Corso 2003-2004 vecchio e nuovo ordinamento

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Università degli studi di Napoli “Federico II”
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in filosofia
Cattedra di Filosofia della storia
Prof. Giuseppe Antonio Di Marco
Semestre invernale 2003-2004
I Modulo (ottobre-metà novembre 2003)
Tema del corso: “Lavoro” e “Lavoratore” tra marxismo e nichilismo
Referente: Dott. Giovanni Sgro’
Testi di riferimento:
KARL MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica.
1857-1858, trad. it. di Enzo Grillo, La Nuova Italia, (Classici della filosofia, n. 20),
Scandicci (Firenze), 1968 (ristampa “Paperbacks Classici” 1997), vol. I, pp. 3-40.
KARL MARX, Per la critica dell’economia politica [1859], trad. it. di Emma
Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 3-8.
2
PREMESSA
Si riportano qui di seguito i materiali che sono serviti da testo-base per le lezioni
relative alla prima parte del primo modulo del corso. Ogni seduta del corso si è
arricchita in fieri di interventi, spiegazioni e osservazioni critiche sia del professore
che degli studenti. Di questo materiale non si è potuto purtroppo tener traccia.
Per ogni lezione si è provveduto inoltre a distribuire fotocopie di altri testi
indispensabili o ausiliari alla comprensione del discorso marxiano.
Per quesiti, dubbi, richieste di spiegazioni, reperimento testi etc. scrivete a:
[email protected]
3
Martedì 07 ottobre 2003
Testi di riferimento:
1. Scheda bio-bliografica su Marx:
BEDESCHI, GIUSEPPE, Introduzione a Marx, Roma-Bari, Editori Laterza,
(I filosofi, n. 32), 19976 (1a ediz. 1981), pp. 231-234. [Fotocopie]
PIANCIOLA, CESARE, (a cura di), Il pensiero di Karl Marx. Una antologia dagli
scritti, Torino, Loescher Editore, (Classici della filosofia), 1971 (11 a ristampa 1989),
pp. IX-XLVI.
2. Concezione materialistica della storia:
KARL MARX, Per la critica dell’economia politica [1859], trad. it. di Emma
Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 3-8.
[Fotocopie, ma anche on-line:
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1859/criticaep/prefazione.htm]
KARL MARX, Lettera a Pavel Vasilevič Annenkov del 28 dicembre 1846, in
ID., Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» del signor
Proudhon, trad. it. di F. Rodano, introd. di N. Badaloni, Roma, (I Testi, n. 50), 19937
(1a ediz. 1950), pp. 125-137.
[Fotocopie, ma anche on-line:
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/miseria-filosofia/annenkov.htm ]
FRIEDERICH ENGELS, Lettera a Joseph Bloch del 21 settembre 1890,
in K. MARX-F. ENGELS, Opere. Vol. XLVIII: Lettere gennaio 1888-dicembre 1890,
a cura di Antonio Santucci, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 491-494.
[Fotocopie, ma richiamabile anche all’indirizzo:
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1890/9/21-bloch.htm ]
FRIEDERICH ENGELS, Lettera a Konrad Schmidt del 27 ottobre 1890,
in K. MARX-F. ENGELS, Opere. Vol. XLVIII: Lettere gennaio 1888-dicembre 1890,
a cura di Antonio Santucci, Roma, Editori Riuniti, 1983.
[On-line: http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1890/10/27-schmidt.htm]
4
1. Scheda bio-bliografica su Marx:
1.1. Il periodo di formazione (1818-1844):
Karl Heinrich Marx nasce a Treviri il 5 maggio 1818.
Inizia gli studi universitari a Bonn (giurisprudenza) ma dopo un anno si trasferisce a
Berlino (filosofia).
Dalla Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859:
«La mia specialità erano gli studi giuridici, ma io non li coltivavo se non come
disciplina subordinata, accanto alla filosofia e alla storia. Nel 1842-43, come
redattore della Rheinische Zeitung1, fui posto per la prima volta davanti all’obbligo,
per me imbarazzante, di esprimere la mia opinione a proposito di cosiddetti interessi
materiali».
[…]
«Fui […] sollecito nell’approfittare dell’illusione dei gerenti della Rheinische
Zeitung, i quali credevano di poter far revocare la condanna a morte caduta sul loro
giornale dandogli una linea più moderata, per ritirarmi dalla scena pubblica nella
stanza da studio. Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu
una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel2, lavoro di cui apparve
l’introduzione nei Deutsch-französische Jahrbücher3 pubblicati a Parigi nel 1844. La
Il titolo completo era Gazzetta renana per la politica, il commercio e l’industria [Rheinische
Zeitung für Politik, Handel und Gewerke], ed era sorta con lo scopo iniziale di difendere gli
interessi della grande classe media renana e con i favori del governo, che vedeva nel giornale uno
strumento per controbilanciare la Gazzetta di Colonia [Kölnische Zeitung], un foglio ultramontano e
antiprussiano. Successivamente con il passaggio della redazione dall’economista protezionista
Friederich List a Jung, Oppenheim e Renard, che Moses Hess aveva convertito al radicalismo, il
giornale divenne sempre più l’organo di espressione dei Giovani hegeliani, fino alla direzione del
giornale da parte di Adolf Rutenberg, cognato di Bruno Bauer, che mise in allarme l’autorità per la
tendenza del giornale e fece crescere il controllo della censura. Dal 15 ottobre 1842 Marx ne fu
redattore capo fino alla soppressione del giornale, nel marzo 1843, per motivi di censura.
Per un primo esauriente resoconto relativo alla fondazione del giornale si veda
A. CORNU, Marx ed Engels dal liberalismo al comunismo, trad. it. parziale di F. Cagnetti e
M. Montinari, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 323-333.
1
2
Edizioni italiane: KARL MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, trad. it. di
Galvano della Volpe, introd. di Umberto Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1983 oppure Id., Critica del diritto
statuale hegeliano, trad. it. e commentario di Roberto Finelli e Francesco S. Trincia, Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1983.
3
La pubblicazione fu iniziata da Marx e da Ruge alla fine del febbraio 1844, dopo che entrambi si erano
trasferiti a Parigi (Marx dall’ottobre e Ruge dal dicembre 1843). Della rivista uscì solo il primo numero,
doppio, che comprendeva i seguenti contributi marxiani: Per la critica della filosofia del diritto di Hegel.
Introduzione e La questione ebraica. In seguito essa cessò la pubblicazione, soprattutto a causa delle
divergenze manifestatesi tra i due editori. Edizione italiana: AA. VV., Annali franco-tedeschi di A. Ruge e
K. Marx, a cura di G.M. Bravo, Milano, 1965.
5
mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello
Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione
generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali
dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli
inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di “società civile”; e che
l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica.
Avevo incominciato lo studio di questa scienza a Parigi4, e lo continuai a Bruxelles,
dove ero emigrato in seguito a un decreto di espulsione del sig. Guizot».
[…]
«Friedrich Engels, col quale, dopo la pubblicazione (nei Deutsch-französische
Jahrbücher) del suo geniale schizzo di critica delle categorie economiche5, mantenni
per iscritto un continuo scambio di idee, era arrivato per altra via (si confronti la sua
Situazione della classe operaia in Inghilterra6, allo stesso risultato cui ero arrivato io,
e quando nella primavera del 1845 si stabilì egli pure a Bruxelles, decidemmo di
mettere in chiaro, con un lavoro comune7, il contrasto tra il nostro modo di vedere e
la concezione ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra
anteriore coscienza filosofica8. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica
della filosofia posteriore a Hegel. Il manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo, era da
tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in Vestfalia, quando ricevemmo la
notizia che un mutamento di circostanze non ne permetteva la stampa.
Abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi, in
quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in
noi stessi».
1.2. Attività rivoluzionaria e teoria della rivoluzione (1845-1849):
«Dei diversi lavori sparsi in cui esponemmo al pubblico in quel periodo, sotto questo
o quell’aspetto, i nostri modi di vedere, menzionerò soltanto il Manifesto del Partito
comunista9, redatto in comune da Engels e da me, e un Discorso sul libero scambio10
4
KARL MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di Norberto Bobbio, Torino, Einaudi,
(Nuova Universale Einaudi, n. 92), 19682 (edizione rivista; 1a ed. 1949).
5
F. ENGELS, Lineamenti di critica dell’economia politica [1844]. Traduzione italiana in: AA. VV., Annali
franco-tedeschi di A. Ruge e K. Marx, a cura di G.M. Bravo, Milano, 1965 e in K. MARX-F. ENGELS,
Opere. Vol. III: 1843-1844, a cura di Nicolao Merker e Nicola De Domenico, Roma, Editori Riuniti, 1976.
6
Trad. it. di Raniero Panzieri in K. MARX-F. ENGELS, Opere. Vol. IV: 1844-1845, a cura di Raniero
Panzieri e Aldo Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1972.
7
K. MARX-F. ENGELS, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi
rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti [1845], trad. it.
di Fausto Codino, introd. di Cesare Luporini, Roma, 19939 (1a ed. 1958, 2a ed. riv. 1968).
8
Resa dei conti già iniziata l’anno prima con un altro lavoro in comune La sacra famiglia o Critica della
critica critica contro Bruno Bauer e soci [1844], trad. it. di Aldo Zanardo in K. MARX-F. ENGELS, Opere.
Vol. IV: 1844-1845, a cura di Raniero Panzieri e Aldo Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1972.
9
K. MARX-F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, trad. it. di Emma Cantimori Mezzomonti, con
saggio storico-critico di Bruno Bongiovanni, Torino, Einaudi, (Einaudi tascabili), 1998.
10
K. MARX, Discorso sul libero scambio, a cura di Alberto Burgio e Luigi Cavallaro, Roma, Deriveapprodi,
(Fuorifuoco), 2002.
6
da me pubblicato. I punti decisivi della nostra concezione vennero indicati per la
prima volta in modo scientifico, benché soltanto in forma polemica, nel mio scritto
Miseria della filosofia11, pubblicato nel 1847 e diretto contro Proudhon, ecc. La
pubblicazione d’una dissertazione, scritta in lingua tedesca, sul Lavoro salariato12, in
cui raccoglievo le conferenze tenute da me su questo argomento nella Associazione
degli operai tedeschi di Bruxelles, venne interrotta dalla rivoluzione di febbraio e
dalla mia espulsione dal Belgio che ne seguì. La pubblicazione della Neue Rheinische
Zeitung nel 1848 e nel 1849 e i successivi avvenimenti interruppero i miei studi
economici, che poterono essere ripresi soltanto a Londra nel 1850».
1.3. L’esilio a Londra e gli studi economici (1850-1863)
«L’enorme quantità di materiali per la storia dell’economia politica che sono
accumulati nel Museo britannico, il fatto che Londra è un punto favorevole per
l’osservazione della società borghese, infine la nuova fase di sviluppo in cui questa
società sembrava essere entrata con la scoperta dell’oro dell’Australia e della
California, mi indussero a incominciare di nuovo dal principio, e a studiare a fondo,
in modo critico, i nuovi materiali. Questi studi mi portavano da sé, in parte, a
discipline in apparenza molto lontane, sulle quali dovetti indugiare per un tempo più
o meno lungo. In particolare, però, il tempo di cui disponevo mi venne ridotto dalla
necessità imperiosa di lavorare per un guadagno. La mia collaborazione, che dura
ormai da otto anni, al primo giornale anglo-americano, la New York Tribune13,
provocò una straordinaria dispersione dei miei studi, dato che non mi occupo che per
eccezione di giornalismo propriamente detto. Gli articoli che scrivevo sui principali
avvenimenti economici in Inghilterra e sul continente formavano però una parte così
importante del mio lavoro, che fui costretto a familiarizzarmi con dei particolari
pratici che escono dal terreno della scienza dell’economia politica propriamente
detta».
1857-8: Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica14.
1859: Per la critica dell’economia politica.
1861-1863: Storia dell’economia politica15 da James Steuart e Smith fino alla
Vulgärökonomie.
11
K. MARX, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» del signor Proudhon [1847],
trad. it. di F. Rodano, introd. di N. Badaloni, Roma, (I Testi, n. 50), 19937 (1a ediz. 1950).
12
Id., Lavoro salariato e capitale, trad. it. di Palmiro Togliatti, Roma, Editori Riuniti, (I Piccoli), 1991.
13
Organo democratico-borghese americano fondato nel 1841. Marx vi collaborò dal 1851 e, dal 1855, ne
divenne l’unico corrispondente dall’Europa.
14
Saranno pubblicati postumi da Pavel Veller solo nel 1939-1941 per opera dell’Istituto Marx-Engels-Lenin
di Mosca.
15
Pubblicata postuma da Karl Kautsky nel 1905 in un’edizione rimaneggiata e con il titolo improprio di
Teorie sul plusvalore. Edizione italiana: K. MARX, Storia dell’economia politica. Teorie sul plusvalore,
trad. it. di Cristina Pennavaja, introduzione di Giorgio Lunghini, Roma, Editori Riuniti, 3 voll., 19932.
7
1863-1865: Manoscritti per il III libro de Il capitale.
1867: pubblicazione del 1° volume de Il capitale16.
1.4. L’Internazionale e la Comune (1864-1872)
Ripresa di un forte impegno politico che lo porta alla fondazione della «Associazione
internazionale degli operai» (1864). Entra in polemica con gli anarchici di Bakunin, i
proudhoniani francesi e i lassalliani tedeschi..
Riflessioni sulla Comune di Parigi (1871): primo governo rivoluzionario della classe
operaia, nato non dall’appropriazione delle leve dello Stato borghese, ma dalla sua
distruzione e sostituzione con nuovi organismi eletti dal basso e direttamente
controllati dal proletariato in armi. Per Marx la Comune è «la forma politica
finalmente scoperta» della dittatura del proletariato.
1872: Il congresso dell’Aia decide assieme all’espulsione degli anarchici, il
trasferimento del consiglio Generale a New York, il che, in pratica, equivale a
decidere la fine dell’Associazione internazionale dei lavoratori.
1.5. Gli ultimi scritti (1873-1883)
Gli ultimi scritti politici di Marx sono contributi allo sviluppo dei partiti socialisti
europei.
Critica del programma di Gotha17 (1875), cioè del progetto di programma comune
delle due frazioni dei socialisti tedeschi (i lassalliani e il partito fondato a Eisenach
nel 1869 da Liebknecht e Bebel) che fu approvato al congresso di unificazione tenuto
a Gotha, da cui nacque la socialdemocrazia tedesca..
Appunti, estratti di etnologia, antropologia, scienze naturali, matematica18, etc.
2 dicembre 1881 muore Jenny von Westphalen, compagna di tutta la sua vita..
Gennaio 1883 muore la figlia maggiore, Jenny.
14 marzo 1883 Karl Marx muore a Londra e viene sepolto nel cimitero di Highgate.
K. MARX, Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo. Il processo di produzione del capitale,
trad. it. di Delio Cantimori, introduzione di Maurice Dobb, Roma, Editori Riuniti, (I Testi, n. 1), 1994 5.
Il secondo e il terzo volume usciranno postumi a cura di Engels, rispettivamente nel 1885 e nel 1894.
17
Id., Critica del programma di Gotha [1875], Roma, Editori Riuniti, 1990.
18
Id., Manoscritti matematici, a cura di Francesco Matarrese e Augusto Ponzio, Bari, Dedalo, 1975.
16
8
2. Concezione materialistica della storia.
Dalla Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859:
«Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo
conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione
sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari,
indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un
determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di
questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia
la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale
corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione
della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale
della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al
contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del
loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione
con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono
soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano
mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in
loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento
della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca
sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile
distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche
della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali,
e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme
ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di
combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso,
così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che
essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni
della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i
rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano
sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti
di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia
società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco purché l’umanità non si
propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose
dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni
materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi
linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono
essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica
della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica
del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo
individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli
individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese
creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo.
Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana».
9
Giovedì 09 ottobre 2003
Il rapporto di Marx con Hegel
Quale breve premessa val la pena di ricordare e riaffermare che lo Hegel di Marx non
è più semplicemente lo Hegel storico, ma è quel Hegel storico che è stato recepito,
inglobato, modificato, digerito e assimilato criticamente da Marx durante tutto l’arco
della sua esistenza.
1. Tappe della ricezione marxiana della filosofia di Hegel.
1837-1841: Primo incontro con Hegel. Nonostante le prime titubanze, si tratta di un
hegelismo profondamente vissuto.
1842: Entrata in crisi del suo hegelismo in seguito all’esperienza pratico-politica della
Gazzetta renana.
1843: Critica del diritto statuale hegeliano. Marx critica duramente la logica
aprioristica e surrettizia del maestro e gli muove l’accusa di «misticismo logico e
panteistico».
1844: Ultimo capitolo dei Manoscritti economico-filosofici del 1844: Critica della
dialettica e della filosofia hegeliana in generale. Fermo restanti le critiche al modo di
procedere della Logica hegeliana, Marx considera positivamente la Fenomenologia
dello spirito e la concezione hegeliana del lavoro.
1845-1850: La posizione di Marx nei confronti di Hegel è critica o di rifiuto. Hegel
viene attaccato soprattutto in forma mediata, indirettamente, nelle persone di Bruno
Bauer e ancor di più di Proudhon.
1851-1859: Ripresa dello studio della Logica hegeliana.
Lettera a Engels del 16.01.1858: «Nel metodo del lavoro mi è stato di grandissimo servizio l’aver
riletto, by mere accident, la Logica di Hegel […]. Se tornerà mai il tempo per lavori del genere,
avrei una gran voglia di rendere accessibile all’intelletto dell’uomo comune in poche pagine, quanto
vi è di razionale nel metodo che Hegel ha scoperto ma nello stesso tempo mistificato».
1861-1864: Silenzio nelle opere e lettere di Marx su Hegel.
Dal 1865 si occupa di nuovo della dialettica hegeliana soprattutto in relazione ai problemi di
esposizione (Darstellung) dei risultati della ricerca.
1868: Lettera a Dietzingen del 09.05.1868:«Mi sono deciso a scrivere una dialettica, non appena mi
sarò scrollato di dosso il fardello economico».
1873: Poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873.
10
1.1. La prima produzione poetica romantica e la conversione all’hegelismo:
l’approdo nelle «braccia del nemico» della Lettera al padre del 10-11 novembre
1837.
Marx arriva a Berlino nell’autunno del 1836, dopo aver trascorso avventurosamente
un anno goliardico a Bonn tra buon vino, poesie e duelli. Anche a Berlino continua a
comporre versi più ardenti che mai per il suo amore Jenny von Westphalen, contenuti
nel Libro dei canti [Buch der Lieder], in due volumi, e nel Libro dell’amore [Buch
der Liebe].
Ma a mio avviso, la parte più importante della produzione letteraria di quell’anno è
una serie di epigrammi su Hegel, in cui il grande filosofo è accusato di arroganza,
ambiguità e soprattutto incomprensibilità:
1. «Poiché ho scoperto il sommo e ho trovato meditando il profondo,
come un dio sono rude, come lui nel buio m’avvolgo.
A lungo ricercai e vagai sul mare ondeggiante dei pensieri,
e là trovai la parola [il Logos], mi tengo forte a ciò che ho trovato».
2. «Parole insegno, mischiate in demoniaco ingranaggio confuso,
ognuno ne pensi poi ciò che gli piace pensare.
[…] Tutto infatti dico, perché un bel nulla vi ho detto!19»
3. «Kant e Fiche volentieri verso l’etere volteggiano,
cercavano là un paese lontano,
ma io cercavo soltanto bravamente di comprendere
ciò che… per la strada ho trovato!20»
4. «Chiediam venia, noi bazzecole epigrammatiche,
se melodie fatali andiam cantando,
in Hegel noi ci siam studiando immersi
della sua estetica ancora non ci siam… purgati»21.
19
Un giorno gli allievi di Hegel portarono per scherzo un garzone di bottega in aula per fargli sentire una
lezione del grande maestro. Alla fine della lezione gli chiesero che ne pensasse ed egli rispose di non aver
neanche capito di che fosse parlato, se di anatre o di oche. Gli allievi composero subito un epigramma:
«Se di anatre o di oche / qui si parli tu ci chiedi. / Capovolgi, orsù, il quesito / e neanch’esse mancheranno».
Come a dire che in una filosofia come quella di Hegel, tutto si muove, nessun concetto resta fisso in sé ma
continuamente si capovolge nel suo opposto.
20
Nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto (1821), Hegel scriveva: «La filosofia, poiché è lo
scandaglio del razionale, appunto per ciò è l’apprendimento di ciò che è presente e reale, non la costruzione
di un al di là, che sa dio dove dovrebbe essere» e poco oltre, «comprendere ciò che è, è il compito della
filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Per quel che concerne l’individuo, del resto, ciascuno è figlio del suo
tempo; così anche la filosofia, è il tempo di essa appreso in pensieri».
21
K. MARX, Epigrammi, in K. MARX - F. ENGELS, Opere complete. Vol. I: agosto 1835-marzo 1843,
a cura di M. Cingoli e N. Merker, Roma, 1980, pp. 78-79. Da ora in poi abbreviata in MEOC.
11
Ma c’è un altro documento del 1837 per noi molto importante perché, oltre ad
informarci esaurientemente dell’attività svolta in quell’anno, ci offre la cronaca di
quella crisi filosofica che lo impegnò nel giro di pochi mesi e che segna l’avvenuta
“conversione” di Marx all’hegelismo, nonostante le riserve e le frecciatine degli
epigrammi: la Lettera al padre del 10-11 novembre 1837. L’esordio è prettamente
hegeliano:
«vi sono momenti, nella vita, che, come segnali di confine, concludono un
periodo ormai trascorso, ma al tempo stesso indicano con certezza una nuova
direzione. In simili momenti di transizione sentiamo il bisogno di contemplare
con l’occhio d’aquila del pensiero il passato e il presente, per giungere così alla
coscienza della nostra reale situazione. Anzi, la stessa storia mondiale si compiace
di questi sguardi retrospettivi, ed esamina se stessa, il che le dà poi spesso
l’apparenza del regresso e della stasi, mentre essa si butta soltanto in poltrona per
comprendersi, per penetrare spiritualmente l’opera sua, dello spirito»22.
Oramai Marx considera la vita «come l’espressione di un’attività spirituale che si
esplica ed imprime la propria forma in ogni sfera, nella conoscenza, nell’arte, ed
infine nella vita privata»23 e cita quasi letteralmente dalla prefazione alla
Fenomenologia dello spirito l’esempio con cui Hegel contrappone il metodo
matematico al metodo scientifico24. Segue l’amara constatazione della fine del
vecchio mondo «pieno di gnomi, sirene, canti alle stelle e principi coraggiosi»25 e la
confessione di aver aderito «all’attuale filosofia del mondo»:
«Un sipario era caduto, il mio sacrario era spezzato, e nuovi dèi dovevano
essere insediati. Dall’idealismo - del quale, sia detto per inciso, erano stati per
me modello ed alimento quello kantiano e quello fichtiano - giunsi a cercare
l’idea nella realtà stessa. Se prima gli dèi avevano abitato al di sopra della
terra, ora ne erano divenuti il centro. Avevo letto frammenti della filosofia di
Hegel, la cui grottesca melodia rocciosa non mi era piaciuta. Volli ancora una
volta tuffarmi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale
22
MEOC, I, p. 8.
Ivi, p. 9.
24
«A ciò [al fatto, cioè che nella sua presunta filosofia del diritto che pretendeva di «abbracciare l’intero
ambito del diritto», Marx avesse fatto precedere una «metafisica del diritto, cioè principi, riflessioni,
determinazioni concettuali staccate da ogni diritto reale e da ogni forma reale del diritto»] si aggiungeva,
costituendo in anticipo un ostacolo alla comprensione del vero, la forma non scientifica del dogmatismo
matematico in cui il soggetto si aggira sulla cosa, e va ragionando di qua e di là - senza che la cosa stessa si
configuri come qualcosa di vivente che si dispiega in tutta la sua ricchezza. […] Invece nell’espressione
concreta del vivente mondo del pensiero - come nel diritto, nello Stato, nella natura, nell’intera filosofia –
l’oggetto stesso deve essere silenziosamente spiato nel suo sviluppo, non debbono essere introdotte
suddIvisioni arbitrarie, la ragione della cosa stessa deve svolgersi come qualcosa di in sé conflittuale e
trovare in sé la sua unità». Ivi, p. 10 (corsivo mio). Per l’esposizione hegeliana cfr. G.W.F. HEGEL,
Fenomenologia dello spirito, trad. it. di Enrico De Negri, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 19733
(1a ed. 1933-36, 2a ed. riv. 1968), vol. I, pp. 32-34.
25
D. McLELLAN, Marx prima del marxismo. Vita e opere giovanili, trad. it. di R. Long, Torino, 1974,
p. 51.
23
12
altrettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica, di non
usar più arti di scherma, ma di tenere la pura perla alla luce del sole»26.
Marx mantiene fede a questo suo proposito, legge «dal principio alla fine Hegel,
insieme alla maggior parte dei suoi discepoli» e tramite i suoi amici più intimi di
Berlino, i dott. Adolf Rutenberg e Karl Friederich Köppen, comincia a frequentare le
discussioni del Doktorclub e si lega «sempre più saldamente all’attuale filosofia del
mondo, alla quale avev[a] pensato di sfuggire»27.
1.2. K. MARX – F. ENGELS, La sacra famiglia ovvero critica della critica critica.
Contro Bruno Bauer e soci (1844). Cap. V. § 2. Il mistero della costruzione
speculativa28. [Fotocopie]
L’intento di Marx, in queste semplici e gustose pagine, è di «caratterizzare in
generale la costruzione speculativa», di svelare «il mistero della costruzione
speculativa, della costruzione hegeliana» (p. 62).
a) Astrazione mistificante.
Pag. 62: da «Se io, dalle mele, pere, fragole, mandorle, reali …» fino a «la cui vera
essenza è “la sostanza”, “il frutto”».
K. MARX, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» del
signor Proudhon. Capitolo secondo: La metafisica dell’economia politica. 1. Il
metodo. Prima osservazione. [Fotocopie]
«C’è forse da meravigliarsi se ogni cosa, in ultima astrazione, poiché di
astrazione si tratta e non di analisi, si presenta come categoria logica? C’è da
meravigliarsi forse se, eliminando a poco a poco tutto ciò che costituisce
l’individualità di una cosa, facendo astrazione dai materiali di cui essa si
compone, dalla forma che la distingue, voi arrivate a non avere più che un corpo;
se, facendo astrazione dai contorni di questo corpo, ben presto, non avrete più
che uno spazio; e se facendo infine astrazione dalle dimensioni di questo spazio,
finirete per non avere più che la quantità in sé, la categoria logica? A forza di
astrarre in questo modo, da ogni soggetto, da tutti i pretesi accidenti, animati o
inanimati, uomini o cose, abbiamo certo ragione di dire che, in ultima astrazione,
si arriva ad avere come sostanza soltanto le categorie logiche»29.
26
MEOC, I, p. 14, (corsivo mio).
Ivi, p. 15.
28
K. MARX – F. ENGELS, La sacra famiglia ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci
(1844), in K. MARX – F. ENGELS, Opere. Vol. IV: 1844-1845, a cura di Raniero Panzieri e Aldo Zanardo,
Roma, Editori Riuniti, 1972.
29
K. MARX, Miseria della filosofia, cit., p. 66.
27
13
b) Capovolgimento di soggetto e predicato.
Pag. 63: da «Questo avviene, risponde il filosofo speculativo …» fino a «così come
per esempio tutte le membra del corpo si risolvono continuamente nel
sangue e dal sangue continuamente sono prodotte».
c) Ipostatizzazione del predicato.
Pag. 65: «Questa operazione si chiama con espressione speculativa: concepire la
sostanza come soggetto, come processo interno, come persona assoluta, e
questo concepire forma il carattere essenziale del metodo hegeliano».
d) Positivismo acritico.
Pag. 64: «Quindi, ciò che è bello nella speculazione …» fino a «dalla sua esistenza
come uva passa alla sua esistenza come mandorla».
e) Trasfigurazione del reale.
Pag. 64: da «Il valore delle frutta profane …» fino a «egli compie un atto creativo».
f) Valore ideologica della mistificazione che la coglie la realtà ma in forma
capovolta.
Pag. 65: da «Nella esposizione del signor Szeliga …» fino a «considerare reale lo
sviluppo speculativo e speculativo lo sviluppo reale».
14
Lunedì 13 ottobre 2003
La Critica del diritto statuale hegeliano (1843)
La Critica del diritto statuale hegeliano consiste in un commento puntuale ai
paragrafi 261-31330, riguardanti Il diritto statuale interno, della terza sezione, Lo
Stato, della terza parte, L’eticità, dei Lineamenti di Filosofia del diritto di Hegel.
Ricostruiamo brevemente le tappe dello svolgimento hegeliano:
Nell’eticità lo spirito oggettivo, dopo aver attraversato e sperimentato l’insufficienza
logica e ontologica, l’astrattezza e unilateralità del diritto astratto e della moralità, si
trova nella sua sfera più concreta.
L’eticità è l’unità e il compimento di quelle due «totalità relative» del «bene senza
soggettività», che «soltanto deve essere», il diritto, e della «soggettività senza
l’essente in sé», «che soltanto deve essere buona»31, la moralità. Ma anche nella sfera
concreta dell’eticità lo spirito oggettivo sperimenta diversi gradi di concretezza.
Il primo è quello della famiglia, «la sostanzialità immediata dello spirito [che ha]
l’amore», «la di lui unità senziente sé [...], per propria determinazione»32.
Il secondo, «la perdita dell’eticità», è la società civile, «il mondo dell’apparenza
nell’ambito dell’ethos»33, «lo stato della necessità e dell’intelletto»34 che ha entro di
sé il sistema dei bisogni, l’amministrazione della giustizia, la polizia e la
corporazione. Con il superamento dialettico (Aufhebung), che toglie e conserva, di
questi due precedenti gradi, lo spirito oggettivo raggiunge nello Stato il suo pieno
dispiegamento, realmente infinito.
Lo Stato quindi, in quanto compimento dell’eticità, in quanto «realtà dell’idea
etica»35 e coerentemente all’insegnamento della Logica36, appare e compare da
30
Nel manoscritto rimastoci manca il primo foglio (Bogen), che molto probabilmente conteneva il commento
ai paragrafi 257-260, con cui inizia appunto la sezione sullo Stato nei Lineamenti di Hegel. Per una
descrizione fisica del manoscritto si veda la Nota filologica di F.S. Trincia e R. Finelli all’edizione italiana
della Kritik da loro curata e da me adottata: K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, trad. it. e
commentario di F.S. Trincia e R. Finelli, Roma, 1983, pp. 17-29.
pp. 12-17.
31
G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio,
a cura di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 1999 (nuova ed. riv., con le Aggiunte di E. Gans), Annotazione al
§ 141, p. 131.
32
Ivi, § 158, p. 141.
33
Ivi, § 181, p. 154.
34
Ivi, §183, p. 155.
35
Ivi, § 257, p. 195.
36
«In virtù della [...] natura del metodo la scienza si presenta come un circolo attorto in sé, nel cui
cominciamento, il fondamento semplice, la mediazione ritorce la fine. Con ciò questo circolo è circolo di
circoli [...]. [...] Così dunque anche la logica è tornata, nell’idea assoluta, a questa semplice unità che è il
15
ultimo, alla fine, come risultato, ma in realtà e allo stesso tempo, per chi, come
Hegel, riesce a superare la «mestizia della finità»37, è il prius, il fondamento e il fine
ultimo immanente dei suoi «momenti finiti e ideali»38, a lui subordinati, costituiti
dalla famiglia e dalla società civile. Lo Stato sorge per elevare il particolare
all’universale, o meglio per scoprire e tenere uniti l’universale nel particolare 39. Lo
Stato «ha la sua forza nell’unità del suo universale fine ultimo e del particolare
interesse degli individui, nel fatto ch’essi in tanto hanno doveri di fronte ad esso, in
quanto hanno in pari tempo diritti»40; in esso, cioè, «dovere e diritto sono uniti in una
e medesima relazione»41 e la sua «enorme forza e profondità, [è appunto quella] di
lasciare il principio della soggettività compiersi fino all’estremo autonomo della
particolarità personale, e in pari tempo di ricondurre esso nell’unità sostanziale e così
di mantener questa in esso medesimo»42.
La critica della logica aprioristica-surrettizia e del capovolgimento di soggetto e
predicato: Il commento ai paragrafi sul “passaggio” allo Stato e la critica della
deduzione hegeliana del monarca ereditario.
Ed è proprio con la messa in questione di questa deduzione dello Stato come risultato
e fine immanente della società civile e della famiglia e della mediazione di particolare
e universale che lo Stato pretende di compiere, che prende le mosse la Kritik di Marx,
il quale si chiede: «come, per quale via si realizza la mediazione, il “riportarsi” del
particolare all’universale? I termini dell’indagine critica di Marx sono qui
squisitamente concettuali: è la forma concettuale in cui si realizza (anzi, non si
realizza) la mediazione, ciò che lo interessa; non sono [ancora] in discussione i
contenuti, la configurazione storico-politica di famiglia, società civile e Stato»43.
Questa critica di Marx al concetto, «il mistificato mobile del pensiero astratto»44, alla
logica sottesa al modo di procedere hegeliano è giustificata dal fatto che «Hegel
[stesso] non parla qui di collisioni empiriche; egli parla della relazione delle “sfere
[corsivo di Marx] del diritto privato e del benessere privato, della famiglia e della
società civile” allo Stato; si tratta della relazione essenziale di queste sfere stesse»45.
Per Hegel, società civile e famiglia sono in un rapporto di subordinazione e
cominciamento suo». G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, introd. di
L. Lugarini, Roma-Bari, 1996, vol. II, p. 955.
37
Ivi, I, p. 129.
38
«La proposizione, che il finito è ideale, costituisce l’idealismo». Ivi, vol. I, p. 159.
39
«Tutto dipende dall’unità dell’universalità e della particolarità nello Stato». Id., Lineamenti di filosofia del
diritto, cit., Aggiunta al § 261, p. 359.
40
Ivi, § 261, p. 201.
41
Ivi, Annotazione al § 261, p. 202.
42
Ivi, § 260, p. 201.
43
F.S. TRINCIA-R. FINELLI, Commentario, in K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit.,
p. 249.
44
K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 64. Ma si veda anche quest’altra bella
raffigurazione marxiana del concetto hegeliano: «L’anima degli oggetti, qui dello Stato, è compiuta,
predestinata prima del loro corpo, il quale di fatto è solo apparenza. Il “concetto” è il figlio entro l’“idea”,
che è Dio padre, il concetto è l’agens, il principio determinante, differenziante. “Idea” e “concetto” sono qui
astrazioni rese autonome», ivi, pp. 54-55.
45
Ivi, p. 42.
16
dipendenza nei confronti dello Stato, ma «“subordinazione” e “dipendenza” sono le
espressioni per un’identità “esterna”, forzata, apparente, come espressione logica,
della quale Hegel usa giustamente la “necessità esterna”»46. L’evidente conclusione a
cui Marx arriva è che
«Hegel pone qui un’antinomia irrisolta. Da un lato necessità esterna,
dall’altro fine immanente. L’unità dell’universale scopo finale dello Stato e
del particolare interesse degli individui deve consistere in ciò, che i loro
doveri di fronte allo Stato e i loro diritti verso lo stesso sono identici
(quindi ad esempio il dovere di rispettare la proprietà coinciderebbe con il
diritto alla proprietà)»47.
Al posto quindi di un rapporto di dipendenza intrinseca, per cui la parte si costituisce
come parte proprio per entro il suo rapporto con il tutto che la pone e la toglie48, si
istituisce qui un rapporto che isola i suoi estremi per poi subordinarne esternamente
uno all’altro. Così però viene negato il rapporto immanente che lega la parte al suo
tutto e la parte, l’elemento che viene negato, qui la famiglia e la società civile, viene
contraddetto e limitato nella sua essenza.
1. Il «misticismo logico, panteistico» di Hegel.
Veniamo adesso al paragrafo in cui «è deposto l’intero mistero della Filosofia del
diritto e della filosofia hegeliana in generale»49, al paragrafo in cui «appare molto
chiaramente il misticismo logico, panteistico»50 di Hegel: il paragrafo 262. Hegel
scrive:
«L’idea reale, lo spirito, che scinde se stesso nelle due sfere ideali del suo concetto, la
famiglia e la società civile, in quanto nel momento della sua finità, per essere, a partire
dalla idealità di quelle, spirito reale per sé infinito, distribuisce con ciò a queste sfere il
materiale di questa sua realtà finita, gli individui in quanto la moltitudine, così che
questa assegnazione al singolo appare mediata dalle circostanze, dall’arbitrio e dalla
propria scelta della sua determinazione»51.
46
Ivi, p. 43.
Ibid.
48
Cfr. G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, cit., II, pp. 575-580 («Il rapporto del tutto e delle parti»).
49
K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 47.
50
Ivi, p. 44.
51
G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 203. Per una lettura di questo paragrafo che ne
metta in luce le premesse teologiche e cristologiche e la conseguente critica feuerbachiana di Marx, si veda
G. MARINI, Tra due secolarizzazioni: il «mistero della filosofia hegeliana» e la critica di Marx al § 262
della «Filosofia del diritto», in L. LOMBARDI VALLAURI-G. DILCHER (a cura di), Cristianesimo,
secolarizzazione e diritto moderno, Milano, 1981, pp. 369-405, secondo il quale «la mediazione dell’idea è
la versione secolarizzata della provvidenza divina; le circostanze, l’arbitrio, la scelta personale della
destinazione, sono la versione secolarizzata del libero arbitrio di cui parla la teologia cristiana; e in questa
coesistenza di piani si ripropongono i problemi della coesistenza di provvidenza divina e libero arbitrio», ivi,
p. 285.
47
17
Secondo Hegel quindi, famiglia e società civile
«sono mosse dall’idea reale; non è il loro proprio processo vitale che le unisce allo
Stato, ma è il processo vitale dell’idea, che le ha distinte da sé; e precisamente esse sono
[la] finità di questa idea; sono debitrici della loro esistenza ad uno spirito diverso dal
proprio; sono determinazioni poste da un terzo, non autodeterminazioni; perciò vengono
determinate anche come “finità”, come la finità specifica dell’“idea reale”. Lo scopo
della loro esistenza non è questa esistenza stessa, ma l’idea espelle da sé questi
presupposti “per essere a partire dalla loro idealità spirito reale per sé infinito”»52.
“Traducendo” questa frase «in prosa»53, Marx spiega che in realtà famiglia e società
civile «svolgono se stesse a Stato. Esse sono la forza attiva [das Treibende]. […] Lo
Stato politico non può essere senza la base naturale della famiglia e la base artificiale
della società civile; esse sono per lo Stato una conditio sine qua non»54, ovvero, è lo
Stato che emerge da famiglia e società civile «in un modo inconsapevole e arbitrario.
Famiglia e società civile appaiono come l’oscuro fondamento naturale, da cui si
accende la luce dello Stato»55. Che cosa è successo? Come e perché possiamo
trovarci di fronte a questa opposizione di “interpretazioni”? Come è arrivato Hegel a
“questo” Stato? Per il semplice fatto che nel procedimento hegeliano
«la cosiddetta “idea reale” (lo spirito come infinito, reale) viene […] rappresentata
come se agisse secondo un principio determinato e per uno scopo determinato. Essa si
scinde in sfere finite, fa questo, “per ritornare in sé, per essere per sé” e fa ciò
precisamente “così che” ciò è proprio come è realmente. […] È [infatti] lo Stato che si
scinde in esse [famiglia e società civile], che le presuppone, e precisamente fa questo
“per essere a partire dalla idealità di quelle spirito reale per sé infinito”. “Esso si scinde,
per”. Esso “distribuisce con ciò a queste sfere il materiale della sua realtà, così che
questa assegnazione etc. appare mediata”»56.
2. Capovolgimento di soggetto e predicato.
In questo modo di procedere mistificante,
«il vero cammino viene rovesciato [auf dem Kopf gestellt]. Il più semplice è il più
intricato e il più intricato è il più semplice. Ciò che doveva essere punto di partenza
diviene risultato mistico, e ciò che doveva essere risultato razionale diviene mistico
punto di partenza57. […] L’idea viene soggettivata e la relazione reale allo Stato di
famiglia e società civile è concepita come sua interiore, immaginaria attività. Famiglia
e società civile sono i presupposti dello Stato; essi sono gli attivi veri e propri; ma nella
speculazione ciò viene capovolto. Ma se l’idea viene soggettivata, qui i reali soggetti,
società civile, famiglia, “circostanze, arbitrio etc.” si trasformano in irreali, significanti
altro [della Volpe traduce “allegorici”], oggettivi momenti dell’idea»58.
52
K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 46.
Ivi, p. 44.
54
Ivi, p. 46.
55
Ivi, p. 44.
56
Ibid.
57
Ivi, p. 94.
58
Ivi, p. 45.
53
18
Ci troviamo qui di fronte al famoso «rovesciamento di soggetto e predicato» 59,
«all’inversione del soggettivo nell’oggettivo e dell’oggettivo nel soggettivo»60, al
capovolgimento, criticato già da Feuerbach e che attraversa tutta la Kritik61, del
predicato (in questo caso, l’idea della realtà etica, dello Stato) in soggetto e del vero
soggetto (la famiglia e la società civile) in predicato del proprio predicato, operazione
in cui «la condizione viene posta come il condizionato, il determinante come il
determinato, il producente come il prodotto del suo prodotto»62.
2.1. Ipostatizzazione del predicato.
Il primo momento di questa logica aprioristica e surrettizia consiste nella
ipostatizzazione del predicato, il quale, sganciato e reso autonomo, per un atto di
astrazione arbitrario, dal suo autentico subjectum, υποχείμενον, si ritrova ad essere il
mistico soggetto e conseguentemente il vero soggetto è ridotto a mero «momento
della mistica sostanza».
«Invece di concepire queste [soggettività e personalità] soltanto come predicati dei
loro soggetti, Hegel rende autonomi i predicati e li lascia successivamente tramutarsi in
un modo mistico nei loro soggetti. L’esistenza dei predicati è il soggetto: quindi il
soggetto è l’esistenza della soggettività etc. Hegel rende autonomi i predicati, gli
oggetti, ma li rende autonomi avendoli separati dalla loro autonomia reale, dal loro
soggetto. Poi il reale soggetto appare allora come risultato, mentre si deve partire dal
reale soggetto e considerare la sua oggettivazione. La mistica sostanza diventa quindi
soggetto reale e il reale soggetto appare come un altro, come un momento della mistica
sostanza. Proprio perché Hegel muove dai predicati della determinazione universale
invece che dall’Ens reale (υποχείμενον, soggetto) e pure deve esserci un soggetto
portatore [Träger] di questa determinazione, la mistica idea diviene questo portatore»63.
3. Trasfigurazione del reale.
Per chi segue questo modo di procedere, tutto è “logicizzabile”, ovvero, per il
semplice fatto che al reale vengono sottratte, tramite l’astrazione speculativa, quelle
caratteristiche concrete e determinate, “specifiche” e non “generiche”, che lo
59
Ivi, p. 51.
«Inversione che […] dipende dal fatto che Hegel vuole scrivere la storia della vita dell’astratta sostanza,
dell’idea, dal fatto che […] l’attività umana etc. deve apparire come attività e risultato di un altro, dal fatto
che Hegel vuol far agire l’essenza dell’uomo per sé, come una immaginaria singolarità, invece che nella sua
reale, umana esistenza». Ivi, p. 93.
61
Eccone solo alcuni esempi: «È importante che Hegel ovunque faccia dell’idea il soggetto e del soggetto
vero e proprio, reale, come il “sentimento politico”, il predicato», ivi, p. 49. «Egli [Hegel] ha fatto di ciò che
è il soggetto di quella [la costituzione politica] un prodotto, un predicato dell’idea [di organismo]», ivi, p. 54.
«Ma proprio perché si è partiti [nella determinazione del fine dello Stato] dall’“idea” o dalla “sostanza”
quale il soggetto, quale l’essenza reale, il soggetto reale appare solo come ultimo predicato del predicato
astratto», ivi, p. 58. «Il soggetto è la cosa [la proprietà fondiaria] e il predicato l’uomo. La volontà diviene la
proprietà della proprietà», ivi, p. 204.
62
Ivi, p. 46.
63
Ivi, pp. 70-71.
60
19
costituiscono in particolare, tutto può essere considerato come un “momento” dello
sviluppo di una particolare idea, come suo momento “concreto”.
«Il contenuto concreto, la determinazione reale appare come formale; la
determinazione formale interamente astratta appare come il contenuto concreto.
L’essenza delle determinazioni statali non è che esse sono determinazioni statali, ma che
nella loro forma più astratta possono essere trattate come determinazioni logicometafisiche. Non la Filosofia del diritto, ma la Logica è il vero interesse. Il lavoro
filosofico non è che il pensiero si fa corpo in determinazioni politiche, ma che le
determinazioni politiche esistenti si volatilizzano in pensieri astratti. Non la logica della
cosa, ma la cosa della logica è il fattore [Moment] filosofico. La logica non serve a
prova dello Stato, ma lo Stato serve a prova della logica»64.
Nelle Grundlinien ci troviamo quindi di fronte solo a «un capitolo della Logica»65, o
meglio, visto che «l’essenza appartiene alla Logica ed è compiuta [fertig] prima della
Filosofia del diritto, […] l’intera Filosofia del diritto è solo parentesi rispetto a
Logica. [E] la parentesi è, come si comprende da sé, solo hors d’oeuvre dello
sviluppo vero e proprio»66. Infatti il passaggio dalla famiglia e società civile allo
Stato non è derivato
«dall’essenza particolare della famiglia etc. e dall’essenza particolare dello Stato, ma
dal rapporto universale di necessità e libertà. È completamente il medesimo passaggio,
che nella Logica viene attuato dalla sfera dell’essenza nella sfera del concetto. Lo stesso
passaggio viene compiuto nella Filosofia della natura dalla natura inorganica nella vita.
Sono sempre le stesse categorie, che prestano il principio animatore ora per questa ora
per quella sfera. Interessa unicamente ciò, trovare per le singole determinazioni concrete
le corrispondenti astratte»67.
In altri termini, l’unico interesse di Hegel è di ritrovare
«l’“idea” tout court [schlechthin], l’“idea logica” in ogni elemento, sia esso dello
Stato, sia esso della natura, e i soggetti reali […] diventano i loro meri nomi, così che è
presente solo l’apparenza di un investigare reale; i soggetti reali rimangono unicamente
delle determinazioni non concepite concettualmente, perché non concepite nella loro
essenza specifica»68.
64
Ivi, p. 58. E ancora: «[la] relazione reale viene espressa dalla speculazione come manifestazione, come
fenomeno. Queste circostanze, questo arbitrio, questa scelta della determinazione, questa mediazione reale
sono solamente la manifestazione di una mediazione, che l’idea reale intraprende con se stessa, e che accade
dietro il sipario. La realtà non viene espressa come se stessa, ma come un altra realtà. L’ordinaria empiria ha
a legge [zum Gesetz] non il suo proprio spirito, ma uno estraneo, laddove l’idea reale ha ad esistenza [zum
Dasein] non una realtà sviluppata a partire da se stessa, ma l’ordinaria empiria», ivi, p. 45.
65
Ivi, p. 59.
66
Ibid. «L’importanza eccezionale della Critica del diritto statuale hegeliano […] risiede nel fatto che essa
[…] è una critica radicale della Logica, oltre che della Filosofia del diritto, ed è soprattutto una critica
radicale per la sua fondazione su motivi di tipo inconsueto alla critica “sinistro-hegeliana” dell’idealismo».
G. della Volpe, Marx e lo Stato moderno rappresentativo. Un saggio della critica marxiana della dialettica
mistificata (1947), in Id., Umanesimo positivo e emancipazione marxista, Milano, 1964, SugarCo, p. 27.
67
K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., pp. 48-49.
68
Ivi, p. 51.
20
4. Positivismo acritico.
Contemporaneamente e conseguentemente a questo capovolgimento, Marx rileva un
altro «difetto fondamentale dello svolgimento»69, «un’altra conseguenza di questa
speculazione mistica»70, la peggiore pecca del metodo hegeliano, quello che gli
permette di essere strumento di santificazione della realtà ordinaria: l’interpolazione
(Unterschiebung) surrettizia e arbitraria della realtà esistente nel processo di
formazione e di sviluppo dell’idea, tramite un continuo «rovesciarsi di empiria in
speculazione e di speculazione in empiria»71. Il risultato di questo processo di
mistificazione è che «un’esistenza empirica viene assunta in maniera acritica come la
reale verità dell’idea; perché [qui] non si tratta di portare l’empirica esistenza alla sua
verità ma di portare la verità ad una empirica esistenza e allora l’esistenza più
immediata viene sviluppata come un reale momento dell’idea»72, come contenuto
razionale e adeguato, «incarnazione»73 dell’idea.
