron. La pestilenza pervenne a Firenze per opera dell’ira di Dio; era cominciata in Oriente e si era diffusa verso l’Occidente. Né i dottori né le medicine parevano fare effetto: pochi guarivano, la maggioranza degli ammalati moriva prima del terzo giorno. I sani non osavano avvicinarsi agli infermi o toccare le loro cose, per paura di venire contagiati e da questo nacquero diverse paure e superstizioni: alcuni per rimanere sani si tenevano lontani dai malati isolandosi; altri andavano in giro portando in mano o fiori o erbe o spezie e se le portavano al naso, per coprire l’odore dei cadaveri. Altri ancora erano più crudeli: fuggivano davanti alla pestilenza abbandonando la propria città, i parenti, le loro cose per rifugiarsi in campagna. Alessandro Manzoni Alessandro Manzoni sul finire del suo romanzo racconta di come Renzo, andato a Milano per cercare Lucia ospite di don Ferrante, vede e vive le conseguenze della terribile epidemia portata dai Lanzichenecchi nel 1630. Tanta era stata la furia del contagio, e il fetore dei cadaveri lasciati lì, che quei pochi rimasti vivi erano stati costretti a sgomberare. Molti stavano chiusi per paura del contagio. Tutti sembravano essersi dimenticati cosa significasse essere umani; tutto appariva sospetto, ogni persona era una potenziale fonte di contagio. Non esistevano più abitudini, la vita di tutti era stata sconvolta. La visione triste e scura degli ammalati che venivano condotti al lazzaretto - alcuni spinti a forza gridavano che volevano morire nel proprio letto, altri nascondevano il dolore e qualsiasi altro sentimento - era solo a tratti sollevata da qualche esempio di fermezza e di pietà: padri, madri, fratelli, figli… che sostenevano i loro cari assicurando loro che s’andava in un luogo dove c’era chi si sarebbe preso cura di loro per farli guarire. Questo era ciò che gli occhi di Renzo vedevano Albert Camus Lo scrittore francese di origini algerine, Camus, descrive la peste nella località di Orano, nella costa algerina. La peste aveva fatto molte vittime nei quartieri esterni della città; all’improvviso sembrò avvicinarsi e stabilirsi anche nel quartiere degli affari. Gli abitanti accusavano il vento di trasportare germi infettivi. Si ebbe allora l’idea di isolare certi quartieri particolarmente colpiti e di non autorizzare nessuno ad uscire se non chi prestasse servizi indispensabili. Coloro che erano costretti a questa condizione non potevano fare a meno di pensare agli uomini degli altri quartieri come uomini “liberi”. Le persone tornate dalla quarantena, disperate per i lutti e le disgrazie subìti, davano fuoco alle loro case nell’illusione di farvi morire la peste. Dopo aver dimostrato che la disinfestazione fatta dalle autorità bastava ad escludere ogni rischio di contagio, bisognò decretare pene severe contro quegli innocenti incendiari. I malati morivano lontani dalle loro famiglie poiché le veglie rituali erano state proibite . Camus ci presenta la peste come una metafora morale del male; come Manzoni condanna l’ignavia e l’indifferenza. La peste, un male antico dal significato estremamente moderno. Realizzato da: SILVIA FEJZULLA SARA LA BELLA ANNA LONDI SOPHIA SECCIANI VA L E R I A VA R G A S