«La realtà empirica pertanto è assunta come essa è; essa è anche espressa come razionale,
però non è razionale a motivo della sua ragione specifica ma in quanto il fatto empirico ha
nella sua empirica esistenza un significato altro che se stesso. Il fatto, da cui si parte, non è
concepito in quanto tale, ma come risultato mistico. Il reale diventa fenomeno, ma l’idea non
ha nessun altro contenuto che questo fenomeno. L’idea non ha anche nessun altro scopo che
quello logico: “di essere spirito reale per sé infinito”»74.
5. Astrazione mistificante.
Si verifica, cioè, tramite un processo di astrazione mistificante, un passaggio dalla
realtà fattuale alla speculazione per cui la realtà empirica, privata delle sue
caratteristiche concrete diviene puro pensiero.
«La realtà fattuale è che lo Stato scaturisca dalla moltitudine così come essa esiste in
quanto membri delle famiglie e membri della società civile; la speculazione esprime
questa realtà fattuale come azione dell’idea, non come l’idea della moltitudine, ma come
azione di un’idea soggettiva, separata dalla realtà fattuale stessa»75.
Quindi, tornando al giusto rapporto di fondazione o di condizionalità tra famiglia e
società civile da una parte e Stato dall’altra, possiamo adesso scorgere nel
procedimento hegeliano che le circostanze casuali, l’arbitrio e la scelta della propria
determinazione attraverso cui secondo la veduta parziale e particolare del singolo gli
69
Ivi, p. 73.
Ivi, p. 93.
71
Ibid.
72
Ibid.
73
«A Hegel importa di fare questo, presentare il monarca come il reale Dio fatto uomo, come la reale
incarnazione dell’idea», ivi, p. 71. Nel monarca, quindi, «un’esistenza particolare, empirica, una singola
esistenza empirica a differenza dalle altre è concepita come l’esistenza dell’idea. Di nuovo, fa una profonda
impressione mistica il vedere una particolare esistenza empirica posta dalla idea e così incontrare ad ogni
grado un farsi uomo di Dio», ivi, pp. 93-94.
74
Ivi, p. 47.
75
Ibid.
70
21
viene assegnato il materiale dello Stato, tutte queste cose vengono direttamente
espresse da Hegel
«non come il vero, il necessario, il giustificato in sé e per sé; non vengono
fatte passare in quanto tali per il razionale; ma pure d’altro lato esse
diventano nuovamente il razionale, solo in modo tale che vengono
spacciate per una mediazione apparente, in modo tale che vengono lasciate
come sono, ma al tempo stesso ricevono il significato di una
determinazione dell’idea, di un risultato, di un prodotto dell’idea. La
differenza non sta nel contenuto, ma nel modo di considerare, o nel modo di
dire. È una doppia storia, una esoterica e una essoterica. Il contenuto risiede
nella parte essoterica. L’interesse della parte esoterica è sempre quello di
ritrovare nello Stato la storia del concetto logico. Ma è dal lato essoterico
che procede lo sviluppo vero e proprio»76.
6. L’interpolazione (Unterschiebung) surrettizia e arbitraria della realtà
esistente nel processo di formazione e di sviluppo dell’idea.
Questo particolare modo di mistificazione per cui dopo aver trasfigurato l’empiria in
speculazione, avendo astratto da questo dato empirico ogni caratteristica concreta e
specifica, si deve tornare necessariamente77 alla empiria, per offrire una
concretizzazione e una vita sanguigna a questo puro pensiero e quindi giustificare e
santificare tale realtà come incarnazione dell’idea, lo ritroviamo all’opera nella
deduzione del monarca ereditario, a cui Hegel dedica i §§ 275-286 delle Grundlinien,
la cui critica costituì se non nell’esecuzione, almeno nell’idea, il primo nocciolo della
Kritik.
Per delineare speculativamente la monarchia ereditaria, Hegel non si rinchiude nella
«Santa Casa (della Logica)»78, ma si guarda intorno e “distorce” metafisicamente la
realtà in cui e di cui vive, facendo di una persona, il monarca, la massima
realizzazione della volontà. Ma Hegel non parte da un monarca qualsiasi, qui si tratta
di un particolare e determinato tipo sovrano, il quale, pour cause, si ritrova ad essere
«la “sovranità personificata”, la “sovranità divenuta uomo”»79.
76
Ivi, p. 45.
«Hegel è costretto a scambiare effettivamente la speculazione in empiria, proprio per aver scambiato
l’empiria in speculazione. Cioè: proprio per aver fatto del “subbietto reale”, o “ente reale (ypokeimenon)”, o
“determinante reale”, ch’è, qui, la “società [Sozietät]”, il “momento” o “predicato” di una “mistica
sostanza”, cioè del “subbietto” destinato a esser “predicato” (l’Idea, lo Stato), Hegel è costretto a trovare
effettivamente il “contenuto”, lo “sviluppo”, dalla parte del predicato “mistificato”, vale a dire, dell’ex“subbietto reale”; è costretto a realizzare lo sviluppo, il progresso, con dei “motivi del tutto empirici, cioè
motivi empirici molto astratti, molto cattivi”, che si riassumono, nella fattispecie, nella realtà e concezione
volgare della “società civile”, come società “borghese”, classista». G. della Volpe, Marx e lo Stato moderno
rappresentativo. Un saggio della critica marxiana della dialettica mistificata (1947), in Id., Umanesimo
positivo e emancipazione marxista, cit., p. 27.
, cit., pp. 47-8.
78
K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 54.
79
Ivi, p. 75.
77
22
Come procede infatti Hegel?
«Di tutti gli attributi del monarca costituzionale nell’Europa odierna Hegel fa delle
autodeterminazioni assolute della volontà. Egli non dice: La volontà del monarca è la
decisione ultima, ma La decisione ultima della volontà è - il monarca: la prima frase è
empirica. La seconda distorce il fatto empirico in un assioma metafisico»80.
Per Hegel quindi il monarca è
«la coscienza dello Stato fatta corpo fisico, per cui quindi tutti gli altri sono esclusi da
questa sovranità e dalla personalità e dalla coscienza dello Stato, ma al tempo stesso
Hegel non sa dare a questa “Souveraineté Persone” alcun altro contenuto che l’“Io
voglio”, il momento dell’arbitrio nella volontà. La “ragione dello Stato”, e la “coscienza
dello Stato” è un’“unica”, empirica persona con esclusione di tutte le altre, ma questa
ragione personificata non ha altro contenuto che l’astrazione dell’“Io voglio”. L’Etat
c’est moi81. […] Invece di essere dunque lo Stato prodotto come la più alta realtà della
persona, come la più alta realtà sociale dell’uomo, un unico uomo empirico, la persona
empirica viene prodotta come la più alta realtà dello Stato»82.
Non solo questo. Hegel suppone e pretende anche di aver dimostrato che
«la soggettività dello Stato, la sovranità è “essenzialmente” il monarca, “in quanto
questo individuo, astratto da ogni altro contenuto, e questo individuo determinato a
dignità di monarca in modo immediato, naturale, dalla nascita naturale”. La sovranità,
la dignità monarchica nascerebbe dunque. Il corpo del monarca determinerebbe la sua
dignità. Al culmine dello Stato dunque, invece della ragione, deciderebbe la mera
Physis. La nascita determinerebbe la qualità del monarca, come determina la qualità del
bestiame. Hegel ha dimostrato che il monarca deve nascere, cosa di cui nessuno dubita;
ma egli non ha dimostrato che la nascita trasforma in monarca. La nascita dell’uomo a
monarca si lascia tradurre in una verità metafisica tanto poco quanto l’immacolata
concezione di Maria Madre»83.
Ma solo «nella sua sommità lo Stato esprime il suo segreto»84. L’ereditarietà del sovrano risulta dal
concetto del sovrano.
«Egli deve essere la persona specificatamente distinta dall’intero genere, da tutte le
altre persone. Ora qual è l’estrema, salda differenza di una persona da tutte le altre? Il
corpo. La più alta funzione del corpo è l’attività sessuale. Il più elevato atto
costituzionale del re è quindi la sua attività sessuale, poiché per mezzo di essa egli fa un
80
Ivi, p. 73.
Ivi, p. 75.
82
Ivi, p. 93.
83
Ivi, p. 84. Al riguardo osserva ironicamente Marx: «È molto comune che l’uomo sia nato; e che questa
esistenza posta attraverso la nascita fisica si sviluppi a uomo sociale etc. e, più in alto, fino al cittadino dello
Stato; attraverso la nascita l’uomo diviene tutto ciò che diviene. Ma è cosa molto profonda, è frappant che
l’idea dello Stato nasca immediatamente, che abbia partorito se stessa all’esistenza empirica nella nascita del
sovrano. In questo modo non è conseguito alcun contenuto, ma è solo modificata la forma del vecchio
contenuto. Questo ha ottenuto una forma filosofica, un attestato filosofico», ivi, p. 93.
84
Ivi, p. 95.
81
23
re e perpetua il suo corpo. Il corpo di suo figlio è la riproduzione del suo proprio corpo,
la creazione di un corpo reale [königlichen Leibes]»85.
In conclusione: ««I due momenti [del potere sovrano] sono: la casualità del volere,
l’arbitrio, e la casualità della natura, la nascita, dunque Sua Maestà il Caso. Il caso è
pertanto l’unità reale dello Stato»86. Hegel cioè non ha fatto altro che dimostrare
«come assolutamente razionale l’irrazionale»87, senza aver dimostrato e dedotto
razionalmente di fatto un bel niente, perché il «mezzo [di cui si serve] è l’assoluto
volere e la parola del filosofo; lo scopo particolare è nuovamente lo scopo del
soggetto filosofante, di costruire dalla pura idea il monarca ereditario. La
realizzazione dello scopo consiste nella [sua] semplice assicurazione»88 e in ciò si
rivela appunto «l’intera non-critica della [sua] Filosofia del diritto»89.
85
Ibid.
Ivi, p. 87.
87
Ivi, p. 85.
88
Ivi, p. 87.
89
Ivi, p. 90.
86
24
Manoscritti economico-filosofici del 1844. III manoscritto. Critica della dialettica e
in generale della filosofia di Hegel.
«In Hegel vi è un duplice errore»90.
Il primo errore è il suo idealismo, o meglio, il suo «misticismo logico, panteistico»2,
per es. il suo considerare la storia come una Fenomenologia dello spirito.
Hegel infatti «non ha trovato altro che l’espressione astratta, logica, speculativa per
il movimento della storia, che non è ancora la storia reale dell’uomo come soggetto
presupposto, ma è soltanto l’atto di generazione dell’uomo, la storia dell’origine
dell’uomo»3.
In questa concezione idealistica della storia l’uomo non è il soggetto, eppure questo
«processo deve avere un portatore [Träger], un soggetto; ma il soggetto si forma
soltanto come risultato; questo risultato, il soggetto che sa di essere autocoscienza
assoluta, è quindi Dio, lo spirito assoluto, l’idea che conosce e attua se stessa»4.
Alla fine del corso storico, quindi, «lo spirito, questo pensiero che ritorna al suo
luogo d’origine, che come spirito antropologico, fenomenologico, psicologico, etico,
artistico-religioso vale pur sempre soltanto per sé, sino a che si trova alla fine come
sapere assoluto nello spirito ormai assoluto, cioè astratto, e come tale si riferisce a se
stesso, e ivi raggiunge la sua esistenza cosciente e adeguata. Infatti, la sua esistenza
reale è l’astrazione»5 o detto più semplicemente l’«assoluto è lo spirito; questa è la
suprema definizione dell’assoluto»6.
Che ne è poi in tutto ciò dell’uomo? «L’essere umano, l’uomo, è equiparato in Hegel
all’autocoscienza. Ogni estraneazione dell’essere umano è quindi null’altro che
estraneazione dell’autocoscienza»7 e la «cosa principale è che l’oggetto della
coscienza non è altro che l’autocoscienza o che l’oggetto è soltanto l’autocoscienza
oggettivata, l’autocoscienza come oggetto (Posizione dell’uomo = autocoscienza)»8.
Conseguentemente, l’«alienazione dell’autocoscienza pone la cosalità. Poiché
l’uomo è uguale ad autocoscienza, il suo essere oggettivo alienato o la cosalità è
uguale all’autocoscienza alienata […] e la cosalità è posta da questa alienazione.
[È infatti] comprensibile che una autocoscienza, cioè la sua alienazione, può porre
90
K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 164.
Id., La critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 44.
3
Id., Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 162.
4
Ivi, p. 181.
5
Ivi, p. 164.
6
Ivi, p. 188 (Qui Marx riporta la definizione data da Hegel nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche,
§ 384).
7
Ivi, p. 169.
8
Ivi, p. 168.
2
25
soltanto la cosalità, cioè può porre soltanto una cosa astratta, una cosa dell’astrazione
non una cosa reale»9.
Il secondo errore di Hegel consiste nella identificazione di estraneazione e
oggettivazione.
«Come essenza posta e quindi da sopprimere dell’estraneazione vale [per Hegel]
non già il fatto che l’essere umano si oggettivizzi in modo disumano, in
opposizione a se stesso, ma il fatto che si oggettivizza differenziandosi e
opponendosi al pensiero astratto»10, cioè per Hegel ciò che deve essere eliminato
non è il modo disumano, estraniato ed estraniante dell’autooggettivazione, tipico di
una società alienata ed alienante quale quella capitalistico-borghese, ma al
contrario si tratta di eliminare l’oggettivazione stessa, cioè il fatto che l’uomo (per
Hegel l’autocoscienza) «si oggettivizza differenziandosi e opponendosi al pensiero
astratto».
L’oggettività, la realtà materiale, costituisce per Hegel solo un momento parziale e
transitorio, unilaterale ed astratto, nel cammino dello spirito verso se stesso e come
tale va superato [aufgehoben].
«[L’] appropriazione dell’essere oggettivo estraniato o la soppressione
[Aufhebung] dell’oggettività sotto la determinazione dell’estraneazione - che deve
procedere dall’estraneità indifferente sino all’estraneazione ostile reale - significa
per Hegel ad un tempo, o meglio principalmente, la soppressione dell’oggettività,
perché per la autocoscienza ciò che vi è di scandaloso nell’estraneazione non è il
carattere determinato dell’oggetto, ma il suo carattere oggettivo. L’oggetto è
quindi qualcosa di negativo, qualcosa che si sopprime da sé, una nullità
[Nichtigkeit]»11.
«Bisogna ora cogliere i momenti positivi della dialettica hegeliana nell’ambito
della determinazione dell’estraneazione»12.
«Uno sguardo al sistema hegeliano. Si deve incominciare con la Fenomenologia di
Hegel, dove si trova il vero luogo di nascita ed è racchiuso il segreto della filosofia
hegeliana»13.
«L’importante nella Fenomenologia di Hegel e nel suo risultato finale – la
dialettica della negatività come principio motore e generatore – sta dunque nel
fatto che Hegel concepisce l’autogenerazione dell’uomo come un processo,
l’oggettivazione come una contrapposizione, come alienazione e soppressione di
9
Ivi, p. 171.
Ivi, p. 165.
11
Ivi, p. 175.
12
Ivi, p. 179.
13
Ivi, p. 162.
10
26
questa alienazione; che in conseguenza egli intende l’essenza del lavoro e
concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo vero perché reale, come il risultato del suo
proprio lavoro»14.
Di questo passo vorrei mettere in evidenza tre elementi fondamentali:
1. La dialettica della negatività, ovvero la famosa «soppressione [Aufhebung], dove la
negazione e la conservazione, l’affermazione, sono connesse»15.
Evidente è il riferimento di Marx alla Fenomenologia dello spirito di Hegel:
«Il superare [Aufheben] presenta il suo vero duplice significato che noi abbiamo
visto nel negativo; è un negare e parimenti un conservare. Il nulla, come nulla
del questo, conserva l’immediatezza ed è esso stesso sensibile: ma è una
immediatezza universale»91.
Aufhebung deriva dal verbo aufheben il quale ha sostanzialmente tre gruppi di
significati:
a) levare da terra, raccogliere, alzare, sollevare;
b) togliere, sospendere, annullare, abrogare, ritenere, revocare;
c) conservare, mettere in serbo, custodire, ritenere.
La Aufhebung è quindi quel processo che elimina (la particolarità, l’unilateralità,
l’elemento astratto), conserva (ciò che vi è di positivo) ed eleva (a una formazione
superiore e più matura dello spirito).
È importante sottolineare e precisare che il togliere di cui parla Hegel non equivale
ad un immediato eliminare o annullare. Sul termine e sul significato di Aufhebung si
veda inoltre la nota che Hegel vi dedica nella Scienza della logica:
«Quello del togliere [aufheben] e del tolto [aufgehoben] (ossia dell’ideale) è uno
dei più importanti concetti della filosofia; è una determinazione fondamentale, che
ritorna addirittura dappertutto, e di cui occorre cogliere precisamente il senso,
distinguendola in particolare maniera dal nulla. – Quello che si toglie, non perciò
diventa nulla. Nulla è l’immediato. Ciò che è tolto, all’incontro, è un mediato; è un
non essere, ma come resultato derivato da un essere. Quindi ha ancora in sé la
determinatezza da cui proviene. La parola togliere ha nella lingua il doppio senso,
14
Ivi, p. 167.
Ivi, p. 177.
91
G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., vol. I, p. 94.
15
27
per cui val quanto conservare, ritenere, e nello stesso tempo quanto far cessare,
mettere fine. Il conservare stesso racchiude già in sé il negativo, che qualcosa è
elevato dalla sua immediatezza e quindi da una esistenza aperta agli influssi
estranei, affin di ritenerlo. – Così il tolto è insieme un conservato, il quale ha
perduto soltanto la sua immediatezza, ma non perciò è annullato»92.
2. Soprattutto, il «fatto che Hegel concepisce l’autogenerazione dell’uomo come un
processo, […] come il risultato del suo proprio lavoro».
È questo il grande “vantaggio” di Hegel riguardo anche ad altri grandi pensatori i
quali, pur partendo dal concreto sensibile, restano però fermi a una mera intuizione
immediata del reale.
1a tesi su Feuerbach:
«Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di
Feuerbach, è che l’oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di
oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività
pratica, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo è stato
sviluppato dall’idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto,
poiché naturalmente l’idealismo ignora l’attività reale, sensibile come tale.
Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma
egli non concepisce l’attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò
nell’Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il
modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto
nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce
l’importanza dell’attività “rivoluzionaria”, dell’attività pratico-critica».
3. Secondo Marx, «Hegel si è posto dal punto di vista dell’economia politica
moderna. Concepisce il lavoro come l’essenza, come l’essenza che si avvera
dell’uomo», ma, ancora una volta, «il solo lavoro che Hegel conosce e riconosce, è
il lavoro astrattamente spirituale»16.
Riguardo alla profonda considerazione (nonostante la sua appartenenza alle scienze
dell’intelletto) che Hegel aveva dell’economia politica si vedano i §§ 188-189 dei
Lineamenti di filosofia del diritto:
«§ 188. La società civile contiene i tre momenti:
A) La mediazione del bisogno e l’appagamento del singolo grazie al suo lavoro e
grazie al lavoro e appagamento dei bisogni di tutti gli altri, - il sistema dei
bisogni.
92
16
Id., Scienza della logica, cit., vol. I, pp. 100-102.
K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 168.
28
B) La realtà dell’universale ivi contenuto della libertà, la protezione della
proprietà ad opera dell’amministrazione della giustizia.
C) La previdenza contro l’accidentalità restante in quei sistemi e la cura
dell’interesse particolare come di un che di comune, ad opera della polizia e
della corporazione.
A) Il sistema dei bisogni
§189. La particolarità in primo luogo come ciò che è determinato di fronte
all’universale della volontà in genere (§ 6) è bisogno soggettivo, il quale consegue
la sua oggettività (cioè appagamento) grazie al mezzo α) di cose esterne, le quali
ora sono parimenti la proprietà e il prodotto di altri bisogni e volontà, e β) grazie
all’attività e la lavoro, come ciò che media i due lati. Giacché il fine di tale bisogno
è l’appagamento della particolarità soggettiva, ma nella relazione con i bisogni e il
libero arbitrio di altri si fa valere l’universalità, ne segue che questo parer della
razionalità in questa sfera della finità è l’intelletto, il lato che importa nella
considerazione e che costituisce esso medesimo l’elemento conciliatore all’interno
di questa sfera.
L’economia politica è la scienza che ha la sua origine da questi punti di vista [della
particolarità soggettiva, della sfera della finità, dell’intelletto], ma poi deve esporre il
rapporto e il movimento delle masse nella loro complicazione e determinatezza qualitativa e
quantitativa. – È questa una delle scienze che sono sorte nell’età moderna come in loro
terreno. Il suo sviluppo mostra lo spettacolo interessante di come il pensiero (v. Smith, Say,
Ricardo) movendo dall’infinita moltitudine di fatti singoli, che si trovano dapprima davanti
ad esso, rintraccia i principi semplici della cosa, l’intelletto che è attivo in essa e che la
governa. – Come da un lato è l’elemento conciliatore il conoscer nella sfera dei bisogni
questo parer della razionalità il quale nella cosa risiede ed è attivo, così viceversa è questo il
campo ove l’intelletto coi suoi fini soggettivi e le sue opinioni morali sfoga il suo
malcontento e la sua stizzosità morale»93.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Lettera a Engels del 16.01.1858: «Nel metodo del lavoro mi è stato di grandissimo
servizio l’aver riletto, by mere accident, la Logica di Hegel […]. Se tornerà mai il
tempo per lavori del genere, avrei una gran voglia di rendere accessibile all’intelletto
dell’uomo comune in poche pagine, quanto vi è di razionale nel metodo che Hegel ha
scoperto ma nello stesso tempo mistificato».
93
G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., §§ 188-189, pp. 159-160.
29
Dal 1865 si occupa di nuovo della dialettica hegeliana soprattutto in relazione ai
problemi di esposizione (Darstellung) dei risultati della ricerca.
1873: Poscritto alla seconda edizione tedesca de Il capitale del 1873:
«Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico, non solo è differente da
quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l’opposto. Per Hegel il processo del
pensiero, che egli, col nome di Idea, trasforma addirittura in soggetto indipendente,
è il demiurgo del reale, mentre il reale non è che il fenomeno esterno del processo
del pensiero. Per me, viceversa, l’elemento ideale non è altro che l’elemento
materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini.
Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent’anni fa
[1873-29/30=1843-1844, cioè nella Critica del diritto statuale hegeliano e nei
Manoscritti economico-filosofici]94, quando era ancora la moda del giorno. Ma
proprio mentre elaboravo il primo volume del Capitale i molesti, presuntuosi e
mediocri epigoni che ora dominano nella Germania colta si compiacevano di
trattare Hegel come ai tempi di Lessing il bravo Moses Mendelssohn trattava lo
Spinoza: come un “cane morto”. Perciò mi sono professato apertamente scolaro di
quel grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del
valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale
soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia
stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del
movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per
scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico.
Nella sua forma mistificata [Hegel], la dialettica divenne una moda tedesca,
perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale
[Marx], la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e per i suoi corifei
dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include
simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione
del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del
movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed
essa è critica e rivoluzionaria per essenza»95.
Marx è stato quindi il migliore e il più grande allievo di Hegel non nonostante ma proprio perché ha
criticato e superato [aufgehoben] il maestro.
Ancora una volta mi viene in mente il Nietzsche del Così parlò Zarathustra. Parte prima. I discorsi
di Zarathustra. Della virtù che dona: «Si ripaga male un maestro se si rimane sempre e soltanto un
discepolo [Man vergilt einen Lehrer schlecht, wenn man immer nur der Schüler bleibt]»96.
94
Come si può vedere il confronto con il maestro, con Hegel, lo ha impegnato ed occupato per tutta la sua
vita, dalla Lettera al padre del 1837 fino a questo Poscritto del 1873. Anche per Marx vale ciò che Nietzsche
dice di Strauss: «Chi […] si è ammalato una volta di hegelismo […] non guarirà mai del tutto».
F. NIETZSCHE, Prima considerazione inattuale. David Strass. L’uomo di fede e lo scrittore. § 6.
95
K. MARX, Il Capitale. Libro primo. Il processo di produzione del capitale, cit., pp. 44-45.
96
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, introduzione e commento di
G. Pasqualotto, Milano, 20006 (1a ediz. 1985), p. 97.
30
Martedì 14 ottobre 2003
1. La via di Marx alla sua (critica dell’) economia politica.
Un primo confronto serio di Marx con l’economia politica classica si ha negli anni
‘40 e si ritrova nei cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844.
La seconda tappa di mirati studi economici comincia con l’esilio londinese dal 1850
in poi. Sullo sfondo c’è, come motivazione critica di Marx, il proposito di cogliere
adeguatamente la sfera economica della società borghese, le sue tendenze di sviluppo
e di crisi. La critica alle condizioni del tempo viene quindi trasportata nel processo di
analisi delle sue condizioni materiali e della sua rappresentazione. L’interesse per i
temi economici è dopo il 1850 estremamente poliedrico e rientra nel sistema di
pensiero dell’economia politica classica.
I primi anni ‘50, documentati nei “Quaderni londinesi” (1850-1853), presentano un
impegno intenso con le teorie della moneta e con le correlate teorie della crisi. Già in
questi anni Marx formula – anche se in un contesto non ancora sistematico –
riflessioni centrali per la questione del plus-valore e sul salario e capitale che si
staccano chiaramente dal precedente riferimento e dipendenza da Ricardo.
Significativo per il successivo processo del lavoro deve essere stato il ripreso
confronto critico con le opere principali dei classici dell’economia politica classica
e cioè Steuart, Smith e Ricardo.
In questo ambito maturano le riflessioni sui rispettivi modi di procedere metodici e i
sistemi dell’economia scientifica.
Negli anni 1854-1856 il corso degli studi è meno intenso, interrotto soprattutto da
lavori pubblicistici. In questo periodo Marx mette insieme i primi risultati e si crea
quelle condizioni che gli permetteranno dal 1857 la rapida stesura dei “Grundrisse”.
Ancora durante la stesura dei “Grundrisse” Marx arriva, nell’ambito dello sviluppo
della sua concezione del valore, del denaro e del capitale alla concezione della merce
e alla contrapposizione valore di scambio/valore d’uso. In tal modo erano gettate le
basi per il passaggio alla rappresentazione delle categorie economiche: la merce è la
forma cellulare da cui la critica dell’economia politica può venire sviluppata97. La
scoperta della merce è inoltre di decisivo significato anche perché al contrario della
rappresentazione del valore in lei la forma del capitale trova il suo punto d’approdo
adeguato, specialmente per quanto riguarda il rapporto capitale/lavoro salariato.
97
«La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una
“immane raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra
indagine comincia con l’analisi della merce». K. MARX, Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro
primo, cit., p. 67.
31
In Per la critica dell’economia politica, opera apparsa nel 1859, Marx collega
espressamente il doppio carattere della merce con quello del lavoro (lavoro “astratto”
e “concreto”) e sviluppa con ciò alla teoria del valore/lavoro.
Gli anni seguenti fino al 1863 sono contrassegnati dalla ulteriore sistematizzazione
delle teorie del denaro e del capitale.
Dal 1863 al 1867 stende ulteriori quaderni di appunti e di estratti da cui saranno tratti
i tre volumi de Il capitale e le Teorie sul plusvalore.
2. Definizioni.
2.1. Economia politica.
L’economia politica è in senso lato la scienza delle leggi della produzione, consumo,
scambio e distribuzione delle condizioni materiali di vita degli uomini. Come
momento della coscienza sociale (borghese) si trova in un rapporto di dipendenza
dialettica dallo sviluppo economico materiale; L’economia politica esprime questo
sviluppo teoreticamente in una molteplicità di forme mediate.
In un senso più strettamente storico-determinato, l’economia politica ha per oggetto
le leggi economiche della società capitalistico-borghese ed è allo stesso tempo
scienza fondamentale per la comprensione di tutte le ulteriori branche e rapporti della
società borghese (vedi Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mill).
Come “critica dell’economia politica” Marx espone ne Il capitale la struttura
economica della società borghese.
Lettera di Karl Marx a Ferdinand Lassalle del 22.2.1858: « Il lavoro di cui si tratta
[Per la critica dell’economia politica, 1859] per ora è la critica delle categorie
economiche o if you like il sistema dell’economia borghese esposto criticamente. È in
pari tempo esposizione del sistema e critica dello stesso per mezzo
dell’esposizione»98.
2.2. Economia volgare.
L’economia volgare (Jean-Baptiste Say, Frédéric Bastiat, Henry Charles Carey,
Wilhelm Roscher, Pierre-joseph Proudhon etc.) è l’espressione teoretica delle
inasprite contraddizioni del modo di produzione capitalistico e delle sue
corrispondenti lotte di classe. A differenza dell’economia politica classica non tenta
di ricercare le intime connessioni della società capitalistica, ma si limita e si
Insieme ad altre lettere di Marx riguardanti Per la critica dell’economia politica, la si può leggere
nell’Appendice a KARL MARX, Per la critica dell’economia politica [1859], trad. it. di Emma Cantimori
Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1971.
98
32
compiace di tradurre le manifestazioni esteriori e le loro corrispondenti
rappresentazioni capovolte nella forma della teoria economica, soprattutto nella
formula trinitaria: terra-rendita fondiaria, capitale-profitto, lavoro-salario. Con lo
sviluppo crescente delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico cambia
anche corrispondentemente il punto di vista ideologico dell’economia volgare: da una
iniziale celata/dissimulata difesa dei rapporti capitalistici visti come intramontabili e
insuperabili, l’economia volgare si sviluppa fino a diventare una cosciente e aperta
apologetica di questi rapporti nelle più diverse forme.
3. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858
(Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie).
Sette quaderni (I-VII) stesi dall’ottobre 1857 al giungo 1858.
Einleitung (quaderno M) redatto tra il 23 agosto e la metà di settembre 1857.
Divisa in quattro paragrafi o sottosezioni:
§ 1. Produzione, consumo, distribuzione, scambio (circolazione).
a) Produzione. [Individui autonomi. Idee del XVIII secolo].
b) Eternizzazione di storici rapporti di produzione. Produzione e distribuzione in
generale. Proprietà.
§ 2. Il rapporto generale tra produzione, distribuzione, scambio e consumo.
a) Consumo e produzione.
b) Distribuzione e produzione.
c) Scambio e produzione.
§ 3. Il metodo dell’economia politica.
§ 4. Produzione. Mezzi e rapporti di produzione e rapporti di scambio. Forme di Stato
e della coscienza in relazione ai rapporti di produzione e di scambio. Rapporti
giuridici e rapporti famigliari.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pagg. 3-11: § 1. Produzione, consumo, distribuzione, scambio (circolazione).
«Oggetto della nostra analisi è anzitutto la produzione materiale. Il punto di
partenza è costituito naturalmente dagli individui che producono in società – e
perciò dalla produzione socialmente determinata degli individui»99.
KARL MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858, trad. it. di Enzo
Grillo, La Nuova Italia, (Classici della filosofia, n. 20), Scandicci (Firenze), 1968 (ristampa “Paperbacks
Classici” 1997), vol. I, p. 3.
99
33
«Produzione socialmente determinata materiale degli individui», questo genitivo va
letto in duplice modo:
Genitivo soggettivo: La produzione ha luogo nella società, sono gli individui il
soggetto, sono loro che producono socialmente.
Genitivo oggettivo: Gli individui stessi sono un prodotto sociale. Zoon politicon
Gattungwesen.
------------------------------------------------------------------------------------------------------Segue un attacco critico al «punto di partenza» [Ausgangspunkt] degli economisti
classici (pp. 3-6).
Robinsonate: Daniel Defoe, Robinson Crusoe, 1717.
L’individuo isolato e «indipendente» o è una vuota astrazione (qualcosa che non è
mai esistito storicamente), oppure, nella misura in cui ha un senso, costituisce il
prodotto (storicamente determinato) della società fondata sulla libera concorrenza,
cioè della società borghese moderna.
Gli economisti classici sono vittime di questa illusione, di questa «falsa coscienza»:
essi attribuiscono alle prime epoche della storia quello che il frutto maturo della
società moderna, cioè proiettano il presente borghese sul passato, l’uomo borghese
sull’uomo preborghese.
La robinsonata è l’illusione dell’epoca borghese, la quale deriva, per un verso, dal
tentativo di legittimare l’individualismo, proprio dell’economia borghese; per un
altro, dalla cecità di chi non comprende come anche l’individuo isolato sia possibile,
solo, perché esiste una certa maniera di organizzare la società, che appunto esprime
se stessa (ideologicamente) attraverso (e come) individui isolati.
La robinsonata è un costrutto propriamente ideologico basato sul proiettare
all’indietro, all’“origine”, una condizione, che è caratteristica e desiderata invece,
per il presente; lo scopo è, evidentemente, di legittimare così quella condizione,
spacciandola per naturale, razionale, eterna etc.
Robinson è il figlio del suo tempo.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 6: Zoon politicón – Gattungwesen [ente generico - il termine Gattung, infatti,
rimanda a Gatte = compagno, coniuge ed a gatten = unirsi].
34
Zoon logon èchon = animale parlante, che ha il linguaggio.
Cfr. Aristotele, Politica, I (A), 2, 1252 b – 1253 a100. [Fotocopie]
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Ritorno di Marx al suo punto di partenza, la «produzione socialmente determinata
materiale degli individui».
Pag. 6: «La produzione in generale è un’astrazione, ma un’astrazione che ha un senso
[verständige Abstraktion]…».
Entro quest’ottica, posti gli individui a, b, c, ..., n, elaborarne il concetto significa
raccogliere tutte - e solo - le caratteristiche comuni agli individui in questione,
scartandone, invece, le altre, quelle che differenziano un individuo dall’altro.
L’astrazione, a patto però che sia sensata (verständige) e storicamente determinata, si
rivela essere un indispensabile strumento per la ricerca scientifica.
Prefazione alla prima edizione de Il capitale del 1867.
All’«analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i
reagenti chimici: l’uni e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di
astrazione»101.
«Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma
più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è
possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo
allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e
i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo
momento, loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione è l’Inghilterra
principalmente che serve a illustrare lo svolgimento della mia teoria»102.
Non si tratta qui di un’astrazione mistificante (Hegel), ma di un’astrazione sensata
[verständige Abstraktion].
L’aggettivo verständige rimanda al Verstand, l’intelletto; dal che ricaviamo che
questa forma di astrazione si colloca all’interno di quello scindere l’immediata
totalità dell’esperienza, che è, per così dire, il compito o risultato della critica
100
ARISTOTELE, Politica, a cura di Renato Laurenti, Roma-Bari, Editori Laterza, (Economica Laterza, n.
9), 19952, pp. 6-7.
101
K. MARX, Il Capitale. Libro primo, cit., p. 32.
102
Ibidem.
35
intellettuale (quella, ad es., che produce le robinsonate, di contro al naturale punto di
partenza dell’economia politica).
In altre parole, ci rendiamo conto a questo punto che comprendere cosa sia
produzione non è mai possibile, se non combinando – di volta in volta in modo
diverso - caratteristiche comuni a tutti i modi di produzione e caratteristiche che,
invece, differenziano questo da quello.
L’individuazione precisa dell’Unterschied (differenza) mi consente di comprendere
la Verschiedenheit (diversità). Come si vede, dunque, mettere in evidenza il generale
o comune, per Marx, è funzionale al far emergere la differenza, in quanto lo scopo del
conoscere è comprendere la diversità - ovvero, il modo determinato in cui generale e
differente si intrecciano volta a volta103.
In conclusione, mediante l’analisi critica della verständige Abstraktion, Marx
propone, in realtà, una concezione del conoscere scientifico che, articolando comune
e differente, giunge a cogliere la particolarità del proprio oggetto di ricerca.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 7: “Dimenticanza” degli economisti borghesi.
In un primo momento si tralascia o «si dimentica», a favore della «produzione in
generale», la differenzia essenziale, differentia specifica; poi l’universale
indebitamente ipostatizzato («la produzione in generale») si incarna nella differenza
trascesa (il modo di produzione capitalistico).
La produzione capitalistica viene trascesa, trasfigurata, nei suoi caratteri specifici a
favore di un concetto più astratto, la «produzione in generale»; ma poi quest’ultima
viene identificata con la produzione capitalistica, la quale appare così come qualcosa
di metastorico, di eterno, razionale e naturale.
Secondo Marx non è per caso che l’economia politica usa non criticamente la
verständliche Abstraktion; al contrario, questo errore teorico e metodologico ha una
funzione pratico-politica (ideologica): scopo dell’economia politica è, partendo da
una pretesa nozione di “produzione in generale”, ricavare direttamente la
giustificazione logica e storica del modo specificamente capitalistico di organizzare
la produzione stessa. Per questo, nel suo modo di procedere, l’economia politica deve
trascurare i momenti della differenza (Unterschied), della diversità (Verschiedenheit)
e della particolarità (Besonderheit).
103
Già nella Kritik del 1843 Marx scriveva: «Una spiegazione che però non dà la differentia specifica, non è
una spiegazione». K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 51.
36
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pagg. 9-10: «Ma questo non esaurisce tutto ciò di cui, secondo gli economisti, questa
parte generale deve realmente trattare. …»
Leggere dalla Miseria della filosofia. Capitolo secondo: La metafisica dell’economia
politica. 1. il metodo. La settima osservazione.
«Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che
due tipi di istituzioni, quelle dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del
feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni
naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure
stabiliscono due sorta di religioni. Ogni religione che non sia la loro è
un’invenzione degli uomini, mentre la loro è una emanazione di Dio. Dicendo che
i rapporti attuali - i rapporti della produzione borghese - sono naturali, gli
economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza
e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui
questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo.
Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma
ormai non ce n’è più. C’è stata storia perché sono esistite istituzioni feudali e
perché in queste istituzioni feudali si trovano rapporti di produzione del tutto
differenti da quelli della società borghese, che gli economisti vogliono spacciare
per naturali e quindi eterni»104.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 10: Marx definisce vuota tautologia un enunciato come questo: “senza
appropriazione (dunque, proprietà), non c’è produzione”.
In effetti, produrre presuppone che si abbia una materia su cui operare e strumenti
per trasformarla; in questo senso, basta comprendere il significato di termini come
“produrre”, “produzione”, per intendere, anche, che essi portano con sé
implicitamente termini come “appropriarsi” e “appropriazione”.
Affermare, dunque, che non c’è produzione senza appropriazione è come dire che
non c’è produzione senza (le condizioni della) produzione. E questa è una
(apparentemente) vuota tautologia.
Sennonché, l’economia politica fa di questa vuota tautologia, di questa mèra
esplicazione, nel predicato, del significato del soggetto, la premessa maggiore di un
sillogismo, che potremmo costruire in questo modo:
104
K. MARX, Miseria della filosofia, cit., p. 78.
37
(premessa maggiore) ogni produzione implicita appropriazione/proprietà;
(premessa minore) la proprietà privata capitalistica è, appunto, proprietà;
(conclusione) dunque, ogni produzione implicita/implica la proprietà privata
capitalistica.
Il “trucco” evidentemente sta nella premessa minore, la quale riconduce senz’altro
alla classe generale “appropriazione/proprietà” una forma storicamente determinata
di appropriazione/proprietà (la proprietà privata borghese), senza porsi il compito di
spiegare perché produrre (in certe condizioni storiche) impliciti questa e non un’altra
forma di proprietà.
Dal punto di vista formale, l’argomentazione sillogistica è basata su questa
contraddizione: da un lato, si muove ad un livello puramente astratto-formale;
dall’altro, però, inserisce - surrettiziamente e senza alcuna giustificazione - un
determinato contenuto storico (la proprietà borghese).
La conseguenza è che, nella conclusione, la forma privata capitalistica di proprietà
(cioè, il determinato contenuto storico) viene legittimata dall’apparente rigore
formale dell’argomentazione logico-deduttiva, trascurando completamente di mettere
in evidenza il nesso fra quella forma di proprietà (in generale) e certe condizioni
storiche.
Analogamente, agli ideologi borghesi che accusavano i comunisti di voler abolire la
libertà, la giustizia, la famiglia, la persona, la proprietà, in pratica tutti i valori
fondamentali della moderna società (borghese), Marx ed Engels rispondevano nel
Manifesto del partito comunista:
«Ma non discutete con noi misurando l’abolizione della proprietà borghese sul
modello delle vostre idee borghesi di libertà, cultura, diritto e così via. Le vostre
idee stesse sono prodotti dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, come il
vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a legge, volontà il cui
contenuto è dato nelle condizioni materiali di esistenza della vostra classe.
Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate quell’idea interessata
mediante la quale trasformate in eterne leggi della natura e della ragione, da
rapporti storici quali sono, transeunti nel corso della produzione, i vostri rapporti di
produzione e di proprietà. Non vi è più permesso di comprendere per la proprietà
borghese quel che comprendete per la proprietà antica e per la proprietà
feudale»105.
K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista [1848], a cura di Emma Cantimori
Mezzomonti, prefazione di Lucio Colletti, Roma-Bari, Editori Laterza, (Economica Laterza, n. 41), 1995,
p. 113.
105
38
Per due vie si può arrivare così all’apologesi del capitalismo:
a) identificando la proprietà capitalistica con la proprietà in generale e, dunque,
con un’essenziale condizione per l’esistenza della produzione (in generale);
b) ma, anche, facendo scomparire dal quadro l’elemento della storicità della
forma capitalistica di proprietà (la quale se esiste perché legata a certe
determinate condizioni, in mancanza di queste stesse condizioni, non ha più un
rapporto necessario con il produrre, dunque, non ha più giustificazione).
La produzione - dunque, una forma d’attività, mediante cui pongo fuori, estraneo da
me qualcosa - in tanto può svolgersi, in quanto implicita l’opposta attività, mediante
cui rendo a me propria qualcosa. Che le due attività si implichino significa che, se
dico l’una dico anche l’altra. Dunque, ho a che fare con una tautologia.
Non inutile, però: infatti, la comprensione che tautologica è la reciproca implicazione
tra produzione ed appropriazione, mi aiuta a comprendere quanto sia illegittimo
ricavare, posta la produzione, la sanzione o legittimazione, santificazione non
dell’appropriazione in generale, ma di una forma storica particolare di
appropriazione che in questo modo viene spacciata e gabellata per eterna, razionale,
naturale etc..
È così che giungo a comprendere come tra forma generale e sua determinata
manifestazione storica, l’economista borghese possa stabilire un rapporto mistico,
dogmatico, non svolto storicamente, non dimostrato. E l’economista borghese fa ciò
non per caso: ciò che egli vuole evitare, infatti, è esattamente che risalti il carattere
storicamente determinato (dunque, limitato) della proprietà privata e della proprietà
privata nella sua forma specificamente capitalistica.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 11: Per riassumere ….
39
Giovedì 16 ottobre 2003
Nel § 1. Marx ha definito il suo oggetto di ricerca: la «produzione socialmente
determinata degli individui».
L’oggetto è determinato, si tratta di questa produzione, di questo particolare stadio
sociale.
Ma l’oggetto per Marx non può essere concepito ala maniera degli empiristi e dei
positivisti, cioè come un oggetto materiale e basta, dotato di certe qualità esteriori
percepibili immediatamente, bensì deve essere visto come un organismo vivente, da
cogliere nel suo processo unitario di riproduzione e sviluppo.
L’oggetto società, quindi, è sì un oggetto materiale, ma è anche qualcosa di
complessamente articolato - «il concerto è concreto perché sintesi di molte
determinazioni» - cioè è una totalità organica e dialettica, da ricostruire e intendere
nella sua intima e vivente connessione.
Questo è proprio ciò che gli economisti borghesi non fanno.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pagg. 11-26: § 2. Il rapporto generale tra produzione, distribuzione, scambio e
consumo.
Pag. 11: «La rozzezza e la genericità [Begriffslosigkeit] stanno proprio nel fatto di
porre in una relazione reciproca accidentale cose che sono connesse organicamente,
di ridurle cioè ad una mera connessione della riflessione [Reflexionszusammenhang]»
«Die Rohheit und Begriffslosigkeit liegt eben darin, das organisch
Zusammengehörende zufällig aufeinander zu beziehen, in einen bloßen
Reflexionszusammenhang zu bringen».
La traduzione italiana non è in questo caso molto felice. Come si può vedere dal
confronto con l’originale tedesco, l’intenzione di Marx era di far risaltare la
contrapposizione, istituita da Hegel, Begriff (concetto) vs. Reflexion (riflessione).
Per la caratterizzazione della “ Riflessione” si veda G.F.W. HEGEL, Enciclopedia
delle scienze filosofiche in compendio, § 81. Nota106.
106
G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B. Croce, introd. di
C. Cesa, glossario di N. Merker, Roma-Bari, Editori Laterza, (Biblioteca Universale Laterza, n. 102), 199410
(1a ediz. 1907).
40
Per il “concetto” si vedano ivi i §§ 160-165. [Fotocopie]
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 12: «Produzione, distribuzione, scambio, consumo formano così un sillogismo
in piena regola; la produzione, è l’universalità; la distribuzione e lo scambio,
la particolarità; il consumo, l’individualità in cui il tutto si conchiude».
Per cogliere l’origine hegeliana di questa caratterizzazione del sillogismo si veda
G.F.W. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., § 181.
Nota. [Fotocopie]
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 14: «Questa identità di produzione e consumo perviene al principio di Spinoza:
determinatio est negatio»
«La determinatezza [Bestimmtheit] è la negazione posta come affermativa, è la
proposizione di Spinoza: omnis determinatio est negatio. Questa proposizione è di
un’importanza infinita». HEGEL, Scienza della logica, cit., vol. I, p. 108.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 15: «Una ferrovia sulla quale non si viaggi e che quindi non si logori e non
venga consumata, è soltanto una ferrovia δυνάμει [in potenza], non in
realtà».
Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, I, 6107.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 16: «L’oggetto artistico – e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto – crea un
pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico ..».
Cfr. KARL MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., pp. 118-119.
Da «Per altro verso, dal punto di vista soggettivo: …» a «un senso umano che fosse
corrispondente a tutta la ricchezza dell’essere umano e naturale».
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------107
ARISTOTELE, Etica nicomachea, introduzione, traduzione e commento di Marcello Zanatta, Milano,
Biblioteca Universale Rizzoli, 1996, pp. 91-92.
41
Pag. 17-18:
Riassumendo, consumo e produzione si rapportano quale:
a. Identità immediata.
b. Ciascuno dei due termini si presenta come mezzo dell’altro.
c. Ciascuno di essi realizzandosi crea l’altro, si realizza come l’altro.
Per cogliere la matrice hegeliana dell’andamento di questa triade dialettica si veda la
famosa prima triade (essere, nulla, divenire) con cui Hegel inizia la sua Scienza della
logica108. [Fotocopie]
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 18: «Niente di più semplice a questo punto, per un hegeliano, che identificare
produzione e consumo. E ciò è avvenuto non per opera dei belletristi
socialisti, ma perfino di economisti prosaici, come ad es. Say …»
Legge di Say: Trattato di economia politica (1803): «l’offerta crea la domanda»,
«l’offerta desiderata è sempre uguale alla domanda aggregata desiderata».
Say la formulò sia in riferimento allo scambio individuale (ciascun soggetto che
produca più di quanto serva al suo consumo offre l’eccedenza, per ottenere in cambio
altri beni, per cui «ciascun prodotto finito offre, istantaneamente, uno sbocco ad altri
prodotti»), sia, in riferimento al commercio internazionale (il rimedio, per es., alla
sovrapproduzione di cotone delle colonie inglesi è l’esportazione in Brasile; ma la
condizione per esportare è che il Brasile ottenga il potere d’acquisto, producendo il
caffè).
La legge divenne uno strumento per celebrare acriticamente il lassez-faire e il libero
commercio internazionale.
Questa legge fu considerata valida fino alla grande crisi (di sovrapproduzione) del
1929, quando il colosso capitalistico si trovò a crollare su sé stesso perché «l’immane
raccolta di merci» da esso prodotto non trovò uno sbocco sul mercato.
Riflettendo sulla “Grande crisi” del ‘29 Keynes arrivó ad elaborare un nuovo modello
di crescita e di sviluppo economico facendo prendere così all’economia americana (e
mondiale) un New Deal (nuovo corso).
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------108
G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, cit., vol. I, pp. 70-71.
42
Pag. 18: «Ma la cosa più importante da mettere in rilievo è che produzione e
consumo, considerati come attività di un soggetto o di più individui, si
presentano in ogni caso come momenti di un processo in cui la produzione
è l’effettivo punto di partenza e perciò anche il momento egemonico [das
übergreifende Moment]».
«Das Wichtigste ist hier nur hervorgehoben, daß, betrachte man Produktion und
Konsumtion als Tätigkeiten eines Subjekts oder einzelner Individuen, sie jedenfalls
als Momente eines Prozesses erscheinen, worin die Produktion der wirkliche
Ausgangspunkt und darum auch das übergreifende Moment ist».
La traduzione di «das übergreifende Moment» con «momento egemonico» non mi
sembra che restituisca tutta la ricchezza di significati del termine tedesco, il cui
procedere, a mio avviso, è strettamente imparentato con la Aufhebung hegeliana.
Übergreifend deriva infatti dal verbo übergreifen il quale a sua volta è composto da:
Über: oltre, al di là – come per es. in Übermensch = oltreuomo
e da
greifen: afferrare [da cui deriva anche begreifen: comprendere (afferrare)
concettualmente, il cui sostantivo è appunto il Begriff: concetto].
Übergreifen indica quindi il comprendere entro di sé e, contemporaneamente,
superare qualcosa.
La produzione è quindi il momento che comprende/supera gli altri momenti i quali in
essa si affermano e per-vengono ad unità.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 21: «In tutti questi casi, e sono tutti casi storici, non è la distribuzione che
sembra determinata dalla produzione, ma al contrario la produzione che
sembra strutturata e determinata dalla distribuzione» (corsivo mio).
Anche in altri passi delle sue opere Marx ribadisce questa funzione critica e radicale
della scienza che non fermandosi alla apparenza immediata ed ingannevole dei
fenomeni, scava per «cogliere le cose alla radice»109.
109
K. MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, MEOC, III, p. 197.
43
Salario, prezzo, profitto costituisce la trascrizione di una conferenza, che Marx tenne
in inglese nelle sedute del consiglio centrale dell’Internazionale il 20 e il 27 giugno
1865.
«Quindi, per spiegare la natura generale dei profitti, dovete partire dal principio
che le merci in media sono vendute ai loro valori reali, e che i profitti provengono
dal fatto che le merci si vendono ai loro valori, cioè proporzionalmente alla
quantità di lavoro che in esse è incorporata. Se non potere spiegarvi il profitto su
questa base, non potete spiegarlo affatto. Ciò sembra un paradosso e in
contraddizione con l’esperienza quotidiana. È anche un paradosso che la terra gira
attorno al sole e che l’acqua è costituita da due gas molto infiammabili. Le verità
scientifiche sono sempre paradossi quando vengono misurate alla stregua
dell’esperienza quotidiana, la quale afferra solo l’apparenza ingannevole delle
cose»110.
«Ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma
fenomenica coincidessero»111.
110
111
Id., Salario, prezzo e profitto, in MEOC, XX, p. 127.
Id., Il capitale. Libro III, cit., p. 930.
44
Lunedì 20 ottobre /Martedì 21 ottobre / Giovedì 23 ottobre 2003:
Pagg. 26-37: § 3. Il metodo dell’economia politica.
A) Fissiamo alcuni elementi fondamentali:
Qual è l’oggetto dell’analisi di Marx?
«Oggetto della nostra analisi è anzitutto la produzione materiale. […] produzione
socialmente determinata degli individui», p. 3.
Ma l’oggetto per Marx non può essere concepito alla maniera degli empiristi e dei
positivisti, cioè come un oggetto materiale e basta, dotato di certe qualità esteriori
percepibili immediatamente, bensì deve essere visto come un organismo vivente,
da cogliere nel suo processo unitario di riproduzione e sviluppo.
L’oggetto società, quindi, è sì un oggetto materiale, ma è anche qualcosa di
complessamente articolato - «il concerto è concreto perché sintesi di molte
determinazioni» - cioè è una totalità organica e dialettica, da ricostruire e
intendere nella sua intima e vivente connessione.
Ed il soggetto?
«Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo [la nostra analisi], saldo nella sua
autonomia fuori del cervello [della mente]; […] Anche nel metodo teorico, perciò,
la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto»,
p. 28.
Sì, ma quale società, che tipo di società?
«Come in generale in ogni scienza storica e sociale, nell’ordinare le categorie
economiche si deve sempre tener fermo che, come nella realtà così nella testa
[mente], il soggetto – qui la moderna società borghese - è già dato, e che le
categorie perciò esprimono modi di essere, determinazioni d’esistenza, spesso
soltanto singoli lati di questa determinata società, di questo soggetto, e che
pertanto anche dal punto di vista scientifico essa [la società] non comincia affatto
nel momento in cui se ne comincia a parlare come tale. Questo fatto deve essere
tenuto ben presente, perché offre elementi decisivi per la ripartizione della
materia», p. 34.
Questo è proprio ciò che Marx si proponeva di fare: organizzare il proprio lavoro
di analisi scientifica della società borghese, ovvero nell’ambito della sua critica
dell’economia politica, di cui questi 2 volumi rappresentano solo i Grundrisse, i
Lineamenti fondamentali, Marx si chiedeva:
45
1. Quale strumento di ricerca posso utilizzare?
2. Quale paese esistente mi si offre quale privilegiato punto di osservazione, tale
da presentarmi, da offrirmi il fenomeno nella sua forma pura o perlomeno in
quella meno offuscata?
3. Come devo procedere nella ricerca? In quale ordine presentare ed esporre i
risultati di questa ricerca?
1.
All’«analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né
i reagenti chimici: l’uni e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di
astrazione»112.
Quindi la forza d’astrazione è lo strumento che mi permette di cogliere la
complessità del fenomeno concreto da studiare nei suoi elementi semplici
(categorie).
Che senso hanno queste categorie, queste astrazioni?
§ 1. Produzione:
«Ma tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune, certe
determinazioni comuni. La produzione in generale è un’astrazione, ma
un’astrazione che ha un senso [verständige Abstraktion], nella misura in cui
mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una
ripetizione. Tuttavia questo elemento generale, ovvero l’elemento comune che
viene astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso qualcosa di
complessamente articolato, che si dirama in differenti determinazioni», pp. 6-7.
2. «Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella
forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando
è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del
processo allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico
di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono.
Fino a questo momento, loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione è
l’Inghilterra principalmente che serve a illustrare lo svolgimento della mia
teoria»113.
3. «Certo, il modo di esporre [Darstellungsweise] un argomento deve distinguersi
formalmente dal modo di compiere l’indagine [Forschungsweise]. L’indagine
deve appropriarsi il materiale nei particolari, deve analizzare le sue differenti
forme di sviluppo e deve rintracciarne l’interno concatenamento. Solo dopo
112
113
K. MARX, Il Capitale. Libro primo, cit., p. 32.
Ibidem.
46
che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in
maniera conveniente»114.
Proprio partendo da questa illuminante [beleuchtende] osservazione metodologica
contenuta nel Poscritto alla seconda edizione de Il capitale del 1873, vi vorrei
proporre una possibile chiave di lettura dell’intero § 3 dedicato, certamente, al
metodo dell’economia politica, ma anche al metodo che Marx va elaborando, che
ha intenzione di utilizzare e che poi effettivamente utilizzerà, nella e per la sua
critica dell’economia politica.
B) Iniziamo con la Forschungsweise, con il modo di compiere l’indagine.
Marx ha di fronte a sé l’oggetto da analizzare – la moderna società borghese –
la quale è la «più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione»
(p. 32) e si chiede, giustamente, dove inizio, con che inizio?
«Sembra115 corretto cominciare con il reale e concreto, con il presupposto effettivo
e, dunque, nell’economia, per es., con la popolazione, che è il fondamento e il
soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, ad un più attento esame, ciò si
rivela falso116. […] Se, dunque, cominciassi con la popolazione, comincerei con
una rappresentazione caotica del tutto e, mediante un’ulteriore determinazione,
dovrei pervenire analiticamente a concetti sempre più semplici; dal concreto
rappresentato117 (vorgestelltes Konkretum) ad astrazioni sempre più sottili, fino a
giungere alle determinazioni più semplici. Da quel punto, il percorso sarebbe da
ricominciare all’indietro118, finché non ritornassi alla popolazione, ma questa volta
114
Ivi, p. 44.
Ancora una volta ritorna la contrapposizione dialettica tra il sembrare della esperienza immediata e la
verità della realtà colta concettualmente (begriffen).
116
Così come ad Hegel si rivela falsa la prima forma di conoscenza immediata, quella della certezza
sensibile. Cfr. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., vol. I, pp. 81-92.
115
117
Per il ruolo, la funzione e il valore del conoscere della rappresentazione (Vorstellung) rispetto al begreifen, al
conoscere concettuale, si vedano i seguenti passi hegeliani: «La filosofia ha i suoi oggetti in comune con la religione,
perché oggetto di entrambe è la verità, e nel senso altissimo della parola, - in quanto cioè Dio, e Dio solo, è la verità.
Entrambe, inoltre, trattano del dominio del finito, della natura e dello spirito umano, e della relazione che hanno tra loro
e con Dio, come lor verità. Onde la filosofia può ben presupporre, anzi deve, una certa conoscenza dei suoi oggetti,
come anche un interessamento per essi: non foss’altro per questo, che la coscienza, nell’ordine del tempo, se ne forma
prima rappresentazioni che concetti; e lo spirito pensante, solo attraverso le rappresentazioni e lavorando sopra queste,
progredisce alla conoscenza del pensante e del al concetto» (Enciclopedia, § 1). ««Sentimenti, intuizioni, appetizioni,
volizioni ecc., in quanto se ne ha coscienza, vengono denominati, in genere rappresentazioni: si può dire perciò, in
generale, che la filosofia pone, al posto delle rappresentazioni, pensieri, categorie e, più propriamente, concetti. Le
rappresentazioni in genere possono essere considerate come metafore dei pensieri e concetti. Ma, col possedere
rappresentazioni, non però si conosce ancora il loro significato pel pensiero, cioè non ancora si conoscono i pensieri e
concetti loro corrispondenti. Reciprocamente, altro è aver pensieri e concetti ed altro sapere quali sieno le
rappresentazioni, le intuizioni e i sentimenti che loro corrispondono» (Enciclopedia, § 3 nota).
118
Era questo anche il problema di Hegel: «Nella mia formazione scientifica, che ha preso l’avvio dai bisogni più
subordinati degli uomini, dovevo esser sospinto verso la scienza, e l’ideale degli anni giovanili doveva mutarsi in una
forma riflessiva, e nel contempo in un sistema. Adesso, mentre sono ancora occupato con questo sistema, mi chiedo
quale strada io possa trovare per intervenire nuovamente nella vita degli uomini». G.W.F. HEGEL, Lettera a
Schelling, 2.11.1800, in Id., Epistolario. Vol. I: 1785-1808, a cura di Paolo Manganaro, Napoli, Guida Editori,
(Micromegas, n. 8), 1983, p. 156 (corsivo mio). A quel “sistema” dedicherà poi Hegel tutta la sua vita: «La vera figura
nella quale esiste la verità può essere soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si avvicini alla
47
non come la caotica rappresentazione di un insieme, bensì come una totalità ricca,
fatta di molte determinazioni e relazioni. […] Quest’ultimo chiaramente è il
metodo scientificamente corretto», pp. 32-33.
Quindi queste «categorie semplici» (denaro, lavoro, rendita fondiaria, valore di
scambio etc.) le abbiamo ricavate, grazie allo strumento dell’astrazione, dalla
formazione sociale più complessa – la moderna società borghese – e nella moderna
società borghese queste «categorie semplici», ad. esempio denaro, lavoro, rendita
fondiaria, compaiono nella loro massima espansione, concretezza e ricchezza.
Queste «categorie semplici» vengono astratte [ab-traho], tirate fuori, dalla
formazione sociale più complessa e sviluppata. Sono categorie storicamente
determinate e presuppongono quale loro fondamento la base reale da cui derivano.
«La più semplice categoria economica, come per esempio il valore di scambio,
presuppone la popolazione, una popolazione che produce entro rapporti
determinati; ed anche un certo genere di sistema familiare o comunitario, o politico
etc. Esso [il valore di scambio, quale “più semplice categoria economica”] non può
esistere altro che come relazione astratta, unilaterale di una totalità vivente e
concreta già data [la moderna società borghese]. In quanto categoria [logica],
invece, il valore di scambio ha un’esistenza antidiluviana [perché lo possiamo
ritrovare anche in altre formazioni sociali]», p. 28.
E infatti quando Marx si chiede: «Ma queste categorie semplici [astrazioni logiche:
denaro, lavoro, rendita] non hanno anche una esistenza storica o naturale
indipendente, prima delle categorie più concrete [quelle della moderna società
borghese]?», p. 28.
Lo scopo della sua domanda è di vedere se queste categorie semplici, ad es.
denaro, lavoro, valore di scambio, che noi abbiamo astratto dalla moderna società
borghese, dalla «più complessa e sviluppata organizzazione storica della
produzione», siano apparse e comparse nella storia anche prima della loro forma
più concreta, che raggiungeranno e possono raggiungere solo nella moderna
società borghese119.
forma della scienza – ossia alla meta dove essa possa deporre il nome di amore per il sapere ed essere invece sapere
effettivo – ecco ciò che mi sono proposto». G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., vol. I, p. 4.
119
Marx sta dicendo che la compiuta esistenza (nel Dasein, nella moderna società borghese) della categoria economica
semplice presuppone la presenza (nel Dasein, nella moderna società borghese) di una serie di condizioni; ma sta
dicendo, anche, che - in quanto contenuto del pensiero (astrazione logica) - quella categoria può essere formulata, anche
in mancanza delle condizioni della sua compiuta esistenza storica. In altre parole, la categoria di valore di scambio è
rintracciabile già nel pensiero di Aristotele, pur in mancanza di quel complesso di condizioni storiche reali, che
consentono al valore di scambio di esistere compiutamente. Ciò significa che la presenza - nel pensiero - della categoria
economica non è sottoposta alle stesse condizioni, che valgono per la sua compiuta esistenza nel Dasein, nella moderna
società borghese. Quando, però, una categoria è presente nel pensiero prima che nel Dasein, essa conduce un’esistenza
antidiluviana, in un duplice senso: (a) perché è più antica della sua presenza nel Dasein; (b) perché esiste nella realtà
ancora elementarmente, rozzamente, in somma, non ha ancora la ricchezza di rapporti con altre categorie, che la
caratterizzerà quando sarà una compiuta presenza nel Dasein. Di nuovo, dobbiamo sottolineare la presenza di un motivo
hegeliano: il compiuto dispiegarsi del concetto non è un mèro processo logico, ma sì logico-storico.
48
A questa domanda Marx risponde con un: Ça dépend.
Dipende – si tratta di vedere non solo se queste categorie semplici, denaro, lavoro,
valore di scambio sono esistite storicamente anche prima della loro categoria
concreta, capitale, lavoro astratto, ma si tratta di vedere anche sotto quale veste,
con quale funzione e che ruolo esse ricoprivano nelle formazioni sociali precedenti
alla moderna società borghese.
1° Esempio: Il denaro
«Il denaro [quale categoria semplice] può esistere ed è storicamente esistito prima
che esistessero [le sue forme più concrete che poi ritroviamo nella moderna società
borghese] il capitale, le banche», il fondo monetario internazionale, il mercato
mondiale etc., p. 29.
Ma che vita conduceva?
Benché «il denaro svolga una funzione importante molto presto e in tutti i sensi,
tuttavia, come elemento dominante esso appartiene nell’antichità, solo a nazioni
caratterizzate in modo unilaterale, a nazioni commerciali», quindi come mero
mezzo, mero intermediario di scambio, p. 30.
«Per es., nell’Impero romano, nel momento del suo maggiore sviluppo, la base
rimase l’imposta e la prestazione in natura. Il sistema monetario, in sostanza, si
sviluppa solo nell’esercito [quale paga dei soldati che ricevevano il “soldo”] e non
investì neppure tutta la sfera del lavoro», ibidem.
«Questa categoria del tutto semplice [denaro] non compare, dunque, storicamente
nella sua piena intensità [ricchezza, espansione, sviluppo], se non nelle condizioni
più sviluppate della società [quali appunto quelle borghesi moderne in cui il denaro
dalla sua forma più semplice a quelle più complesse e concrete di capitale, banche,
sistemi di credito, fondo monetario internazionale etc. invade e pervade l’intera
società, diventandone il dio onnipresente e onnipotente120]», ibidem.
«Quindi, benché la categoria economica più semplice [denaro] possa essere esistita
storicamente prima di quella più concreta [capitale, interesse, banche, sistemi di
credito etc.], essa [categoria semplice “denaro”] può appartenere nel suo pieno
sviluppo intensivo ed estensivo [può raggiungere la sua onnipotenza e
onnipresenza] solo ad una forma sociale complessa [e articolata, quale la moderna
società borghese, che è la «più complessa e sviluppata organizzazione storica della
produzione»], ibidem.
120
Cfr. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Terzo manoscritto. Denaro, cit., pp. 151-157.
49
2° Esempio: Il lavoro.
Il lavoro come categoria economica, come semplice lavoro, come lavoro in
generale che noi abbiamo astratto dalla moderna società borghese - come nella
realtà così nella testa [mente], il soggetto – qui la moderna società borghese - è già
dato - dalla «più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione»,
sembra essere una categoria molto antica, ritrovabile e applicabile quindi a tutte le
altre formazioni sociali della storia precedenti la moderna società borghese.
In realtà il lavoro come categoria economica, come semplice lavoro, come lavoro
in generale, come lavoro astratto lo ritroviamo e lo possiamo trovare come
categoria «praticamente vera»» solo in una determinata società, storicamente
determinata, quale quella capitalistico-borghese.
Ma ripercorriamo brevemente il percorso storico che ha portato il lavoro a
diventare lavoro astratto, semplice, sans phrase; quindi quella categoria
(apparentemente) semplice è il risultato di un percorso storico, è una categoria
storicamente determinata.
I bullionisti121 o mercantilisti122 (1500-1700) ad es. pongono «la ricchezza in modo
ancora completamente oggettivo, come cosa (Sache) al di fuori di sé [al di fuori del
soggetto], nel denaro», ibidem.
«Rispetto a questo punto di vista, fu un grande progresso, quando il sistema
manifatturiero o commerciale trasferì la fonte della ricchezza dall’oggetto [oro]
all’attività soggettiva - il lavoro commerciale o manifatturiero», p. 31.
Il sistema fisiocratico123 (1750-1780) pone come creatrice della ricchezza una
determinata forma di lavoro – lavoro agricolo - l’agricoltura.
«Un enorme progresso [ein ungeheuerer Fortschritt] compì Adam Smith,
rigettando ogni carattere determinato dell’attività produttrice di ricchezza e
considerandola lavoro senz’altro: non lavoro manifatturiero, né commerciale, né
121
Bullionismo: da Bullions, metalli preziosi detenuti come riserva monetaria. Così furono chiamati i
mercantilisti che raccomandavano agli stati di regolare a proprio favore il flusso di pagamenti internazionali
attraverso il divieto di esportare monete e le alterazioni del contenuto aureo delle stesse (sec. XVI-XVII).
122
Mercantilismo: Insieme di dottrine e di politiche economiche sviluppatesi tra la fine del sec. XVI e
l’inizio del sec. XVIII. Il commercio estero è considerato da tutti gli autori mercantilisti come la principale
attività economica capace di incrementare la ricchezza dello stato attraverso il perseguimento di una bilancia
commerciale attiva e quindi un aumento delle disponibilità monetarie interne.
123
Fisiocrazia: dal greco physis, natura e kràtos, potere. Scuola economica francese sviluppatasi fra il 1750 e
il 1780. I fisiocratici ritengono che nell’ordine naturale della società l’agricoltura sia l’unico settore in grado
di fornire un sovrappiù, mentre l’industria sarebbe sterile. Quindi la ricchezza nazionale può essere
accresciuta dal governo solo attraverso il miglioramento delle tecniche di produzione del settore primario,
che è la fonte della ricchezza, e misure economiche atte a favorire i produttori agricoli.
50
agricolo, ma tanto l’uno che l’altro [cioè come semplice erogazione di forzalavoro]», ibidem.
Con l’economia politica di Smith e Ricardo siamo in piena fase di formazione ed
affermazione della società capitalistica, da essi presentata e rappresentata nelle loro
opere. Siamo quindi arrivati di nuovo all’epoca storica presente – la moderna
società borghese - da cui avevamo preso le mosse.
«Così l’astrazione più semplice [lavoro astratto, in generale], che l’economia
moderna [Smith e Ricardo] pone al vertice [della produzione come fonte di
ricchezza] – e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di
società [perché anche nelle altre forme di società ritroviamo all’opera particolari
tipi di lavoro] - si presenta tuttavia praticamente vera [realizzata, concretizzata
nella sua forma più sviluppata ed estesa] in questa astrazione solo come categoria
della società moderna», p. 32.
«L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte
[le più semplici e generali], sebbene siano valide - proprio a causa della loro natura
astratta - per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa
astrazione, il prodotto di condizioni storiche [storicamente determinate] e
posseggono la loro piena validità solo entro e per queste condizioni [solo per ed
entro la moderna società borghese]», ibidem.
Perché è solo nella moderna società borghese infatti che si danno «individui [che]
passano con facilità da un lavoro ad un altro e [solo in essa] il genere determinato
del lavoro è per essi [individui, lavoratori] fortuito ed indifferente», ibidem.
Ma come è possibile che queste categorie semplici – denaro, lavoro, rendita etc. –
che abbiamo ottenuto per astrazione dalla moderna società borghese siano valide
ed efficaci anche per le altre formazioni sociali?
Perché essendo la moderna «società borghese […] la più complessa e sviluppata
organizzazione storica della produzione [, le] categorie che esprimono i suoi
rapporti [di produzione] e che fanno comprendere la sua struttura [la sua
complessa articolazione interna] permettono quindi di penetrare al tempo stesso
nella struttura e nei rapporti di produzione di tutte le forme di società passate [che
continuano a vivere nella società borghese sotto la forma delle categorie semplici],
sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita [in quanto prodotto storico
essa stessa], e di cui si trascinano in essa ancora residui parzialmente non superati,
mentre ciò che in quelle [società passate] era appena accennato [denaro, lavoro
particolare, etc.] si è sviluppato [nella moderna società borghese] in tutto il suo
significato [la sua estensione, ricchezza e concretezza diventando capitale, profitto,
interesse, banche, sistema di credito, lavoro astratto] etc. L’anatomia dell’uomo
[forma superiore, sviluppata] è la chiave per l’anatomia della scimmia [forma
primitiva]. Invece, ciò che nelle specie inferiori accenna a qualcosa di superiore
51
[denaro] può essere compreso solo se la sua forma superiore è gia conosciuta
[capitale]. L’economia borghese fornisce così la chiave per [comprendere ed
analizzare] l’economia antica, [feudale] etc», pp. 32-33.
Ritorniamo alla distinzione da cui eravamo partiti:
«L’indagine deve appropriarsi il materiale nei particolari [astrarre le categorie
semplici], deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo [se queste categorie
sono esistite anche storicamente e in che modo] e deve rintracciarne l’interno
concatenamento [tra le varie categorie e tra i vari momenti della società borghese:
§ 2 Il rapporto generale tra produzione, distribuzione, scambio e consumo]. Solo
dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in
maniera conveniente»124.
C) Passiamo quindi adesso alla Darstellungsweise, al momento e al problema
dell’esposizione dei risultati della ricerca, e in particolar modo dell’ordine in
cui disporre le categorie più semplici (lavoro, proprietà fondiaria, capitale)
astratte dalla moderna società borghese.
Ritorna l’interrogativo: «con che cominciare?».
«Niente sembra125 più naturale che cominciare con la rendita fondiaria, con la
proprietà fondiaria, dal momento che essa è legata alla terra, alla fonte di ogni
produzione e di ogni esistenza, e alla prima forma di produzione di tutte le società
in qualche modo consolidate, e cioè all’agricoltura», p. 34 (corsivo mio).
Quindi sia dal punto di vista storico – in quanto «prima forma di produzione di
tutte le società» - che da quello logico - «ogni produzione è un’appropriazione
della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una determinata forma di
società», p. 10 – sembrerebbe naturale e corretto cominciare l’esposizione con la
rendita fondiaria.
«E tuttavia nulla sarebbe più errato. In tutte le forme di società vi è una
determinata produzione che decide del rango e dell’influenza di tutte le altre
[categorie], e i cui rapporti [di produzione] decidono perciò del rango e
dell’influenza di tutti gli altri [momenti della società: distribuzione, scambio e
consumo]. [La produzione] è una illuminazione generale in cui tutti gli altri colori
sono immersi e che li modifica nella loro particolarità [come in una stanza con una
lampada rossa o fucsia o verde che cambia il colore a tutti gli altri]. [La
produzione] è una atmosfera particolare che determina il peso specifico di tutto
quanto essa avvolge [è a causa della assenza della miscela gassosa chiamata “aria”
che ad es. sulla luna i pesi sono 3 volte più leggeri]», ibidem.
124
125
K. MARX, Il Capitale. Libro primo. Il processo di produzione del capitale, cit., p. 44.
Ancora una volta ritorna il carattere fallace delle rappresentazioni immediate.
52
Già nel terzo dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, nel capitolo intitolato
Proprietà privata e comunismo, Marx scriveva: «La religione, la famiglia, lo stato,
il diritto, la morale, la scienza, l’arte ecc. non sono che momenti particolari della
produzione e cadono sotto la sua legge universale»126.
Ma non c’è bisogno nemmeno di andare a scomodare i Manoscritti del 1844,
perché poche pagine prima, nel § 2. Il r a p p o r t o g e n e r a l e tra produzione,
distribuzione, scambio e consumo, Marx scriveva che produzione, distribuzione,
scambio e consumo «si presentano in ogni caso come momenti di un processo in
cui la produzione è l’effettivo punto di partenza e perciò anche il momento
egemonico [das übergreifende Moment]», p. 18.
Alla fine del § 2. produzione, distribuzione, scambio e consumo si presentano
«quali articolazioni di una totalità [organica], differenze nell’ambito di una unità
[unità differenziata]. La produzione assume l’egemonia [greift über] tanto su se
stessa […] quanto sugli altri momenti. […] Una produzione determinata determina
quindi un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché
determinati rapporti reciproci tra questi diversi momenti», p. 26.
E riprendendo il testo dei Manoscritti del 1844 potremmo aggiungere anche che
una produzione determinata comporta una determinata «religione, famiglia, stato,
diritto, morale, scienza, arte ecc.»
Ora nella moderna società borghese predomina il modo di produzione …
capitalistico, e secondo voi nel modo di produzione capitalistico quale categoria
avrà la precedenza, la priorità e l’egemonia sulle altre? Quali di queste sarà das
übergreifende Moment? La rendita fondiaria, il lavoro o il capitale?
«Il capitale è la potenza economica della società borghese che domina tutto. Esso
deve costituire il punto di partenza così come il punto di arrivo, e deve essere
trattato prima della rendita fondiaria [e del lavoro salariato]. Dopo che […]
saranno considerati separatamente, dovrà essere preso in esame il loro rapporto
reciproco», p. 35.
Ritornando al problema del corretto ordine di esposizione delle categorie della
società borghese…
«Sarebbe dunque inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche
nell’ordine in cui esse furono storicamente determinanti [proprietà fondiaria,
lavoro, capitale]. La loro successione è invece determinata dalla relazione in cui
esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese [in cui predomina
il modo di produzione capitalistico], e che è [la loro successione] esattamente
126
Id., Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 112.
53
l’inversa di quella che si presenta come loro relazione naturale o [di quella che]
corrisponde alla successione dello sviluppo storico», ibidem.
«Non si tratta della posizione che i rapporti economici assumono storicamente nel
succedersi delle diverse forme di società [in tal modo scriveremmo solo la storia
dei diversi modi di produzione che si sono succeduti storicamente] ed ancor meno
[si tratta] della loro successione “nell’idea” […] ma della loro articolazione
organica all’interno della moderna società borghese», (pp. 35-36) che non a caso
costituisce l’oggetto dell’analisi di Marx, presentato e definito nel § 1.
L’esposizione dei risultati della ricerca scientifica non ha per Marx solo il valore di
un piatto rendiconto ma porta con sé un progetto politico rivoluzionario che mira
alla «dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul
valore di scambio», p. 241.
Lettera di Marx a Lassalle del 22 febbraio 1858: «Il lavoro di cui si tratta per ora è
la critica delle categorie economiche o if you like il sistema dell’economia
borghese esposto criticamente. È in pari tempo esposizione del sistema e critica
dello stesso per mezzo dell’esposizione».
Leggere l’Aufbauplan, pp. 36-37 + l’Aufbauplan, pp. 240-241.
Poscritto del 1873 alla seconda edizione de Il capitale: «Nella sua forma
mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare lo
stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore
per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva
dello stato di cose esistente [nell’analisi scientifica della moderna società
capitalistico-borghese] include simultaneamente anche la comprensione della
negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce
ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato
transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per
essenza»127.
127
K. MARX, Il Capitale. Libro primo. Il processo di produzione del capitale, cit., p. 45.
54
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Oskian, introd. di Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1973, pp. 157.
TUCHSCHEERER, WALTER, Prima del “Capitale”: la formazione del pensiero
economico di Marx (1843-1858), a cura di Lapo Berti, Firenze, La Nuova Italia,
1980, pp. X-378.
57
6. “Grundrisse”:
NEGRI, ANTONIO, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Roma,
Manifestolibri, 1998, (1a ediz. Milano, Feltrinelli, 1978), pp. 227.
VYGODSKIJ, V.S., Introduzione ai Grundrisse di Marx, a cura di C. Pennavaja,
Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. XX-184.
ROSDOLSKY, ROMAN, Genesi e struttura del “Capitale” di Marx trad. it. di
Bruno Maffi, Bari, Laterza, 1961, pp. 666.
7. Metodo e struttura logica de Il capitale:
BADALONI, NICOLA, Dialettica del capitale, Roma, Editori Riuniti, 1980,
pp. 136.
GRASSI, ENRICO, L’esposizione dialettica nel Capitale di Marx, introd. di Luca
Meldolesi, Roma-Matera, 1976, pp. XXXVII-102.
IL’ENKOV, EVAL’D VASIL’EVIC, Dialettica dell’astratto e del concreto nel
“Capitale” di Marx, trad. it. di Vittorio Strada e Alberto Sandretti, introd. di Lucio
Colletti, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. LX-246.
REICHELT, HELMUT, La struttura logica del concetto di Capitale in Marx,
trad. it. di Francesco Cappellotti, Bari, De Donato, 1973, pp. 320.
8. Repertori bibliografici:
C. PIANCIOLA (a cura di), Il pensiero di Karl Marx, Torino, 1971,
pp. XLVII-LV.
G. BEDESCHI, Introduzione a Marx, Roma-Bari, 1981, pp. 281-305.
http://penelope.u-paris10.fr/ActuelMarx/indexp.htm
(Bibliografie della rivista “Actuel Marx” sulla filosofia e sull’economia marxista).
http://www.sussex.ac.uk/Users/sefd0/bib/marx.htm
(Bibliografia “tematica” a cura del Dr. Andrew Chitty dell’Università del Sussex
sui concetti e le opere fondamentali di Marx, sui suoi rapporti con altri autori e
sugli sviluppi del marxismo nel Novecento).
58
C) Altre opere consultate:
ARISTOTELE, Etica nicomachea, introduzione, traduzione e commento di
Marcello Zanatta, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1996.
Id., Politica, a cura di Renato Laurenti, Roma-Bari, Editori Laterza, (Economica
Laterza, n. 9), 19952.
G.W.F. HEGEL, Epistolario. Vol. I: 1785-1808, a cura di Paolo Manganaro,
Napoli, Guida Editori, (Micromegas, n. 8), 1983.
Id., Fenomenologia dello spirito [1807], trad. it. di E. De Negri, Firenze, La Nuova
Italia, 2 voll., 19733 (1a ed. 1933-36, 2a ed. completamente rifatta 1968).
Id., Propedeutica filosofica. 1808-1811, a cura di Giorgio Radetti, Firenze,
Sansoni, (Classici della filosofia, n. 111), 1950.
Id., La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816), a
cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano, 1985.
Id., Scienza della logica [1812-1816], trad. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, introd.
di L. Lugarini, Roma-Bari, 1996, 2 voll..
Id., Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in
compendio [1821], a cura di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 1999 (nuova ed. riv.,
con le Aggiunte di E. Gans).
Id., Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio [18303], trad. it. di B.
Croce, introd. di C. Cesa, glossario di N. Merker, Roma-Bari, Editori Laterza,
(Biblioteca Universale Laterza, n. 102), 199410 (1a ediz. 1907).
F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, introduzione e
commento di G. Pasqualotto, Milano, 20006 (1a ediz. 1985).
J.-J. ROUSSEAU, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli
uomini, a cura di V. Gerratana, Roma, Editori Riuniti, (I testi, n. 81), 19942
(1a ediz. 1968).
Per contatti: [email protected]
Interventi su Ernst Jünger
(dott. CLAUDIA GIORDANO, dott. SIMONA GIACOMETTI, dott. ADRIANA MAESTRO)
59
Introduzione: Ernst Jünger e il suo tempo.
L’operaio (1):
L’epoca borghese come età di dominio apparente.
L’operaio (2):
La questione della forma: libertà e necessità.
L’operaio (3):
La dissoluzione del mondo borghese: dall’individuo al tipo umano.
L’operaio (4):
La tecnica come mobilitazione del mondo: il lavoro totale.
L’operaio (5):
Dalla democrazia liberale alla democrazia del lavoro: lo Stato planetario.
Ernst Jünger e il suo tempo
(dott. Claudia Giordano)
per contatti: [email protected]
Il 1894 è un anno centrale per la storia della Germania: si chiude il Neue Kurs della politica tedesca
voluto da Guglielmo II e con esso tramontano definitivamente le speranze di un'evoluzione liberale
del sistema fino a quel momento impedita dall'autoritarismo della Realpolitik bismarckiana.
Sostenuto dall'alleanza storica tra la casta agraria e militare degli Junker e la grande industria, il
Kaiser conduce la Germania sulla strada della Weltpolitik, la politica mondiale, che per il ventennio
successivo porterà più volte l'Europa sull'orlo della guerra. Con l'abbandono della politica
dell'equilibrio diplomatico, la Weltpolitik segna la reale svolta rispetto alla Realpolitik di Bismarck,
sul piano della politica estera: la Germania avvia il riarmo navale, compie un grande investimento
nell'industria bellica, è impegnata come le altre grandi potenze europee nell'espansione coloniale,
soprattutto in Africa e nel Pacifico.
In politica interna Guglielmo II prosegue invece sulla linea indicata da Bismarck, adottando una
legislazione sociale in funzione imperialista, pensando così di poter controllare il movimento
operaio dopo aver abrogato la legislazione repressiva voluta dal cancelliere contro i socialisti. Il
cosiddetto imperialismo sociale tedesco, sostenuto dall'ideologia nazionalista, consentiva in altri
termini ad un paese nato da poco di tenere sopiti gli antagonismi di classe all'interno, consolidando
la struttura sociale delle vecchie classi dirigenti, e di costruire il consenso delle masse su una
politica estera di grandezza e di potenza.
Ha scritto uno storico tedesco:
«Quella tensione fra impulso distruttivo e forza creatrice, che dilaniò il volto della cultura nella
repubblica di Weimar, era già presente alla svolta del secolo. Tutte le idee degli anni Venti avevano
la loro origine nella stanchezza e nella rivolta, nello stacco e nello scatto dell'inizio del secolo. Lo
sviluppo e la via del progresso correvano sul ciglio dell'abisso, aprivano alla fin de siècle il
panorama sullo Stato autoritario e la guerra civile, sull'imperialismo e le riforme sociali, sulla
perdita di identità e l'angoscia di massa». (M. Stürmer, La Germania industriale, in AA. VV., La
Germania. Dall'antichità alla caduta del Muro, Roma-Bari 1990).
60
Ernst Jünger nasce a Heidelberg nel 1895, da Ernst, chimico e farmacista, e Karoline Lampl. È lo
stesso anno del caso Dreyfus, della scoperta dei raggi X e della nascita del cinema con i fratelli
Lumière. Sono i tre eventi che hanno segnato, per Jünger, la nascita del mondo moderno.
Frequenta il Gymnasium a Hannover dove la famiglia si era trasferita poco dopo la sua nascita e nel
1911 entra a far parte della sezione locale del Wandervögel, un movimento fondato nel 1901 da
Karl Fisher che al romanticismo e al pangermanesimo propri della cultura tedesca di inizio secolo
univa lo spirito di avventura e gli ideali di vita all'aperto.
Nel 1913 Ernst fugge in Francia, si arruola a Verdun nella Legione straniera francese e viene
inviato in Algeria. Quell'esperienza, poi raccontata negli Afrikanische Spiele (Ludi africani) del
1936, deve interrompersi sei settimane dopo, per volontà del padre.
Tornato in Germania, nel 1914 Ernst consegue il diploma presso il Gildemeister Institut di
Hannover, dove per la prima volta si avvicina alle opere di Nietzsche. Allo scoppio della guerra si
arruola come volontario nell'esercito tedesco e viene inviato sul fronte francese. Alla fine della
guerra è tenente delle truppe d'assalto, assegnato al 73o Reggimento Fucilieri di Hannover. Ferito
quattordici volte, sarà premiato con la più alta decorazione tedesca, l'«Ordre pour le mérite».
Nel 1920 Jünger pubblica a sue spese In Stahlgewittern (Nelle tempeste d'acciaio), il suo diario
della prima guerra mondiale. Ad esso seguiranno il racconto Sturm, pubblicato a puntate nel 1923,
che descrive la condizione di tre giovani soldati durante la guerra, e poi Das Wäldchen 125 (Il
boschetto), e Feuer und Blut (Fuoco e sangue), rispettivamente i racconti di un mese e di un giorno
di guerra, apparsi entrambi nel 1925.
Nelle tempeste d'acciaio riscuote un successo immediato. Pur essendo pienamente partecipe del
conflitto, nelle pagine del suo diario Jünger è riuscito a fotografare l'oggettività della guerra,
assumendo la prospettiva di un osservatore che descrive lo spettacolo di potenza a cui assiste. Lo
scrittore Jünger "vede" la guerra e ne coglie il carattere per la prima volta "totale": dietro lo scontro
militare c'è lo scontro tra le grandi potenze industriali che fa apparire l'eroismo individuale incapace
di determinare l'esito dei combattimenti. Il soldato della prima guerra mondiale è la vittima
"calcolata" della guerra dei materiali e delle macchine, è il soldato perfettamente sostituibile che
muore da sconosciuto nella carneficina di massa determinata dalla guerra tecnologica. L'eroe della
Grande Guerra è il milite ignoto, che ha accettato il sacrificio di sé rivestendo un ruolo oggettivo
nella guerra di trincea.
I diari della prima guerra mondiale:
Il diario copre l'intero arco del primo conflitto mondiale, seguendo le vicende del 73 reggimento
fucilieri "Gibraltar" di Hannover. Andrè Gide ha considerato nel 1942 nelle Tempeste d'acciaio il
libro più bello sulla Grande Guerra, riconoscendogli tre pregi: «buona fede, veracità, onestà
perfette». Il libro fu letto molto negli anni Venti e Trenta in Germania, anche durante il periodo
nazista, generando un interesse che aveva poco a che fare con la letteratura e che poi ha consentito
che si diffondesse, specie dopo la seconda guerra mondiale, una maniera accusatoria di riferirsi al
libro, interpretandolo come un'apologia della guerra e della violenza, come una rappresentazione
esaltata della volontà di distruzione.
Polemiche a parte, il libro è rimasto uno dei più letti di Jünger, non solo in Germania, ed ha
rappresentato uno dei temi su cui ha maggiormente insistito la critica (oltre alla quantità notevole di
studi specifici, non c'è monografia sull'autore che non parta dal problema della guerra). Ma il libro
ha poco in comune con gli altri diari della prima guerra mondiale. Rispetto a Niente di nuovo sul
fronte occidentale di Remarque, per fare un esempio di un libro che è stato molto letto in Italia e
che ha rappresentato la denuncia del carattere disumano della nuova guerra, della desolazione
morale provocata dalla guerra di trincea, con le Tempeste d'acciaio siamo in una prospettiva
61
opposta. Il valore del diario si misurava per lo stesso Jünger in base al suo «grado di oggettività»:
«io non voglio descrivere come sarebbe potuto essere ma come fu», scrive nella prefazione alla
quinta edizione del libro, motivando la necessità di lasciare pochissimo spazio nel diario alle
riflessioni personali, all'espressione dei sentimenti, alla narrazione fatta da un punto di vista
individuale. Se così fosse, il diario di Jünger sarebbe niente altro che una testimonianza del primo
conflitto, invece è proprio quella scrittura impassibile, avalutativa, a consentire a Junger di cogliere
l'essenza della prima guerra mondiale e di corrispondere ad essa (anche esteticamente):
1. La novità della Grande Guerra (vedi prima e seconda citazione alla fine del testo)
Partito per il fronte con lo spirito romantico dell'avventura e della difesa della patria, capisce
che la guerra non è più decisa dalle azioni dei singoli, ma che i singoli possono solo partecipare ad
una guerra "totale" che è decisa dalla tecnica. La Grande guerra vede contrapposte grandi potenze
industriali, ed eserciti che sono armati come non erano mai successo prima e perché quelle armi
sono il risultato dell'applicazione dei progressi tecnologici alle esigenze della guerra. Le
mitragliatrici automatiche, l'artiglieria pesante, fucili a ripetizione, e soprattutto i gas, le armi
chimiche e invisibili, sono queste armi a decidere la guerra.
Jünger descrive questa guerra, che è una guerra dei materiali e delle macchine (vedi
terza citazione), e che proprio per questo si trasforma subito in una guerra di
logoramento. Il tipo di armi rende difficile sfondare le linee avversarie, i fronti si
stabilizzano quasi subito, e la trincea diventa subito lo spazio della guerra: gli eserciti
nemici sono immobili, ognuno nella propria trincea, e sanno che non può essere più
l'azione degli uomini, il coraggio degli assalti (che non vengono decisi se non
raramente) a determinare le sorti del conflitto ma la tecnica, la potenza materiale,
industriale che sta dietro gli eserciti che si fronteggiano. La guerra decisiva non è
quella che si combatte al fronte, ma nelle fabbriche, nell'enorme sforzo produttivo
che si fa nei settori industriali collegati alla guerra.
2) Il soldato sostituibile (vedi quarta e quinta citazione).
Nella guerra della tecnica, il nemico non ha volto, la guerra di trincea ha reso il nemico
invisibile: dentro il fossato scavato nel terreno, il nemico è esposto a una morte che può arrivare in
qualunque momento e da qualunque parte e che spesso arriva senza essere vista (può essere ad
esempio causata dai gas). Anche il soldato in questa guerra è diventato materiale, un materiale tra
gli altri, che può essere perso e che quindi verrà immediatamente sostituito: la sua sostituibilità è
data proprio dal fatto che ogni soldato è uguale agli altri, non gli viene più richiesta nessuna qualità
individuale, il suo eroismo non è più quello del coraggio dell'azione.
Al soldato in trincea viene richiesta la costanza, la pazienza dell'attesa, dell'immobilità, la
sopportazione della noia della guerra, l'accettazione di una fine che è decisa dalla tecnica. Ciò che si
chiede al soldato in trincea è di essere continuamente esposto al pericolo della morte, di essere in
ogni attimo tra la vita e la morte.
3. Il milite ignoto (vedi sesta citazione). Se il soldato della Grande Guerra è sostituibile, allora
l'eroe non esiste più o meglio qui l'eroe è il milite ignoto, è nessuno, è il soldato che muore senza
che abbia un nome perché il suo nome, la sua individualità non sono funzionali alla guerra, mentre
lo sono il fatto che egli continui a svolgere la sua funzione nella guerra, lo è il fatto che continui a
vivere "all'ombra della morte", vivendo come se dovesse morire in qualsiasi momento.
La Grande guerra permette a Jünger di fare l'esperienza dell'immortalità (vedi settima citazione)
dell'eternità, perché se è sostituibile, il soldato, come l'ingranaggio di una macchina, non muore ma
immediatamente sostituito continua a lavorare; nella guerra non si muore ma si lavora, perciò il
soldato è «l'operaio della morte in un accadere puramente meccanico» (W. Kaempfer, Ernst Jünger,
Bologna 1991).
È chiaro che solo una guerra tecnologica, in cui per la maggior parte del tempo il
soldato aspetta, all'ombra della morte, di essere funzionale al compimento di un
62
destino che è deciso dalla tecnica, poteva consentire a Jünger di collocarsi su una
doppia dimensione rispetto agli eventi: di essere «il partecipante appassionato alla
strage materiale e l'appassionato spettatore della strage materiale» (Kaempfer, cit., p.
15).
Nel 1922 esce una nuova edizione di In Stahlgewittern, a cui ne seguiranno altre cinque, assieme al
saggio Der Kampf als inneres Erlebnis (La guerra come esperienza interiore), in cui Jünger riflette
ancora sul rapporto irrisolto tra l'esigenza di soddisfazione personale del soldato e la ricerca di un
significato oggettivo della guerra.
Nel 1923 si dimette dall'esercito e si iscrive all'Università di Lipsia per studiare scienze naturali, in
particolare zoologia, e filosofia. Tra il febbraio e l'aprile del 1925 soggiorna a Napoli, presso
l'Acquario della stazione zoologica Anton Dohrn. Nel 1926, dopo aver abbandonato gli studi
universitari, si trasferisce con sua moglie Gretha von Jeinsen a Berlino, per vivere da scrittore
indipendente.
Non abbandonerà mai invece la passione per l'entomologia che lo porterà spesso in giro per il
mondo. Diverse specie di insetti, scarabei in particolare, saranno battezzate con il suo nome. «Le
sue incursioni nella biologia - scriverà Bruce Chatwin - «tendevano alla classificazione linneiana
della specie - piaceri estetici che gli lasciavano intravedere il Paradiso Primordiale non ancora
contaminato dall'Uomo. Oltre a ciò, il mondo degli insetti, nel quale gli istinti governano il
comportamento come una chiave si adatta alla serratura, attirava in modo irresistibile un uomo
dotato della sua visione utopistica» (B. Chatwin, Che ci faccio qui?, Milano 1990, pp. 364-5).
A Berlino, per circa cinque anni fino al 1930, Jünger partecipa attivamente al dibattito politico
tedesco, dalla parte degli oppositori della Repubblica di Weimar. Scrive assiduamente su
settimanali militari e collabora in particolare alla rivista «Der Widerstand» (La Resistenza), l'organo
del nazional-bolscevismo guidato da Ernst Niekisch, che Hitler farà arrestare nel 1937. Di Niekisch,
sessant'anni dopo, Jünger dirà che incarnava veramente «l'ethos della resistenza», una resistenza
«contro la Repubblica di Weimar, contro la borghesia, contro il mondo occidentale e contro i suoi
imperativi economici e capitalistici. E il mondo occidentale per lui era rappresentato dall'Inghilterra
con il suo spirito mercantile e colonialista, da Parigi con le riparazioni di guerra imposte alla
Germania, dal cattolicesimo e dalla socialdemocrazia tedesca. Niekisch ammirava invece l'anima
russa e l'ordine prussiano, con il suo senso dello Stato e il suo esercito popolare» (A. Gnoli, F.
Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano 1997, p. 37).
Nel 1929 appare Das Abenteuerliche Herz (Il cuore avventuroso), che rivela le qualità letterarie di
Jünger ma che non suscita subito grande interesse, probabilmente perché in quegli anni la figura
dello scrittore resta troppo ancorata alla sua immagine di eroe di guerra.
La pubblicazione dei suoi primi saggi di maggiore interesse teorico coincide con l'abbandono
dell'attivismo nazionalista. Tra il 1930 e il 1934 appaiono infatti Die totale Mobilmachung (1930,
La mobilitazione totale), Der Arbeiter (1932, L'Operaio) e Über den Schmerz (1934, Sul dolore).
L'Operaio, pubblicato nella casa editrice diretta da Niekisch, trova sulle pagine del «Widerstand»
numerosi pareri favorevoli, mentre interpreti autorevoli come Spengler e Schmitt (quest'ultimo sarà
legato a Jünger da una profonda amicizia) fraintesero inizialmente il senso del libro, schiacciando la
figura dell'operaio su quella del proletario. Priva di qualsiasi carattere sociologico, la figura
dell'Arbeiter rappresentava per Jünger la forma metafisica adeguata alla nuova realtà.
Nel 1933, come era già accaduto qualche anno prima, Jünger respinge l'offerta di un seggio
parlamentare da parte dei nazionalsocialisti. Nello stesso anno si rifiuta di entrare a far parte della
Accademia tedesca di poesia. Per motivare il suo rifiuto rivendica "il carattere essenzialmente da
soldato" del proprio lavoro e la necessità di rimanere fedele, libero da vincoli accademici, alla
63
mobilitazione tedesca cui aveva partecipato dal 1914. Era un modo per non compromettersi con il
regime e, allo stesso tempo, per non destare sospetti.
Nel 1939 pubblica il romanzo Auf den Marmorklippen (Sulle scogliere di marmo), una sorta di
trasfigurazione letteraria della realtà politica tedesca. Nel tentativo, fallito, di tirannicidio a cui
assistono i due fratelli protagonisti del romanzo, si può leggere retrospettivamente una
premonizione del complotto dei generali nazisti del luglio del '44 contro Hitler. La pubblicazione
del romanzo mette in pericolo Jünger, ma sarà l'intervento dello stesso Hitler ad impedirne l'arresto.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Jünger viene richiamato alle armi. È inviato sul
fronte occidentale, con il grado di capitano e poi a Parigi, dove nel luglio del 1941 viene assegnato
al Comando tedesco nella città occupata e addetto all'ufficio della censura. Nella capitale francese
frequenta molti scrittori e artisti dell'epoca, tra cui Céline, Cocteau, Morand, Picasso.
Sempre più lontano dal pangermanesimo degli anni giovanili e orientato su posizioni di
internazionalismo politico e culturale, tra il 1941 e il 1942 lavora ad uno scritto su Der Friede (La
Pace) che circolerà clandestinamente proprio tra i militari che organizzarono il fallito attentato a
Hitler del luglio del 1944. All'indomani dell'attentato, nonostante la vicinanza di Jünger agli
ispiratori del complotto, non emergono prove a suo carico perciò riuscirà miracolosamente a
salvarsi. Si ritira comunque dall'esercito chiedendo un congedo per malattia che la Wehrmacht non
esita a concedergli. Lascia Parigi e si trasferisce a Kirchhorst nel settembre del '44. Il figlio Ernst,
che aveva più volte manifestato la sua opposizione al regime nazista, viene inviato al fronte italiano;
è ucciso a novembre nelle cave di marmo di Carrara.
Dopo la resa dei tedeschi, nel 1945 Jünger si rifiuta di sottoporsi alla procedura dei tribunali per la
denazificazione e per quattro anni subisce il divieto di pubblicazione.
Nel 1949 pubblica il romanzo Heliopolis, secondo di una trilogia iniziata con Sulle scogliere di
marmo, e i suoi Strahlungen 1941- 45 (Irradiazioni), i diari della seconda guerra mondiale. I toni,
rispetto a quelli della Grande Guerra, sono completamente mutati. La ricerca della perfezione
formale ha del tutto oscurato il realismo dei primi diari: Jünger è diventato l'"esteta in guerra", non
più attore ma solo spettatore degli eventi, che cerca nella letteratura il modo per difendersi dalla
paura della morte e il luogo in cui esprimere il distacco dalla realtà del conflitto.
Nel 1950 pubblica Über die Linie (Oltre la linea), un saggio dedicato ad Heidegger sul tema del
nichilismo. In esso però Jünger non vede più, come Nietzsche, un attacco frontale ai valori borghesi
quanto piuttosto la caduta, lo svanimento di essi. Cinque anni dopo, con il saggio poi intitolato Zur
Seinfrage (La questione dell'essere), Heidegger risponderà a Jünger e gli riconoscerà il merito di
aver colto nel nichilismo e nella tecnica il problema centrale della modernità, collocandosi appieno
nella partire dalla metafisica nietzscheana della volontà di potenza.
Über die Linie rientra in un'altra importante fase saggistica di Jünger dopo quella degli anni 30. Lo
scritto appartiene infatti allo stesso periodo di Der Waldgang (Trattato del ribelle), che appare nel
1951, e di Der Gordische Knoten (Il nodo di Gordio) del 1953, sulla questione del rapporto tra
Oriente e Occidente scritto in dialogo con Schmitt. In particolare, in Der Waldgang Jünger descrive
una forma di interiorità che sembra fornire una motivazione filosofica del suo rifiuto della politica:
l'anarca, il ribelle, vive una condizione di indipendenza interiore che assicura il suo rapporto con la
società da qualsiasi implicazione ideologica.
Nel 1950 Jünger si trasferisce a Wilflingen, nell'Alta Svevia, da cui non si sposterà più. Abita prima
nel castello degli Stauffenberg, poi nella vicina foresteria. Con Albert Hofmann, lo scopritore
dell'Lsd, sperimenta gli effetti del nuovo allucinogeno che poi descrive in Annäherungen. Drogen
und Rausch (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), apparso nel 1970.
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Compie numerosi viaggi, in Sardegna, negli Stati Uniti, in Medio Oriente e poi di nuovo in Francia.
Nel 1959 fonda con lo storico delle religioni Mircea Eliade la rivista «Antaios» che dirigerà fino al
1971.
Nello stesso anno pubblica il saggio An der Zeitmauer (Al muro del tempo) in cui si avverte
l'influenza della filosofia della storia di Spengler nella sua formazione. Nel 1960 pubblica Der
Weltstaat (Lo Stato planetario), una riflessione su quale fosse l'organizzazione politica
corrispondente al carattere planetario della tecnica e dell'economia.
Nel 1962 sposa in seconde nozze l'archivista Liselotte Bauerle che vivrà con lui a Wilflingen fino
alla sua morte. Nel 1964 pubblica note e osservazioni su L'Operaio dal titolo Maxima-Minima.
L'anno dopo appare la prima edizione delle sue opere complete in dieci volumi. Nel 1967 raccoglie
le sue osservazioni sulle ricerche entomologiche nel volume Subtile Jagden (Cacce sottili).
Dalla fine degli anni sessanta Jünger non smetterà mai di viaggiare. Visita il Marocco, la Tunisia, la
Turchia, la Sicilia, la Grecia.
Nel 1973 pubblica il romanzo Die Zwille (La fionda) in cui rievoca l'atmosfera del Gildemeister
Institut, il collegio privato dove aveva conseguito il diploma. Nel 1977 appare invece Eumeswil, il
romanzo che conclude la trilogia iniziata con Sulle scogliere di marmo. Il protagonista, Venator,
intrattiene con il mondo un rapporto di pura osservazione che gli consente di compiere il proprio
lavoro di storico, conservando la completa neutralità politica.
Nel 1981 pubblica il saggio Der Schrifteller und das Schreiben (L'autore e la scrittura).
A partire dagli anni ottanta, Jünger riceve importanti riconoscimenti in Germania e all'estero. Nel
1982 viene insignito del Premio Goethe della città di Francoforte, tra aspre polemiche che riaprono
il dibattito sul suo complesso rapporto con il nazismo.
Nel 1983 appare Aladins Problem (Il problema di Aladino), metafora del mondo attuale e della
decadenza che Jünger vedeva in esso: «invece di edificare un mondo magnifico in cui si
realizzerebbero grandi utopie, in cui, ad esempio, più nessuno avrebbe bisogno di lavorare, non ci
pensiamo nemmeno, utilizziamo la nostra lampada per ammucchiare delle scorte di bombe
atomiche. I geni che evochiamo non sono quelli buoni: creiamo l'Est e l'Ovest e forse corriamo
verso la nostra fine» (J. Hervier, Conversazioni con Jünger, Parma 1986, p. 101).
Nel 1984, a Verdun, su invito di Mitterand e Kohl, partecipa ai festeggiamenti della riconciliazione
franco-tedesca. I due gli faranno più volte visita a Wilflingen.
Nel 1985 la regione del Baden-Württemberg istituisce il Premio Ernst Jünger per l'entomologia.
Nello stesso anno riceve la Grande Croce al Merito della Repubblica Federale Tedesca e pubblica
un racconto poliziesco, Eine gefährliche Begegnung (Un incontro pericoloso), ambientato nella
Parigi fin de siècle, negli anni immediatamente antecedenti all'affaire Dreyfus.
Nel 1986 a Palermo riceve il Premio Mediterraneo e a Roma il Premio Tevere. A Monaco viene
insignito del Bayerischer Maximiliansorden per l'arte e la scienza.
Nel 1990 gli viene conferito il Premio per l'Arte dell'Alta Svevia.
Continua a viaggiare, va alla Isole Mauritius, alle Seychelles, in Svizzera e a Rodi.
A Venezia, nel 1993 riceve il Gran Premio Punti cardinali per l'Arte dalla 45a biennale. La
prefazione al catalogo della biennale scritta da Jünger sarà poi pubblicato su «Die Zeit» con il titolo
Gestaltwandel (Metamorfosi).
Nel 1994 pubblica la quarta serie di Seibzig verweht (Settant'anni volati via), i diari della vecchiaia
il cui primo volume era apparso nel 1980. Nel 1996 gli viene conferita la laurea honoris causa dalla
università Complutense di Madrid.
Muore a Wilflingen nel 1998.
Citazioni tratte dai diari della prima guerra mondiale
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L'arrivo al fronte:
1. Avevamo lasciato le aule universitarie, banchi di scuola, officine; e poche settimane
d'istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d'entusiasmo. Cresciuti in tempi di
sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l'irresistibile attrattiva dell'incognito, il fascino dei grandi
pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un'ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo
ebbri di rose e di sangue. Non il minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza,
dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su prati
fioriti dive il sangue sarebbe sceso come rugiada. «Non v'è al mondo morte più bella…»
cantavamo. Lasciare la vita sedentaria e prender parte a quella grande prova. Non chiedevamo
altro.
2. Un breve soggiorno al reggimento era stato sufficiente a guarirci del tutto dalle vecchie
illusioni. In luogo dei pericoli sperati, avevamo trovato il fango, la fatica, le notti di veglia, tutti
mali la cui sopportazione esigeva un eroismo poco confacente alla nostra natura. Ma il peggio era
la noia, più snervante per il soldato che la vicinanza stessa della morte. Speravamo in un attacco;
ma avevamo scelto, per il nostro ingresso sulla scena, un periodo sfavorevole in cui ogni azione di
movimento poteva dirsi cessata.
La guerra dei materiali:
3. Bombe sferiche, leggere e pesanti, bombe-bottiglia, shrapnels, proiettili di ogni genere.
Non riuscivo più a distinguere tutto quello che ronzava, rombava e esplodeva. (…) A volte l'udito
rimaneva completamente assordato da uno schianto unico, infernale, accompagnato da bagliori di
fiamme. Poi un sibilo alto, ininterrotto, dava l'impressione che centinaia di schegge da una libbra
volassero una dietro l'altra a velocità incredibile. Un proiettile arrivava senza esplodere, con un
colpo breve, violento, e la terra intorno sussultava. Gli shrapnels scoppiavano a dozzine con la
grazia di confetti fulminanti, spargendo nugoli di bilie, mentre le spolette li seguivano soffiando.
Quando una granata piombava vicina, il terriccio strepitava, ricadeva e le schegge si conficcavano
con un colpo secco nel suolo.
Il nemico:
4. Mi sforzai sempre, durante tutta la guerra, di guardare l'avversario senza odio, anzi di
stimarlo per il suo coraggio virile. Cercai, certo, di incontrarlo in combattimento per ammazzarlo
senza naturalmente aspettarmi altro da parte sua. Mai, però, ne ho pensato male.
5. Tonfi sordi e profondi come tuoni accompagnavano la nostra marcia. Centinaia di occhi
erano puntati su quel paesaggio morto, in agguato dietro i fucili e le mitragliatrici. Eravamo già
lontani dalle nostre linee. Da ogni parte fischiavano proiettili attorno ai nostri elmetti e si
schiacciavano con urti violenti contro le pareti della trincea. Ogni volta che quelle palle di ferro a
forma di uovo si alzavano, l'occhio si impadroniva di loro con quell'acutezza della vista che si
acquista soltanto nei momenti in cui si decide la vita o la morte. In quegli attimi di attesa,
bisognava cercar di guadagnare un posto dal quale fosse possibile vedere il più largo tratto di
cielo perché soltanto su quel pallido sfondo era possibile distinguere con sufficiente chiarezza il
ferro nero scanalato di quelle palle micidiali. Ognuno lanciava la propria bomba a mano e saltava
in avanti. Nemmeno uno sguardo per il nemico che cade: quello ha finito il suo gioco, si comincia
un altro duello.
L'incontro tra due comandanti:
66
6. Fra tutti i terribili momenti della guerra nessuno è così memorabile come l'incontro di
due comandanti di plotone tra le strette pareti argillose della posizione. Non c'è ritorno, né
salvezza. Lo sa bene chiunque abbia visto nel loro regno i prìncipi delle trincee, con i loro visi duri
e cupi, saltare audacemente e rapidamente nell'una e nell'altra direzione, con occhi acuti e iniettati
di sangue, uomini che conoscevano a fondo e compivano fino al limite estremo il loro dovere e che
nessun bollettino di guerra ha nominato e nomina mai.
L'istante della morte:
7. Nell'attimo stesso del colpo, compresi che la pallottola aveva troncato la vita alla radice.
Sulla strada di Mory avevo già sentito la mano della morte, ma questa volta essa stringeva più forte
e più decisa. Mentre crollavo pesantemente sul fondo della trincea, ebbi la certezza di essere
definitivamente perduto. Eppure, cosa strana, quel momento è stato uno dei rarissimi nei quali
possa dire di essere stato veramente felice. Compresi in quell'attimo, come alla luce di un lampo,
tutta la mia vita nella sua più intima essenza. Provai una certa sorpresa per il fatto che essa
dovesse finire proprio in quel punto; ma quella sorpresa, devo dire, era piena di felicità. Sentii,
piano piano, i colpi indebolirsi come se stessi affondando sotto la superficie di un'acqua
scrosciante. Dove ora mi trovavo, non v'erano più né guerra, né nemici.
(Citazioni tratte da Ernst Jünger, Nelle Tempeste d'acciaio, tr. it. di G. Zampaglione, Parma 1990,
rispettivamente p. 5; p. 12; p. 80; pp. 65-6; p. 243; p. 245; p. 320).
Ernst Jünger – Der Arbeiter
dott. Simona Giacometti
per contatti: [email protected]
Dalla ricostruzione della vicenda biografica di Ernst Jünger abbiamo ricevuto
importanti indicazioni su alcuni elementi che nelle pagine dell’Operaio si caricano di
densa problematicità teorica: la guerra = guerra dei materiali → questione della
tecnica; la nuova figura del soldato = salariato della morte; la rilevanza dell’interesse
entomologico, sintomatico dell’attrazione jüngeriana per un idea d’ordine che pone in
questione il rapporto di libertà e necessità.
Essenziale alla lettura del testo è un’osservazione preliminare: rispetto all’analisi
marxiana della questione in esame, il lavoro, Jünger utilizza un impianto concettuale
completamente diverso, movendo da riferimenti teorici di tutt’altra natura.
Ritenendo metodologicamente fallimentare accostarsi ad un autore applicando
strumenti di indagine diversi da quelli che egli stesso fornisce nella sua opera. È
necessario mettere, quindi, solo temporaneamente da parte Marx e cercare di cogliere
la specificità del discorso di Jünger per procedere in seconda battuta ad un confronto
tra i due.
67
La caratteristica che emerge immediatamente dalla lettura è il carattere poco
sistematico con cui Jünger sviluppa le sue argomentazioni, un dato non casuale ma
riconducibile ad una posizione teorica coerentemente sostenuta anche nella prassi
della scrittura: la polemica antiborghese contro un pensiero della scissione che si
articola secondo uno schema meccanicistico di successioni determinate di cause ed
effetti. Una sorta di giustificazione della scrittura jüngeriana nell’Operaio può essere
ricavata da quanto l’autore stesso sostiene in un passaggio di Blätter und Steine del
1942: “Per un decimo di secondo fu chiaro nella mia mente che noi ci avviciniamo di
nuovo ad un punto, viste dal quale fisica e metafisica sono identiche. È questo il
luogo geometrico in cui bisogna cercare la Forma del lavoratore. Il libro che porta
questo titolo rappresenta uno sforzo durato due anni e dedicato alla riscoperta di
questo decimo di secondo. Come in un sogno si scorge per un momento il
meraviglioso tappeto della vita: ma restano solo pochi fili, che si cerca faticosamente
di collegare”.
Il testo compare nel 1932 e presenta una certa continuità ideale con Die Totale
Mobilmachung (1930) e Über den Schmerz (1934).
Fin dalle prime battute la figura dell’operaio è definita a partire dalla sua opposizione
a quella del borghese: sulla natura di questa opposizione Jünger è esplicito: “Tra il
borghese e l’operaio la distinzione non è soltanto d’epoca, ma soprattutto di
rango”128.
Anche alla luce dei molteplici ed illustri fraintendimenti circa la natura dell’operaio
di Jünger ed in considerazione del fatto che finora ci siamo mossi entro l’orizzonte
teorico marxiano, è indispensabile chiarire fin da principio che l’operaio non è una
categoria sociologica, politica né tanto meno economica.
In questo senso risultano forse più comprensibili le dispute sorte attorno
all’opportunità di rendere il termine tedesco Arbeiter con la voce italiana Operaio e
non piuttosto con quella più neutra di Lavoratore.
“In terzo luogo rimane da distruggere la leggenda secondo cui la qualità
fondamentale dell’operaio sarebbe una qualità economica” (Ivi, p.27) e, a poche
pagine di distanza, leggiamo: “…per l’operaio da indurlo a rifiutare ogni
interpretazione che tenti di spiegare lui ed il suo manifestarsi come una
manifestazione economica, o addirittura come un prodotto di processi economici, il
che significa, in fondo, una sorta di prodotto industriale” (Ivi, p.29). E’ significativo
il fatto che, riferendosi presumibilmente a Marx, Jünger attribuisca a questa
interpretazione un’origine borghese.
Jünger precisa che concepire l’operaio come il rappresentante di una nuova classe,
l’esponente di una nuova società, un organo dell’economia significa lasciare
128
E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, a cura di Quirino Principe, Parma, 1991, p. 18.
68
sopravvivere nella sua struttura essenziale la concezione borghese del mondo,
garantire la continuità nell’ordine delle cose, confermare una concezione
evoluzionistica della storia per la quale al domino del terzo stato dovrebbe seguire
quello del quarto stato; l’operaio è tale solo nell’immagine riflessa del mondo
borghese. “Questa interpretazione assegna all’operaio una finta posizione difensiva,
all’interno della quale è assicurato l’ordine borghese nelle sue norme decisive” (Ivi,
p.30). Piuttosto è opportuno guardare all’operaio come al “rappresentante di una
forma particolare agente secondo leggi proprie, che segue una propria missione e
possiede una propria libertà”.
Ritorniamo a specificare ulteriormente la natura del rapporto tra queste due figure,
precisando con Jünger che la relazione tra l’operaio e la società borghese non è di
opposizione, ma di totale diversità. Una relazione d’opposizione può essere stabilita
solo nel momento in cui il terreno di confronto è lo stesso; la figura dell’operaio
rivoluziona radicalmente il sistema di riferimento borghese.
A determinare la distinzione di rango cui Jünger si riferiva nel passaggio citato è
l’incapacità del borghese di stabilire un rapporto con l’elementare; al contrario,
l’operaio compie un atto rivoluzionario nella visione di forme, che implica il
riconoscimento di un essere nell’intatta ed unitaria pienezza della sua vita. (la
centralità della visione è affermata fin dalla premessa alla prima edizione del luglio
1932).
È centrale a questo punto la definizione della forma come “un tutto che comprende
più che la somma delle sue parti” (ivi, p. 31), una grandezza così come si presenta ad
uno sguardo per il quale la connessione del reale non è data dalla formula di causaeffetto, quanto piuttosto da quella di sigillo e impronta. Il senso del passaggio può
risultare più comprensibile se specifichiamo la possibilità, in assoluto, di distinguere
due modalità di approccio al reale: la realtà può essere indagata a partire dalle
categorie logiche di causa ed effetto e allora la rappresentazione che di essa è data è
quella di una successione meccanicamente determinata di un evento all’altro, oppure,
in alternativa, è possibile vedere in essa la connessione data dalla relazione esistente
tra sigillo e impronta e quindi coglierne la totalità, quel “più” rispetto alla somma
delle parti che le categorie di causa ed effetto ignorano completamente. Le categorie
di causa ed effetto non danno la totalità, ma la successione meccanica di evento
all’altro secondo uno schema puramente logico e non rispondente al reale.
Quella distinzione di rango tra borghese ed operaio è posta allora dalla capacità di
quest’ultimo di cogliere la totalità, il “più” che dà la connessione tra le parti in un
senso completamente diverso da quello che fornisce il criterio meramente logico della
successione di causa ed effetto di matrice borghese. L’immagine cui possiamo
ricorrere per rendere la visione di forme di cui è capace l’operaio è quella del cerchio
in opposizione alla retta che dà l’idea della successione in cui il borghese organizza la
sua immagine della realtà.
La forma è una totalità nello stesso senso in cui “un uomo è più che la somma degli
atomi, delle membra, degli organi e degli umori, una famiglia è più di marito, moglie
69
e bambino. […] Nel secolo XIX ci si è abituati a confinare nel reame dei sogni
qualsiasi spirito che tentasse di appellarsi a questo più, a questa totalità come se
quelle realtà avessero sede in un mondo più bello e fantastico, non nel mondo reale”
(Ivi, pp. 32-33).
In sostanza, il ricorso al criterio logico-matematico di causa-effetto è sintomatico
dello spirito proprio del XIX secolo che Jünger definisce nei termini di un’epoca
atomizzatrice di cui il borghese è l’incarnazione più compiuta. “Nell’età borghese
tutto si è liquefatto in idee concetti o meri fenomeni, e i due poli di questo liquido
sono stati il sentimento e la ragione” (ivi, p. 36). L’accusa rivolta al razionalismo
borghese può essere sinteticamente espressa dalla sua tendenza caratteristica a
leggere il reale secondo gli schemi esclusivamente logici del concetto; la protesta
jüngeriana contro il razionalismo è manifesta nella rinuncia a quello strumento di
dissoluzione che è il concetto e nella sua sostituzione con la forma che ripristina
un’unità organica in luogo della sistematica unità borghese.
Le caratteristiche peculiari del borghese da ricondurre al dominio di un principio
razionalistico sono individuate da Jünger:
1) Culto borghese della sicurezza in virtù del quale egli tenta di negare l’aspetto
pericoloso dell’esistenza e di chiudere ermeticamente lo spazio vitale
all’irruzione delle forze elementari. La strategia che il borghese mette in atto a
tale scopo è significativa nella misura in cui manifesta la sua natura più
propria: “Egli sospinge le forze elementari – con le quali non è in grado di
stabilire una relazione autentica - nel dominio dell’errore, dei sogni o di una
cattiva volontà che non può non essere cattiva, ed anzi esso la interpreta come
dissennata assurdità” (Ivi, p. 20). Il borghese edifica o meglio circoscrive lo
spazio del suo agire invocando i principi supremi della razionalità e della
moralità, tutto ciò che non può essere disciplinato a partire da essi è tacciato di
irrazionalità e di immoralità e perciò perde il diritto all’esistenza: “ l’ideale
condizione di sicurezza che il progresso si sforza di raggiungere consiste
nell’egemonia universale della ragione borghese, la quale si propone il
compito non soltanto di ostruire le sorgenti del pericolo, ma persino di
inaridirle del tutto. Ciò avviene nel momento in cui il pericolo, alla luce della
ragione, assume le sembianze dell’assurdo, e con ciò perde il proprio diritto a
realizzarsi” (Ivi, p. 47). “Questo rimprovero mosso dal borghese rappresenta il
mezzo con cui ogni oppositore viene emarginato dalla società, quindi
dall’umanità e dalle sue leggi” (ibid.). Sintomatica, in tal senso, “l’antipatia
che il borghese prova dinanzi a quelle ed ad altre figure, che già soltanto con
la loro maniera di vestire portano nelle città l’odore del pericolo. È
l’avversione che nasce contro il tentativo di aggredire non propriamente la
ragione, ma piuttosto il culto della ragione. Il pericolo d’aggressione è
70
rappresentato dalla mera esistenza di quei modi non borghesi di vivere” (Ivi,
p. 46).
Ad evitare ogni fraintendimento, vale la pena di precisare che non il principio di
razionalità in assoluto, ma la sua specifica forma borghese è incompatibile con
l’impulso elementare. Non è possibile identificare tout court l’ordine borghese con il
principio razionale e lo forma dell’operaio con il dominio dell’irrazionale: l’operaio
non nega il diritto all’esistenza a tutto ciò che non può essere disciplinato dal
principio della forma, il razionale non è rifiutato ma accolto ad un livello più alto che
raggiunge a partire dal suo rapporto con l’elementare.
Nell’applicazione di questa strategia si manifesta agli occhi di Jünger la natura più
propria del borghese che appare come “la personificata unità del principio razionale
con quello etico” (ibid.); rispetto alla sfera delle sue forze, gli impulsi elementari che
incalzano provengono da una dimensione del tutto estranea alla propria e con la quale
egli non può interagire in base alla sua logica consueta. La logica alla quale ci si
riferisce e che Jünger assume come distintiva della natura borghese è quella della
trattativa, della contrattazione, del patteggiamento che il borghese mette in atto anche
quando, come abbiamo visto in precedenza, considera l’operaio il rappresentante di
una nuova classe, l’esponente di una nuova società, un organo dell’economia e che,
nel giudizio di Jünger, è funzionale alla conservazione dell’impianto borghese. In
definitiva, il sistema borghese tende a raggiungere compromessi invece di cercare
soluzioni, a scartare la difficoltà invece di contrastarla.
2) Connessa al culto borghese della sicurezza, Jünger riconosce una serie di
caratteristiche che gli appartengono costitutivamente fin dalle origini: la
predilezione che costui rivela per la professione di avvocato, la sua costante
preoccupazione ad identificare l’avversario con l’aggressore perché il proprio
ruolo è essenzialmente quello del difensore, la struttura urbanistica che
conferisce alle grandi città (“le antiquate cinte di fortificazione sono divenute
strutture a nido d’ape in cui pietra asfalto e vetro rinserrano la vita e le cui
strutture più interne riproducono la forma in generale. Ogni vittoria della
tecnica è qui una vittoria della comodità, Ivi, p. 45). In merito alla seconda
delle caratteristiche elencate, Jünger è esplicito: “Il borghese respinge il
fondamento essenziale della guerra, l’aggressione, poiché sente nell’intimo
che l’istinto aggressivo non è tagliato a sua misura[…]. Il borghese conosce
soltanto la guerra difensiva” (Ivi, p. 21).
L’incapacità del borghese di stabilire un rapporto con l’elementare e di vedere in atto
il dominio della forma, quindi di “un tutto che comprende più che la somma delle sue
parti”, è a fondamento di un altro elemento distintivo dell’apparente dominio
borghese,
71
3) La concezione dell’uomo come individuo. Dire uomo non significa
immediatamente dire individuo; l’individuo è la specifica immagine che il
borghese ha dell’uomo.
In merito Jünger parla di “una bizzarra ed astratta raffigurazione dell’uomo” (Ivi,
p. 22); a suo fondamento risiede ancora lo spirito razionalistico del XIX secolo
che sottrae i singoli contenuti alla loro connessione vitale negandone in tal modo
l’appartenenza alla forma: con esso è in atto un principio che trasferisce questi
contenuti dal piano reale a quello logico. Nel momento in cui la realtà è isolata
nella più completa astrazione secondo la connessione logica propria del concetto,
si può procedere all’elaborazione di principi universali, primo tra tutti quello
dell’uguaglianza di tutti gli uomini nella comune essenza razionale; il pensiero
borghese, figura più rappresentativa della scissione, pone questa universale
razionalità come condizione della tutela del diritto all’individualità.
“ D’altra parte, all’atto pratico il singolo si vede contrapposto non già all’umanità,
bensì alla massa, alla sua esatta immagine riflessa in questo mondo stranissimo e
quanto mai immaginario” (Ivi, p.22). Vedremo in seguito come alla coppia individuo
–massa costruita nell’astratto immaginario borghese corrisponda quella di singolocomunità organica in cui la forma dell’operaio pensa il rapporto tra tutto e parte.
Intanto anticipiamo la definizione jüngeriana di massa come “somma, numerabile
quantità di individui dotati di qualità” (Ivi, p. 92).
L’uomo borghese si struttura come individuo nell’esercizio dei suoi diritti universali
e lo spazio di questo esercizio è la società, spazio borghese per eccellenza. Si tratta,
nella definizione fornita da Jünger, dell’ordine orizzontale tipico del contratto sociale
in cui l’individuo entra con gli altri contraenti – titolari degli stessi diritti- in una
relazione che in qualsiasi momento può decidere di interrompere. In merito Jünger
parla esplicitamente della “preoccupazione del borghese di vedere lo Stato, che si
fonda su una gerarchia, come una società retta dal principio basilare
dell’uguaglianza e fondata mediante un atto della ragione” (Ivi, p. 47).
Assumendo questa dimensione come sintomatica della diversità tra borghese ed
operaio, i termini dell’opposizione sono dati da società civile, ordine orizzontale
tipico del contratto sociale vs Stato, ordine verticale, gerarchia.
Nell’era dell’apparente dominio borghese viene messa in atto una sistematica
operazione di distruzione dello Stato assoluto ad opera dei principi universali, per la
quale in esso non è più riconosciuto né riconoscibile come il supremo strumento di
potere a favore della società elevata a forma in sé. Nella politica borghese non esiste
alcuna grandezza che non venga concepita come società; sintomatico in tal senso il
fatto che“ Società è lo Stato, la cui essenza si cancella in proporzione a come la
società assoggetta lo Stato alle proprie categorie. Questo forzato adattamento è una
vera e propria aggressione; suo strumento è il concetto di libertà borghese, il cui
72
compito è la trasformazione di tutti i vincoli responsabili in rapporti contrattuali con
possibilità di rescissione” (Ivi, p. 22).
Va considerato a questo punto come proprio con la stessa intensità con cui il
borghese lo respinge all’esterno del proprio spazio vitale edificando una sicurezza del
tutto fittizia, l’elementare faccia irruzione al suo interno, preparando in tal modo la
più significativa ed autentica rivoluzione, il dominio della forma in cui “ il pericolo è
sempre presente […]non esige soltanto di essere parte di ogni ordine possibile, ma è
anche la matrice di quella superiore sicurezza dalla quale il borghese sarà sempre
escluso” (Ivi, p. 47).
“lo scoppio della guerra mondiale traccia il largo e rosso frego conclusivo
sull’ultima pagina di quest’epoca” (Ivi, p. 51).
Il rapporto della forma con il molteplice: libertà e necessità
(dott. Adriana Maestro)
per contatti: [email protected]
Posizione del problema
Nelle lezioni scorse è stata evidenziata, tra gli altri, la centralità dei temi della
guerra e dell’irruzione del pericolo, dell’elementare nello spazio della sicurezza
borghese.
E’ proprio da qui che vorrei riprendere le fila del ragionamento, per cercare di
soffermarci ulteriormente sul problema della Forma e del rapporto della Forma con il
molteplice.
Indagare questo rapporto vuol dire dar ragione del molteplice in senso spaziale,
ma anche temporale, ovvero vuol dire indagare il molteplice, con riferimento alla
dimensione spaziale, ma anche la sequenza, con riferimento alla dimensione
temporale.
Vuol dire, dunque, affrontare i grandi temi della libertà e della necessità, per
quanto riguarda la relazione del singolo con la Forma, e temi come lo sviluppo, il
progresso, l’evoluzione, per quanto riguarda il percorso storico. Parlare di sviluppo,
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progresso, evoluzione vuol dire analizzare dei possibili dispositivi di lettura del corso
storico. Bisogna vedere, appunto, come Jünger si pone rispetto a tali dispositivi.
La guerra. Il Bisogno di forma in Jünger
Credo che la guerra abbia aperto per Jünger una grande domanda di senso.
Domanda di senso a cui non può rispondere la scienza borghese, la logica borghese;
quel sapere, appunto, che ritiene che il male del mondo sia frutto di errore, ovvero
che derivi da una provvisoria incompiutezza della conoscenza. E, di fatti, Jünger così
scrive: “ All’interno di questo spazio, il modo di porre i problemi, siano essi di
natura artistica, scientifica o politica presuppone sempre un punto fermo: che il
conflitto sia evitabile. Se però il conflitto si presenta, come non possiamo fare a meno
di ammettere di fronte a persistenti realtà di fatto, la guerra o il crimine, è sufficiente
interpretarlo come un errore la cui ripetizione può essere evitata mediante
l’educazione o la filosofia dei lumi o il diffondersi dell’istruzione. Questi errori
nascono unicamente perché i fattori di quella grande operazione di calcolo
matematico, il cui risultato sarà l’identità tra la popolazione del globo terrestre e
un’umanità tutta unita, fondamentalmente buona, razionale e garantita dalla
sicurezza, non sono ancora oggetto di conoscenza generale.
La fiducia in questa visione dei problemi e nella sua forza di convinzione è uno
dei motivi che spingono la filosofia dei lumi a sopravvalutare le energie che le sono
concesse”(L'Operaio, p. 48).
Come egli stesso dice, la guerra è il frego che chiude il XIX secolo. Con la
guerra è visibilmente in crisi il mondo della sicurezza borghese e compare in prima
linea sulla scena, in maniera ineludibile il pericolo.
“Certo, non mancano gli sforzi tesi ad interpretare questo mondo, ma non
possiamo attenderci una spiegazione da un particolare tipo di dialettica né da una
sorta di utilitario interesse. Tutto questo affaticarsi ha per oggetto un essere che è
ancora troppo ampio anche per gli estremi slanci del pensiero. Tuttavia uno
spettacolo impressionante si offre a chi vede quale lucidità e acutezza d’intelletto,
quale intensità di fede, quale quantità di vittime umane si consumino in
74
combattimenti parziali - uno spettacolo che appare sopportabile soltanto a
condizione che ciascuno di quegli scontri abbia una sua funzione all’interno
dell’operazione militare nel suo insieme” ( cit.,p. 56).
Di qui, dunque, quello che oserei chiamare il bisogno di Forma di Jünger, il
bisogno, appunto, di attingere al Tutto, alla totalità che racchiude in sé più della
somma delle parti e che riesca a dar ragione dell’apparente disarmonia del reale.
Nella forma è racchiuso il tutto, che comprende più che non la somma delle
proprie parti, ed era un obiettivo irraggiungibile per un’epoca anatomizzatrice (cit.,
pag.32).
Che vuol dire ciò? Vuol dire che il prius, non in senso temporale, ma in senso
di dignità di rango, è la forma, è il tutto, che, rispetto alle singole parti è eccedente, è
più.
La forma, dunque, non è assolutamente un tutto a cui si giunge per sintesi, o
per somma di parti, non è un insieme di più individualità; è il tutto, è il sigillo che
imprime di sé ogni cosa, che di questo sigillo non è che l'impronta.
Per comprendere il pensiero di Jünger, bisogna tenere sempre ben presente che
per lui la Forma è una Totalità Organica e che questa totalità è il punto di partenza
del suo discorso.
Di essa, il singolo fa parte come, appunto, parte di una totalità organica.
Libertà come espressione della necessità
Ciò significa che la libertà del singolo consiste nella certezza di essere inseriti
nella necessità del tutto. Per Jünger, la libertà di chi agisce vede se stessa come
singolare espressione della necessità. E, infatti, così scrive: Uno dei contrassegni
della libertà è la certezza di essere inseriti profondamente nel nucleo germinale del
tempo - una splendida certezza che dà le ali ad azioni e pensieri, e nella quale la
libertà di chi agisce vede se stessa come singolare espressione della necessità.
Questo punto di riconoscimento, in cui destino e libertà s'incontrano come sul filo del
coltello, è il sintomo che la partita della vita è ancora in gioco, e che la vita stessa si
concepisce come portatrice di forza storica e di storica responsabilità (cit., p. 55).
75
Jünger, dunque, contesta la concezione borghese di libertà, intesa come
libertà dell’individuo, ritenuto soggetto di storia.
Libero non è chi dispone di se stesso senza alcun vincolo di sorta, bensì chi
sente di essere impegnato in un’opera comune, chi “avverte in sé la certezza che egli,
al di là degli interessi, è legato nel modo più profondo al proprio spazio e al proprio
tempo(…)” (cit., p.57) e sente così “di appartenere non soltanto alla sostanza della
natura, ma anche a quella della storia (…)”, (ibidem) chi riconosce, appunto, “il
proprio compito” (ibidem).
La distanza
Questo significato della libertà come partecipazione a un’opera unitaria,
superiore, può essere scorto solo ponendosi a dovuta distanza, sia in senso spaziale
che temporale. Vediamo che il tema della distanza ( Entfernung, Distanz, Abstand) è
particolarmente importante in Jünger e ritorna spesso. Prendere distanza significa
porsi fuori dal terreno dell’empiria, per assumere un punto di vista in cui l’empiria
stessa è giustificata da un ordine trascendente, un punto di vista che pone in una
situazione molto diversa da quella in cui il singolo, inteso come parte, si trova, nel
mondo, in rapporto con il tutto.
Distanza spaziale
A una grande distanza non si vedono più i diversi fini, i diversi obiettivi: essi si
mescolano gli uni negli altri e la loro differenza si annulla. Se fosse possibile vedere
il mondo ad una lontananza per noi inimmaginabile come, per esempio, con un
telescopio, dalla superficie lunare, allora esso ci apparirebbe in maniera unitaria, il
pensiero delle sue differenze interne sarebbe così lontano, come è lontano, nel
singolo, l’idea di percepirsi in maniera microscopica, come somma di molecole. “Ad
uno sguardo posto a distanza cosmica, e perciò sottratto al gioco di azione e
reazione di movimenti contrari, non può sfuggire che qui un’unità ha creato la
propria copia in termini spaziali. Questo tipo di considerazione si distingue dagli
sforzi di concepire l’unità della vita nel modo più superficiale, ossia come addizione,
poiché coglie la forma creativa, l’opera, la quale si realizza malgrado tutti i
contrasti, o grazie al loro aiuto” (cit., p.60).
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Distanza temporale
Nel tempo, la contemplazione delle rovine è quello che maggiormente colpisce
e fa avvertire al singolo l’Unità dell’Opera Umana e la consapevolezza di farne
parte. Nelle rovine si percepisce, infatti, non tanto l’opera di un singolo individuo,
quanto l’opera corale e anonima. “Quelle pietre, coperte dall’edera o dalla sabbia
del deserto, sono un monumento non soltanto del potere di uomini dominatori, ma
anche del lavoro anonimo, di tutte le minime operazioni manuali che qualcuno
impiegò. In ciascuna di quelle pietre si è infiltrato il rumore di cave dimenticate, si
sono insinuati i pericoli di scomparse strade di campagna, di rotte marittime
cancellate, il trambusto delle città portuali, i progetti dei mastri costruttori, e i pesi
imposti ai servi della gleba, lo spirito, il sangue e il sudore di razze da lungo tempo
estinte. Quelle pietre sono il simbolo della più profonda unità della vita, che la luce
del giorno solo di rado svela” (cit., p.58).
L’anonimia dell’Opera, dunque, è quello che sta a cuore a Jünger. Per
comprendere il significato di un’opera, bisogna che, di fronte ad essa, scompaia ogni
sentimento e risentimento umano, che essa appaia, dunque, come una creazione
anonima. Ciò può essere realizzato solo tramite la distanza. La distanza, dunque,
assolve a una funzione analoga a quella della maschera; la funzione, appunto, di
trasformare il molteplice in unità, di uniformare le differenze, di trasformare la
somma degli sforzi nella volontà che li trascende, il mondo degli uomini in mondo
oggettivo.
Tipo umano e Totalità Organica
All’individuo si sostituisce il Tipo umano. Appartenere, essere rappresentante
del tipo umano, significa appartenere ad un ordine gerarchico del tutto diverso. Ciò
presuppone altre qualità dell’uomo, presuppone che egli non appaia isolato ma in un
contesto. Libertà, dunque, non significa più una misura il cui metro campione venga
fissato dall’esistenza individuale del singolo; libertà è il grado in cui l’esistenza di
questo sa esprimere la totalità del mondo in cui è inserito. Ne deriva l’identità di
libertà e ubbidienza (cit., p. 135).
77
Ne deriva un nuovo ordine verticale, gerarchico, e non orizzontale, in cui
dominio e servizio sono tutt’uno e la medesima cosa. A tal proposito Jünger così
scrive: Una qualità che tutti gli altri considerano il connotato distintivo del tedesco,
ossia l’ordine, viene sempre sottovalutata, se non si è in grado di riconoscerla come
l’immagine della libertà riflessa in uno specchio d’acciaio. L’ubbidienza è l’arte di
ascoltare, e l’ordine è la disposizione ad accogliere la parola, la disposizione ad
accogliere il comando che trascorre come un fulmine dalla cima alle radici. Ognuno
e ogni cosa trova il suo posto nell’ordine feudale, e il capo della nazione è
riconoscibile dal fatto che egli è il primo servitore, il primo soldato, il primo operaio.
Perciò sia la libertà che l’ordine si riferiscono non già alla società, bensì allo Stato,
e il modello di ogni struttura è la struttura militare, non certo il contratto sociale.
Quindi, la nostra forza esterna è assicurata, se nessun dubbio sussiste su chi deve
guidare e chi deve seguire. Un principio deve essere affermato: dominio e servizio
sono tutt’uno e la medesima cosa (cit., p.15).
Ne deriva, dunque, la rottura degli antichi legami. Ma ciò non significa che il
tipo umano non abbia legami, anzi! Tali legami sono di tipo diverso. La sua esistenza
non è, come abbiamo visto, un’esistenza individuale, unica, nel senso in cui lo è per
l’individuo; dunque: unica e irripetibile. E’, piuttosto, un’esistenza univoca. Di
conseguenza, il singolo non è insostituibile, ma anzi assolutamente sostituibile.
L’emblema di questo nuovo ordine è il milite ignoto, è il soldato anonimo che
muore in battaglia, e al cui posto è già pronto un altro singolo per sostituirlo.
Il singolo, dunque, è sostituibile nella sua individualità. Non è sostituibile,
invece, la sua funzione; qualora il singolo cada, deve essere, quindi, immediatamente
sostituito da un altro. Nella totalità jüngeriana, che non è affatto caotica, bensì regno
dell’ordine, la funzione ricopre un ruolo ben più importante di colui il quale questa
funzione ricopre.
Per Jünger, la totalità organica è una realtà simile ai cristalli, in cui, quindi, la
struttura è rigida. Il cristallo è formato da tante molecole in sé perfettamente uguali
e quindi sostituibili, ma sostituibili nella loro individualità, non nella loro funzione.
78
Perché, infatti, la struttura non ne risenta, è necessario che ciascuna molecola sia al
suo posto, eserciti la sua funzione.
E’ interessante notare che tale distinzione tra struttura cristallina e struttura
amorfa è presa direttamente dalla realtà organica, dal mondo delle scienze della
natura. Con tali termini si definiscono, infatti, nelle scienze della natura, due
differenti strutture dei solidi: i solidi con struttura amorfa e i solidi con struttura
cristallina. I primi sono quelli senza una struttura ordinata, in cui le singole molecole
sono aggrovigliate e non riconoscibili; i secondi sono quelli in cui le molecole sono
disposte ordinatamente, in una maniera seriale, ripetitiva e riproducibile; in cui,
quindi, si può prevedere la posizione delle molecole. In un cristallo, cioè, c’è quella
che si chiama cella elementare del reticolo cristallino, la quale si ripete sempre
uguale indefinitamente e in cui, quindi, sono contenute tutte le informazioni che ci
permettono di descrivere il cristallo di qualsivoglia grandezza. Nella parte, dunque, è
contenuto il tutto. Questo mi sembra di grande aiuto per comprendere il rapporto
Tutto-parte, così come è pensato da Jünger.
Jünger così scrive: La massa è, per sua essenza, amorfa, e perciò è sufficiente
l’uguaglianza puramente teorica degli individui, i quali sono gli elementi che la
compongono. Al contrario, la costruzione organica del XX secolo è una forma di
natura cristallina, e perciò esige che il tipo umano inserito in essa le conferisca
struttura in modo ben diversamente forte e intenso (cit., p.129).
Tale esempio, credo, ci aiuta bene a capire l’idea che Jünger ha della totalità
organica e del rapporto tra le parti e il tutto e della differenza che c’è tra totalità
organica e massa amorfa, intesa come pura somma delle parti disposte in maniera
disordinata.
Fare parte del tutto significa condividerne l’ordine interno. E' questo il caso
dell'organismo vivente, che è molto più della somma delle sue parti e in cui il singolo
organo non è una semplice parte del tutto. Ogni organo, infatti, trae la sua ragion
d'essere, la sua funzione, proprio dalla connessione organica col tutto. E ciò lo si
capisce bene riflettendo sulla differenza che c'è tra un corpo vivente ed un cadavere.
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E, infatti, così scrive Jünger: il corpo comprende più della somma delle sue membra,
mentre il cadavere è uguale alla somma delle sue parti anatomiche (cit., p.14).
Essere portatori della forma significa essere all’altezza del proprio compito.
Soggetto della storia
Artefice di storia non è, dunque, l’individuo ma, a questo punto, non è, in
un certo senso, neanche l’uomo. La storia, appunto, non è opera dell’uomo, ma
della vita, di cui l’uomo non è che lo strumento. Libertà, in questo contesto,
significa essenzialmente riconoscersi come parte del tutto ed assecondare, in un certo
senso, il compiersi del Destino; vivendo, però, quel destino non solo come destino,
appunto, ma come scelta. Abbiamo già letto, a questo proposito, un passaggio
illuminante: “Questo punto di riconoscimento, in cui destino e libertà s'incontrano
come sul filo del coltello, è il sintomo che la partita della vita è ancora in gioco, e
che la vita stessa si concepisce come portatrice di forza storica e di storica
responsabilità (cit., p.55).
Spunti problematici di riflessione
Problematicità di affermazioni di questo tipo che, indubbiamente,
rischiano di giustificare, sotto la parola destino, qualsiasi cosa, qualsiasi atrocità,
e relegano l’azione umana a un “puro attivismo” senza finalità propria; un agire
per l’agire, dunque, in cui l’uomo non incide più sulla storia, ma diventa mero
strumento di essa. Non gli rimane altro che lasciarsi trasportare dalla corrente,
senza vederne né la foce, né la meta, con le quali è in comunicazione solo
mediante intuizioni, visioni non determinabili razionalmente.
Se la distanza, come la maschera, è inizialmente un mezzo per far scomparire
l’individuo, finisce per sacrificare anche l’uomo.
Soggetto, dunque, non è l’uomo ma la Forma. Essa non diviene, non si
realizza, ma E’, è immutabilmente ciò che è, “nessuna evoluzione la accresce o la
diminuisce. Perciò, la storia dell’evoluzione non è la storia della forma, ma tutt’al
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più il suo commento dinamico” (cit., p.75). Il dato storico non è altro che il commento
dinamico della forma. “La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della
Forma” (ibidem).
In quest’ottica, ogni perdita, ogni fine è vista non come una fine, appunto, ma
come il modellarsi di una forma che già c’era, allo stesso modo in cui la parte di
materia che lo scultore toglie via dal blocco di pietra non è visto come una perdita,
ma come una riaffermazione della forma. “E in verità ogni urto tra forze avverse,
per quanto possa essere condotto alla cieca, somiglia a un colpo di scalpello che
scavi in modo sempre più incisivo, da una massa indeterminata, l’uno o l’altro dei
lineamenti di quest’epoca già formati in anticipo” (cit., p.56).
“Abbiamo già mostrato come un processo d’impoverimento sia inconfutabile.
Esso deriva essenzialmente dal fatto che la vita consuma se stessa, come avviene
all’interno della crisalide in cui l’imago dell’insetto consuma il bruco.
Raggiungiamo in tal modo un punto di osservazione dal quale i luoghi della perdita
e della rovina appaiono alla vista come la massa petrosa che salta via dal blocco
durante la lavorazione di una statua. Abbiamo raggiunto un frangente in cui la
storia dell’evoluzione fallisce il suo compito se non viene letta con segno opposto,
cioè da una prospettiva nella quale la forma intesa come l’essere non subordinato al
tempo, determina l’evoluzione della vita in divenire. A questo punto, però,
scopriamo una metamorfosi che ad ogni passo si fa più chiara.” (cit., pp. 110-111).
Ho usato, precedentemente, il termine riaffermazione, a proposito della forma,
termine che probabilmente è improprio, ma non saprei quale usare. Non si può
parlare, infatti, di realizzazione perché la Forma già c’è, non si realizza. In Jünger
non c’è la processualità dinamica che c’è per esempio in Hegel. E lo stesso Jünger, in
una riflessione del 1978, così si espresse in proposito: “non sono hegeliano poiché
non sono amico del progresso. Per me l’universo ha sempre la stessa grandezza. Lo
sviluppo è nell’universo, ma l’universo non si sviluppa. E’ per questo che io, d’altra
parte, non provo maggiore simpatia per l’idea platonica”.
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La dissoluzione dell’individuo borghese prodotta dal tipo umano dell’operaio.
dott. Simona Giacometti
Nelle pagine che analizziamo in questa lezione tornano, in una prospettiva d’analisi
più orientata alla descrizione della fenomenologia della società del XX secolo, i temi
forti sui quali già si è posto in precedenza. Questo anche a conferma della struttura e
del movimento circolare del testo ai quali accennavo nella prima lezione su
L’operaio.
La ridefinizione del rapporto tra parte e tutto nella genesi della totalità organica, la
coincidenza di libertà e necessità in questo nuovo orizzonte, le problematiche
connesse alla concezione jüngeriana della storia e dei concetti di evoluzione /
progresso e metamorfosi.
Dissoluzione dell’individualità borghese: “L’individuo non compare più, come al
tempo dell’assolutismo monarchico, in tutta la sua plasticità, primeggiante sul suo
sfondo naturale, architettonico e sociale” (Ivi, p. 92). Diventa anacronistica ogni
forma di organizzazione sorta sulla base di categorie etiche, sociali o politiche dal
momento in cui “appare evidente che qui non si può parlare più di relazioni tra
individui” (ivi, p. 97).
All’esperienza unica irripetibile ed individuale si sostituisce una chiara e tipica,
univoca entro la quale il singolo è sostituibile nella sua individualità, insostituibile
nella funzione di cui si fa carico. Ad essa corrisponde la progressiva dissoluzione
della massa, intesa da Jünger come “somma, quantità numerabile di individui dotati
di qualità” (Ivi, p. 92), cui si sostituisce una diversa struttura la cui configurazione è
simile “a file di formiche, il cui movimento in avanti non è più a discrezione di
ciascuno, ma segue una disciplina da automi” (ibid.).
Con l’obiettivo di verificare nel concreto della fisionomia della società quanto
espresso teoricamente, Jünger considera come essa abbia perso quella capacità di
assalto che aveva rivelato nelle insurrezioni di piazza della rivoluzione francese o
nelle assemblee politiche organizzate dopo la sua ascesa al potere. Il sintomo più
lampante di questa deficienza è individuabile nella circostanza paradossale per cui la
polizia, che in precedenza era chiamata a sorvegliare la massa raccolta in raduni,
adesso deve assumere il ruolo del suo protettore. La dissoluzione della massa è
altrettanto evidente in considerazione del fatto che elementi d’altra natura incidono
sul corso degli eventi: “Nessuna deliberazione di massa determina l’ascesa anonima
dei prezzi, il tracollo della moneta, le aliquote fiscali, il misterioso magnetismo della
quotazione dell’oro” (ivi, p. 106); nel concreto della prassi rivoluzionaria, d’altra
parte, il tentativo di riversare le masse nelle strade si rivela una strategia assai meno
efficace rispetto all’occupazione dei centri nevralgici delle città sedi di governo
82
“La bipolarità del mondo e del singolo costituisce la felicità e la sofferenza
dell’individuo. Il tipo umano, invece, dispone sempre meno di mezzi con cui isolarsi
dal proprio spazio […]” “…tutta questa vita dai molteplici aspetti è chiusa nella sua
compiuta e isolata totalità, e si prende parte a questo mondo in quanto si è inseriti in
esso, non in quanto ad essi ci si contrappone” (ivi, pp. 131-132). Tra i singoli che
cooperano alla costituzione della totalità organica si stabiliscono vincoli esistenziali
in nome dei quali “quanto più l’individualità si dissolve, tanto più diminuisce
l’opposizione del singolo alla propria mobilitazione” (ivi, p. 134).
In questi passaggi si evince la continuità ideale con i saggi del 1930 e 1934 Die totale
Mobilmachung e Über den Schmerz.
Si tratta di un coinvolgimento totale senza eccezioni, che “si distingue dal teorico
coinvolgimento nel sistema dei diritti universali dell’uomo per il fatto che è
assolutamente pratico ed irrecusabile. Si poteva decidere di essere borghesi oppure
no; ma questa libertà di decisione non è più concessa per quanto riguarda l’operaio”
(ivi, p. 135). L’ordine gerarchico definito dalla sua forma consiste nell’appartenenza
inevitabile al tipo umano in tutto il suo essere, in una modellatura che è poi
l’impronta della forma, la quale si plasma sotto la costrizione di una ferrea regolarità.
“uno dei contrassegni della libertà è la certezza di essere inseriti nel nucleo
germinale del tempo – una splenditi certezza che dà le ali ad azioni e pensieri, e nella
quale la libertà di chi agisce vede se stessa come singolare espressione della
necessità” (ivi, p. 55).
In questo ordine verticale la libertà coincide con la necessità, con l’ubbidienza, è “il
grado in cui l’esistenza del singolo sa esprimere la totalità del mondo in cui è
inserito” (ivi, p.135).
Nell’argomentazione jüngeriana è pregnante la descrizione della fisionomia della
società così come appare nel 1933 a chi la osserva dall’esterno: “Per Ahasvero, che
nell’anno 1933 ricomincia la sua peregrinazione, la società umana ed il suo agire
sono un singolare spettacolo d’insieme” (Ivi, p. 89). Questa figura rappresenta
tradizionalmente l’ebreo errante, l’unico, a giudizio di Jünger, capace di cogliere la
singolarità di questo spettacolo, perché non integrato al suo interno: “Questo
movimento può essere veduto soltanto da occhi capaci di straneamento, da occhi che
sappiano porsi totalmente al di fuori, poiché esso racchiude e circonda, come l’aria
che si respira, coloro che dentro il movimento sono nati…” (Ivi, p. 90).
È in atto un movimento sempre più intenso, minaccioso ed uniforme che procede con
impersonale durezza e sembra impadronirsi di ogni attività in quanto tale per cui
viene meno la tradizionale distinzione tra forze organiche e forze meccaniche; siamo
di fronte alla prefigurazione del linguaggio del lavoro, la cui essenza è individuata
nella meccanicità.
83
Il carattere di lavoro totale si afferma progressivamente sul carattere di lavoro
individuale da intendersi nei termini di un “ procedimento e la modalità con cui la
forma dell’operaio comincia a penetrare nel mondo” (ivi, p. 94). L’uniformità
dell’attività che esprime il medesimo moto originario si evince nella strabiliante
identità di procedimenti colta soltanto da un osservatore esterno: “fonte cui attinge
ogni autentico valore produttivo della nostra epoca” (ibid., p. 95). Nella posizione di
questo specifico obiettivo si annullano tutte le differenze di classe e di stato sociale
ed il fronte della guerra si identifica con il fronte del lavoro.
Indicativo della trasformazione in atto il fatto per cui “non ci si raduna in folla, ma ci
si schiera in filata” (ibid.) e la singolare predilezione per l’uniforme.
Si modifica significativamente la fisionomia del soldato di questa guerra dei
materiali, che perde ogni tratto di individualità per acquisire quelli del tipo e che si
caratterizza per la nitidezza e l’incisività di uno sguardo divenuto metallico. Emerge
la figura del milite ignoto in uno scenario in cui è indifferente la natura distinta di
colui che offre la prestazione rispetto al fatto puro e semplice che il compito in
questione sia assoluto. “in qualsiasi direzione si volga, lo sguardo cade su un lavoro
che viene compiuto in questo spirito di anonimato” (ibid., p. 95). Si configura un
nuovo scenario di guerra sul quale non emerge più nella sua eroica distinzione il
soldato adorno dei contrassegni allusivi al ceto cavalleresco, ma colui che “in
sembianza poco appariscente, maneggia i volanti e le leve delle sue macchine di
combattimento, che attraversa, con maschere e rivestimenti protettivi, zone infestate
dai gas asfissianti, o colui che è chino sulle sue carte topografiche, tra il ronzio dei
telefoni” (ibid.). Si ridefinisce anche il criterio di misura della moralità della guerra
come capacità di realizzare il carattere di lavoro totale per la quale il corpo è soltanto
uno strumento dal quale questo fine supremo riesce ad esigere prestazioni che
superano di gran lunga i limiti posti dall’istinto di conservazione.
Un esempio indicativo in questo senso è il fenomeno della duplice paternità delle
scoperte scientifiche, e non è da escludere neppure il caso in cui la loro origine si
perda addirittura nell’oscurità: “Perciò in quest’ambito neppure le scoperte suscitano
più stupore: esse appartengono ad un ovvio stile di vita” (Ivi, p.132).
È in atto una ridefinizione del rapporto tra i sessi: viene meno l’esperienza amorosa
descritta nella Nouvelle Heloϊse, di straordinaria intensità ma limitata nella sua
durata; si afferma una diversa immagine della natura intesa come spazio di dominio
di “un’etica dell’asetticità, di igiene, monotoni culti solari, sport, educazione fisica”
(Ivi, p. 97).
In questa fenomenologia della società dei primi anni ’30 Jünger vede in atto la
dissoluzione dell’individuo borghese e la genesi di un nuovo tipo umano “il cui
corredo è più uniforme e commisurato ai compiti da svolgere, all’interno di un
ordine definito dal carattere di lavoro totale (ibid.) / “condizione di ordine ferreo”
84
dietro alle quali è leggibile la volontà di formare “una razza” (ibid.), “una stirpe
diversa e attiva in cui si incarna non il diritto universale, ma il dovere totale” (ivi, p.
137). Jünger delinea il processo di definizione di una “stirpe di combattenti che
prende forma proprio nel corso della guerra, lasciando che una dopo l’altra le
battaglie incidessero su di essa sempre più profondo il loro marchio” (ivi, p. 100). In
quest’ottica Jünger assume la centralità di un episodio come l’assalto dei reggimenti
volontari presso Langemark, tanto significativo per la storia dello spirito quanto
irrilevante nella storia militare. La vicenda testimonia quanto ormai i valori eroici di
individui animati da libera volontà, educazione, entusiasmo ed ebbro disprezzo della
morte non hanno alcuna possibilità di affermazione e vittoria sulla “morte
meccanica” inflitta dalla mitragliatrice.
Nel modo in cui la guerra ha plasmato il destino del singolo è evidente il declino
dell’individuo, il crollo del borghese come “portatore dell’idea” (ivi, p.100) di fronte
all’incalzare delle forze della materia. In questi passaggi ritorna costante
l’opposizione tra borghese ed operaio nei termini di un’opposizione tra astratto e
concreto, tra la tendenza a leggere il reale secondo gli schemi esclusivamente logici
del concetto e quella assolutamente alternativa in base alla quale la connessione reale
viene dalla relazione tra sigillo e impronta: se, a proposito dell’operaio Jünger può
affermare che “Nelle vicende che lo attraversano si rivela il massimo grado d’azione
e il minimo grado di perché e di per cosa”e, ancora sullo scenario di guerra “il fuoco
ha finito di ardere tutto ciò che non possiede un carattere di concretezza” (ivi,
pp.100-101), nella definizione dell’individuo borghese parla di “una bizzarra ed
astratta raffigurazione dell’uomo”, di “teorico coinvolgimento nel sistema dei diritti
universali dell’uomo”.
La definizione di un nuovo e superiore ordine è legata da Jünger al convincimento
che la morte dell’individuo non coincide con la fine dell’uomo in generale: alle sue
potenzialità alternative egli riconduce la capacità di stabilire un contatto con nuove
fonti di energia, “ciò che muore è l’individuo come rappresentante di strutture
indebolite e votate al declino. Attraverso questa morte il singolo deve transitare,
finisca o no con lui il suo percorso visibile, ed è bello che egli non aspiri a schivarla,
ma a cercarla nell’assalto” (ibid.).
Questa nuova razza stabilisce un rapporto con la morte diverso da quello che
sperimentava il borghese: il suo situarsi costantemente tra la vita e la morte determina
uno straordinario incremento degli impulsi vitali e spirituali, il potenziamento di
valori non individuali, ma funzionali. “in tale contesto il morire è divenuto più
semplice […]” (ivi, p. 132): il concetto di incidente sviluppato dal tipo umano è in
stretta relazione con il mondo delle cifre e ciò conferisce al destino uno speciale tono
di secca necessità. “si può verificare questo istintivamente quando la morte si fa
vicina in presenza di alte velocità. La velocità produce una specie di sobria ebbrezza,
e ognuno dei corridori dà uno strano miscuglio di precisione e pericolo” (ivi, p. 133).
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Anche lo spazio in cui entra in scena la morte e le armi assumono una nuova
fisionomia:
1. In epoca classica lo scontro tra due persone aveva il carattere di un duello tra
due contendenti dotati di armi portatili;
2. Con l’individuo entra in scena la batteria di grosso calibro.
3. “per il tipo umano il campo di battaglia è il caso particolare di uno spazio
totale: egli perciò si presenta in battaglia con mezzi contrassegnati da un
carattere totale. Sorge così il concetto di una zona di annientamento in cui non
esiste de facto alcuna differenza tra combattenti e non combattenti” (ibid.).
I contesti in cui comincia a delinearsi “la stirpe del XX secolo”, il nuovo tipo umano è
la nuova realtà della costruzione organica in cui è già visibile lo specifico carattere di
lavoro come “categoria e modalità in cui la forma dell’operaio giunge ad esprimersi
in maniera organizzante” (Ivi, p. 107). La caratteristica distintiva della costruzione
organica rispetto alla massa in cui si organizza una pluralità di individui è resa
esplicitamente da Jünger: “A una costruzione organica non si appartiene con un atto
di volontà individuale, ossia esercitando una libertà borghese, bensì mediante
un’effettiva compenetrazione che determini lo specifico carattere di lavoro” (ivi, p.
108).
I primi sentori della affermazione di un nuovo gusto nell’abbigliamento – in
corrispondenza all’affermazione di un nuovo tipo umano – sono evidenti nella
decadenza dello stile individuale che caratterizza già i primi anni del secolo: “non
esiste forse nessun altra epoca in cui appaiono tanto mal vestite e con tanto cattivo
gusto” (ivi, p. 112); questo effetto è ancora più forte allorquando il borghese si veste
nelle occasioni particolari come la domenica poiché gli ordinamenti concreti di cui
esse sono simboli sono ormai decaduti.
Nei contesti in cui progressivamente viene ad affermarsi il carattere di lavoro totale
all’abito borghese subentra l’uniforme dalle monotone sfumature che riproducono il
colore del terreno su cui si combatte. Nell’ordine proprio della costruzione organica,
l’uniforme del soldato è solo una variante particolare dell’uniforme da lavoro il cui
compito è di sottolineare il tipo umano.
Coerentemente alla logica sottesa alla scelta dell’uniforme, la fisionomia del nuovo
tipo umano si caratterizza per la rigidità del volto confermata anche dalla frequenza
con cui si ricorre alla maschera (maschera antigas, maschera protettiva per il lavoro,
il casco) e l’armoniosità dei corpi.
86
L’evoluzione del gusto artistico offre testimonianze concrete del processo in atto:
paradigmatica la trasformazione del teatro. Nel dramma classico, la persona
riproduceva sulla scena l’unità armonica del mondo degli stati sociali e delle
corporazioni. L’affermazione dei principi universali e dell’apparente dominio
borghese segna la perdita di questa antica unità, resa evidente dalla presenza di una
transenna che si innalza tra palcoscenico e platea.
La rottura della piece classica si materializza nella comparsa del grande attore che
altri non è se non l’individuo borghese; la sua apparizione sulla scena significa
l’affermazione del primato dell’interpretazione sulle tradizionali regole di recitazione
ed è indicativo in questo senso che la critica teatrale sia identificabile tout court con il
discorso critico sugli attori. Rispetto al contenuto delle rappresentazioni,
coerentemente con la logica che presiede ad ogni sua specifica manifestazione, il
teatro borghese mette in scena l’esperienza unica, “l’esperienza del romanzo
borghese, il quale è il romanzo di una società di tanti Robinson” (ibid., p. 120).
La trasformazione radicale è compiuta nel momento in cui ci si interroga sulla natura
del mezzo di comunicazione più adatto alla rappresentazione del tipo umano
individuato nel cinema: l’attore cinematografico è chiamato a riprodurre il preciso
ritmo della vita, la sua evidenza piuttosto che quegli aspetti per cui essa emerge nella
sua unicità irripetibile. “nel cinema non esistono rappresentazioni uniche ed
irripetibili […] un film viene proiettato contemporaneamente in tutti i rioni della
città, e la proiezione si può ripetere a piacere con una precisione matematica spinta
fino al secondo e al millimetro” (ibid., p. 122) ed il suo pubblico non è costituito da
una cerchia di esteti.
Nello spazio dominato dalle forme cade la validità del concetto in generale e di
quello di evoluzione in particolare; l’avvento del tipo umano presuppone la morte
dell’individuo “soltanto il pieno sfacelo il marasma delle strutture lascia ad un altro
campo di forze la possibilità di rivelarsi” (ibid., p. 125).
Non c’è evoluzione: l’avevamo già verificato fin dall’inizio quando Jünger denuncia
la chiara matrice borghese del tentativo di trasferire i suoi modelli nei moti
dell’operaio considerandolo il rappresentante di una nuova classe, l’esponente di una
nuova società, l’organo dell’economia. Ma “se si vuole osare un nuovo attacco,
questo può essere sferrato solo in direzione di nuovi fini” (ibid., p. 31). È questa la
ragione per cui, al di fuori di qualsiasi prospettiva evoluzionistica, “l’energia
essenziale del tipo umano è richiamarsi ad un altro presente, a un altro spazio, ad
un'altra legge, tutte realtà il cui centro è la forma” (ibid., p. 125). Lo strumento più
efficace attraverso il quale condurre questa rivoluzione è dato dalla pura esistenza,
dalla mera presenza della forma.
Jünger verifica un elemento di forte distinzione tra la gerarchia dell’individuo e
quella del tipo umano di cui è sintomatico il richiamo a valori diversamente orientati:
1. Definizione dell’identità dell’io del tipo umano si compie nella ricerca dei
connotati che si collocano al di là dell’esistenza del singolo → sviluppo di una
87
caratterologia scientifica, di una sorta di studio delle razze /rinascita
dell’astrologia in luogo della fisiognomica.
2. desiderio di uniformità nel tempo → predilezione per il ritmo
3. centralità della cifra che sostituisce il nome come criterio di identificazione di
un singolo che non è più individuo (inserimento nei codici numerici dell’elenco
telefonico, valore di prova decisiva attribuito alla cifra dalla statistica come è
evidente nei test).
La tecnica come mobilitazione del mondo: il carattere di lavoro totale
(dott. Claudia Giordano)
Introduzione e definizione del tema
Abbiamo visto fino ad ora come nell'Operaio Jünger descriva il declino dell'epoca
dell'individuo borghese e come la prima guerra mondiale sia stata la prima devastante
espressione di questo declino: «Lo scoppio della prima guerra mondiale traccia il
largo e rosso frego conclusivo sull'ultima pagina di quest'epoca» (E. Jünger,
L’operaio, tr. it. di Q. Principe, nuova ed., Parma 2000, p. 51). Nella prima guerra
mondiale si è consumata l'estinzione di una particolare specie di uomini (i soldati
eroi, quelli tesi all'assalto, quelli che pretendono che la guerra sia decisa dalle loro
azioni), si è consumata la morte «dell'individuo come rappresentante di strutture
indebolite e votate al declino» (L’operaio, p. 100).
Ieri abbiamo anche visto come quando la specie umana dell'individuo muore, chi
resta al fronte, chi combatte in trincea è il singolo in quanto espressione del tipo
umano, ma il singolo nella sua tipicità non può morire nelle trincee, perché è
sostituibile, intercambiabile.
Jünger scrive che il «dissidio cosmico tra individuo e tipo umano che si è combattuto
a Langemark porta con sé i simboli di un'era tecnica» (vedi L’operaio, p. 100).
Quindi la prima guerra mondiale ha in sé i simboli dell'era tecnica: il tema di oggi è
appunto quello della tecnica, come Jünger la intenda e come la comprensione del
problema della tecnica ci consente di capire in modo definitivo il carattere di lavoro
totale che solo corrisponde a quest'epoca.
Analisi del tema della tecnica nell’Operaio
1. Jünger spiega in che modo intende la tecnica definendola, come aveva già fatto con
la figura dell’operaio, in modo negativo, e mostrando la scarsa utilità ancora una
volta delle categorie borghesi per comprendere l’essenza della tecnica:
L'errore principale che Jünger attribuisce alla mentalità borghese consiste nel
tentativo di vedere l'uomo sempre in contatto immediato con la tecnica: l'uomo o è
creatore o è vittima del processo tecnico.
Al contrario, secondo Jünger, «l'uomo è legato alla tecnica indirettamente e non
direttamente", perché "la tecnica è il modo e la maniera in cui la forma dell'operaio
mobilita il mondo» (L’operaio, p. 140). Questo significa: a) che esiste un rapporto
specifico tra l'uomo e la tecnica (che il concetto di mobilitazione descrive) e che solo
88
nella misura in cui permane questo rapporto la tecnica è adeguata alla forma
dell'operaio e non lo domina, ma resta a sua disposizione (in questo modo si esce
dall'inevitabile aporia della concezione borghese dell’uomo come vittima-creatore del
processo tecnico); b) ogni rappresentante di rapporti e di vincoli di ogni tipo, la cui
sede è estranea al lavoro, non è coinvolto nel rapporto che l'operaio ha con la tecnica,
poichè la tecnica esclude, aggredisce, distrugge tutti i rappresentanti di rapporti che
sono estranei all'ambito del lavoro.
Più avanti Jünger scrive che la forma dell'operaio «promuove la Mobilitazione
Totale, così come distrugge tutto ciò che ostacola la mobilitazione » (L’operaio, p.
141)  l'era tecnica si compie necessariamente attraverso una fase distruttiva che
Jünger descrive.
È necessario a questo punto chiarire il concetto di mobilitazione totale, per vedere
proprio come la guerra sia l'espressione di questo potere inizialmente distruttivo della
tecnica rispetto al mondo borghese.
In La mobilitazione totale (1930), il saggio che precede L'operaio Jünger riferisce
questo termine ad un cambiamento avvenuto in ambito militare. Ancora una volta, la
prima guerra mondiale ha segnato un punto di svolta decisivo in un processo che
Jünger descrive attraverso due passaggi: dalla mobilitazione parziale si è passati a
quella generale, e poi da quella generale si è passati alla mobilitazione totale.
Vediamo come.
Dalla mobilitazione parziale a quella generale: Finché le guerre hanno richiesto alle
nazioni un dispiegamento minimo di truppe e finché questo sforzo ha lasciato fuori la
popolazione si è trattato di mobilitazione parziale. La mobilitazione parziale
rispondeva anche all'essenza della monarchia, che rifiutava di ammettere che alla
preparazione militare possano partecipare anche quelle formazioni astratte che sono
l'intelligenza, il denaro, il popolo, cioè le forze nascenti della democrazia nazionale.
Ma questo era un processo ormai inevitabile: la difesa armata del paese non poteva
restare obbligo e privilegio delle caste militari.
Il cambiamento si è avuto già con la Rivoluzione francese che ha richiesto per la
difesa nazionale la partecipazione di tutti i cittadini: con l'introduzione della
coscrizione obbligatoria si è passati alla mobilitazione generale.
Dalla mobilitazione generale alla mobilitazione totale: Solo quando si è reso
indispensabile allargare la partecipazione all'insieme delle volontà e degli strumenti, a
tutti, civili e soldati, uomini e donne (nella prima guerra mondiale, per la prima volta,
il lavoro delle donne nelle fabbriche sarà determinante e sostituirà il lavoro degli
uomini impegnati al fronte), solo allora si può parlare, per Jünger di mobilitazione
totale. È la guerra dei materiali, che vede uno di fronte all'altra non più grandi eserciti
ma grandi potenze industriali, infiniti sforzi produttivi: il fronte della guerra e il
fronte del lavoro sono identici perché è solo grazie all’attività incessante che gli
operai svolgono nelle fabbriche che i soldati possono continuare a sopravvivere in
trincea, perché è la disponibilità delle nazioni ad uno sforzo produttivo infinito a
determinare la sorte dei combattimenti. La stessa rappresentazione della guerra è
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cambiata: non è più soltanto un'azione armata ma un gigantesco processo di lavoro,
perché non c'è più nessuna attività che non sia destinata all'economia di guerra.
«La mobilitazione totale, più che compiere cose, si realizzerà, essendo l'espressione,
in tempo di pace come in tempo di guerra, di un'esigenza segreta e costrittiva alla
quale ci sottopone questa era di masse e macchine. Ogni esistenza individuale
diventa quindi, senza che il minimo equivoco possa più conservarsi a lungo,
un'esistenza da Operaio, alla guerra dei cavalieri, a quella dei sovrani, succede la
guerra dei lavoratori - e il primo grande confronto del XX secolo già ci ha fornito
uno scorcio di quelli che ne sarebbero la struttura razionale e l'impietoso carattere »
(E. Jünger, La mobilitazione totale, in M. Decombis, Ernst Jünger. L'«ideale nuovo»
e la «mobilitazione totale», Edizione del Tridente, 1981, p. 176).
2. La forma dell'operaio, dovendo promuovere la mobilitazione totale, deve
distruggere ciò che la ostacola: «l'epoca volta al futuro divora l'epoca declinante»
(L’operaio, p. 141).
Che cosa si estingue necessariamente nell'epoca della mobilitazione totale?
Si estinguono le monarchie nazionali, le antiche istituzioni statali, che sono crollate
«come castelli di carte» (L’opeario, p. 142) per i motivi che abbiamo già visto sopra
parlando della mobilitazione totale; si estingue la casta aristocratica che ha
conservato, anche nell'epoca della coscrizione obbligatoria il suo esclusivo valore
militare perché, come abbiamo più volte visto nel corso delle lezioni, il borghese non
è adatto per sua natura alla guerra, perciò si fa rappresentare da una casta di guerrieri,
ma questa casta non è più capace di corrispondere alla nuova natura della guerra,
come guerra dei materiali.
Dopo la guerra, in tempo di pace, è ormai chiaro che la condotta di vita borghese non
è più possibile, infatti «l'elementare si è insinuato nello spazio vitale» (L’operaio, p.
143) e solo l'operaio sa stabilire un rapporto con questa nuova forza. Si estingue
inoltre la fede cristiana, infatti tutti i tentativi che la Chiesa ha compiuto per parlare il
linguaggio della tecnica sono solo un mezzo per accelerare il suo declino, nel
processo di secolarizzazione. Esempio lampante è la Sagrada Famiglia: anche le
chiese si vogliono costruire con i mezzi della tecnica moderna, cioè con i mezzi
tipicamente anticristiani, dimostrando una falsità che è evidente sin nell'ultimo
mattone, perché è completamente assurdo edificare ancora simboli dell'eterno. La
Sagrada Famiglia è «un mostro romantico» (L’operaio, p. 168).
Si è estinta la «religione popolare del XIX secolo, cioè l'adorazione del progresso»
(L’operaio, p. 145). La tecnica è vista dal borghese come strumento del progresso,
sempre riconducibile ad un piano di compiutezza razionale ed etica. In nome della
ideologia del progresso il mondo borghese ha giustificato l'uso delle armi più
devastanti: «la violenza delle armi è solo un incidente deplorevole e del tutto
eccezionale, come un mezzo per addomesticare barbari non civilizzati dal
progresso» (L’operaio, p.146), si dice che il loro uso serve a liberare i popoli, ma
quello che hanno prodotto «non è stato un ordine universale ma una nuova
distribuzione dello sfruttamento» (L’operaio, p. 146). Questo ha reso evidente tutta
l'assurdità dei provvedimenti, degli armistizi tesi a mantenere l'ordine e a difendere
90
l'autodeterminazione dei popoli ( il riferimento esplicito è alla prima guerra
mondiale, alla Società delle Nazioni, alle durissime riparazioni di guerra imposte alla
Germania). Ma il «dominio di questi negoziatori, diplomatici, avvocati e affaristi è
solo apparente» perché ovunque nel mondo scoppiano guerre che prima o poi
faranno saltare in aria «tutto questo polverume»; e se la Germania ancora non c'è
riuscita, è solo perché non ha avuto «una classe dirigente capace di parlare il
linguaggio elementare del comando» (L’operaio, pp. 146-7).
Dunque un intero mondo è in declino: la rivoluzione che è iniziata con la prima
guerra mondiale e che è proseguita in tempo di pace è così profonda perché ha
raggiunto anche le forme di vita più originarie e primitive. L’esempio che fornisce
Jünger è quello del contadino; infatti la resistenza che egli tenta di opporre alla
tecnica è vana, la libertà che i contadini rivendicano non è più possibile: «Il podere
che viene lavorato con le macchine e fertilizzato con l'azoto artificiale delle
fabbriche non è più lo stesso podere di prima. Non è vero perciò che l'esistenza del
contadino è atemporale e che i grandi mutamenti passano sopra la zolla come il
vento e le nubi» (L’operaio, p. 149).
3. Mentre ci sono tutti i sintomi di un inevitabile tramonto dell'epoca borghese, dopo
la prima guerra mondiale «i simboli della tecnica hanno raggiunto i più lontani
angoli del globo terrestre (…). Dove il linguaggio di questi simboli, tutto aderente ai
fatti, fa il suo ingresso, là viene meno l'antica legge della vita; essa viene respinta
dalla realtà nella sfera romantica - ma occorrono occhi speciali per vedere qui più
che un processo di puro annientamento» (L’operaio, pp. 143-4)
È questo un passaggio cruciale: sotto le rovine del vecchio mondo si nasconde una
nuova possibilità di vita, e l'annientamento, la distruzione del vecchio mondo che
Jünger sta descrivendo non è che la fase di transizione. L'annientamento, la
distruzione sono soltanto ciò che appare in superficie. Nella prima guerra mondiale si
è mostrato «un senso che nessun prodigio di delucidazione è riuscito a dominare »
(La mobilitazione totale, p. 192). Di questo senso è segno «l'entusiasmo dei volontari
in cui risuonò potentemente la voce del daimon tedesco e si allearono il disgusto dei
vecchi valori e il desiderio incosciente di una nuova vita ». (La mobilitazione totale,
p. 192).
Ma occorrono occhi speciali per vedere ciò che c'è oltre questo processo di
distruzione. Occorre quella nitidezza della vista di cui parlava nella prefazione
all’Operaio del 1932. Non dobbiamo farci ingannare, per Jünger, dal paesaggio da
officina che domina le nostre città (L’operaio, p. 154). Lo spettacolo delle nostre città
ferisce lo sguardo, perché tutto è ancora mutevole, tutto ci sembra che venga prodotto
per essere superato. Non c'è niente di stabile, nell'architettura, nel modo di vivere, nel
lavoro (che è sempre parziale perché sono variabili i mezzi). Le città con «i loro fili
telegrafici e i loro gas di scarico, con il loro rumore e la loro polvere, con le loro
innovazioni che ogni dieci anni trasformano completamente il loro volto, sono
gigantesche officine di forme» (L’operaio, p. 154). Il paesaggio è ancora privo di
forma, è segno che il dominio della tecnica non ha ancora raggiunto il suo assetto
definitivo. «Ciò che manca alle opere che edifichiamo è proprio la forma, è la
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metafisica (…). Viviamo in uno strano periodo nel quale non c'è più domino e non c'è
ancora dominio» (L’operaio, p. 169).
Tuttavia si è in qualche modo già entrati nella «seconda fase del processo tecnico»
(L’operaio, p. 169), quella costruttiva che segue la distruzione. Per descrivere il
nuovo assetto tecnico del mondo (per descrivere cioè «le forme di un mondo
trasformato», che era l'intenzione espressa nella prefazione del 1932) occorrono
occhi speciali. Jünger “prevede” che cosa accadrà quando la tecnica avrà raggiunto il
dominio planetario. Quell'assetto planetario lo descrive in termini di perfezione.
Perché? La tecnica, si è visto, non è lo strumento del progresso perciò la sua
perfezione non è il compimento di un processo di evoluzione, non può esserlo per
Jünger. A noi sembra che ci sia anarchia perché continuiamo a pensare che ogni cosa
sia destinata ad essere superata all'infinito, perché crediamo ad un'evoluzione assoluta
(L’operaio, p. 153), alla possibilità di infiniti modi di essere. Ma non ci rendiamo
conto che proprio l'esistenza dell'infinito dipende dall'impotenza dell'intelletto, dalla
sua incapacità di concepire grandezze superiori al contesto spaziotemporale. «Ciò che
l'intelletto non vede è il fatto che questo infinito, questo tormentoso “che cosa viene
poi?” è stato creato unicamente da esso» (L’operaio, p. 152).
La perfezione della tecnica non fa pensare ad un'ulteriore evoluzione, essa esprime
non infiniti ma un modo d'essere determinato:
«La perfezione della tecnica non è altro se non uno dei segni destinati a connotare il
movimento conclusivo della Mobilitazione Totale in cui siamo coinvolti » (L’operaio,
p. 158)
L'ordine della perfezione della tecnica che, ancora una volta, non è il termine ultimo
di un progresso, non determina il progresso, perché «nessuna evoluzione è in grado
di trarre dall'essere più di quanto in esso sia contenuto » (L’operaio, p. 153), è un
ordine invariabile che ha fatto subentrare ad «uno spazio dinamico e rivoluzionario
uno spazio statico e sommamente ordinato» (L’operaio p. 159).
4. Così come il modo di pensare borghese si illude di poter ricondurre il movimento
della tecnica a quello del progresso, di usare la tecnica ai fini di un progresso
razionale e morale (e nella prima lezione Simona ci ha mostrato come il culto della
razionalità e della moralità sia lo strumento che il borghese utilizza per difendersi
dall'irruzione dell'elementare, del pericolo dal proprio spazio vitale), questo tipo di
logica induce a pensare alla tecnica come ad una forza neutrale. Ancora una volta
siamo di fronte ad un'apparenza: «La tecnica non è dunque affatto una forza
neutrale, non è un serbatoio di mezzi efficaci o comodi dal quale una qualsiasi delle
forze tradizionali possa attingere a sua discrezione. Proprio dietro quest'apparenza
di neutralità si cela piuttosto la misteriosa e seducente logica con cui la tecnica è
disposta a mettersi al servizio degli uomini. Questa logica si fa sempre più lampante
e irresistibile in proporzione all'impulso con cui lo spazio del lavoro guadagna
totalità» (L’operaio, p. 148)
Solo quando la tecnica avrà conquistato l'universo sarà possibile un dominio totale
sulla tecnica stessa, solo quando lo spazio e il tempo del lavoro saranno diventati uno
spazio e un tempo totale. Ma il mondo si è già avviato a questa unificazione dello
spazio operata dalla tecnica. La tecnica mobilita il mondo perché non lascia nessuna
92
energia, umana, naturale, a riposo. La tecnica è linguaggio, non distrugge solo i
simboli del vecchio mondo, ma ha dei simboli propri. La forza di questo linguaggio
consiste nel fatto che esso è comprensibile a tutti, i suoi segni e i suoi simboli sono
comprensibili in virtù della loro semplice esistenza. Quello della tecnica non è tanto il
linguaggio che funge da 'traduttore' per la comunicazione globale, ma è «l'unica
lingua parlata da tutti perché immediatamente comprensibile» (Bonesio, Resta,
Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell'era dei Titani, Mimesis, Bologna 2000, p. 93).
È un unico stile che si diffonde su scala planetaria, che si esprime nell'abbigliamento,
nel trucco delle donne. Anche l'arte deve esprimere la totalità del modo in cui viene
pensata la vita. Tutto diventa materia dell'arte.
5. Solo l'operaio può esercitare il dominio della tecnica, solo l'operaio è all'altezza di
quello stile e di quel linguaggio. Alla fase di distruzione, dell'anarchia apparente, del
paesaggio da officina segue una fase di «ordine reale e visibile, e ciò avviene quando
giunge al dominio quella razza che sa parlare il nuovo linguaggio non come
strumento puramente intellettuale, come tramite di progresso, di utilità, di comodità,
ma come linguaggio elementare» (L’operaio, p. 151).
Questa razza, che per Jünger non ha assolutamente un carattere biologico, è quella
dell'operaio. Solo l'operaio è in grado di padroneggiare le forze che sono state
sconsideratamente scatenate, esercitando un dominio sulla tecnica in modo tale da
non esserne dominato. Solo l'operaio usa la tecnica (la tecnica è dunque un mezzo) e
la mette al suo servizio.
Il dominio dell'operaio è il regno del lavoro totale, che ha investito anche il mondo
della natura, gli animali, le piante come un processo eterno e universale : il lavoro è
totale quando «non c'è un solo atomo che non sia al lavoro» (TM, p. 89)  Cade la
distinzione tra mondo organico e mondo inorganico, tra natura e tecnica, come era
caduta la distinzione tra città e campagna: «l'ingresso nel mondo della forma
modifica totalmente la vita, e non soltanto nelle sue parti » (L’operaio, p. 211):
l'uomo si sente tutt'uno con i propri mezzi, perché quella contrapposizione e ostilità in
cui fino ad ora era stato concepito il rapporto con i mezzi era segno di una
«mancanza di totalità» (L’operaio, p. 211). Ma «questa distinzione tra meccanico e
organico secondo piani di valore è uno dei connotati dell'esistenza indebolita, la
quale soggiace agli assalti di una vita che si sente tutt'uno con i propri mezzi in virtù
di quell'ingenua sicurezza con cui l'animale si serve dei propri organi » (L’operaio,
p. 211).
Il carattere totale del lavoro risiede nel suo poter inglobare tutte le aspirazioni umane,
è l'espressione più completa della vita ( e la vita è completamente fusa con i mezzi di
cui dispone). Lo spazio investito dall'azione dirompente dell'operaio assume una
configurazione unitaria, planetaria.
È interessante l'osservazione che fanno Caterina Resta e Luisa Bonesio, studiose di
Jünger, sulla differenza tra l'operaio di Marx e l'operaio di Jünger, per comprendere il
carattere radicale, totale appunto del lavoro: «se l'operaio marxiano, pur nel suo
essere rappresentante di una determinata classe, incarnava tuttavia il desiderio di
riappropriazione di sé del genere umano - da cui il carattere internazionalista del
movimento rivoluzionario che avrebbe dovuto affermarsi a livello mondiale - le
93
istanze universalistiche e mondializzanti dell'operaio jüngeriano sono certamente
ancora più radicali e cogenti. Avendo abbandonato ogni residuo 'ideologico', questo
operaio si mostra infatti come il rappresentante di una nuova umanità che non ha più
crediti né bandiere, perché ha riconosciuto nella tecnica quella potenza primordiale al
cui servizio è necessario mettersi per esercitare un dominio su scala planetaria. La
liberazione del lavoro non si tradurrà nella ricerca di un lavoro disalienato e tanto
meno nell'utopia di una finale liberazione dal lavoro: l'obiettivo finale dell'Operaio è
piuttosto quello di riconoscere nel carattere totale del lavoro l'insuperabile orizzonte
in cui esplicare il proprio dominio» (Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell'era dei
Titani, cit., p. 85).
Insuperabile orizzonte, appunto. Non c'è altro oltre il lavoro, non c'è più nessuna
dimensione della vita che possa sottrarsi al lavoro. La mobilitazione totale, ha
avvertito Jünger, ha cancellato tutto ciò che la ostacolava. La fase distruttiva della
mobilitazione ha sgomberato la vita da tutto quello che poteva impedire l'avanzare
del nuovo. Dopo non c'è altro. Non è nemmeno possibile pensare ad un dopo, perché
altrimenti ritorneremmo a pensare nei termini di progresso e regresso, di evoluzione.
La forma dell'operaio, ha osservato Agostino Carrino, si fa promotrice di «un nuovo
dominio, un nuovo ordine, di una nuova comunità in grado di restituire il senso non
del progresso storicistico del mondo (oggi messo in crisi e caduto in discredito) ma
della struttura e dell'orizzonte permanente, metapolitico e metastorico delle cose» (A.
Carrino, L'Operaio di Ernst Jünger tra tecnica e dolore, «Democrazia e diritto»,
1993, n. 1, pagg. 169-182. p. 181)
6. L'accettazione dell'ordine, l'identificazione nella totalità organica è la massima e
unica libertà possibile. La razza superiore di cui l'operaio, come tipo umano, è
rappresentante, accetta pienamente l'uniformizzazione, l'incorporazione nella totalità
organica e nell'ordine gerarchico, accettare l'uniformizzazione, anzi provocarla
rappresenta un reale atto rivoluzionario rispetto alle apparenti rivoluzioni borghesi.
È solo in questo modo che il lavoro totale soddisfa autenticamente il desiderio di
libertà e la volontà di forza, che invece il mondo borghese ha concepito solo in
maniera astratta. Solo prendendo parte ad un'attività che si dispiega in modo del tutto
corrispondente alla forma dominante, alla forma dell'operaio si può avere il
sentimento della libertà. Bisogna dunque essere all'altezza dei mezzi, e «servirsene
come di strumenti naturali e dati in partenza per dominare il mondo e dare ad esso
forma» (L’operaio, p. 212).
«Non è protestando contro la sorte, bensì accettando il destino, che egli (l'operaio)
potrà liberarsi. L'avvento dell'operaio si farà unicamente attraverso lo stabilirsi del
regno del lavoro». (M. Decombis, Ernst Jünger. L'«ideale nuovo» e la «mobilitazione
totale», Edizione del Tridente, 1981, p. 143).
Per Decombis è nel descrivere in positivo il dominio dell'operaio, nell'individuare nel
tipo umano il nuovo dominatore del mondo che Junger passa dal piano metafisico a
quello politico. Fino a quando dice che sotto le rovine del vecchio mondo si nasconde
una nuova possibilità di vita, ma che essa va considerata secondo la forma, è rimasto
94
nei limiti della «speculazione pura». Quando però sostiene che è solo l'operaio a poter
compiere una simile rivoluzione passa dal piano teorico a quello politico. È il
rappresentante di un nuovo Stato. Ma questo nuovo Stato non ha niente a vedere con
le strutture borghesi, si estende dal piano nazionale a quello internazionale, anzi
planetario. Lo vedremo nel prossimo incontro.
Dalla democrazia liberale alla democrazia del lavoro: lo Stato planetario.
dott. Simona Giacometti
Abbiamo fin qui analizzato i passaggi in cui Jünger teorizza e verifica nel concreto della
fisionomia della società del XX secolo la progressiva dissoluzione dell’individualità borghese.
Nella scorsa lezione Claudia ha chiarito la specifica definizione jüngeriana di tecnica come “il
modo e la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo”.
In quest’ultimo intervento è necessario sviluppare un altro passaggio centrale della
riflessione di Jünger, non solo nelle pagine de L’operaio ma nel suo intero percorso
di pensiero. Nella conversazione con Gnoli e Volpi del 1995 accenna alla sua idea di
uno Stato mondiale: “Lo stato mondiale è il punto verso il quale tende
l’organizzazione politica della umanità. Esso sancirà sul piano politico la
globalizzazione già avviata dalla tecnica e dall’economia planetarie. Anche senza
eliminare gli Stati nazionali, lo Stato mondiale ne assorbirà il potere centrale. La
tecnica, in quanto fenomeno universale, cosmopolitico, che spinge inesorabilmente
alla globalizzazione, prepara lo Stato mondiale e, anzi, in una certa misura lo ha già
realizzato. Lo Stato mondiale ne è il corrispettivo politico” (A. Gnoli – F. Volpi, I
prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano, 1997, pp. 66-67).
L’unificazione tecnica del mondo richiede necessariamente un ordinamento politico
che possa corrisponderle.
Già precedentemente abbiamo avuto modo di chiarire come per il borghese “il
pericolo d’aggressione è rappresentato dalla mera esistenza di quei modi non
borghesi di vivere” (E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, a cura di Q. Principe,
Parma, 1991, p. 46). Su quest’idea l’autore ritorna quando chiarisce che il mero fatto
dell’esistere e dell’aggregarsi di una determinata stirpe d’uomini rappresenta una
congiura rivolta contro lo Stato in un senso specifico e cioè “non per cercare di porre
barrire difensive alla libertà contro lo Stato, ma nel senso che un nuovo e diverso
concetto di libertà, di cui dominio e servizio sono sinonimi, deva fondersi e farsi
tutt’uno con lo Stato inteso come il più importante e il più profondamente incisivo
strumento di trasformazione” (Ivi, p. 217).
Ancora vi richiamo ad un concetto già illustrato in precedenza: la società come spazio
borghese per eccellenza entro il quale l’uomo si struttura come individuo
nell’esercizio dei suoi diritti. Si tratta di un ordine orizzontale tipico del contratto
sociale in cui l’individuo entra con gli altri contraenti – titolari degli stessi diritti- in
una relazione che in qualsiasi momento può decidere di interrompere. Caratteristica
95
del borghese in relazione alla sua idea di spazio sociale la “preoccupazione del
borghese di vedere lo Stato, che si fonda su una gerarchia, come una società retta
dal principio basilare dell’uguaglianza e fondata mediante un atto della ragione”
(Ivi, p. 47). In uno scenario così profondamente modificato dall’affermazione del
carattere di lavoro totale, anche l’immagine dello Stato deve essere di tutt’altra natura
rispetto a quella elaborata dal borghese.
Jünger, teorizzando una distinzione di rango tra il borghese e l’operaio, ha chiarito fin
dall’inizio che “se si vuole osare un nuovo attacco, questo può essere sferrato solo in
direzione di nuovi fini” (ibid., p. 31). È questa la ragione per cui, al di fuori di
qualsiasi prospettiva evoluzionistica, “l’energia essenziale del tipo umano è
richiamarsi ad un altro presente, ad un altro spazio, ad un'altra legge, tutte realtà il
cui centro è la forma” (ibid., p. 125); la prima tappa dell’affermazione di
un’immagine nuova dello Stato richiede quindi il radicale superamento della
precedente.
Disperati tentativi di resistenza da parte del borghese che, se in precedenza appariva
come il beneficiario di una cosiddetta rivoluzione, ora assume tutte le caratteristiche
dello scudiero della restaurazione che propugna “ “rivoluzionarie formulazioni”, la
monarchia legittima e l’articolazione “organica”come scopi della politica interna,
nonché un’intesa con tutte quelle forze dalla cui esistenza è assicurato il perpetuarsi
del cristianesimo o dell’Europa, e quindi anche del mondo borghese” (ivi, p. 219).
L’esito della prima guerra mondiale è riconoscibile nella liquidazione dei grandi
imperi e nell’affermazione delle democrazie nazionali che disponevano della
fisionomia e della costituzione adatte a ciò che era richiesto dallo schieramento
bellico in campi contrapposti (esempio della Russia che, “sebbene schierata al fianco
delle potenze vincitrici, non poteva a nessun patto vincere la guerra” [ivi, p. 221]).
L’affermazione del modello democratico-liberale fu evidentemente lo scopo della
guerra anche in considerazione del fatto che, laddove - negli Imperi - non era già
realizzato, s’impose per via rivoluzionaria: “La guerra suscita rivoluzioni, e i
rapporti di forza modificati dalle rivoluzioni mettono di nuovo in moto azioni di
guerra” (ivi, p. 222).
Nonostante la loro sopravvivenza al conflitto, è evidente nella struttura delle
democrazie nazionali l’assenza di un autentico ordine confermata anche dalla
circostanza per cui “anche nel comportamento di uno Stato nei confronti dell’altro
viene alla luce quell’elemento anarchico individualistico che è proprio di ogni
istituzione ispirata al liberalismo” (ibid.). Questa diagnosi non può sorprenderci se
pensiamo alla dinamica – già illustrata in precedenza - per cui il borghese,
respingendo dal proprio spazio tutto ciò che non può essere disciplinato a partire dai
principi di moralità e razionalità, ne rimane vittima perché proprio con la stessa
intensità con cui egli esclude l’elementare all’esterno, questo fa irruzione nel cuore
dell’ordine borghese.
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“La fine della guerra mondiale non ha saputo dare al mondo un’autentica forza di
dominio” (ibid., p. 223) nel momento in cui l’estensione dei diritti universali
dell’uomo e del principio di autodeterminazione dei popoli a chiunque avesse
partecipato alla crociata della civiltà umana contro la barbarie metteva in moto
energie ingovernabili (emancipazione dei popoli di colore). Lo scenario descritto è
tanto più allarmante in quanto la democrazia liberale si vede aggredita con i suoi
stessi metodi: “C’è una grande differenza tra il vedersi contrapposti principi ribelli,
caste di guerrieri, popoli di montanari e bande di predoni, oppure avvocati che
hanno ricevuto la loro educazione in università europee, membri del parlamento,
giornalisti, uomini insigniti del premio Nobel [….]” (Ivi, 224).
Nazionalismo e socialismo appaiono quindi agli occhi di Jünger disfunzioni del
sistema borghese prodotte al suo interno. Solo in teoria il socialismo ha un carattere
internazionale; l’atteggiamento delle masse di fronte alla prospettiva di un intervento
in guerra ha dimostrato piuttosto che “non esiste più alcuna sostanziale struttura
articolata dalla quale il singolo sia assorbito” (ivi, p. 227) e che il socialismo opera
una mobilitazione di cui nessuna dittatura poté mai osare di farsi la più pallida idea.
Si apre a questo punto la questione relativa alla natura di questo socialismo a cui
Jünger guarda come ad una disfunzione del sistema borghese. Individuato il principio
del socialismo nell’opposizione contro una certa specie di società articolata, quale
che sia tale articolazione, l’autore fa valere la norma per cui “esso è tanto più vitale
quanto meno l’avversario è incline a concessioni” (ivi, p. 230); in un contesto sociale
così frammentato in singolarità disarticolate, l’obiettivo di iniziative ispirate al
principio del socialismo è limitato alla semplice sostituzione delle forze liberali in un
sistema che rimane borghese nella sua struttura essenziale: “In tal modo gli spetta
non più il ruolo di avvocato difensore dei sofferenti, ma l’ingrato ruolo del loro
guardiano” (ibid.). È evidente a questo punto che il socialismo di cui parla Jünger nei
termini di una disfunzione del sistema borghese altro non è che la socialdemocrazia
che nella sostanza ne riconferma la logica di base.
Lo scenario di totale anarchia che si profila all’ebreo errante conferma come la
strategia con cui il borghese esclude l’elementare dal suo spazio vitale procuri una
sicurezza del tutto illusoria, “uno spazio giuridico puramente teorico tra le cui maglie
si infiltrano forme di vita organica prodotte dal pantano” (ivi, p. 234). Di ciò i tratti
più evidenti sono riconoscibili nella progressiva autonomizzazione dei singoli organi
dello Stato, nella privatizzazione dei diritti di sovranità, nella costituzione di eserciti
permanenti dal cuore dei partiti, nel fiorire delle organizzazioni.
“La padronanza delle situazioni può esistere solo in virtù di forze che abbiano
attraversato in lungo e in largo la zona della distruzione acquistando, proprio in quel
transito, una nuova e diversa legittimazione” (ivi, p. 235). Il loro obiettivo è la
sostituzione definitiva della democrazia liberale o sociale con la democrazia del
lavoro o la democrazia di Stato.
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Questa trasformazione è assai più di una restaurazione nel senso di una ripresa
dell’autentica tradizione dello Stato piuttosto che un richiamo alla tradizione della
società: “Sotto questo punto di vista la democrazia del lavoro è più intimamente
affine allo Stato assoluto che alla democrazia liberale dalla quale sembra derivare”
(ibid.).
La costruzione organica dello Stato si differenzia dalla formazione dello Stato
assoluto per essere qualificata dalla metafisica presente nel mondo del lavoro: “Da
modo di vivere, il lavoro si trasforma in uno stile di vita” (ivi, p. 237).
In questo nuovo spazio politico ogni trasformazione va letta come trasformazione
degli organi della società in organi dello Stato, prima fra tutte la conversione degli
organi del concetto borghese di libertà e degli istituti destinati ad educare l’opinione
pubblica in grandezze di lavoro; “prosciugamento e bonifica di quel pantano della
libera opinione in cui si è trasformata la stampa liberale” (ivi, p. 240) per la tendenza
del borghese a trasformare i fatti in opinioni.
L’affermazione del valore individuale di un’opinione o comunque di ogni
espressione borghese è funzionale alla rivendicazione dell’autonomia del borghese
esclusivamente nei confronti dello Stato: “Nel XIX secolo vengono a galla quei
grandi e famosi affaires nei quali il giornalista riesce a trascinare lo Stato dinanzi al
tribunale della ragione della virtù, anzi, nel suo caso, della verità e della giustizia, e
ad avere successo” (ivi, p. 241).
L’opinione pubblica si trasforma da opinione di una massa composta di individui al
sentimento vitale di un mondo in sé pienamente concluso e fortemente omogeneo ed
il suo linguaggio sarà preciso ed univoco proprio di uno stile matematico che aderisce
perfettamente alla realtà. La qualità richiesta al giornalista è quella della precisione
descrittiva, la sua interpretazione non deve offuscare il dato di cronaca (cfr. il
protagonismo del primo attore sulla scena del teatro borghese).
La lettura stessa non è un otium in senso classico, ma assume i connotati dello
specifico carattere di lavoro come consente di verificare la semplice osservazione dei
lettori nei mezzi di trasporto pubblico: “Osservandoli si coglie un’atmosfera allo
stesso tempo vigile e istintiva cui si adatta un servizio d’informazione dotato di
somma precisione e velocità” (ivi, p. 243).
I mezzi di informazione tipici del XX secolo sono la radio e il film che non danno
risonanza all’individuo come dice già il fatto che la voce è artificiale e l’immagine è
fissata sulla pellicola dal raggio di luce, ma esprimono la tipicità dell’operaio che è in
rapporto metafisico con questi mezzi.
Il criterio a partire dal quale si valuta la qualità di un film è la padronanza con cui il
registra utilizza i tipici mezzi cinematografici.
98
ESSENZA E STORIA DELLA METAFISICA IN HEIDEGGER
dott. Ulderico Iannicelli
per contatti: [email protected]
Abbiamo visto nelle lezioni precedenti la critica che Heidegger opera della modalità di pensiero
teoretico-oggettivante; si tratta ora di mostrare come tale modalità non sia sempre stata valida e
quindi nemmeno sia l’unica possibile ma vada vista nella sua provenienza storico-destinale (poi
giustificherò il concetto); ed è a questo fine che mira la Distruzione della storia della metafisica
come ontologia da Heidegger progettata fin da Essere e Tempo, se non prima.
Vanno però poste due premesse rispetto al modo in cui Heidegger intende tale distruzione:

Essa non ha innanzitutto un carattre meramente negativo-distruttivo; il termine che
Heidegger usa è infatti Destruktion, da intendersi piuttosto nel senso di “decostruzione”,
cioè un dipanare le concezioni dell’essere che ne hanno via via fatto perdere il luogo
originario della sua scaturigine.

Ed in seconda istanza proprio la riconduzione del senso dell’essere a tale luogo originario; la
storia della metafisica non è infatti concepita da Heidegger in maniera meramente
storiografica, cioè come un semplice susseguirsi di opinioni filosofiche aventi una qualche
concatenazione ed una influenza sul presente, ma che quanto a se stesse sono
irrimediabilmente “passate”. Heidegger ritiene invece che la metafisica abbia una sua
essenza peculiare e costante che si ripete di volta in volta pur nelle diverse modalità del suo
dispiegarsi. Tale essenza, liberata dai modi di corrispondere ad essa che la occultano, non va
semplicemente compresa e messa da parte ma costituisce proprio ciò che il pensiero deve
sempre di nuovo ripensare e precisamente il senso dell’essere, sia pure in maniera non
occultante. Heidegger definisce perciò la storia della metafisica come storia dell’essere (il
senso dello storico-destinale).
Intendo perciò chiarire innanzitutto in cosa consista tale essenza della metafisica, per poi
analizzarne il decorso storico.
99
A tal fine possiamo seguire da vicino un breve scritto di Heidegger del ’29, che s’intitola
appunto Che cos’è metafisica. Qui Heidegger si interroga sull’essenza della metafisica a partire
dal suo compimento nelle scienze che poi vedremo nella parte storica. Basti per ora dire che se
la metafisica consiste per Heidegger nel progressivo obliare il differire dell’essere da ogni ente
possibile (ciò che Heidegger chiama la differenza ontologica), le scienze, in quanto hanno di
mira solo più l’indagine sull’ente a partire dall’ente stesso e in vista di un suo
padroneggiamento, ne costituiscono il compimento. In particolare Heidegger prende qui le
mosse dal modo in cui la scienza affronta il problema del nulla (o niente – das Nichts), il quale
emerge proprio nel modo in cui la scienza definisce se stessa in base al proprio campo
d’indagine: cioè, si dice, “le scienze sono scienze dell’ente e di nient’altro”. Da ciò
l’atteggiamento ambiguo della scienza nei confronti del nulla: da un lato esso, come mera
nullità, niente vuoto, è ciò che non fa problema e di cui non si può nemmeno parlare; dall’altro
la scienza ha bisogno di chiamarlo in causa per definire se stessa.
Ma al di là del disinteresse della scienza, ciò che ad Heidegger preme mostrare è come essa sia
di fatto impossibilitata per essenza a tematizzare il nulla; se infatti domandiamo del niente in
maniera tradizionale, cioè oggettivante, chiedendoci “che cos’è il niente”, lo assumiamo
appunto come qualcosa che “è”, cioè come un ente; eppure, se c’è una cosa di cui siamo certi fin
dall’inizio è che il niente è ciò che differisce da ogni ente e lo siamo sulla base del principio di
non contraddizione: “ciò che non è non può essere”, per la logica sarebbe contraddizione in
termini. La scienza ed il suo “strumento”, la logica, non possono andare oltre, tutt’al più
possono far scaturire il niente dalla negazione come atto dell’intelletto che viene poi
ipostatizzato in maniera cosale.
Ma Heidegger intende mostrare esattamente il contrario, cioè come il nulla sia più originario del
“non” della negazione.
E tuttavia, se il nulla precede qualunque negazione puramente logica, come o dove esso si dà a
vedere? Come è possibile tematizzarlo? Bisogna qui tenere presente quanto detto nelle lezioni
precedenti, e cioè che per Heidegger la filosofia – ma il conoscere in generale, anche quello
scientifico – è radicato nella vita, ha in ultima analisi origini esistenziali. Come aveva già fatto
in Essere e Tempo Heidegger ricorre pertanto alla situazione emotiva dell’angoscia in cui è
secondo lui possibile “fare esperienza” del nulla, non “oggettivarlo” dunque. Nell’angoscia
infatti facciamo esperienza del fatto che non c’è più niente a cui possiamo aggrapparci perché
tutto sprofonda nella più totale insignificanza, niente può essere più per noi punto di riferimento.
100
Ma tale esperienza non è puramente negativa, poiché il “nientificare” questo o quell’ente
concreto pone l’Esserci di fronte all’ente nella sua totalità, cioè all’ente in quanto tale che
diventa ora problematico quanto al suo senso. Ora, il problema del senso dell’ente in quanto
tale, che non può essere come si vede un problema relativo a questo o a quell’ente specifico, è
proprio ciò che Heidegger intende tematizzare nella sua domanda sul senso dell’essere. Il nulla
pertanto, come nulla di ente, nulla che sia ente, coincide con l’essere stesso. Heidegger dirà che
“il nulla e l’essere sono la stessa cosa”. Questo andare oltre la totalità dell’ente in direzione del
suo essere in quanto “nulla di ente” è ciò che Heidegger chiama trascendenza in cui consiste la
motilità propria dell’Esserci. L’Esserci cioè non può essere considerato alla stregua di tutte le
altre cose come semplici presenze, ma ha come sua possibilità più propria quella di trascendere
l’ente chiedendone il senso.
Si vede pertanto come l’evidenza del predominio della logica non sia nulla di scontato, ma si
basa su una decisione metafisica di fondo circa il modo di intendere l’ente e il suo possibile
modo di darsi all’apprensione.
Ma allora bisogna chiedersi ancora una volta: “che cos’è metafisica?” Abbiamo visto la
trascendenza essere per Heidegger quel decisivo modo di essere dell’Esserci per cui, a partire
dall’esperienza del nulla, la totalità dell’ente viene appunto trascesa in direzione del suo essere;
ora, ci si potrebbe chiedere, la metafisica non fa proprio e da sempre questo? Non è essa
quell’andare oltre (metà) l’ente verso il suo essere? E la risposta è che la metafisica domanda
certamente e nomina sempre l’essere dell’ente, ma lo concepisce poi di fatto sempre a partire
dall’ente stesso, cioè come “essentità” dell’essente (Seiendheit, come Heidegger traduce
l’ousìa), e ciò in un duplice senso:
“La metafisica si muove nell’ambito dell’  . La sua rappresentazione è diretta
all’ente in quanto ente. In tal modo la metafisica rappresenta ovunque l’ente come tale
nella sua totalità, l’enticità dell’ente (l’ dell’). Ma la metafisica rappresenta
l’enticità dell’ente in due modi: da un lato la totalità dell’ente come tale nel senso dei
suoi tratti universali (  , ), dall’altro la totalità dell’ente come tale
nel senso dell’ente sommo e quindi divino (  , , )” (M.
Heidegger, Introduzione a <<Che cos’è metafisica?>> in Segnavia, ed. it. a cura di F.
Volpi., p. 330).
La metafisica domanda dunque o dell’essenza dell’ente nel senso dei suoi caratteri generali nel
senso delle categorie oppure nel senso dell’ente che ha in modo eminente i caratteri della
101
stabilità nella presenza ed è quindi “divino”, laddove l’essere come presenza è ciò che resta qui
l’implicito non tematizzato in quanto tale.
Tale risoluzione della questione dell’essere in quella dell’essente ha origine, secondo
Heidegger; in Platone, nella sua determinazione dell’“essentità” dell’essente (ousìa) come
idea. Essa è pensata a partire dall’esperienza greca dell’essere come physis, come ciò che da sé
si schiude alla presenza ed in questa persistendo si mostra, lo “schiudentesi-permanente
imporsi”; di questa l’idea conserva il carattere “sorgivo”, ciò che Heidegger evidenzia
traducendola con “aspetto” (Aus-sehen, eidos), cioè il suo venire all’ “e-videnza”. Ma proprio
in quanto così si mostra nella presenza (da cui deriva anche l’interpretazione temporale
dell’essere come semplice presenza) essa si presta ad un impercettibile quanto decisivo
spostamento d’accento da ciò che da sé si mostra al suo “stare di contro” ad un vedere e
vedremo in che modo ciò comporti un nuovo senso della verità. La domanda sull’essere diventa
dunque il definitorio tì estin, il “che cos’è” nel senso del tutto ontico di ciò che si mostra ad un
vedere.
L’ousìa, l’essenza, acquista a sua volta un duplice senso che sarà canonico per tutto il corso
della storia della metafisica:
 Da un lato essa indica il semplice fatto che una cosa è, nel senso che è presente, cioè
indica il che è, il semplice èstin

Dall’altro il che cos’è di questo stesso ente presente, il tì èstin nel senso dei caratteri
generali dell’ente
E tuttavia, a causa della preminenza accordata da Platone alla domanda sull’ousìa, sul che
cosa, il semplice essere di una cosa ed il suo senso come presenza viene di fatto assorbito nella
prima domanda e non interrogato in quanto tale. Non solo, ma ciò che nel senso greco
dell’essere come physis era primario, cioè l’imporsi nella presenza dell’ente stesso che così si
dà a vedere, scade ora al rango secondario. Spiega infatti Heidegger:
“Dal momento, comunque, che l’essenza dell’essere è posta nella quiddità (l’idea),
quest’ultima, in quanto costituisce l’essere vero e proprio dell’essente, diventa anche
quanto vi è di più essente nell’essente. Essa è così, a sua volta, l’essente per eccellenza:
 . L’essere come  è ora promosso al rango di essente per eccellenza, e
l’essente stesso, che era dianzi il predominante, decade al livello di ciò che Platone
chiama  : ciò che propriamente non dovrebbe essere e, di fatto, anche
propriamente non è, in quanto deforma sempre l’idea, la pura e-videnza, col
realizzarla, con l’incarnarla nella materia” (M. HEIDEGGER, Introduzione alla
metafisica, ed it. a cura di G. Masi, Milano 1968, p. 189).
In sintesi, in Platone si dà così il rovesciamento dei rapporti originari tra la cosa e la sua
essenza a favore di quest’ultima. L’idea come essenza nel senso delle determinazioni
generalissime dell’ente diviene quindi ciò che propriamente è, l’essente vero e proprio, ciò che
è più essente nell’essente in quanto ha il carattere della presenza indefettibile e non è soggetto
al divenire (l’òntos òn), mentre l’ente sensibile è posto in quella condizione paradossale di
essere contemporaneamente qualcosa di essente e che tuttavia è un non essere (il mé òv), ciò in
cui consiste tra l’altro l’onticizzazione del problema del nulla stesso.
Il problema del senso dell’essere e con esso quello del nulla vengono così ridotti ad un puro
niente di fatto e di problema, in quanto pur avendo di mira l’essere la metafisica lo pensa
102
sempre a partire dall’ente ed in quanto così pensa rimane per Heidegger essenzialmente una
fisica. In ciò consiste il carattere essenzialmente nichilistico della metafisica, in quanto cioè
essa avvia quel processo – che per Heidegger si compierà in Nietzsche – per cui dell’essere non
ne è più nulla.
Alla domanda metafisica fondamentale “perché vi è, in generale l’essere e non piuttosto il
nulla”, ciò a cui essa risponde è solo la prima parte della domanda e per di più in senso ontico,
cioè “perché vi è l’essente”, cioè sforzandosi di dare fondamento alla totalità dell’ente nel
senso di assicurarsi della sua stabilità tramite il ricorso ad un ente sommo (per Platone
l’Agathòn), da cui il carattere onto-teologico della metafisica.
In ciò emerge anche l’origine in ultima istanza esistenziale della metafisica, cioè a dire il suo
carattere reattivo nei confronti dell’esperienza spaesante del nulla quale si manifesta
nell’angoscia, manifestazione a sua volta della radicale finitezza dell’Esserci. Ancorare il
pensiero a qualcosa di stabile vuol dire infatti tentare, da parte dell’ente finito che è l’Esserci,
precisamente di assolversi da tale finitezza, ma con essa anche dalla possibilità di operare
quella trascendenza dell’ente verso il suo essere di cui si e detto, e ciò, come vedremo, non è
senza conseguenze per lo stesso vivere concreto dell’uomo nell’epoca della tecnica in cui per
Heidegger la metafisica si compie.
II
Ma si è detto che con Platone muta essenzialmente anche in senso della verità. Tale problema è
affrontato da Heidegger nel corso del ’31-32 La dottrina platonica della verità, in cui si analizza
il mito della caverna platonico. In effetti Heidegger riconosce come qui non si parli
esplicitamente della verità, ma innanzitutto della paidèia la cui definizione platonica Heidegger
traduce in questo modo : “la guida di tutto l’uomo nella sua essenza ad un mutamento di
direzione”.
Il mito parla dunque del soggiorno dell’uomo nella totalità dell’ente, ma il modo di tale
soggiornare dipende per Heidegger da un rapporto dell’uomo – consapevole o no – con la verità
dell’essere.
Ora, tale soggiorno è caratterizzato da una serie di passaggi da un luogo all’altro, laddove però
ciò non vuol dire passare per luoghi semplicemente diversi ma compiere un percorso ascendente
verso gradi sempre maggiori della verità, ecco la relazione. L’uomo deve passare dunque da una
condizione in cui dimora presso l’ente che innanzitutto gli è noto nella caverna, lo svelato, in
greco tò alethès, ad un’altra in cui sia capace di vedere ciò che è più vero nel senso greco, cioè
più svelato. Ragion per cui Platone si muove ancora entro l’essenza greca della verità.  verità
è a-letheia, s-velatezza di ciò che da sé si mostra.
103
E tuttavia, se l’uomo deve ora vedere innanzitutto la luce del sole (le idee), e poi il sole stesso
(l’agathòn, l’idea delle idee), ciò ci cui c’è innanzitutto bisogno è una paidèia dello sguardo nel
senso dell’educazione a vedere le idee.
A questo punto, ciò che è innanzitutto necessario è guardare in modo corretto, dice Heidegger,
ora “tutto dipende dall’orthòtes, dalla correttezza (Richtigkeit) dello sguardo” (ID., La dottrina
platonica della verità, in Segnavia, cit., p. 185). I gradi della visione di cui parla il mito
dipendono da un guardare via via più corretto, il quale giunge alla massima correttezza nella
concordanza (omoiosis, che sarà poi tradotta nella adaequatio) tra il conoscere e la cosa stessa
come idea.
A questo punto, ferma restando l’inevitabile ambiguità di Platone, la verità perde il carattere
della svelatezza per diventare correttezza dell’apprensione e dell’asserzione, quest’ultima già a
partire da Aristotele.
Cambia così, oltre all’essenza, il luogo stesso della verità, che d’ora in poi sarà lo stesso intelletto
umano, ed è per questo che, dice Heidegger “l’inizio della metafisica nel pensiero di Platone è
nello stesso tempo l’inizio dell’ umanismo”8 , in quanto l’uomo, ed in particolare tramite il
suo intelletto, acquista un ruolo privilegiato nella totalità dell’ente:
“Secondo questa interpretazione dell’ente, il venire alla presenza non è più, come all’inizio del
pensiero occidentale, lo schiudersi di ciò che è velato nella svelatezza, dove è questa
svelatezza stessa, in quanto svelamento, a costituire il tratto fondamentale del venire alla
presenza. Platone concepisce il venire alla presenza () come  . Questa,
tuttavia, non è subordinata alla svelatezza, nel senso che, essendo al servizio dello
svelato, lo porti all’apparire. E’ piuttosto l’apparire (il mostrarsi) a determinare che
cosa, all’interno dell’essenza dell’apparire e solo in riferimento ad esso, possa ancora
chiamarsi svelatezza. L’ non è il primo piano in cui viene esposta l’, ma il
fondamento che la rende possibile. Eppure, anche così, l’ rivendica ancora
qualcosa dell’essenza iniziale, ma ignota, dell’. La verità come svelatezza non
è più il tratto fondamentale dell’essere stesso, ma, divenuta correttezza per essere stata
soggiogata all’idea, d’ora in poi è il tratto distintivo della conoscenza dell’ente”9.
In questo modo, oltre al già visto divario (korismòs) che si apre tra l’essere come idea (indefettibile
presenza, aeì òn, òntos òn) e l’ente vero e proprio (mè òn), si apre anche l’abisso tra essere e
pensiero; infatti, nonostante si dia la possibilità del loro rapportarsi, il pensiero dovrà sempre
preliminarmente guadagnare un accesso all’essere; da ciò nascerà l’esigenza del “metodo”, che
8
9
Ibid., p. 190.
Ibid., p. 188.
104
renderà possibile, in età moderna, qualcosa come un’analisi delle condizioni di possibilità della
conoscenza stessa.
Infine il lògos come raccoglimento, perdendo il suo ancoraggio alla physis, diventa per Aristotele solo più
enunciazione, e quest’ultima il luogo unico del vero e del falso. Da qui è aperta la strada perché il
lògos diventi la “logica” come strumento (organon) del pensiero rappresentativo moderno.
ARISTOTELE
Nel passare ad Aristotele può essere utile riportare un brano che Heidegger pone in apertura alla
sua storia della metafisica nel Nietzsche e che forse andava posto in apertura; l’ho posticipato
solo per ragioni di comodo e tuttavia credo che proprio nel passaggio da Platone ad Aristotele
faccia emergere chiaramente cos’è qui in questione, dia cioè la prospettiva:
“Ad avere valore di «ente» è il reale, l’effettivo. «L’ente è reale, effettivo». Questa tesi
significa due cose. Anzitutto: l’essere dell’ente consiste nella realtà effettiva. Poi: l’ente,
in quanto è il reale, è « realmente, effettivamente» – cioè in verità –l’ente. Il reale
effettivo (das Wirkliche) è ciò che è effettuato (das Gewirkte) da un effettuare (Wirken),
e tale effettuato è esso stesso, daccapo, efficiente (wirkend) ed efficace (wirkfähig). La
«realtà effettiva» (Wirklichkeit) è spesso chiamata anche «esistenza» («Dasein»). (…)
Nella parola «esistenza» (Existenz, existentia) l’essere, inteso come la realtà effettiva
del reale, enuncia il suo nome più comune. «Realtà effettiva» (Wirklichkeit), «esistenza»
(«Dasein», « Existenz ») dicono nel linguaggio della metafisica la stessa cosa. (…) È
oscuro, tuttavia, in quale misura l’essere si determini come realtà effettiva (Wirklichkeit)
in base all’effettuare, operare (Wirken) e all’opera (Werk)”. (ID., Nietzsche, ed. it. a cura
di F. Volpi, Milano, 1994; pp. 863-64).
Abbiamo visto il modo di domandare della metafisica in Platone in base alla distinzione tra “che
cos’è” e “che è”. Ora, se l’ente vero viene oggi e da lungo tempo definito a partire dall’esistenza
del reale effettivo e questo come l’opera di un effettuare da parte di qualcuno o qualcosa che
effettua, ciò è dovuto proprio alla preminenza del “che è” sul “che cos’è” nella domanda
sull’ousìa ad opera di Aristotele.
Infatti, se Platone aveva conferito all’ousìa il carattere dell’idea come ciò che rende possibile
che un ente sia quell’ente che è indipendentemente dal fatto che esso sia presente o meno,
Aristotele darà invece la preminenza al “che è” pensando l’ousìa come enérgheia nel senso
della presenza “in carne ed ossa” dell’ente, di cui il “che cosa” costituisce un aspetto
secondario. La Scolastica, traducendo – in un modo che però secondo Heidegger ne tradisce il
105
senso originario – il “che cosa” con essentia nel senso della possibilità e il “che è” come
enérgheia con existentia nel senso della realtà e mantenendosi fedele ad Aristotele nell’ordine
dei rapporti, determinerà appunto l’imporsi e il dominare della concezione dell’ente come realtà
effettiva. Si tratta allora di vedere il passaggio dall’idéa all’enérgheia.
Come Platone, anche Aristotele pensa l’ente nell’ambito greco della physis come ciò che
schiudendosi viene a stare nella presenza e si mostra così da sé nella svelatezza (aletheia) come
senso originario della verità. Aristotele pensa ciò che è venuto a stare nella presenza come
qualcosa che stando dinanzi è in qualche modo in quiete, ma la quiete, a sua volta, è pensata
come un modo eminente del movimento (non in senso innanzitutto locale), ciò in cui il
movimento si compie.
Secondo Heidegger non fa differenza se ciò che si produce così nella presenza sia un ente
naturale o un artefatto, per i greci entrambi sono concepiti come “enti da physis”. Anche dei
poioumena, ciò che è decisivo non è il fatto che questi siano prodotti da un fare umano, ma
innanzitutto il fatto che essendo stati così prodotti ora si impongono nella presenza. Nel termine
greco enérgheia risuona infatti la parola érgon, (opera) che vuol dire appunto ciò in cui si
compie il movimento del venire alla presenza e non innanzitutto l’effetto di un operare ( ivi.,
p. 867). Dice Heidegger: “L’érgon connota adesso il modo dell’essere presente. La presenza,
ousìa, si chiama pertanto enérgheia: l’essere-essenzialmente-come-opera in opera (das imWerk
als-Werk-Wesen, dove Wesen va inteso in senso verbale, o l’essere opera (Werkheit)” (Ivi., pp.
867-868). Aristotele infatti adopera a volte anche la parola entelécheia al posto di enérgheia, a
indicare precisamente che il “Télos è la fine in cui si raccoglie il movimento del pro-durre e
porre-lì, raccoglimento che rappresenta l’essere presente di ciò che è e ha finito (das Be- und
Ge-endete), cioè del compiuto (dell’opera)” (Ibid.).
Pertanto, per Aristotele presenza nel senso primario è dunque l’òti estìn del tòde tì, cioè il “che
è” del “questo qui”, la presenza del rispettivo ente presente ( existentia), in senso secondario
il tì estìn cioè il “che cosa” di cui si torna a domandare nell’ente presente ( essentia). È per
questo che Heidegger dice di Aristotele che pensa più grecamente di Platone, in quanto ripone
di nuovo la preminenza nel venire alla presenza e nella sveltezza del “questo qui” di volta in
volta presente:
“Ciò che Platone pensava come l’enticità () autentica e per lui unica dell’ente,
ossia la presenza nel modo dell’ (), passa ora, in seno all’essere, al rango
secondario. Per Platone l’essenza dell’essere si raccoglie nel x dell’ e quindi
sullo , il quale tuttavia, in quanto è l’Uno unificante, resta determinato a partire dalla
106
 e dal  , cioè dal lasciar schiudersi che raccoglie. Per Aristotele l’essere
riposa nell’ de . Partendo dall’, l’ può essere pensato
come un modo dell’essere presente. Partendo invece dall’ , il , l’ente che
rispettivamente è rimane incomprensibile nella sua enticità. (Il  è un  eppure un )” (Ivi., p. 870).
Ora, quando la filosofia cristiana cercherà di servirsi di tali concetti per giustificare l’idea del
mondo a partire dalla creazione, ne opererà di fatto una trasformazione in cui andrà perso il
carattere originario della physis. Su Dio viene infatti trasposto il carattere di causa che già l’idéa
possedeva, ma non più nel senso di essere ciò che rende un ente quell’ente che è, ma come
causa efficiente che crea il mondo dal nulla come assoluta mancanza di ente. E Dio è anche
l’ente sommo nel senso dell’eterna presenza.
In questo modo l’ente non si determina più a partire dal suo venire a stare nell’evidenza della
presenza, dall’enérgheia, ma come l’existentia nel senso dell’actualitas, cioè come l’effetto di
una causa efficiente che ha il carattere dell’ operare, del fare, mentre l’idèa, diventata ora
l’essentia, in quanto potentia, è ciò che non ha ancora il grado di realtà dell’ente effettivo:
“Nell’inizio della metafisica l’ente in quanto  è ciò che è presente nel suo esser
prodotto. Adesso l’ diventa l’opus dell’operari, il factum del facere, l’actus
dell’agere. L’ non è più ciò che è lasciato libero nell’aperto dell’essere presente,
ma ciò che è operato nell’operare, ciò che è fatto nel fare. L’essenza dell’opera
non è più l’essere opera (Werkheit) nel senso dell’eminente essere presente
all’aperto, ma la realtà effettiva (Wirklichkeit) di un reale che è dominato
nell’effettuare (Wirken) e che viene ingaggiato nel processo dell’effettuare. L’essere,
andatosene via dall’essenza iniziale dell’ , è diventato la actualitas” (Ivi., p.
874).
DA CARTESIO A NIETZSCHE
Si è visto in precedenza il determinarsi del primato dell’esistenza come realtà effettiva ad opera del
Cristianesimo tramite l’assunzione, che ne muta però l’essenza, del primato aristotelico
dell’enérgheia sull’idéa, e abbiamo anche visto come fin dalla metafisica platonica si prepari per
Heidegger l’umanesimo come preminenza dell’uomo nella totalità dell’ente.
Ora, ciò che Heidegger intende mettere in luce è come la modernità propriamente detta – che per lui
ha inizio con Cartesio – scaturisca a partire da un rivolgersi di alcune istanze della dottrina cristiana
contro se stessa:
107

Da un lato, infatti, il definire la realtà effettiva a partire dalla creazione dal nulla conferisce
di per sé all’uomo uno statuto privilegiato in quanto anch’egli è nell’ambito del creato
l’autentico fattore e partecipa dell’intelletto divino.

Dall’altro il rapporto dell’uomo con Dio pone al cristiano l’esigenza dell’assicurazione della
certezza della salvezza tramite la fede. Ma poiché l’uomo si rapporta a Dio ed al mondo
anche attraverso il lumen naturale, l’intelletto, questo comincerà a richiedere per sé un tipo
di certezza ad esso propria con il quale assicurarsi del suo rapporto con il reale. Spiega però
Heidegger:
“quando l’essenza della verità, diventata certezza, ottiene come effetto dall’uomo e per
l’uomo stesso, posto nell’essenza della verità, il rapporto a essa adeguato con il reale,
richiedendogli la costruzione dello scibile come ciò che può essere ottenuto sicuramente
come effetto; quando, contemporaneamente, la certezza richiede per questa costruzione
(Aufbau) quella infrastruttura (Unterbau) in cui la sua propria essenza rimanga
incastrata come la prima pietra (Grundstein), bisogna allora porre prima al sicuro per
ogni rappresentare un reale la cui realtà, cioè saldezza, rimanga sottratta a ogni
scuotimento del rappresentare nel senso della dubitabilità. L’esigenza della certezza
mira a un fundamentum absolutum et inconcussum, a una infrastruttura che non penda
più dal riferimento a un altro, ma sia fin da principio svincolata da questo riferimento e
riposi in sé” (Ivi., p. 887).
Tale fondamento assoluto della verità diventata ora certezza sarà posto, come noto, da Cartesio
nella soggettività. E però, allora, non è l’aver posto la soggettività quale fondamento della verità a
far nascere l’esigenza che questa abbia il carattere della certezza, al contrario, è l’esigenza della
certezza – inizialmente intesa come certezza della salvezza – a richiedere un fondamento ultimo per
la sua autoassicurazione, il che vuol dire ancora, come ho accennato, che la modernità nasce
dall’interno della dottrina cristiana stessa. Allo stesso modo, però, poiché la certezza valorizza il
proprio portatore, si accende così la lotta tra Dio e uomo quali possibili portatori della sua essenza.
La libertà del cristiano, la quale consiste nell’esser libero dal mondo per il Cristo, diventa ora la
libertà dell’uomo per se stesso, per il libero sviluppo delle proprie potenzialità, diventa ricerca della
potenza al fine del dominio della totalità dell’ente come realtà effettiva;  Sapere è Potere (ivi,
p. 653).
Ma vediamo allora la nuova fondazione della verità come certezza nella soggettività ad opera di
Cartesio. Heidegger analizza la tesi fondamentale cogito ergo sum. Innanzitutto bisogna
comprendere il senso del cogitare; spiega Heidegger: “Descartes, in passi importanti, adopera per
cogitare la parola percipere (per-capio) – prendere possesso di qualcosa, impossessarsi di una cosa,
108
qui nel senso del fornirsi (Sich-zu-stellen) che ha il carattere del porsi-dinanzi (Vor-sich-stellen), del
rap-presentare (Vor-stellen)” (Ivi., p. 659).
Cogitare vuol dire allora percipere nel senso di impossessarsi di qualcosa che è posto dinanzi nella
rappresentazione (Vor-stellen) e solo ad essa, laddove, ormai è chiaro, ciò che diventa decisivo è
che c’è qualcuno che pone così innanzi, non più l’ente nel senso di ciò che da sé si mostra.
È per questo che il cogitare è essenzialmente un dubitare, non perché esso sia sempre nel dubbio e
non metta mai capo a niente, ma al contrario proprio perché esso è riferito fin dall’inizio al certo,
all’indubitabile come ciò a cui tende fin dall’inizio; il dubbio è perciò un dubbio metodico,
attraverso il quale il pensiero non ammette come certo niente che non sia posto dinanzi a se stesso
come indubitabile.
Ma Cartesio dice anche che ogni ego cogito è cogito me cogitare, cioè che in ogni rappresentare è
posto innanzi allo stesso tempo colui che rappresenta, ma non nel senso che ci si rappresenti
contemporaneamente due oggetti – il che sarebbe impossibile – bensì come compresenza, nella
rappresentazione, dell’oggetto rappresentato e di colui che rappresenta, è ciò significa che:
“(…) la coscienza umana è per essenza autocoscienza. La coscienza di me stesso non si
aggiunge alla coscienza delle cose, quasi come un osservatore che la osservi procedendo
al suo fianco. Questa coscienza delle cose e degli oggetti è, per essenza e nel suo
fondamento, anzitutto autocoscienza, e soltanto come tale è possibile la coscienza di oggetti (Gegen-stände). Per il rappresentare così caratterizzato, il sé dell’uomo è
essenzialmente in quanto ciò che sta al fondamento. Il sé è sub-iectum” (Ivi., p. 663).
Il pensare diventa dunque autocoscienza nel senso della ri-flessione (re-flexio) cioè il ripiegarsi
della coscienza su se stessa e dentro se stessa, un “dentro” in cui essa trova contemporaneamente se
stessa ed il suo oggetto in quanto se lo è così fornito. È solo a partire da tale impostazione che si
porrà come problema metafisico quello della dimostrazione del mondo esterno; per un greco tale
problema non avrebbe avuto senso. Il soggetto diventa così il fondamento ricercato di ogni
oggettività (gegen-stand) nel senso appunto di ciò che è posto dal e nel rappresentare stesso di
fronte alla soggettività; e d’altra parte da ciò consegue che tutto ciò che non ha o non può avere lo
statuto della certezza della rappresentazione cade via via nell’improblematico  Kant e i limiti
della ragione. Così sintetizza Heidegger:
“«Cogito sum» non dice né soltanto che penso, né soltanto che sono, né che dal fatto del
mio pensare consegue la mia esistenza. La tesi esprime una connessione tra cogito e
sum. Dice che io sono in quanto colui che rappresenta, che non soltanto il mio essere è
essenzialmente determinato da questo rappresentare, ma che il mio rappresentare, in
quanto re-presentatio determinante, decide sulla presenza (Präsenz) di ogni
rappresentato, vale a dire sulla presenza (Anwesenheit) di ciò che in esso è intenzionato,
109
cioè sull’essere di quest’ultimo in quanto ente. La tesi dice: il rap-presentare che per
essenza è rap-presentato a se stesso pone l’essere come rappresentatezza e la verità
come certezza. Ciò a cui tutto viene riportato come al fondamento incontrovertibile è la
piena essenza della rappresentazione stessa, in quanto in base a essa si determinano
l’essenza dell’essere e della verità, ma anche l’essenza dell’uomo come colui che
rappresenta e il modo di questo suo essere determinante” (Ivi., p.668).
Quando l’uomo e la sua soggettività si pongono così a fondamento di tutto ciò che deve o non deve
essere e del modo in cui deve essere – in questo caso come rappresentatezza – inizia ciò che
storiograficamente si intende per età moderna, ma che per Heidegger è l’inizio del compimento
della metafisica come Umanesimo e Nichilismo. Il carattere di tale compimento è la sua tendenza
all’incondizionatezza, in quanto la verità come certezza non ammette vie di mezzo, essa è o non è;
analogamente la soggettività, che ha già risolto dentro di sé l’oggettività come ciò che essa stessa si
fornisce, deve tendere incessantemente alla propria assolutezza, cioè all’as-soluzione da qualunque
limite ad essa esterno. Tutta la seguente storia della metafisica è posta così da Heidegger sotto il
segno della soggettività e della sua tendenza all’incondizionato; dice infatti Heidegger:
“quando la verità diventa la certezza del sapere di un’umanità autoassicurantesi,
incomincia quella storia che nel conteggio storiografico delle epoche si chiama età
moderna. Il nome dice di più di quello che intende. Dice una cosa essenziale di questa
età. In quanto la verità in cui sta la sua umanità esige lo sviluppo dell’assicurazione di
un incondizionato dominio dell’uomo, questa essenza della verità consegna l’uomo e il
suo operare all’inevitabile e incessante preoccupazione di potenziare le possibilità di
assicurazione e di porle al sicuro, daccapo, da nuovi pericoli innescati, progredendo
nella continua novità dei suoi successi e delle sue scoperte, nella novità sempre più
nuova delle sue acquisizioni e delle sue conquiste, nel carattere sempre inaudito delle
sue esperienze vissute” (Ivi., p.883-84).
Si incomincia qui a intravedere il compimento della metafisica in Hegel e poi in Nietzsche ed il suo
mostrarsi effettivo nel dominio della tecnica.
Lasciamo per ora tra parentesi il pensiero hegeliano e cerchiamo di vedere in che senso Nietzsche
rappresenti il compimento – che significa insieme culmine e fine – della metafisica.
Per comprendere il pensiero di Nietzsche bisogna innanzitutto, secondo Heidegger, considerarlo un
pensatore metafisico rigoroso al pari di tutti gli altri e non bisogna lasciarsi dalla suo procedere in
modo poetico o aforismatico. In secondo luogo va connessa la dottrina dell’eterno ritorno agli altri
concetti nietzscheani fondamentali e non espunta come qualcosa di inorganico o di incomprensibile
quando non il frutto della sua follia (Baeumler e Jaspers). In ultimo Nietzsche va incluso nella
tradizione moderna, pensa cioè anch’egli a partire dalla soggettività e dalla verità come certezza
della rappresentazione.
110
Tali concetti fondamentali sono per Heidegger:

La volontà di potenza

L’eterno ritorno

Il nichilismo

La giustizia

Il superuomo
Nietzsche prende le mosse dal carattere fondamentale del nostro tempo che individua nella “morte
di Dio” con la quale non intende innanzitutto la morte del Dio cristiano, ma del “mondo
sovrasensibile” in generale. Anche Nietzsche intende infatti la storia della metafisica come
platonismo, ma nel senso della scissione tra il “mondo sovrasensibile” (le idee) ed il “mondo
sensibile” come mutevole ed irreale; il cristianesimo ratificherà la scissione tra il mondo come
“valle di lacrime” e “l’eterna beatitudine ultraterrena”, per cui dirà che il cristianesimo è
“platonismo per il popolo”. Nietzsche sintetizza la storia della metafisica come platonismo in un
passo del Crepuscolo degli idoli intitolato “Come il ‘mondo vero’ finì per diventare favola. Storia di
un errore”, in cui la scissione va progressivamente radicalizzandosi, fino a diventare incolmabile: in
sintesi, la verità, posseduta dal saggio (Platone), diventa con il cristianesimo una promessa di
salvezza ultraterrena per chi percorre “rettamente” la via che porta ad essa; con Kant il mondo vero
non è più tale in quanto inconoscibile, ma anche solo come “postulato della ragion pratica” rimane
“una consolazione, un obbligo, un imperativo”. Ma ormai il mondo sovrasensibile, non essendo
conoscibile né vero, viene abolito “ingenuamente” dal Positivismo in quanto esso abolisce il mondo
vero ma lascia intatta la struttura della scissione, il cui definitivo oltrepassamento rappresenta il
compito che Nietzsche si assume. La morte di Dio coincide dunque – già per Nietzsche – con il
nichilismo come “logica interna” della metafisica occidentale, come stato in cui manca ogni fine
che giustifichi e indirizzi l’agire umano.
Il nichilismo consiste dunque per Nietzsche nella “svalutazione dei valori supremi”, dei quali
“l’autorità della ragione, il progresso, la felicità del maggior numero, la cultura e la civiltà” non
sono altro che delle estenuazioni. Ma se la regione del soprasensibile, scoperta nella sua radice
“umana troppo umana”, ha perso come tale il suo potere vincolante c’è bisogno allora di una
“trasvalutazione di tutti i valori” cioè di un nuovo modo di essere valore del valore che elimini la
struttura stessa della scissione, ciò che comporta anche una ridefinizione del concetto stesso di vita.
Dice Nietzsche in un aforisma della Volontà di potenza:
“Il punto di vista del ‘valore’ è il punto di vista delle condizioni di conservazione-accrescimento in
ordine alle formazioni complesse di relativa durata della vita in seno al divenire” (Af., 715).
111
Il valore, dunque, non ha una caratterizzazione innanzitutto morale, ma è tale in quanto posto da un
“punto di vista”, cioè da un vedere di cui esso è l’“angolo visuale”; ma da Cartesio in poi il vedere
si caratterizza come un rappresentare. I valori, come punti di vista della rappresentazione, sono
condizioni di conservazione ed accrescimento della vita, in quanto essa non si arresta mai alla
semplice assicurazione della possibilità di conservare se stessa, ciò vorrebbe già dire il suo declino,
per cui ogni conservazione e sempre solo condizione necessaria ma non sufficiente per
l’accrescimento. La volontà di potenza è allora il “che cosa” dell’ente come vita cioè il suo volere
se stessa in un grado sempre maggiore di sviluppo, di potenza, di cui la vita nel senso della vita
umana che pone valori non è che un quantum. La volontà non è dunque niente di psicologico ma il
conatus essendi leibniziano.
Ma qual è l’essenza della volontà di potenza? Nietzsche la individua nel “comando”; il comandare non è
però inteso come “impartire ordini ad altri”, ma come un obbedire a se stesso che è così al di sopra
di se stesso, per cui ciò che la volontà vuole non è qualcosa cui essa tenda senza ancora possederlo,
né qualcosa di estraneo ad essa; la volontà non vuole altro che ottenere e disporre di se stessa
tramite il comando per poter continuare a volere; è per questo Nietzsche la chiama anche volontà di
volontà, oppure semplicemente volontà o potenza.
Ma quali sono i valori supremi che assolvono alla funzione di potenziare la vita? Per Nietzsche sono
essenzialmente verità e arte. Ora, secondo Heidegger, per operare il rovesciamento del platonismo
Nietzsche ne deve presupporre la concezione della verità. Ma per Nietzsche è la volontà di potenza
ciò che è innanzitutto vero, mentre la verità come eterno ideale sovramondano, irrigidendo la pur
necessaria stabilizzazione del divenire finisce per essere d’ostacolo al potenziamento della vita.
La verità come stabilizzazione non va quindi semplicemente rinnegata, ma reinterpretata e positivamente
assunta a partire dalla volontà di potenza, cioè come quella “menzogna” senza la quale il vivente
uomo (quantum della Vita) non potrebbe sopravvivere. La verità diventa così solo più una volontà
di verità, nel senso di un “tenere per vero”, ed è tale solo in base ad una prospettiva che lo tiene
come tale.
È per lo stesso motivo che l’arte, come continua creazione di forme è per Nietzsche “l’attività metafisica
per eccellenza”. Mentre la verità è la semplice stabilizzazione del divenire in un punto di vista
tenuto fermo nel suo orizzonte, l’arte tiene cooriginariamente insieme stabilità e divenire, forma e
creazione. L’arte, nella sua essenza creativa e nella cooriginarietà di dionisiaco ed apollineo, è il
“dire si” alla vita nel suo continuo divenire che “a nulla rimanda”. È per questo che Heidegger
sostiene che “la verità come assicurazione della sussistenza della potenza è per essenza riferita
all’arte come potenziamento della potenza” (Ivi., p. 796).
112
Ora, se per Heidegger la volontà di potenza risponde alla domanda sul “che cosa” dell’ente, l’eterno
ritorno risponde al “come”. Il problema è cioè come possa l’uomo della tradizione platonicocristiana non farsi strangolare dalla perdita dell’illusione della verità come autonomamente ed
eternamente sussistente, accettare di essere un quantum della potenza e continuare così a potenziare
la vita, senza soccombere a quella “malattia della volontà” che è il nichilismo.
Ciò per cui l’uomo deve decidersi è qui il corrispondere alla riduzione di ogni verità a valore, che vale
solo in quanto posto dalla volontà di potenza, ma che di per sé non ha senso oltre l’“eterno
ripetersi”, allo stesso modo, della volontà che vuole se stessa.
L’accettazione di ciò, dunque, è possibile solo per chi decida quale senso debba avere il passare del tempo
– il vero generatore, per Nietzsche come per Heidegger, di ogni metafisica – nel suo provenire da
un nulla ed andare verso un nulla; la decisione riguarda dunque quale senso dare al divenire, se
essere schiacciati da esso oppure farsene signori nell’attimo della decisione; si tratta insomma di
superare lo “spirito di vendetta”, il “peso più grande”, il “macigno del così fu” dinanzi al quale la
volontà che tutto vuole non può nulla e di cui perciò si vendica s-valutando il divenire; l’uomo deve
decidere se il tempo, e con esso tutte le cose, in quanto passa, sia anche degno di passare “invano”,
o se questo “invano” possa essere voluto dalla volontà come il suo unico destino possibile, e dunque
nonostante il suo passare, che è però sempre cooriginarità di essere e divenire, stabilizzazione e
caos; è per questo che Nietzsche dice: “Imprimere al divenire il carattere dell’essere – questa è la
suprema volontà di potenza” (Ivi., p.770).
Diventa così comprensibile anche la figura del Superuomo; egli è allora colui che supera l’umanità finora
esistita, e con essa l’ “ultimo uomo” incapace di reggere la mancanza di senso, in quanto riconosce
e accetta, in un supremo “sì” trasfigurante, l’eterno auto-porsi della volontà senza scopo e dunque
senza senso, mettendosi così al servizio del potenziamento della potenza.
Questa è la conclusione cui mira tutta l’interpretazione heideggeriana di Nietzsche; con il suo pensiero si
compie l’essenza nichilistica della metafisica come predominio dell’ente e della sua assicurazione
da parte dell’uomo, il quale ora giunge alla possibilità del dominio incondizionato della terra.
Tale processo giunge solo ora al suo compimento in quanto solo ora l’essenza “volontaristica” di tutto
l’essente giunge ad essere pensata come incondizionata, poiché ogni condizione è posta dalla stessa
volontà di potenza al fine del superpotenziamento della potenza. A partire da queste considerazioni
è possibile comprendere anche il “ruolo” che Heidegger assegna ad Hegel nella storia della
metafisica, così come il passo ulteriore che Nietzsche compie rispetto a questi.
Se infatti con Hegel l’assolutezza dello spirito si compie nella forma della ragione, la quale ha però
nell’oggetto ancora un residuo di autoestraneazione da ricomprendere nella fatica del concetto, la
volontà di potenza, come essenza della vita che è innanzitutto corpo, non ha più davanti a sé niente
che non abbia essa stessa posto come condizione del suo continuo potenziamento ( Ivi., 782).
113
La volontà di potenza, invece, ha “sotto di sé” la ragione come suo strumento, cioè come ponente valori
al fine del superpotenziamento; anche la tradizionale essenza dell’uomo come animal rationale
viene qui rovesciata dal primato del corpo (animalitas) – niente di biologistico – come concrezione
della volontà di potenza, per cui l’uomo diventa un “brutum bestiale”.
La certezza, cui a partire dalla modernità tende la metafisica, diventa la Giustizia (Gerechtigkeit) nel
senso della giustificazione che la volontà dà a se stessa a partire da se stessa per il dispiegamento
incondizionato della propria essenza come volere oltre sé; tale volere oltre sé rimane però sempre in
se stesso, poiché ciò che è posto come condizione lo è, ancora una volta, a partire dalla volontà che
comanda a se stessa, mentre “l’incondizionatezza del rappresentare è ancor sempre condizionata
da ciò che è a essa fornito” (Ivi, p. 781), (Ivi., p. 782).
Infine, il pensiero di Nietzsche, proprio in virtù del suo rovesciamento del platonismo, rappresenta il
compimento della metafisica nel senso della compiuta preminenza dell’ente come presenza;
secondo Heidegger, lungi dal pensare l’essere ed il divenire nella loro cooriginarietà, Nietzsche
afferma la più incondizionata stabilizzazione, di volta in volta operate dalla volontà di potenza, del
divenire nella presenza, compiendo così il primato dell’existentia che abbiamo visto delinearsi a
partire da Aristotele, la quale diventa però solo più la “realtà effettiva” (Wirklichkeit) a disposizione
dell’incondizionato effettuare umano: (Ivi., p. 553)
Bibliografia essenziale:
M HEIDEGGER, Nietzsche, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano, 1994; pp. 651-673, 863-910.
ID., Che cos’è metafisica in Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano, 1987; pp. 59-77.
ID., Introduzione alla metafisica, trad. it. di G. Masi, Milano, 1968; pp. 185-200.
Introduzione
Dalle lezioni dedicate a Marx e Jünger è emerso che un possibile filo conduttore per i discorsi che
qui sono stati affrontati può essere individuato nella questione dell’alienazione.
Soprattutto rispetto al tema del lavoro, ma abbiamo visto che in realtà sia in Marx
che in Jünger, in modi diversi, la questione del lavoro è connessa a quella delle
macchine, o se vogliamo della tecnica, la questione dell’alienazione, o meglio del
lavoro alienato, è una discriminante importante per differenziare il discorso di
Jünger da quello di Marx.
È sulla base di questo filo conduttore che intendo introdurre il discorso di Heidegger.
114
Da un punto di vista metodologico voglio attirare la vostra attenzione sul fatto che la
tematizzazione del pensiero di Heidegger rispetto alla questione dell’alienazione è,
mediata dal terreno culturale che nasce in Italia negli 70/80 intorno ad alcuni
ambienti della sinistra italiana legati all’operaismo e quindi ad una specifica
interpretazione di Marx. Vi do le coordinate della mia interpretazione, perché ad una
prima lettura, i dispositivi di Heidegger e Marx sono così differenti che un
accostamento e un confronto non è necessariamente scontato, e d’altro canto, se esso
è stato affrontato (penso in questo momento alla recezione heideggeriana avvenuta
Praga ad opera di Patocka e a Zagabria ad opera di Gaio Petrovic) non
necessariamente è stato affrontato rispetto alla questione dell’alienazione.
Quindi l’interpretazione che vi presento quindi è una possibile interpretazione. Essa,
come ogni interpretazione, non è semplicemente giustapposta, ma parte da alcune
dichiarazioni fatte da Heidegger nella Lettera sull’«Umanismo»:
1) «Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo
come l’alienazione dell’uomo affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo
moderno» (p. 70)
2) e inoltre «Marx nell’esperire l’alienazione penetra in una dimensione essenziale
della storia» (ibid.)
Heidegger vede la possibilità di «un dialogo produttivo con il marxismo» (ibid.),
proprio a partire dal concetto di alienazione.
Il mio discorso su Heidegger non sarà schiacciato solo sul rapporto di Heidegger a
Marx, ma prenderà in considerazione anche l’interpretazione heideggeriana
dell’Operaio di Jünger, anzi tenterà di mettere in evidenza, come alcune analisi non
secondarie del pensiero di Marx da parte di Heidegger siano proprio mediate dalla
sua recezione di Jünger.
Ma procediamo per passi:
in questa mia breve introduzione, che tenta di tirare le fila dei discorsi fatti fino ad
adesso, mi limiterò a delineare una figura fondamentale del pensiero di Heidegger,
che può essere letta, se assumiamo in questo momento la terminologia marxiana,
in termini di alienazione o a partire dalla questione dell’alienazione.
Se si assume questo paradigma interpretativo, cioè se si comprende questa figura
fondamentale del pensiero di Heidegger, si può affermare che nell’ambito del
pensiero di Heidegger, Marx e Jünger possono essere considerate come delle figure
dell’alienazione o dello spaesamento o del nichilismo.
Nelle lezioni seguenti ci occuperemo dell’interpretazione heideggeriana della
questione della tecnica, con particolare riferimento alla questione della macchina.
Poi seguirà una lezione in cui verrà esplicitata l’interpretazione che Heidegger da di
Marx
Una lezione sull’interpretazione heideggeriana di Jünger
115
E una lezione conclusiva sulla questione dell’agire e della possibilità di un
superamento del nichilismo a partire dalla prospettiva di Heidegger.
La figura fondamentale del pensiero di Heidegger che intendo mettere in evidenza è
una figura formale che si riempie di contenuti diversi nelle varie fasi del pensiero di
Heidegger.
Questa figura riguarda la comprensione dell’intero e della sua articolazione interna,
quindi il rapporto che, di volta in volta, in contesti differenti, si instaura fra parti e
tutto. Questa figura è una costante del pensiero di Heidegger, ed è visibile sin dalla
prima formulazione programmatica di esso.
Il pensiero di Heidegger nasce nel punto d’incrocio delle tematiche neokantiane con
il metodo fenomenologico husserliano e l’ermeneutica di stampo diltheyano.
Nella sua prima formulazione originaria il programma di Heidegger si propone di
comprendere la vita nella sua complessità, nella sua interezza e movimento, senza
ridurla ad oggetto e con categorie che derivino dalla vita stessa.
In una lezione degli anni ’20 Heidegger descrive addirittura questo programma nei
termini di un ritorno della filosofia alla vita dalla alienazione :
Nel descrivere il suo programmam in polemica con la filosofia del neokantismo,
Heidegger dice «c’è in gioco il riportare la filosofia in dietro a se stessa a partire
dalla sua estraniazione (Entäusserung)» (GA 59, p. 29).
Ciò che va chiarito è però: che cosa è l’estraniazione o l’alienazione compresa qui
nei termini di un’oggettivazione della vita nella filosofia?
Per comprenderlo dobbiamo partire dalla differenza fra Gegenstand, ‘ciò che mi sta
di fronte’, termine con cui si traduce ‘oggetto’ e Objeckt, che è anche ‘oggetto’,
senso negativo. «Objekt e Gegenstand non sono lo stesso. Tutti gli Objekte sono
Gegenstände, non tutti i Gegenstände sono Objekte» (GA 60, 55). Ogni
comprensione oggettiva è sempre comprensione oggettiva di qualcosa che sta fuori di
me e di fronte a me, ma non tutto ciò che mi sta di fronte deve essere compreso
oggettivamente.
Cosa si intenda per ‘oggettivazione’ è evidente a partire dalla vita e dalla sua
articolazione interna.→ Heidegger comprende la vita come un intero significativo,
in movimento.
[Attraverso un atteggiamento teoretico, che comprende ciò a cui esso si rapporta, !in
questo caso la vita), scindendolo dal modo in cui si attua/ si realizza questo
rapporto, la vita viene oggettivata.]
116
La vita è un oggetto nella misura in cui è fissata, bloccata e estrapolata dalle sue
connessioni significative.
Per descrivere questo fenomeno Heidegger usa un insieme di termini molto
suggestivi:
- smembrata (zerschlagen)
- è ridotta ad un cumulo di cose (senza connessioni)
L’oggettività deriva da un processo di distillazione (herausdistilliert) del mondo
circostante
Tale contesto è cancellato con un colpo di spugna(ausgelöscht).
L’oggettività è de-vitalizzata, privata della vita (ent-lebt), del significato (ent-deutet),
della storia (ent-geschichtlicht).
In quanto oggettiva la vita è ‘ridotta in pezzi’ (zerstückeln) (questo termine sarà
molto importante nella tematizzazione della tecnica) la riduzione di tutto l’ente a
fondo o a risorsa che è propria della tecnica moderna coincide con la riduzione di
tutto l’ente a pezzi intercambiabili di un meccanismo;
Attraverso questa descrizione Heidegger non intende invitare ad un
‘superamento’ dell’oggettività, ma intende mettere in evidenza come essa debba
essere compresa a partire dalla vita che si dà come un tutto, fatto di connessioni
significative.
A questo proposito Heidegger fa l’esempio dell’esperienza vissuta della
situazione di una lezione universitaria. Entrando in un aula uno studente non vede
prima la superficie bianca, un forma determinata e poi riconosce la cattedra, ma entra
in un contesto significativo e vede immediatamente la cattedra. Secondo Heidegger
anche l’esempio di un senegalese - che entra in un’aula e si trova di fronte a qualcosa
con cui non sa da dove cominciare, mette in evidenza che il mondo ci viene sempre
incontro in un insieme significativo. Se guardiamo l’esperienza fattuale della vita
nella direzione del contenuto esperito, allora indichiamo ciò che è esperito come
mondo e non come oggetto. Il mondo è qualcosa in cui posso vivere, l’oggetto no.
L’oggettività deve essere compresa a partire da questo contesto significativo e cessa
di essere una devitalizzazione della vita se è compresa la sua genesi in essa.
L’oggettività è un modo derivativo, cioè un modo che deriva dalla vita nella sua
complessità nel momento in cui si estrapola un momento di questa complessità, lo si
blocca dirigendo la propria attenzione ad esso. La vita nella sua oggettivazione deve
essere compresa a partire dalle connessioni significative della vita, come parte della
vita e non come pezzo, isolato dal suo contesto significativo.
Non si tratta quindi di un superamento dell’oggettivazione tout court ma di
una sua comprensione a partire dal tutto e dalle sue articolazioni e soprattutto
dalla sua attuazione in essa.
Per dimostrare come il confronto con la questione della tecnica e in un certo
modo con il marxismo sia implicito già nel modo di intendere la vita oggettivata
come un cumulo di cose e di pezzi, e come quindi al di là di differenze di
impostazione vi sia un filo rosso che collega le varie fasi del pensiero di Heidegger, è
117
possibile fare riferimento ad una citazione di Heidegger, in cui lo sgretolamento
dell’intero della vita e delle sue connessioni di significato è letta nell’ottica di una
‘socializzazione’ e ‘comunizzazione’, messa in comune di ‘pezzi di significatività’.
In una lezione degli anni ’20, in cui è centrale la tematica del ritorno della filosofia
alla vita, Heidegger afferma: «Nella modificazione della vita fattuale, che abbiamo
indicato come un ‘prender conoscenza’ eravamo diretti, in una rimozione radicale,
alla determinazione di una connessione, che è completamente staccata dalla
connessione dell’esperienza fattuale. La tendenza della vita e la tendenza del prender
conoscenza continuano a sussistere, si continua a comprendere la realtà, ma il senso
specifico della realtà dell’esperienza è perduto. I pezzi di significatività sono derubati
del cerchio/dell’intero della significatività ; essi sono “socializzati” (sozializiert), o
“comunizzati” (kommunisiert) e cioè posti tutti sullo stesso piano» (GA 58, p. 223.).
Rotta l’unità delle connessioni significative, la vita è compresa come un oggetto,
estrapolato dal cerchio della significatività, come un pezzo intercambiabile, messo
sullo stesso piano, socializzato, messo in comune.
In queste affermazioni è implicita la critica fondamentale che Heidegger
muoverà al comunismo, a partire dalla sua parziale sovrapposizione con l’essenza
della tecnica all’interno della storia dell’essere intesa come metafisica.
- Sintetizzando nella critica all’oggettività è possibile vedere la critica ad una
comprensione della vita, che blocca una parte di essa, rendendola come un pezzo
privo di contesto significativo, quindi scissa dal suo intero.
Se si considera solo la figura formale che poi si ripete con contenuti diversi, la
critica all’oggettività implica il rifiuto di una comprensione di una parte scissa
dal tutto, che non tenga presente l’articolazione fra parte e tutto e il loro
rapporto.
Anche nell’analitica esistenziale si può trovare la stessa figura fondamentale nella dinamica
dell’esistenza autentica e in autentica.
Il ‘Si’ costituisce il modo di essere quotidiano dell’Esserci e si muove come contraffazione della
verità originaria, resa possibile dalla struttura stessa dell’Esserci.
Il ‘Si’ è il velamento della verità originaria dell’Esserci in quanto sua apertura e si dà nella
presunzione di possedere il tutto.
Tale presunzione lo rende prigioniero di se stesso e della propria inautenticità. La deiezione,
infatti, non solo è la contraffazione della verità dell’Esserci (come intero) ma è anche la
dimenticanza stessa di questa contraffazione data nella presunzione di possedere e raggiungere il
tutto.
Tale presunzione chiude l’Esserci sempre più in se stesso, facendolo cadere nel gorgo
dell’inautenticità.
118
Il superamento di questa inautenticità è possibile attraverso il recupero del «poter-essere-un-tutto»
da parte dell'Esserci.
Anche qui abbiamo una dinamica che riguarda il rapporto fra una parte, la vita in autentica che si
identifica con il mondo ed è la contraffazione della sua apertura originaria e il tutto, il mondo
compreso come un intero e un essere un tutto.
In uno schizzo programmatico del ’22
Heidegger legge la deiezione nei termini di una
alienazione:
→ la tendenza alla deiezione è definita come ‘estraniante’ ‘alienante’,
perché la vita fattuale( termine con il quale è indicato l’esserci) assimilandosi al mondo di cui si
prende cura, diviene sempre più estranea (alienata Entfremdent) a se stessa e perde di vista la sua
motilità e interezza, credendo di essere la vita:
«la tendenza alla deiezione è estraniante/alienante e cioè la vita fattuale diviene, nel suo
identificarsi con il mondo di cui si cura, sempre più estranea a se stessa e la motilità del curare,
lasciata a se stessa nella convinzione di essere la vita, sottrae ad essa sempre di più la possibilità
fattuale di prendere nella preoccupazione se stessa nello sguardo e con ciò di assumersi come meta
del ritorno che si riappropria di sè» (NB, ted. p. 20).
La tendenza alla deiezione, in quanto assume la sua assimilazione al mondo come il tutto della
motilità della vita è alienante. La deiezione, o se vogliamo dirlo nei termini che Heidegger usa in
questo schizzo programmatico, l’alienzazione, è una motilità fondamentale della vita che non
può essere superata se non a partire dalla comprensione della vita come essere un tutto.
- . La stessa dinamica e la stessa figura fondamentale si possono riscontrare anche nella analisi
della storia della metafisica, sia dal punto di vista sistematico, che storico.
Senza soffermarmi su questa dinamica (→ Ulderico) voglio solo sottolineare
come, anche in seguito alla cosiddetta svolta nel pensiero di Heidegger, il sottrarsi
di una parte al tutto rappresenta l’essenza stessa dell’essere, che si dà in un
susseguirsi di epoche, che devono essere comprese a partire dalla storia del
destinarsi dell’essere.
119
Solo come esempio: la tecnica, intesa come «l’essere dell’ente nel suo più esteriore e
probabilmente ultimo destino» viene considerata da Heidegger come un pericolo, non come
strumento mal utilizzato, ma in quanto è essa una modalità dell’essere che si impone come l’unica
modalità, lasciando indietro (nach-stellen) nella dimenticanza ogni altro modo di darsi dell’essere
stesso. Cioè essa è solo un’epoca in cui l’essere si dispiega/ si invia, ma non l’unica epoca o
l’unica modalità.
La tecnica quindi è il pericolo in quanto è l’essere, e l’essere è «il pericolo della propria essenza»,
in quanto nel suo darsi in modi diversi rimuove se stesso come totalità, posponendo un modo del
disvelamento all’altro.
Il superamento di questo pericolo è possibile attraverso una svolta, intesa come un soggiornare
nella totalità dell’essere e attraverso il contegno della Gelassenheit, che Heidegger definisce come
un’ insistenza, che indica lo stare dentro
(in / stehen),
e non deve essere compresa come un
irriguardoso insistere su una modalità separata dell’essere, ma come un soggiornare nella vastità e
nell’ampiezza della sua apertura.
Anche se Heidegger qui non usa più il termine oggettivazione, in autenticità/alienzazione, ma
pericolo, (altrove userà ‘spaesatezza’, ‘nichilismo’) abbiamo a che fare con lo stesso problema e
cioè con quello della comprensione dell’intero e della sua articolazione interna, del suo modo di
darsi e della possibilità della sua comprensione.
È all’interno di questo dispositivo che dobbiamo tentare di comprendere in che modo avviene
l’influenza di Jünger rispetto alla tematizzazione della tecnica e in cosa consiste la critica che
Heidegger muove sia a Jünger che a Marx, ponendoli sullo stesso piano nella storia della
dimenticanza dell’essere.
Anche se la ricostruzione di questa figura fondamentale del pensiero di Heidegger rende
comprensibile su quale piano avviene il dialogo produttivo con il marxismo, bisogna tener
presente che il superamento dell’oggettività, dell’inautenticità, del nichilismo e della tecnica, come
sua ultima espressione non sono la medesima cosa che il superamento dell’alienazione.
Marx e Jünger come figure dell’alienazione:
un dialogo produttivo con il marxismo
120
a partire dall’orizzonte del superamento del nichilismo.
Nell’ultima settimana di lezione abbiamo tentato di tirare le somme delle questioni
affrontate.
Il metodo di lavoro che abbiamo utilizzato è stato quello di ricostruire il dispositivo
di pensiero dei rispettivi autori e, laddove è stato possibile, quello di mettere a
confronto questi dispositivi, a partire da tematiche analoghe, affrontate da punti di
vista e in contesti diversi.
È in quest’ottica che abbiamo analizzato:
1) da un lato, il tema del lavoro in Marx, inteso come determinazione astratta e lavoro
alienato, e il tema del lavoratore, inteso come tipo umano, in Jünger;
2) dall’altro, il tema della macchina, che nel dispositivo di Marx è intesa come un
momento costitutivo del capitale fisso nella fase di pieno sviluppo del capitale, e il
tema del macchinismo, inteso da Heidegger come quel meccanismo di funzionamento
della macchina ordinata nel funzionamento in circolo della tecnica.
Abbiamo più volte sottolineato come un possibile filo conduttore delle nostre analisi
possa essere individuato nella questione della alienazione.
Affrontando le questioni poste in questi termini, è chiaro che l’impronta al
nostro discorso è data dall’impostazione problematica di Marx e che gli altri
dispositivi di pensiero sono messi in gioco per cercare di dialogare con il
marxismo.
Heidegger nasce sei anni dopo la morte di Marx e Jünger addirittura dodici anni
dopo. Sono Jünger e Heidegger a conoscere il dispositivo di pensiero di Marx e
quindi sono loro a confrontarsi, in modo più o meno esplicito con il marxismo. Sia
nelle analisi dell’Operaio di Jünger, che nell’impostazione di pensiero, già, del
giovane Heidegger un confronto con il marxismo è implicito.
Nel primo caso senza che Jünger faccia esplicito riferimento a Marx, nella
comprensione ‘borghese’ dell’operaio come «rappresentante di una nuova classe,
come l’esponente di una nuova società e come organo dell’economia» (Operaio, it.,
p. 30) vi è un’implicita critica alla comprensione marxiana dell’operaio a partire da
categorie economico-politiche. (Marx quindi diviene un esponente del mondo
borghese).
121
Nel dispositivo di Heidegger abbiamo visto la presenza di una figura dell’alienazione.
Analizzando la tecnica a partire dalla figura del macchinismo (Machinerie), come un
processo circolare che non ha altra meta se non la perpetuazione di se stesso, sono
emersi i punti di contatto con la trasformazione del mezzo di lavoro in un «sistema
automatico di macchine» (Machinerie) (Lineamenti, it. p. 390).
Nella parte conclusiva del corso abbiamo visto come un confronto esplicito con Marx
sia tematizzato da parte di Heidegger già nel 1946 alla fine della Seconda Guerra
Mondiale, nel tentativo di istaurare un dialogo con il mondo francese e soprattutto
con l’esistenzialismo marxista di Sartre.
Non a caso però una presa di posizione più esplicita da parte di Jünger e Heidegger su
Marx avviene soprattutto alla fine degli anni 60, quando in seguito alle
manifestazioni studentesche il tema “Marx” torna alla ribalta.
Abbiamo visto come in un’epistola ad Heidegger del ’68 Jünger affermi: «Nella
forma del Lavoratore si può collocare l’intero marxismo, non al contrario» (testo
inedito, in preparazione per la fine del 2004).
In un’intervista televisiva dello stesso anno Heidegger afferma: «Si tratta di
comprendere l’essenza della tecnica e il mondo tecnico. Secondo la mia opinione, ciò
non può accadere fin quando ci si muove nella contrapposizione “soggetto-oggetto”.
Questo significa. A partire dal marxismo non può essere compresa l’essenza della
tecnica» (Intervista con R. Wisser).
Marx viene interpretato a partire dal peculiare dispositivo di pensiero di Jünger e
Heidegger, una volta come esponente del mondo borghese, in quanto intende
l’operaio a partire da categorie economiche, un’altra volta come uno dei più sfrenati
esponenti della tecnica.
Se nel dispositivo di Jünger, Marx appare come esponente del mondo borghese, nel
dispositivo di Heidegger, invece sia Marx che Jünger sono posti sullo stesso piano e
cioè, come figure della alienazione, come momenti della storia della metafisica in cui
l’essere si dà ritraendosi come tutto.
122
È tratta dal testo su Il Rettorato 1933/34. Fatti e Pensieri una affermazione esplicita
del pensiero di Marx e quello di Jünger allo stesso orizzonte di pensiero: «Ciò che
Ernst Jünger pensa nei concetti della signoria e della forma del milite del lavoro, ciò
che intravede alla luce di tali idee, è nient’altro che il dominio universale della
volontà di potenza nella storia, vista quest’ultima in una prospettiva planetaria. E a
tale realtà va oggi ricondotto tutto – lo si chiami comunismo o fascismo o
demoscrazia» (L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, it., p.
35).
Se il confronto con Jünger è localizzato nel testo Oltre la linea, il confronto con Marx
non avviene in modo sistematico, ma deve essere ricostruito a partire dai vari punti in
cui Heidegger cita Marx in testi differenti.
Qui di seguito ricostruirò l’interpretazione heideggeriana di Marx tentando di dare
una ricostruzione unitaria dei passi in cui Heidegger fa riferimento a Marx e
l’interpretazione di Jünger a partire dalle tesi fondamentali che Heidegger enuncia nel
testo di confronto con Jünger dal titolo Sulla linea.
1) Heidegger interprete di Jünger
Oltre la linea è il titolo che F. Volpi ha dato al confronto fra Jünger e Heidegger
concentrato sull’analisi dell’epoca contemporanea e la sua condizione di nichilismo,
assumendo per estensione il titolo dato da Jünger al suo contributo scritto per i
sessanta anni di Heidegger nel 1949..
Il titolo traduce l’espressione tedesca über die Linie che in tedesco indica sia l’oltre
che il riguardo (de). Sulla diversa interpretazione dello ‘über’ si confrontano i due
pensatori.
123
Entrambi gli interventi sono stati scritti per i sessant’anni dell’interlocutore, quello di
Jünger nel 1949, quello di Heidegger nel 1955.
Il problema comune e l’oggetto del contendere è la ‘linea’:
1) per Jünger essa rappresenta il termine di riferimento per diagnosticare la
situazione estrema a cui è arrivato il mondo contemporaneo nel suo ‘stato’ di
mobilitazione totale.
Quindi la linea indica il ‘meridiano zero’ oltre il quale non valgono più né i vecchi né
i nuovi ordinamenti.
2) Per Heidegger la linea segna il confine fra un’epoca e l’altra. Il titolo viene
interpretato da Heidegger come su la linea.
In quanto, pur condividendo la ‘diagnosi’ della malattia nichilista, H. non ritiene
ancora possibile il superamento della linea. Egli riflette sulla linea e sul fondo
metafisico della situazione che vuole indicare. Per mettere in evidenza la vera radice
del problema, nell’edizione di Segnavia ripubblica il testo con il titolo La questione
dell’essere (1967/76).
Il contenzioso che è al centro della discussione è quello dell’attraversamento del
nichilismo.
1) nel 1932 Jünger è convinto di aver delineato nell’Operaio una figura oltre il
nichilismo, in quanto oltre ogni processo di valorizzazione.
2) Negli scritti successivi si assiste ad un mutamento di prospettiva, di cui il testo che
qui stiamo analizzando è testimone.
Qui Jünger parte dalla definizione nietzscheana del nichilismo come “svalutazione
dei valori” divenuto “condizione normale”.
Jünger associa il nichilismo all’ordine, e alla salute e classifica la letteratura
nichilistica in forte o debole, attiva o passiva.
Pur associando il nichilismo alla salute, come Heidegger gli farà notare, egli si
cimenta non solo nella descrizione diagnostica, ma anche con una prognosi della
124
malattia nichilistica per poter raccomandare un comportamento all’individuo nella
sua interiorità.
La descrizione jüngeriana del movimento nichilistico si distingue per una
caratteristica che la rende autonoma rispetto al modello nietzscheano:
Jünger non sferza un attacco frontale contro i valori e gli ordinamenti che vanno
svalutandosi, ma limita ad una descrizione del movimento nichilistico, che, come
abbiamo visto, contribuisce al suo compimento.
In questo modo, come Heidegger noterà, egli penetra a fondo la realtà nell’ottica
della figura metafisica fondamentale della volontà di potenza.
In questa descrizione si colloca la problematica della linea, la cui localizzazione è
importante per capire in che modo Heidegger concepisce l’attraversamento del
nichilismo.
1) Per Jünger la linea non è il punto finale, termine oltre il quale il nichilismo è
oltrepassato. Essa è il punto mediano. Solo la testa è già oltre, mentre il corpo si
attarda ancora nelle retroguardie.
A giustificazione del suo ottimismo Jünger individua alcune avvisaglie
significative come l’inquietudine delle masse, la fuoriuscita delle singole scienze
dallo spazio copernicano e la comparsa di temi teologici nella letteratura
mondiale (par. 17).
Attraversare la linea significa entrare in quella zona
1) dove il nichilismo diventa totale, si fa condizione normale e
2) il niente diventa un aspetto essenziale della realtà.
Rispetto a questa situazione Jünger non prospetta una trasvalutazione dei valori, ma
la possibilità di un baluardo interiore e raccomanda un atteggiamento di resistenza
che permetta di conservare qualche oasi di libertà.
125
2) Heidegger coglie un mutamento di prospettiva fra l’Operaio e la tematizzazione
del nichilismo, attuata nel testo Oltre la linea, ma schiaccia le tesi qui enunciate da
Jünger su un’unica prospettiva.
In realtà, secondo Heidegger, già nel Lavoratore il nichilismo è pensato nella
«direzione di un oltrepassamento» (Oltre la linea, p. 119).
La tesi fondamentale espressa da Heidegger si può così sintetizzare: nonostante la
metafisica di Nietzsche della volontà di potenza rappresenti l’orizzonte nel quale
l’essente viene configurato secondo la forma del lavoratore, Jünger non si
interroga sull’essenza e sull’apertura dell’esperienza metafisica .
Questo è quanto vuole fare Heidegger compiendo una Localizzazione
(Erörterung) della linea.
Secondo Heidegger la figura dell’Operaio sta nella dimenticanza dell’essere.
E poiché in questa dimenticanza, dell’essere non è niente, anche Jünger è prigioniero
del nichilismo che egli descrive.
Il suo tentativo di oltrepassare la linea rimane in balia di un rappresentare che
appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Quindi un
rappresentare metafisico.
La descrizione jüngeriana del nichilismo non coglie le sue radici profonde, che
sono riposte nella storia dell’essere, delle sue destinazioni epocali e del suo
ritrarsi, le cui tracce sono riconoscibili nei tratti fondamentali della storia della
metafisica.
All’analisi di Jünger Heidegger contrappone una localizzazione della linea e quindi
anche del nichilismo.
Heidegger condivide con Jünger che
1) la questione del superamento del nichilismo debba essere affrontata a partire dalla
da una sua buona definizione.
2) In un certo senso condivide anche la concezione jüngeriana, secondo la quale il
nichilismo non sarebbe una malattia.
126
Anche se declina questa tesi sostenendo che dall’essenza del nichilismo non si
guarisce.
Quindi si propone di pensare l’essenza del nichilismo. È dalla comprensione di
questa essenza che può derivare la salvezza.
- Heidegger concentra la sua analisi sulla prospettiva offerta dall’Operaio.
3) L’analisi del Lavoratore
Il Lavoratore ha compiuto la descrizione del nichilismo europeo nella fase seguita
alla prima guerra mondiale: esso appartiene alla fase del nichilismo attivo e mostra il
carattere di lavoro totale della realtà, a partire dalla figura del lavoratore: il nichilismo
appare nella sua tendenza planetaria.
- Secondo Heidegger l’analisi di Jünger si muove, come ogni descrizione, su un
orizzonte limitato: il modo di vedere e l’orizzonte risultano dall’esperienza
fondamentale dell’ente nella sua totalità. Queste esperienze sono precedute da una
radura che apre il modo in cui l’ente ‘è’.
L’esperienza fondamentale che attraversa la rappresentazione di Jünger maturò nelle
battaglie di materiali della I guerra mondiale. Ma l’ente nella sua totalità si mostra
alla luce e all’ombra della metafisica della volontà di potenza di Nietzsche.
Secondo Heidegger i tratti principali del Lavoratore si rivelano nel sottotitolo:
dominio e forma.
In particolare egli si interroga sull’essenza della forma.
La forma deve essere intesa come idea in senso platonico, e cioè
1) come ciò che è immutabile ed è percepibile in un vedere
2) e come ciò che ha un rapporto con ciò che forma che può essere identificato con
quello fra stampo ed impronta,
127
3) anche se in Jünger il dare impronta è inteso in senso moderno, come ciò che
conferisce senso.
Attraverso la coappartenenza di forma e idea platonica Heidegger intende mostrare
che l’operaio è un’opera che ha la sua patria nella metafisica. In conformità ad essa
tutto l’ente è rappresentato a partire da un essere che è in quiete (e questo anche in
Hegel o Nietzsche, dove l’essere è pensato come puro divenire e assoluta motilità).
La forma è potenza metafisica.
-A differenza di Platone, la forma è fonte del conferimento di senso ed è forma di
un’umanità, essa in quanto subjektum è a fondamento di tutto l’ente.
1) La soggettività estrema che emerge nel compimento della metafisica è un tipo.
2) Questa visione della metafisica corrisponde al progetto della forma di Zarathustra
nella metafisica della volontà di potenza.
Il tipo umano dell’operaio deve essere inteso come soggettità, cioè come ciò che è a
fondamento dell’oggettività di un ente presente.
Quindi la figura dell’operaio si colloca alla fine di quel processo innescato da
Cartesio, per cui la soggettità, cioè ciò che è a fondamento di tutto l’ente, viene
identificata nella soggettività, in quanto caratteritstica dell’egoità, dell’io.
In Jünger non è più la soggettività del singolo a conferire senso alla totalità dell’ente,
ma il tipo umano.
Nella tematizzazione di Jünger ciò comporta due ulteriori mutamenti di prospettiva:
1) la forma del lavoratore conferisce la sua impronta all’ente attraverso il carattere di
lavoro totale. Il lavoro è inteso come il carattere totale della realtà del reale ed è
uguale all’essere nel senso della volontà di potenza.
2) Nel momento in cui la forma dell’essere umano diviene la fonte del conferimento
di senso l’elemento metafisico della metafisica, la trascendenza, si trasforma, in
rescendenza. La forma non è più qualcosa che trascende rispetto alla realtà e che
dall’alto della sua trascendenza conferisce senso, ma è nella realtà stessa come
l’impronta del suo conio.
128
La tecnica, in quanto mobilitazione del mondo attraverso la forma del
lavoratore, si fonda sul rovesciamento della trascendenza nella rescendenza.
Pensando la forma dell’operaio a partire dalla forma platonica, Heidegger colloca
anche il lavoratore nel destino del dispiegamento dell’essere. La forma platonica e la
forma del lavoratore devono essere pensate a partire dalla loro provenienza
essenziale. L’essenza della forma scaturisce nell’ambito originario del Gestell. L’idea
appartiene allo stesso ambito. Entrambe le forme devono essere pensate a partire
dall’essenza del dispiegarsi dell’essere.
A partire da questa prospettiva Heidegger pone la questione del superamento del
nichilismo.
2) Heidegger interprete di Marx
I testi fondamentali per ricostruire il confronto di Heidegger con Marx sono:
1) La Lettera sull’«Umanismo», 1946129
2) Alcuni appunti di lavoro pubblicati recentemente nel volume 69 della
Gesamtasugabe di Heidegger con il titolo Schizzo per il per la storia
dell’essere, tradotti in italiano con il titolo Il comunismo e la storia dell’essere (193940)130.
3) Alcune affermazioni contenute nella Prima conferenza del ciclo friburghese
Principi del pensiero, 1957131
4) Alcuni passi contenuti nei seminari di a) Le Thor (1969); b) Zähringen (1973)132
5) L’intervista televisiva con Richard Wisser, realizzata il 24 settembre del 1969 e
mandata in onda dal secondo canale della televisione tedesca due giorni dopo in
occasione dell’80° compleanno di M. Heidegger, e in seguito pubblicata con il titolo
Gespräch mit Martin Heidegger133.
L’impostazione generale del confronto di Heidegger con Marx emerge dalla
tematizzazione messa a punto nella Lettera sull’umanismo.
[ricostruzione generale delle linee argomentative] → La Lettera rappresenta un
confronto implicito con l’esistenzialismo marxista di Sartre e fu scritta in risposta a
M. Heidegger, Lettera sull’«Umanismo», trad. it. a cura di F. Volpi, Milano 1995.
Id., «Il comunismo e il destino dell’essere», trad. it. a cura di D. Thöma, in Micro-Mega,
131
Id., Conferenze di Brema e di Friburgo, trad. it. di G. Guirisatti, a cura di F. Volpi, Milano 2002.
132
Id., Seminari, trad. it. a cura di F. Volpi, Milano 1992.
133
Id., M. Heidegger in Gespräch, a cura di R. Wisser, München, 1968.
129
130
129
delle sollecitazioni del giovane studioso francese Jean Beaufret, che in una lettera del
10 novembre del 1946 [ancora inedita], aveva posto ad Heidegger delle questioni
cruciali che ruotavano intorno alla possibilità di una conciliazione fra etica e
ontologia e intorno alla possibilità di ridare un senso all’umanesimo. È quest’ultima
questione a dare il titolo al testo di Heidegger.
La Lettera si apre con una tematizzazione dell’essenza dell’agire. E si conclude con
una riflessione sulla possibilità ddi un’etica che faccia fonte ai problemi posti
dall’epoca della tecnica.
1) La tesi fondamentale espressa da Heidegger è che non sia stata ancora pensata a
fondo l’essenza dell’agire. Tale essenza non consiste nel “produrre effetti”, ma nel
“portare a compimento”. L’essenza propria dell’agire viene individuata nel pensare.
«Il pensiero non si fa azione solo per il fatto che da esso scaturisce un effetto o
un’applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa» (p. 31-32).
2) Perché questa essenza pura del pensare venga recuperata bisogna “liberarsi
dall’interpretazione tecnica del pensiero” che scinde il pensiero in discipline e
bisogna imparare a pensare prescindendo dall’uso di etichette.
3) Anche il termine ‘Umanismo’ è un’etichetta. Con tale termine si esprime «la
preoccupazione che l’uomo diventi libero per la sua umanità e che trovi in ciò la sua
dignità» (p. 42). I diversi tipi di umanismo di differenziano a seconda del modo in cui
è intesa la libertà e la natura dell’uomo. Heidegger individua il tratto comune di tutte
le forme di umanismo nella loro appartenenza alla metafisica. Tutte le forme di
umanismo sono accomunate dal fatto che in essa la determinazione dell’umanità
dell’uomo avviene a partire da «una interpretazione già stabilita della natura, della
storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nel suo insieme» (ibid.).
Ogni umanismo o è metafisica o si pone a fondamento di una metafisica, in quanto
tematizza la natura dell’uomo a partire da un’interpretazione già data dell’ente, senza
che sia messa in questione la verità dell’essere. Tutte le forme di Umanismo
tematizzano l’essenza dell’uomo come animal rationale a partire dalla definizione
aristotelica dell’uomo come Zoon logon echonton.
4) Questa concezione dell’uomo è entrata in crisi già a partire dalla tematizzazione
dell’uomo avvenuta in EeT. Per quanto all’animalità si possa aggiungere la
razionalità, nella tradizione metafisica l’uomo è pensato a partire dall’essere animale
e rimane in tale orizzonte. La metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas e non
a partire dall’humanitas. Heidegger intende offrire una tematizzazione più radicale
dell’essenza dell’uomo e pensa l’uomo come e-sistenza e cioè come “l’e-statico stare
dentro nella verità dell’essere” (p. 48).
5) A partire da questa definizione Heidegger critica l’affermazione di Sartre secondo
la quale “l’esistenza precede l’essenza”, in quanto semplice rovesciamento di una tesi
metafisica che rimane nell’ambito della metafisica ed è segno della dimenticanza
dell’essere. In contrapposizione a quanto emerge da un’analisi del pensiero di Sartre,
alla temtatizzazione dell’essere è attribuito un ruolo centrale nell’impostazione di
pensiero di Heidegger.
130
6) Non da Sarte ma dall’elegia di Hölderlin Heimkunft viene un contributo
fondamentale al pensiero che tenta di pensare l’essere. In essa la vicinanza all’essere
è tematizzata con il termine “patria”, mentre «la spaesatezza dell’uomo moderno» è
pensata «a partire dall’essenza della storia dell’essere» (p. 67). È in questo contesto
che si inserisce la tematizzazione più esplicita del rapporto con Marx.
7) Nella determinazione dell’essenza dell’uomo a partire dalla radura o dall’apertura
dell’essere, come e-statico stare dentro la radura dell’essere, Heidegger intravede una
preoccupazione più profonda per l’uomo e la sua dignità. Il pensiero di Heidegger è
in questo senso profondamente umanista, ma Heidegger rifiuta questa etichetta, in
quanto essa riconduce in seno alla metafisica.
8) Il rifiuto del termine ‘Umanismo’ non significa che il pensiero di Heidegger esalti
l’inumano, così come il pensiero che parla contro i valori, o contro il predominio
della logica, vuole solo aprire una sfera più originaria, sottolineando come i valori
siano solo un’operazione di soggettivazione e come la logica debba essere pensata a
partire dal significato originario del termine logos.
9) Ma se l’humanitas è così essenziale al pensiero dell’essere, diviene fondamentale
tematizzare il rapporto fra ontologia ed etica. Rifiutando un’etica compresa come
disciplina, Heidegger intravede la possibilità di ‘un’etica originaria’ nel pensiero che
pensa il soggiorno dell’uomo nell’essere e che pensa «la verità dell’essere come
l’elemento iniziale dell’uomo» (p. 93).
10) Il pensare che pensa la radura dell’essere è un fare, nel senso in cui è stato
definito all’inizio della Lettera. “Ma è un fare che supera ogni prassi. Il pensare
infatti è superiore all’agire e al produrre non per la grandezza delle sue prestazioni e
neppure per gli effetti che causa, ma per quel poco che è proprio del suo portare c
compimento privo di successi” (p. 100).
Nell’ambito di questa critica dell’umanismo, nell’ottica di un pensare più originario,
che ha i caratteri dell’agire, inteso come un portare a compimento, Heidegger cita
Marx almeno tre volte:
1) Nella tematizzazione dell’essenza dell’uomo e nella sua critica all’umanismo (pp.
40-43). [Marx comprende l’essenza dell’uomo in modo umanistico]
2) Nella tematizzazione dell’essenza dell’essere e del suo modo di darsi metafisico
(p. 64). [Marx ha rovesciato insieme a Nietzsche la metafisica assoluta di Hegel]
3) Nella tematizzazione della dimenticanza dell’essere, intesa, con i termini di
Hölderlin, come ‘spaesatezza’. (pp. 69-70). [Qui Heidegger come abbiamo già visto,
individua la possibilità di un dialogo produttivo con il marxismo nell’alienazione e
individua nella questione della tecnica lo sfondo su cui deve avvenire questo dialogo,
concludendo con la tesi secondo la quale il comunismo non è un partito o una visione
del mondo, ma deve essere compreso a partire dalla storia della metafisica].
131
Le tesi fondamentali che vengono espresse nella Lettera sull’«Umanismo» rispetto al
pensiero di Marx sono due:
1) il pensiero di Marx si colloca all’interno della storia della metafisica
2) l’alienazione è dimensione essenziale della storia che fornisce ad Heidegger un
terreno per affondare un dialogo produttivo con il marxismo.
Rispetto alla prima tesi Heidegger fornisce argomenti differenti:
il pensiero di Marx si muove all’interno della storia della metafisica
a) per il suo modo umanistico di determinare l’essenza dell’uomo
b) in quanto il suo pensiero rappresenta un rovesciamento della metafisica assoluta di
Hegel
c) nella sua concezione materialistica, secondo la quale tutto l’ente è messo a lavoro,
si esprime l’essenza della tecnica moderna, che in quanto modo del disvelamento è
un momento della storia dell’essere.
d) Se il comunismo, in quanto ‘umanistico’, in quanto rovesciamento della metafisica
assoluta di Hegel, in quanto espressione dell’essenza della tecnica, è un momento
della storia della metafisica, esso non può essere considerato un ‘partito’ o una
semplice ‘visione del mondo’.
Ma procediamo per piccoli passi analizzando le singole tesi separatamente e a partire
dai concreti riferimenti testuali.
La prima tesi sostenuta da Heidegger riguarda l’appartenenza del dispositivo di
pensiero di Marx all’interno della storia dell’essere intesa come metafisica.
a) Heidegger colloca Marx all’interno della storia della metafisica innanzitutto
per la sua concezione umanista dell’uomo. La determinazione dell’essenza
dell’uomo avviene a partire da un’interpretazione dell’ente nella sua totalità che
non mette in discussione l’appartenenza dell’essere all’ente. Anche Marx parte
da una determinazione dell’essenza dell’uomo inteso come animal rationale.
- Definizione dell’umanismo
132
Il termine ‘Umanismo’ è un’etichetta, con cui si esprime «la preoccupazione che
l’uomo diventi libero per la sua umanità e che trovi in ciò la sua dignità» (p. 42).
I diversi tipi di umanismo si differenziano a seconda del modo in cui è intesa la
libertà e la natura dell’uomo. Heidegger individua il tratto comune di tutte le forme di
umanismo nella loro appartenenza alla metafisica. Tutte le forme di umanismo
sono accomunate dal fatto che in essa la determinazione dell’umanità dell’uomo
avviene a partire da «una interpretazione già stabilita della natura, della storia, del
mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nel suo insieme» (ibid.).
Ogni umanismo o è metafisica o si pone a fondamento di una metafisica, in quanto
tematizza la natura dell’uomo a partire da un’interpretazione già data dell’ente, senza
che sia messa in questione la verità dell’essere. Tutte le forme di Umanismo
tematizzano l’essenza dell’uomo come animal rationale a partire dalla definizione
aristotelica dell’uomo come Zoon logon echonton.
«Per quanto queste forme di umanismo possono essere differenti nel fine e nel
fondamento, nel modo e nei mezzi previsti per la rispettiva realizzazione, nella
forma della dottrina, nondimeno esse concordano tutte nel fatto che l’humanitas
dell’homo humanus è determinata in riferimento ad un’interpretazione già
stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè
dell’ente nel suo insieme». (ibidem)
«Ogni umanismo si fonda o su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una
metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che presuppone
già, sia consapevolmente, l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della
verità dell’essere. Per questo, se consideriamo il modo in cui viene determinata
l’essenza dell’uomo, appare che il tratto specifico di ogni metafisica è nel suo essere
“umanista”» (ivi, pp. 42-43.)
- La definizione umanista dell’uomo in Marx
«Per umanismo si intende in genere la preoccupazione che l’uomo diventi libero
per la sua umanità, e trovi in ciò la sua dignità, allora l’umanismo è diverso a
seconda delle concezioni della ‘libertà’ e della ‘natura’ dell’uomo. Ugualmente
sono diverse le vie che portano alla sua realizzazione. L’umanismo di Marx non
ha bisogno di alcun ritorno all’antico, e così pure l’umanismo che Sartre
concepisce come esistenzialismo» (ivi, p. 42).
«Ma partendo da dove e come si determina l’essenza dell’uomo? Marx pretende
che l’”uomo umano” venga conosciuto e riconosciuto. Egli lo trova nella
“società” per lui l’uomo “sociale” è l’uomo “naturale”. Nella “società” la
“natura” dell’uomo, cioè la “totalità dei bisogni naturali” (nutrimento vestiario,
riproduzione, sussistenza economica) è assicurata in modo uniforme». (Ivi, p.40).
133
b) Marx viene collocato all’interno della storia della metafisica per il suo
rovesciamento della metafisica assoluta di Hegel
«L’essere viene al destino in quanto esso, l’essere si dà. Pensato in termini di
destino, ciò significa però: esso si dà e nello stesso tempo si nega. Nondimeno la
determinazione hegeliana della storia come sviluppo dello “spirito” non è errata,
così come non è in parte giusta e in parte falsa. Essa è vera come è vera la
metafisica che con Hegel esprime per la prima volta in un sistema la sua essenza
pensata in modo assoluto. La metafisica assoluta con i rovesciamenti che ne hanno
fatto Marx e Nietzsche, appartiene alla storia della verità dell’essere. Ciò che da
essa proviene non può essere colpito o eliminato mediante confutazioni, ma si
lascia solo assumere riportando in modo più iniziale la sua verità al riparo
dell’essere stesso e sottraendola all’ambito delle mere opinioni umane». (Lettera
sull’Umanismo, it., p.64).
In che senso il pensiero di Marx sia un rovesciamento della metafisica assoluta di
Hegel e quindi in che modo esso appartenga alla storia della verità dell’essere
diviene più chiaro attraverso un’ulteriore ricostruzione della posizione di
Heidegger.
c) Un po’ più avanti nella Lettera sull’Umanismo Heidegger fornisce la sua
definizione del materialismo. Da essa si ricava un ulteriore elemento che spiega
l’appartenenza del pensiero di Marx alla storia della metafisica.
«L’essenza del materialismo non sta nell’affermazione che tutto è solo materia, ma
piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come
materiale da lavoro. L’essenza del lavoro secondo la metafisica moderna è pensata
in anticipo nella Fenomenologia dello spirito come il processo autorganizzantesi
della produzione incondizionata, cioè come oggettivazione del reale ad opera
dell’uomo esperito come soggettività. L’essenza del materialismo si cela
nell’essenza della tecnica, di cui si parla molto e si scrive poco. Nella sua essenza la
tecnica è un destino entro la storia dell’essere, della verità dell’essere che riposa
nell’oblio». (Lettera sull’Umanismo, it., p. 70-71).
Da questa citazione di Heidegger ricaviamo che
134
a) L’essenza del materialismo deve essere compresa a partire dall’essenza della
tecnica.
b) Materialismo significa che tutto l’ente è divenuto materiale da lavoro.
c) In quanto espressione dell’essenza della tecnica, il marxismo si colloca sul
piano della storia dell’essere.
d) Qui però il lavoro deve essere inteso in senso hegeliano, cioè come il processo
autorganizzantesi della produzione incondizionata, intesa come oggettivazione del
reale ad opera dell’uomo inteso come soggetto.
Nella interpretazione del materialismo come “riduzione di tutto l’ente a
materiale da lavoro” Heidegger utilizza un’espressione tipicamente
jüngeriana134. Anche se abbiamo visto la dipendenza di Heidegger da Jünger,
nella tematizzazione della questione delle tecnica che avviene nel ciclo di
conferenze Sguardo in ciò che è, Heidegger non utilizza il termine ‘lavoro’ per
indicare l’imposizione in circolo dell’ordinare del Ge-Stell nei confronti del reale
dispiegato come fondo o risorsa.
Heidegger utilizza questo termine soltanto nella più famosa conferenza del 1954 135,
alla quale come sappiamo assistette anche Jünger. È lì che Heidegger dice: «Nel GeStell accade la disvelatezza conformemente alla quale il lavoro della tecnica
moderna disvela il reale come “fondo”» (La questione della tecnica, p.15).
La riduzione di tutto il reale a materiale da lavoro, che avviene nel materialismo
di Marx, deve essere intesa, però come Heidegger afferma, a partire dalla
tematizzazione del termine ‘lavoro’ che avviene nella Fenomenologia dello
Spirito. Se pensata in questi termini, ‘la riduzione di tutto l’ente a materiale da
lavoro’ va compresa come una riduzione di tutto l’ente a prodotto della
produzione dell’uomo.
Un’ulteriore chiarificazione in questo senso si può ricavare dal riferimento a
Marx che Heidegger fa nella Prima conferenza del Ciclo di Friburgo136. Qui la
tecnica viene pensata a partire dall’autoproduzione dell’uomo e questa
autoproduzione viene pensata a partire dal concetto hegeliano di lavoro:
Questa affermazione può essere fuorviante. Utilizzando l’espressione ‘materiale da lavoro’ Heidegger fa riferimento
al filone Nietzsche-Jünger. Ma abbiamo visto come Heidegger contrappone in un certo senso Nietzsche a Hegel, in
quanto nel primo si arriverebbe ad un ulteriore superamento dell’oggettività nella riduzione di tutto l’ente a volontà di
potenza. A quest’ultime fase del pensiero metafisico apparterrebbe anche l’operaio di Jünger. Ma come può essere il
pensiero di Marx una volta il capovolgimento della metafisica assoluta di Hegel e un’altra espressione di una riduzione
di tutto l’ente a materiale da lavoro, espressione che presuppone un superamento dell’oggettività nel dominio della
volontà di potenza? La risposta si può trovare se si prova a comprendere la riduzione tecnica dell’ente nel dispositivo di
Marx interpretato da Heidegger a partire dall’autoproduzione dell’uomo. Da ciò deriva che nel dispositivo metafisico di
Heidegger, dall’autoproduzione dell’uomo deriva la tecnica, cioè il funzionamento in circolo dell’impiegare, che si
dispiega come macchinismo e cioè quel sistema autonomo di macchine (machinerie), che Marx scritica, sussumendolo
sotto la circolarità del capitale.
135
M. Heidegger, «La questione della tecnica», in id., Saggi e discorsi,
136
Id., Conferenze di Brema e di Friburgo, trad. it., di G. Guirisatti, a cura di F. Volpi, Milano 2002.
134
135
«In uno scritto giovanile pubblicato postumo, Karl Marx spiega che “tutta la
cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell’uomo mediante il
lavoro, nient’altro che il divenire della natura dell’uomo” (Manoscritti economicofilosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Torino, 1968, p. 125). Molti respingeranno
questa interpretazione della storia mondiale e la rappresentazione dell’essenza
dell’uomo che ne sta a fondamento, però nessuno può negare che oggi la tecnica,
l’industria e l’economia, in quanto lavoro dell’autoproduzione dell’uomo,
determinino in modo decisivo tutta la realtà del reale. […].»
«Sennonché con questa constatazione cadiamo già fuori dalla dimensione del
pensiero in cui si muove l’asserzione di Marx circa la storia mondiale in quanto
«lavoro dell’autoproduzione dell’uomo». Infatti la parola «lavoro», qui non significa
la mera attività e operatività. Tale concetto parla nel senso del concetto hegeliano di
lavoro, che è pensato come il tratto fondamentale del processo dialettico mediante il
quale il divenire del reale sviluppa la sua realtà. Il fatto che Marx, in contrasto con
Hegel, veda l’essenza della realtà non nello spirito assoluto che comprende se
stesso, bensì nell’uomo che produce se stesso e i suoi mezzi di sussistenza, lo pone
senz’altro in estremo contrasto con Hegel, eppure proprio in virtù di tale contrasto
egli rimane all’interno della metafisica del suo antagonista; infatti la vita e il dominio
della realtà sono ovunque il processo lavorativo inteso come dialettica, cioè come
pensiero, sia esso inteso e realizzato come metafisico-speculativo o come scientificotecnico, oppure come miscuglio e imbarbarimento di entrambi».
(M. Heidegger, Principi del pensiero. Conferenze di Friburgo del 1957, p. 126-127.)
Laddove viene anche qui confermato:
1) che la concezione dell’autoproduzione dell’uomo è alla base del dispiegamento
della tecnica;
2) che in quanto l’essenza della realtà non è più identificata nello spirito assoluto che
comprende se stesso, bensì nell’uomo che produce se stesso, nel pensiero di Marx,
avviene il capovolgimento della metafisica assoluta di Hegel.
136
d) Dall’analisi delle motivazioni in base alle quali il pensiero di Marx deve essere
compreso a partire dalla storia della metafisica, e soprattutto dalla comprensione del
marxismo a partire dalla questione della tecnica, Heidegger trae la conclusione che il
comunismo non deve essere inteso come un ‘partito’ o una visione del mondo’.
«In quanto forma della verità, la tecnica ha il suo fondamento nella storia della
metafisica. Questa, a sua volta, è una fase eminente della storia dell’essere, e finora la
sola che possiamo abbracciare con il nostro sguardo. Si possono prendere varie
posizioni sulle dottrine del comunismo e sulla loro fondazione, ma sul piano della
storia dell’essere resta fermo che in esso si esprime un’esperienza fondamentale di
ciò che è la storia del mondo. Chi prende il “comunismo” solo come “partito” o come
“visione del mondo” pensa in modo altrettanto angusto di coloro che pensano che con
il termine “americanismo” si indichi solo e per giunta in modo spregiativo, un
particolare stile di vita» (Lettera sull’«Umanismo», it., p. 71)
- Questa interpretazione può essere integrata con la tematizzazione del comunismo in
uno scritto di recente pubblicazione che, nella traduzione italiana, ha il titolo Il
comunismo e il destino dell’essere (pubblicato su un recente numero della rivista
Aut-Aut)
Qui
Heidegger
afferma,
sancendo
definitivamente
lo
spostamento
della
tematizzazione del comunismo sul piano metafisico:
«Il contrassegno metafisico del compimento dell’età moderna è storicamente
l’ottenimento essenziale della potenza da parte del “comunismo” a costituzione
dell’essere dell’epoca della compiuta mancanza di senso» (Ivi, p. 286).
- Anche il rapporto fra marxismo e tecnica viene tematizzato in questo “frammento
sul comunismo” in modo più esplicito: l’origine dell’incondizionato dominio del
comunismo è la macchinazione.
137
La lotta contro il comunismo deve essere consapevole che «quel puro potere nel suo
incondizionato dominio, da parte sua, rinvia indietro ancora ad un altro come sua
origine e sostegno dell’essenza. Ciò è la “macchinazione”, parola con la quale si
deve pensare una decisione essenziale nella storia occidentale dell’essere» (Ivi, p.
289).
- Pensare il comunismo a partire dalla macchinazione e quindi dal meccanismo di
funzionamento della tecnica, significa comprenderne la componente spirituale.
«[Il] “materialismo è “spirituale” nel senso più alto, in modo così deciso che in
esso si deve riconoscere il compimento dell’essenza spirituale metafisica
dell’Occidente» (Ivi, p. 288).
Da ciò deriva che, come per l’essenza della tecnica, il pericolo del comunismo
consiste nella sottovalutazione della sua essenza spirituale.
«E perciò il “pericolo” del comunismo non consiste nelle conseguenze economiche e
sociali, quanto piuttosto nel fatto che la sua essenza spirituale, la sua essenza in
quanto spirito non viene riconosciuta e il confronto reciproco viene posto ad un
livello che assicura completamente il suo predominio e la sua irresistibilità» (Ivi, pp.
288-289).
Ricostruendo la concezione umanistica dell’uomo, il suo rovesciamento della
metafisica assoluta hegeliana e il suo legame con l’essenza della tecnica abbiamo
analizzato i motivi secondo i quali, il pensiero di Marx rientra nel dispiegamento
della storia dell’essere intesa come metafisica.
Adesso dobbiamo passare all’analisi di quella che è stata definita la seconda tesi
sostenuta da Heidegger nella Lettera sull’«Umanismo», ovverosia l’individuazione,
nella tematizzazione dell’alienazione, di un punto di contatto fra il suo dispositivo di
pensiero e quello di Marx.
*
138
La seconda tesi che intendo discutere è quella della comprensione dell’alienazione
come terreno per un possibile dialogo con il marxismo.
Heidegger sostiene:
1) Marx esperendo l’alienazione penetra in una dimensione essenziale della
storia.
2) L’alienazione affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno. In
questo punto viene individuato un elemento per un dialogo produttivo con il
marxismo.
«La spaesatezza diviene un destino mondiale. Per questo è necessario pensare
questo destino in relazione alla storia dell’essere. Ciò che Marx, partendo da
Hegel, ha riconosciuto in senso essenziale e significativo come alienazione
dell’uomo affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno. Questa viene
provocata dal destino dell’essere nella forma della metafisica, che la consolida e
nello stesso tempo la occulta come spaesatezza». (Lettera sull’Umanismo, p.6970).
«Poiché Marx nell’esperire l’alienazione penetra in una dimensione essenziale
della storia, la visione marxista della storia è superiore ad ogni altra
“storiografia”. Ma siccome né Husserl, né per quello che vedo fin ora Sartre,
riconoscono l’essenzialità della dimensione storica dell’essere, né la
fenomenologia, né l’esistenzialismo pervengono a quella dimensione in cui
soltanto diventa possibile un dialogo produttivo con il marxismo». (ibid.)
A partire dalla due tesi fondamentali sostenute nella Lettera sull’«Umanismo»
bisogna porsi la domanda sulla possibilità e sulla modalità di un dialogo
produttivo con il marxismo. Sulla base di queste tesi verranno ricostruiti i
riferimenti a Marx
contenuti negli altri testi a cui ho fatto riferimento in apertura.
Su quale piano può avvenire quindi il dialogo produttivo con il marxismo?
- Per impostare questo dialogo bisogna tener conto della peculiarità del
dispositivo di Heidegger. Nella prima lezione dedicata ad Heidegger, abbiamo
visto come nell’ambito del suo pensiero sia possibile individuare una figura
dell’alienazione.
Il confronto con Marx avviene su un duplice binario: 1) da un lato abbiamo a
che fare con una lettura del dispositivo di pensiero di Heidegger a partire dalla
139
questione, originariamente marxiana, dell’alienazione; 2) dall’altro dobbiamo
confrontarci con la lettura heideggeriana di Marx.
Nell’intervista televisiva con Richard Wisser Heidegger ci dà un’indicazione del
piano su cui intende affrontare il confronto. Spinto a prendere posizione sulla
possibilità o meno di modificare la società e in un certo senso sul suo modo di
intendere l’azione Heidegger, avanzando una sua propria diagnosi dell’epoca in
cui viviamo, risponde:
«Si tratta di comprendere l’essenza della tecnica e il mondo tecnico. Secondo la
mia opinione ciò non può accadere fin quando ci si muove nella
contrapposizione ‘soggetto-oggetto’. Questo significa: a partire dal marxismo non
può essere compresa l’essenza della tecnica».
Non si tratta di comprendere l’essenza della tecnica attraverso il marxismo, ma
di comprendere il marxismo a partire dall’essenza della tecnica e cioè a partire dal
piano metafisico del dispiegamento dell’essere nella sua essenza e nella sua
progressiva dimenticanza.
Il cambiamento di dispositivo e la collocazione del pensiero di Marx all’interno
della storia della metafisica implica il mutamento di impostazione
nell’interpretazione del marxismo, che non più politica, ma metafisica.
Il mutamento di impostazione emerge da alcune dichiarazioni di Heidegger nel
seminario di Zähringen (1973).
Heidegger afferma: «La mia interpretazione di Marx, spiega Heidegger, non è
politica. Essa pensa guardando all’essere e al modo in cui l’essere si destina. In
quest’ottica e in questa prospettiva posso dire: con Marx si è raggiunta la posizione
del nichilismo estremo. Questa frase non significa altro che questo: nella teoria che
spiega esplicitamente che l’uomo è l’essere supremo per l’uomo, viene in definitiva
fondato e confermato il fatto che l’essere in quanto essere non è più niente per
l’uomo» (171-72).
«Se la frase di Marx viene intesa in senso politico, ciò significa allora far diventare la
politica uno dei modi dell’autoproduzione – cosa che concorda perfettamente con il
pensiero di Marx. Ma come si può leggere questa frase diversamente, come si può
leggerla in chiave metafisica? Facendo attenzione allo strano salto con cui Marx
passa oltre un anello mancante» (ibid.)
140
«Che cosa dice effettivamente la frase? “essere radicale vuol dire cogliere le cose alla
radice. Ma la radice per l’uomo è l’uomo stesso”. Qui osserva Heidegger, manca un
pensiero intermedio che renda possibile passare dal primo pensiero al secondo. È il
pensiero che l’uomo sia la cosa in questione. Per Marx fin da principio è deciso che
l’uomo e unicamente l’uomo (e nient’altro) sia la cosa in questione. Da dove viene
questa decisione? In che modo? con quale diritto? In base a quale autorità? A queste
domande si può rispondere ritornando alla storia della metafisica. La frase di Marx,
perciò, va intesa senz’altro come frase metafisica» (ibid.).
Integrazione in cui si spiega la dipendenza di Marx da Hegel e da Feurbach: «La frase
citata ieri – “essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice per
l’uomo è l’uomo stesso” – non è una frase politica, dice Heidegger, ma metafisica,
che diviene evidente nell’orizzonte del rovesciamento della metafisica hegeliana
compiuto da Feurbach. Lo si può vedere nel modo seguente: per Hegel la cosa in
questione del sapere è l’assoluto nel suo divenire dialettico. Ora Feuerbach rovescia
Hegel facendo diventare l’uomo, e non l’assoluto, la cosa in questione del sapere.
Tre righe dopo la frase riportata, nel testo di Marx si legge la frase seguente (proprio
nel senso della critica feuerbachiana): “la critica della religione finisce con la teoria
per cui l’uomo è per l’uomo l’essere supremo…”» (p. 171).
L’interpretazione che Heidegger dà del pensiero di Marx è di carattere metafisico.
In quanto Marx pone al centro la questione dell’uomo, affermando che l’uomo è
l’essere supremo per l’uomo, egli conferma il fatto che l’essere, in quanto essere, non
è più niente per l’uomo e raggiunge in questo modo la posizione del nichilismo
estremo.
Ma il carattere metafisico del pensiero di Marx non si limita alla centralità in esso
assegnata alla “questione dell’uomo”, ma dipende dal modo in cui l’uomo viene
compreso in quanto “autoproduzione”.
141
Come abbiamo già visto nell’interpretazione della Lettera sull’«Umanismo», l’uomo,
inteso come autoproduzione, è, secondo Heidegger, alla base del dispiegamento
metafisico della tecnica. Per questo, in quanto individua l’essenza dell’uomo
nell’autoproduzione, il marxismo corrisponde alla situazione in cui regna
semplicemente la autoproduzione dell’uomo e della società, ovverosia a quella che
Heidegger altrove identifica con l’essenza della tecnica.
A questo proposito Heidegger afferma:
« “Essere radicali vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice per l’uomo è
l’uomo stesso”. Su questa tesi […] poggia tutto il marxismo. Quest’ultimo pensa
infatti a partire dalla produzione: produzione sociale della società (la società produce
se stessa) e autoproduzione dell’uomo come essere sociale. Pensando in questo modo,
il marxismo è appunto pensiero di oggi, il pensiero che corrisponde alla situazione in
cui regna semplicemente la autoproduzione dell’uomo e della società». (Seminari, it.,
p. 164)
- Nell’impostazione metafisica di Heidegger l’uomo, in quanto radice di se stesso e
risultato di un’autoproduzione, è all’origine del dispiegamento della tecnica e quindi
del pericolo. Heidegger ci dice qualcosa a tal proposito, sempre nel Seminario di
Zähringen (1973).
«Vorrei sostenere, o piuttosto supporre, che l’autoproduzione dell’uomo dà origine
al pericolo dell’autodistruzione. Che cosa vediamo in verità? Che cosa domina oggi
in quanto determina la realtà dell’intero pianeta? La coercizione a progredire. Questa
coercizione esige una coercizione a produrre, che è abbinata verso una coercizione
verso bisogni sempre nuovi. E quest’ultima, la coercizione verso bisogni sempre
nuovi è tale, che tutto ciò che è coercitivamente nuovo è altrettanto immediatamente
invecchiato e superato, rimosso dal “più nuovo” e così via. Nell’angustia prodotta da
questi avvenimenti si realizza in particolare la rottura con qualsiasi possibilità di
tradizione. Ciò che è stato non può più essere presente – se non nella forma del
142
superato, che di conseguenza non può affatto essere preso in considerazione» (Ivi, p.
165).
«Il marxismo e la sociologia definiscono “coercizioni” ciò a cui la realtà odierna
costringe» (ivi, pp. 165).
Heidegger interpreta il significato di “coercizione”, dal punto di vista ontologico,
riducendo le coercizioni al Ge-Stell. Nei Seminari infatti leggiamo:
«Heidegger definisce l’insieme [della “coercizione”] nella parola impianto (Ge-stell).
L’impianto è la raccolta, l’insieme di tutte le modalità del porre, che si impongono
all’essere umano nella misura in cui quest’ultimo e-siste oggi. Così l’impianto non è
in alcun modo il prodotto della macchina umana: è al contrario la figura estrema della
storia della metafisica, cioè del destino dell’essere. In questo destino l’uomo è
passato dall’epoca dell’oggettività nell’epoca dell’ordinabilità: in questa nostra
epoca a venire tutto sarà disponibile per mezzo di una calcolo di un ordine. In
termini rigorosi non c’è più alcun oggetto, ma solo “beni di consumo” a disposizione
di qualsiasi consumatore, collocato lui stesso nel mercato di produzione e consumo»
(ivi, pp. 165-66).
«L’uomo secondo Marx, quell’uomo che è per se stesso la sua propria radice, è
appunto l’uomo di questa produzione e del relativo consumo» →
Spostando la questione della tecnica su un piano metafisico, Heidegger colloca la
concezione marxiana dell’uomo come autoproduzione, nell’ambito del
dispiegamento dell’essere come tecnica.
La tecnica è l’ultima fase di quella dimenticanza dell’essere, di cui la concezione
dell’uomo come radice di se stesso è un momento.
Quelle che “genericamente” da Heidegger vengono definite come le
“coercizioni” a cui la realtà odierna costringe, assumono in Marx lo specifico
carattere del furto del lavoro altrui da parte di un esponente di una classe
rispetto all’esponente di un’altra classe. Heidegger interpreta tali “coercizioni”
da e a partire dal dispiegamento del Ge-Stell, Marx invece a partire dal
143
dispiegamento del capitale [che però nel dispositivo di Heidegger è interno al
dispiegamento dell’essere, e quindi assume una dimensione metafisica].
Dalla dislocazione del pensiero di Marx sul piano metafisico deriva la sua
assimilazione nell’orizzonte di dispiegamento della tecnica.
Ciò ha come conseguenza che Heidegger finisce per attribuire, dal punto di vista
metafisico, al marxismo, quel dispositivo che Marx, nella sua concezione
economico-politica, attribuiva al modo di funzionamento del capitale.
Un confronto fra la lettura heideggeriana dell’essenza della tecnica intesa come
“macchinismo” e la lettura marxiana del “macchinismo”, inteso come sistema
autonomo di macchine, effetto del processo di valorizzazione del capitale nella
fase del suo più compiuto sviluppo, può dare un’indicazione in questo senso.
Lo stesso fenomeno: il dominio di un sistema di macchine e del loro meccanismo di
funzionamento viene letto:
1) da Marx come effetto del processo di valorizzazione del capitale
2) da Heidegger come effetto del funzionamento in circolo del Ge-stell.
Nel dispositivo metafisico di Heidegger la concezione dell’uomo di Marx è un
momento fondamentale del dispiegamento della storia della metafisica.
*
Ma allora in che termini può avvenire un dialogo produttivo con il marxismo?
1) Da quanto è stato detto fino ad adesso deve essere chiaro che il superamento
dell’alienazione nei termini proposti da Marx rimane, nel dispositivo di
Heidegger nell’ambito della metafisica. Se si parte da una concezione umanista
dell’uomo, il superamento della alienazione della sua essenza non può che
rimanere nella sua essenza.
2) Il problema del ‘superamento’ può essere posto nel dispositivo di Heidegger a
vari livelli. Può essere posto nei termini di una ‘svolta’ interna all’essere. Ed è
quanto avviene nelle conferenze che abbiamo preso in esame. Può essere posto
nei termini della possibilità di un contributo dell’uomo. Ed è quanto avviene
attraverso la determinazione del contegno dell’abbandono137. O se si pensa agli
esempi presentati nella prima lezione, nei termini di un superamento
dell’oggettivazione in direzione di una comprensione delle connessioni
significative della vita. Ma se si parte da quelle ‘figure dell’alienazione’ che
all’inizio del nostro discorso erano state individuate nel dispositivo di Heidegger,
il superamento dello spaesamento o del nichilismo o della tecnica, non offre un
contributo notevole alla questione cruciale del marxismo.
Un dialogo ‘produttivo’ con il marxismo, [che parte da una questione metafisica,
ma ha i suoi risvolti politici] può avvenire solo rispetto al modo di concepire
137
Si veda: M. Heidegger, L’abbandono, trad. it. di A. Fabris, con un’introduzione di C. Angelino, Genova 1989.
144
l’azione. Un’indicazione in questo senso ci viene sia da alcune indicazioni tratte
dai Seminari, sia dall’intervista televisiva con Richard Wisser.
«Una volta ammesso che è l’uomo a produrre tutto ciò, sorge la domanda: il dominio
di queste coercizioni potrà essere spezzato dall’uomo stesso?» (Seminari, p. 166)
«Ma l’uomo inteso come esserci, e-statica insistenza nella radura dell’essere, si
contrappone a ciò che asserisce la proposizione marxiana. Si può dire che per
Heidegger l’esserci sarebbe la radice dell’uomo? No. Il concetto di radice rende
impossibile portare al linguaggio il riferimento dell’uomo all’essere». (Ivi., p. 166).
«… l’uomo di quest’epoca, l’uomo che si comprende come produttore di tutta la
realtà e agisce di conseguenza, l’uomo che oggi si vede impigliato nella rete che si
stringe sempre più strettamente delle “coercizioni” socioeconomiche (sulle quali viste
dalla prospettiva della storia dell’essere si riverbera l’impianto), può questo stesso
uomo produrre i mezzi per uscire dall’oppressione delle “coercizioni”? come
potrebbe riuscirci senza rinunciare alla propria determinazione di produttore? È
possibile una tale rinuncia nell’ambito della realtà attuale?» (Ivi, p. 166).
Nell’ottica di Heidegger, l’uomo non può produrre i mezzi per uscire dalle
coercizioni socio economiche, ma può soltanto esercitarsi in un nuovo tipo di
pensiero.
«Il raccoglimento nella sfera [dell’essere] non è provocato dal pensiero, così come
intrapreso da Heidegger. Vorrebbe dire anzi che si continua a rappresentare il
pensiero secondo il modello della produzione, se lo si ritiene in grado di cambiare il
luogo dell’uomo» (Ivi, p. 167).
Il pensiero comincia a preparare le condizioni di tale raccoglimento.
*
Intervista con Wisser e Seminario di Le Thor (1969).
145
1) Intervista con Wisser
Domanda: vede un compito sociale per la filosofia?
Heidegger: «No! non si può parlare di un compito sociale in questo senso. Se si vuole
dare una risposta a questa domanda ci si deve chiedere: „che cosa è la società?“, e si
deve riflettere sul fatto che l’attuale società è solo l’assolutizzazione della moderna
soggettività e che una filosofia che ha superato il punto di partenza della soggettività
non può più immischiarsi in queste questioni. Un’altra questione è in che misura si
può parlare di un cambiamento della società. La questione della pretesa di una
cambiamento del mondo riporta ad frase di Marx molto citata: «I filosofi hanno solo
interpretato il mondo in modo differente; ora si tratta di modificarlo». Citando e
seguendo questa frase, si perde di vista che un cambiamento del mondo presuppone
un mutamento della rappresentazione del mondo e che una rappresentazione del
mondo si ottiene attraverso una sufficiente interpretazione del mondo. Questo
significa: Marx si fonda su una determinata interpretazione del mondo per richiedere
il suo “cambiamento” e con ciò questa frase diviene evidente come una frase
infondata. Si ha l’impressione che qui si parli in modo decisivo contro la filosofia,
mentre nella seconda parte della frase è implicito un invito alla filosofia.» (Intervista
conR. Wisser, 69).
Se si assume il punto di vista di Heidegger, in un pensare, che superi la
separazione fra teoria e prassi, intesa come una contemplazione, da cui deriva
una successiva applicazione, e che sia in se stesso pratico, l’interpretazione, nel
momento in cui interpreta, modifica la realtà. Nell’interpretazione
dell’Undicesima tesi su Feurbach Heidegger mette in evidenza come
l’affermazione “i filosofi hanno interpretato diversamente il mondo; ora si tratta
di trasformarlo”, se da un lato è frutto di una precisa rappresentazione del
mondo, all’interno della quale una trasformazione del mondo succede la sua
interpretazione, dall’altra non esclude che una trasformazione del mondo possa
avvenire attraverso una interpretazione, che, interpretando, modifica.
2) Le Thor 1969
146
«Che cosa può fare il pensatore? Il presente seminario rappresenta già una risposta “e
per questo sono qui” dice Heidegger. L’importante è che alcuni, al di fuori di ogni
ambito pubblico, lavorino instancabilmente per mantenere vivo un pensiero attento
all’essere, ben sapendo che questo lavoro deve mirare a fondare, per un lontano
futuro, una possibilità di tradizione – poiché o ovvio che non si può vedere
estinguersi un’eredità bimillenaria in dieci o vent’anni». (Seminari, p. 121)
«Invece la “filosofia” odierna si accontenta di correre dietro alla scienza,
misconoscendo le due sole realtà dell’epoca attuale: lo sviluppo economico e
l’armamento che esso richiede. Il marxismo è consapevole di queste realtà. Ma esso
propone anche altri compiti: “i filosofi hanno solo interpretato diversamente il
mondo; si tratta di trasformarlo”». (Ivi, p. 121)
«Per un esame critico di questa tesi: c’è una vera e propria antitesi tra interpretazione
e trasformazione del mondo? Non è forse ogni interpretazione già una trasformazione
del mondo – posta che questa interpretazione sia il risultato di un pensiero genuino?
E d’altra parte, ogni trasformazione del mondo non presuppone forse, come
strumento, una preliminare visione teoretica?» (ibidem).
Heidegger contrappone ad una concezione in cui c’è separazione fra teoria e prassi e
in cui una visione teoretica è preliminare ad ogni trasformazione ad una concezione
del comprendere e del pensare che viene prima di tale scissione, partendo però dalla
convinzione che ogni interpretazione è già trasformazione!
«Di quale trasformazione si tratta allora in Marx? Di una trasformazione nei rapporti
di produzione. Ma quale è il posto della produzione? La prassi. E da che cosa è
determinata la prassi? Da una certa teoria che conia il concetto di produzione in
quanto produzione dell’uomo mediante se stesso. Marx possiede quindi una nozione
teoretica dell’uomo, - una nozione assai precisa, alla cui base sta la filosofia
hegeliana (senza Hegel Marx non avrebbe potuto trasformare il mondo)» (Seminari,
147
p. 122). [La trasformazione è determinata dal tipo di teoria che vi è alla base, in
questo caso la filosofia hegeliana e la sua concezione dell’uomo – capovolta!]
«Per Marx l’essere è processo di produzione. Questa è l’idea che egli riceve dalla
metafisica, dall’interpretazione hegeliana della vita
come processo. Il concetto
pratico di produzione può sussistere solo sul fondamento di un concetto d’essere di
derivazione metafisica». (Ibid.)
In questo modo ci si imbatte nello stretto legame che si instaura fra teoria e prassi.
Heidegger contrappone alla concezione moderna della teoria, intesa come “una delle
variabili della ricerca”, essenzialmente modificabile, la concezione aristotelica,
secondo la quale la prassi sarebbe la forma più elevata di prassi.
«Che cosa si intende oggi con teoria? Si intende forse una programmazione? […]
Teoria è il greco theoria, essa nomina il soffermarsi a guardare l’essere. Nell’Etica
Nicomachea essa rappresenta la specie più elevata di attività dell’uomo;
conseguentemente è la più elevata prassi umana». (ivi, p. 123).
La questione della tecnica: sguardo in ciò che è
Nel ciclo di conferenze Sguardo in ciò che è Heidegger si confronta per la prima
volta con l’essenza dell’epoca contemporanea, individuandola nella tecnica.
Come Heidegger stesso ha dichiarato nella comprensione dell’essenza della
tecnica, è evidente l’influsso dell’Operaio di Jünger. [Molte delle cose che le sue
descrizioni hanno visto e detto per la prima volta, oggi le vede e le dice chiunque.
Inoltre, La questione della tecnica deve alle descrizioni contenute nell’Operaio un
impulso notevole. (Oltre la linea, p. 118)].
148
Questo impulso è evidente nell’impostazione generale di carattere metafisico
della questione e in alcune analisi più specifiche, per esempio quelle riguardanti
l’intercambiabilità e la sostituibilità degli enti ridotti dalla tecnica a pezzi di
fondo o di risorsa.
1) Il primo punto affondato nella tematizzazione della tecnica, riguarda la
definizione dell’essenza della tecnica a partire dal termine Stellen.
2) Il secondo aspetto analizzato è quello della circolarità del processo attraverso
cui la tecnica si dispiega. Da cui deriva l’analisi di due momenti fondamentali:
a) quello della coappartenenza di tecnica e macchina;
b) quello del rapporto fra parti e tutto e della sostituibilità e intercambiabilità dei
pezzi di fondo, nella riduzione attraverso la tecnica di tutta la realtà a fondo o risorsa.
- L’essenza della tecnica viene individuata nel Ge-stell,
→ struttura (Ge sta per cum e stell si riferisce a stellen) esprime la riunione dei
modi del porre.
- L’ente che è disvelato attraverso la tecnica : Bestand, il fondo, la risorsa.
→ Il termine ‘Bestand’ indica il modo di darsi dell’ente nell’epoca della tecnica.
Tale ente è caratterizzato da disponibilità e da calcolabilità.
- Il Bestand deve essere compreso a partire da una serie di variazioni riguardanti
il termine Stellen, porre.
- Il Bestand sussiste mediante un porre, Stellen, di tipo particolare. → Questo
porre è il Be-stellen, l'ordinare/impiegare, imp-porre. Esso è un modo del porre
(stellen). E deve essere spiegato a partire dai significati fondamentali del porre.
149
1) Il significato principale del termine ‘Stellen’ può essere preliminarmente
compreso nella espressione: produrre qualcosa (her-stellen). → Il prodotto, das
Her-gestellte, non è innanzitutto e necessariamente il prodotto industriale.
Heidegger infatti distingue:
a) das Her-gestellte che è «ciò che è semplicemente fabbricato (das bloß
Angefertige)», e
b) das her Gestellte, ciò che è posto qui, nell'«ambito di ciò che ci riguarda».
→ Heidegger chiarisce questa differenza con un esempio. La realizzazione di un
sarcofago da parte di un falegname di un villaggio di montagna è altra cosa rispetto
all'«industria della sepoltura di una grande città».
Lo Stellen mediante cui sussiste il Bestand, (il fondo o la risorsa), il Be-stellen,
l’ordinare/impiegare, pur essendo imparentato con il porre nell’aperto her stellen,
deve essere pensato a partire dal secondo modo dello herstellen: il produrre, nel
senso della produzione industriale standardizzata e decontestualizzata. → ma questo
herstellen non esaurisce il significato del Be-stellen.
2) Lo Stellen, attraverso cui sussiste il Bestand, il Be-stellen, non è soltanto in questo
senso produrre, ma è pro-durre, spingere innanzi.
Questo spingere innanzi avviene nei termini di un ‘herausfordern’, di un provocare, nel senso di un richiedere con forza, quasi di un pretendere, un esigere
[Diese Arbeit fordert viel Zeit, questo lavoro richiede/esige molto tempo. Diese
Arbeit ist eine Herausforderung,questo lavoro è una sfida, una provocazione, nel
senso di qualcosa che richiede tutte le mie energie, che mobilita tutte le mie forze, le
richiede, le esige, le pretende! ].
- Il fine dell’herausfordern è l’accumulo, l’incrementare, la pro-mozione,
Herausförderung. [Il termine ‘fördern’ è utilizzato nell’ambito della ricerca per
150
indicare il finanziamento e la promozione di un progetto: il ministero della ricerca
‘fördert’ promuove un progetto, lo finanzia, lo ‘fa progredire’, lo spinge innanzi].
- la differenza fra ciò che è posto lì e ciò che è prodotto attraverso il processo
tecnico non consiste soltanto nel processo produttivo, quanto nella sua finalità.
Attraverso l’imposizione tecnica la realtà ridotta a fondo/risorsa non risponde ad
un'immediata esigenza, ma è sfrutata e richiesta per l'accumulo e lo stoccaggio. Essa
diviene fondo di magazzino fino alla sua successiva utilizzazione, tutte le sue
energie sono mobilitate perché essa divenga un risorsa utilizzabile in ogni momento.
→ L’imposizione della tecnica avviene nella forma del comando. Tale comando
avviene nella modalità della Gestellung, l’obbligo a presentarsi, la presentazione
obbligatoria: principali destinatari di questa Gestellung sono gli uomini e le donne
impiegati (bestellt) nel lavoro. L’obbligo a presentarsi non riguarda solo l’uomo, ma
il tutto dell’essente presente.
Sintetizzando: primo aspetto: la tecnica è espressione di un modo particolare di
porre. Questo porre è l’impiegare o l’ordinare (Be-stellen) che si manifesta come
provocazione ed è finalizzato all’incremento e all’accumulazione. In quanto tale
essa non riguarda solo gli uomini, ma il tutto dell’essente-presente. L’impiegare
avviene nella forma del comando attraverso la Gestellung che è l’ordine a
presentarsi alla leva.
151
2) La circolarità del processo di imposizione della tecnica
Finalizzato all’accumulazione, quindi, lo Stellen, attraverso cui sussiste il Bestand,
si caratterizza come un processo circolare.
Tale processo non ha altra meta se non nella perpetuazione di se stesso.
In quanto ordinato, bestellt, l'ente è un momento dell'ingranaggio, in cui ogni ente
prodotto è subito nuovamente ordinato per l'ottenimento di un nuovo risultato.
L'ente, così prodotto, non è un risultato definitivo e in sé concluso, ma è soltanto un
tassello per un nuovo processo di produzione. Esso è posto in un ordinare il cui
risultato è successivamente ordinato in un ulteriore adoperare:
→ «Un porre provoca l’altro, lo assale con l’obbligo a presentarsi, che non avviene
in una mera successione di azioni del porre, giacchè esso mediante la sua essenza,
accade piuttosto in anticipo e in segreto. Solo per questo l’obbligo a presentarsi
rende possibili una pianificazione e disposizione, da esso utilizzabili, dei singoli
intenti del porre particolare. E tuttavia, dove sbocca da ultimo la concatenazione
dell’ordinare?» (50).
→ Per sottolineare la mancanza di meta della concatenazione dell’ordinare
proprio della tecnica moderna, Heidegger descrive un particolare circolo in cui
ogni prodotto è la conseguenza, Folge, di un risultato, Erfolg, già ottenuto, e a sua
volta inserito in un nuovo processo di produzione.
«La risorsa sussiste e sussiste in quanto è posta in vista di un ordinare. Convertita
nell’ordinare, essa è posta nell’impiegare. L’impiegare pone in anticipo ogni cosa in
modo tale che ciò che è posto insegua ciò che consegue (dem folgt, was erfolgt).
Posto in questo modo tutto è “in conseguenza di” (im Folge von). La conseguenza
152
(Folge) però è ordinata in anticipo come risultato (Erfolg). Il risultato è quella specie
di conseguenza che rimane a sua volta rinviata all’esito di conseguenze ulteriori» (p.
48/26).
→ spiegazione: [l’ente impiegato e ordinato dalla tecnica non ha una sua autonomia
come qualcosa che è stata effettuata e ha un suo statuto e una sua utilità, ma ogni
prodotto è pensato come conseguenza di ciò che è stato già effettuato, che a sua
volta è un effetto di un effettuato. C’è una sorta di anticipazione dell’effettuazione:
ogni ente è pensato come effettuato e come conseguenza di un’effettuazione. È
annullato il nesso causa-effetto, nel senso che la causa non sussiste più come un ente
a se stante, ma è immediatamente effetto:
il risultato di qualcosa che è già
conseguenza e risultato di un’altra che non ha un’esistenza autonoma, se non come
effetto e risultato].
→ In questo processo tutto avviene in conseguenza di qualcosa già realizzata,
come sua ulteriore manipolazione. Ogni prodotto è la conseguenza di un effetto già
ottenuto, ed è a sua volta inserito in un processo di ulteriore trasformazione. Questo
processo è una «concatenazione dell'ordinare», finalizzata soltanto ad un nuovo
ordine.
Così avviene nella produzione industriale: →
«Come il suolo è sfruttato per produrre il carbone, il carbone da parte sua è sfruttato,
cioè provocato, per produrre calore; questo è già ordinato per fornire vapore, la cui
pressione aziona il meccanismo che mantiene in funzione una fabbrica, che è, a sua
volta, ordinata per costruire macchine e produrre attrezzi, con i quali vengono messe
e mantenute in azione altre macchine».
→ ciò avviene anche rispetto alla natura: «La centrale idroelettrica è posta nella
corrente del fiume. Essa pone quest’ultima in vista della sua pressione idraulica, che
pone in rotazione le turbine, rotazione che a sua volta aziona il macchinario il cui
meccanismo pone la corrente elettrica mediante la quale la centrale elettrica
interurbana e la sua rete elettrica sono poste in vista della fornitura di corrente. La
153
centrale elettrica posta nella corrente del Reno, l’impianto di sbarramento, le
turbine, i generatori di elettricità, l’impianto di distribuzione, la rete di diffusionetutto questo e ancora altro, nella misura in cui è immediatamente sul posto è
esclusivamente non per essere presente, bensì per essere posto allo scopo di porre
qualcos’altro» (p. 50).
In questo modo Heidegger introduce un altro elemento per spiegare la circolarità
della catena dell’impiegare o dell’imporre o dell’ordinare: tutto ciò che è posto dalla
tecnica, è posto allo scopo di porre qualcos’altro: lo Stand del Bestand, il luogo, il
posto della riserva, dell’ente impiegato dalla tecnica consiste nell’essere
‘immediatamente’ sul posto, pronto per l’impiego.
In questo processo circolare ogni prodotto non ha un'esistenza autonoma.
Per indicare questo ‘status’ del ente impiegato dalla tecnica Heidegger utilizza
l’espressione: 'auf der Stelle zur Stelle'. Questa espressione è stata tradotta da
Vattimo con ‘essere al posto al suo posto’, qui con ‘immediatamente a posto’
a) auf der Stelle è un’indiacazione spaziale e temporale: essa significa "in un posto
ben preciso" – ed indica anche un momento nel tempo, "l'istante". Nella
terminologia militare indica lo stare sull’attenti: sul posto, istantaneamente.
b) zur Stelle, indica l’essere a disposizione, a portata di mano,
Il prodotto tecnico è:
a) auf der Stelle, in un punto ben preciso, istantaneamente,
b) zur Stelle, a disposizione, a portata di mano,
e cioè è in un posto a portata di mano e immediatamente a disposizione.
→ pronto «per essere posto (gestellt) e cioè semplicemente per porre un altro
(anders zu stellen)».
→ Ciò che è così impiegato per essere «immediatamente a disposizione», «sussiste
come fondo ed è stabile nel senso del fondo».
154
→ ciò sottolinea ancora una volta l’autonomia del processo dell’ordinare:
→ L’ordinare non sbocca da nessuna parte, perché esso non produce nulla che abbia
una presenza al di fuori del porre:
«Ciò che è ordinato è sempre e solo posto allo scopo di porre un altro nel risultato
come sua conseguenza. La catena dell’ordinare non sbocca in nulla, anzi essa entra
soltanto nel suo corso circolare. Solo al suo interno l’ordinabile ha la sua
sussistenza. La corrente del Reno, ad esempio, è solo come ciò che è ordinato nel
suddetto ordinare. Non è la centrale idroelettrica ad essere costituita nella corrente
del Reno, bensì è la corrente del fiume ad essere incanalata all’interno della centrale
elettrica, e ciò che essa è in tal caso lo è in base all’essenza di quest’ultima. » (p.51).
[→ Questo processo riguarda tutto l’ente presente: L'impiegare attraverso cui
sussiste il fondo ha il carattere del provocare (herausfordern) e dell'accumulare
(herausfördern), ed accade «con il carbone, con il bronzo, con il petrolio grezzo, con
le correnti e con il lago, con l'aria». Questo ordinare è «in sé universale» e riguarda
«das Eine Ganze des Anwesenden», «la totalità di tutti gli essenti presenti».
→ Emerge il legame dell’impiegare con l’essere.
- Questa violenza dell’impiegare, rivolta a tutto l’ente, alla natura come l’uomo,
mette in evidenza, secondo Heidegger come esso non sia semplicemente «una
macchinazione (Machenschaft) un’attività umana compiuta nel modo dello
sfruttamento», anche se l’uomo non ne è completamente estraneo.
Gli uomini possono tale ordinare, solo nella misura in cui sono ordinati in esso,
«l'uomo è l'impiegato dell'ordinare (der Angestellte des Bestellens)»: «Gli uomini
nel loro rapportarsi agli essenti presenti, sono già provocati a rappresentarsi
l’essente presente, innanzitutto dappertutto e costantemente, come ciò che è
ordinabile in un ordinare. Nella misura in cui il rappresentare umano ha già ordinato
l’ente presente come l’ordinabile nel calcolo dell’ordinare, l’uomo secondo la sua
155
essenza
rimane, lo sappia o meno, ordinato nell’ordinare per l’ordinare
dell’ordinabile (für das Bestellen des Bestllbaren in das Bestellen bestellt)» (p. 53).
Il rapporto fra l'uomo e l'ordinare, però, potrà essere chiarito in tutte le sue
implicazioni, quando sarà emerso il legame dell'ordinare con l'essenza della tecnica
e di quest'ultima con l'essere.]
Prima di passare al rapporto fra tecnica e essere, bisogna mettere in evidenza ancora
due aspetti della sua essenza:
Il processo in circolo è espressione dell’essenza della tecnica come ‘Ge-Stell’
- Il Ge-Stell viene definito da Heidegger come «la riunione del porre, in cui
l’ordinabile si dispiega in quanto fondo». Tale termine, che nell’uso comune indica
lo scaffale o il telaio ed è spesso utilizzato in parole composte come Büchergestell,
(scaffale per libri), viene utilizzato da Heidegger perché nella sua struttura (Ge sta
per cum e stell si riferisce a stellen) esprime la riunione dei modi del porre.
Il Ge-Stell, secondo Heidegger, indica l’ordinare universale, che travolge tutto il
reale nell’ordinabilità (Bestellbarkeit). In esso tutto l'essente presente diviene
Bestand.
Il Ge-Stell infatti, trascina costantemente (ständig) l'ordinabile (das Bestellbare),
cioè tutto l’ente-presente nel funzionamento in circolo dell'ordinare (der Kreisgang
des Bestellens).
- per spiegare tale operazione Heidegger utilizza il termine Feststellen, nella sua
duplicità di significato: Feststellen vuol dire, infatti, bloccare, fermare, assicurare,
ma anche, constare e verificare.
Il Ge-Stell blocca, stellt fest, il tutto dell’ente-presente nel funzionamento in circolo
dell'ordinare, nella misura in cui lo verifica, fest stellt.
156
La doppia sfumatura di questo termine lascia emergere un aspetto dell'essenza della
tecnica, che fonda la sua affidabilità sulla verificabilità dell'ente, cioè sulla
possibilità di bloccarlo e mantenerlo fermo per ogni controllo e verifica. L'ente
bloccato nel funzionamento in circolo dell'ordinare è riposto (abgestellt), come ciò
che costantemente così sussiste, nel fondo.
Heidegger esprime un altro un momento essenziale della tecnica, attraverso i due
significati del termine 'raffen'. In quanto travolge tutto nell'ordinabilità il Ge-stell è
per Heidegger, Ge-raff, la riunione dell'«arraffare», 'raffen'. ACCUMULO.
Il verbo 'raffen', 'arraffare', mette in evidenza la violenza dell’ordinare, sempre
finalizzato
all’accumulazione
di
scorte,
ulteriormente
ordinate,
e,
contemporaneamente, si usa nella lingua parlata per indicare il momento del
comprendere, nel senso dell' 'afferrare', laddove è evidente il riferimento allo
strappare violento dal buio di ciò che non è compreso.
Con questi due significati del termine 'raffen' Heidegger esprime ancora una volta
un momento essenziale della tecnica, che può accumulare e arraffare materialmente
fondi di magazzino, solo in quanto si basa su una pianificazione del reale, 'afferrato',
gerafft, nella sua calcolabilità. L'arraffare non accumula semplicemente l'ente reale
in fondi di magazzino, ma strappa costantemente ciò che è ordinato nel
funzionamento in circolo dell'ordinare, all'interno del quale ogni ente ordina l'altro,
mettendolo in funzione (treiben).
Così rappresentato il Ge-Stell è anche Getriebe des Betriebes, meccanismo del
funzionamento.
A partire da quest’ultima definizione si può comprendere anche:
a) la coappartenenza di tecnica e macchina e
b) la riduzione del tutto dell'ente a pezzo di fondo
157
a) La tecnica moderna viene normalmente identificata con «la tecnica delle
macchine motrici» (56).
Questa definizione, seppur esatta, secondo Heidegger, non coglie l'essenza della
tecnica: «La tecnica moderna non è ciò che è attraverso la macchina» ma al
contrario «la macchina è solo ciò che è e come è, a partire dall’essenza della
tecnica».
Fra la tecnica e la macchina, infatti, secondo Heidegger, vi è una rapporto di
coappartenenza,
cioè non è la tecnica a derivare dalla macchina, né la macchina a derivare dalla
tecnica, ma
a) il Ge-Stell esegue, riproduce l’essenza della macchina e il suo funzionamento
autonomo.
Esso infatti
1) si impone attraverso un processo circolare in ci muoviamo in una catena
di effettuazioni,
2) e riproduce l’essenza dell’ingranaggio, in cui ogni ente sussiste solo in
quanto è al suo posto pronto e disponibile all’impiego.
e, dice Heidegger, in quanto è «la circolazione dell’impiegare, esegue in sé
stessa l’essenza della macchina».
b) Non solo la tecnica esegue la circolarità del meccanismo di funzionamento
della macchina,
ma anche la macchina deve essere pensata a partire dall’essenza della
tecnica.
Solo in base all’essenza della tecnica la macchina è ciò che è:
158
1) «La macchina non è qualcosa che esiste separatamente. Essa non è
assolutamente un tipo più complicato di strumento o apparecchiatura, solo
un ingranaggio (Räderwerk) che si aziona da solo a differenza dell’arcolaio
della contadina».
2) La macchina non è nemmeno un oggetto, cioè qualcosa che è posta lì di
fronte a noi e ha una sua autonomia: essa è solo «nella misura in cui funziona»
e funziona «nel meccanismo del funzionamento», che a sua volta si aziona
come il marchingegno dell’ordinare dell’ordinabile (der Umtried des Bestellens
des Bestellbaren).
Le macchine funzionano «all’interno di un macchinismo», (Maschinerie),
determinato, a sua volta, dal circolo dell'ordinare attraverso il quale il Ge-Stell
ordina il reale come fondo. La macchina, quindi, è solo un piccolo ingranaggio
del meccanismo di funzionamento del Ge-Stell, che ordina ogni aspetto del
reale come fondo, imponendogli di stare sempre al suo posto a disposizione per
un ulteriore ordine.
Il modo in cui la tecnica attraverso macchina produce qualcosa, secondo
Heidegger, è essenzialmente diverso rispetto al fare artigianale. Il prodotto
della macchina, infatti, non ha un suo status e una sua autonomia. Esso è
prodotto solo «per uscire di scena», per essere ulteriormente ordinato in un
processo di trasformazione.
b) Ciò che la macchina produce è solo un «pezzo di fondo» (Bestandstück).
Heidegger intende il termine ‘Stück’ in modo specifico. Esso non è usato come
sinonimo di parte, ma in contrapposizione ad essa.
«Il pezzo è qualcosa di diverso dalla parte. La parte si spartisce con altre parti
nell’intero, prende parte all’intero e gli appartiene. Invece il pezzo è separato, e
lo in quanto pezzo che addirittura è segregato dagli altri pezzi. Esso non si
159
spartisce mai con questi in un intero. In pezzo di fondo non si spartisce
nemmeno con il suo simile nel fondo, anzi questa è ciò che è spezzettata
(zerstückelt) nell’ordinabile. Lo spezzettamento non frantuma, bensì crea la
riserva di pezzi di riserva. Ciascuno di essi è incastrato, ingabbiato in un corso
circolare dell’impiegabilità. La segregazione di un pazzo dall’altro corrisponde
all’ingabbiamento di ciascun segregato nella fabbrica dell’impiegare» (59).
Il pezzo, infatti, non appartiene ad un tutto, ma è solo un momento isolato
dell'ingranaggio. Esso ha una sua funzione solo se è ordinato nel processo di
produzione, nel quale può essere in ogni momento sostituito. La sua essenza
consiste proprio in questa sostituibilità. La parte invece costituisce il tutto, ed è
essenziale al funzionamento di esso.
«I pezzi di fondo sono pezzo per pezzo gli stessi. Il loro carattere di pezzo esige
tale uniformità. In quanto uguali i pezzi si trovano nella massima segregazione
l’uno rispetto all’altro e proprio in tal modo accrescono e assicurano il loro
carattere di pezzo. L’uniformità dei pezzi consente che un pezzo possa essere
senz’altro, cioè immediatamente rimpiazzato con l’altro e quindi essere
presente sul posto. Un pezzo di fondo è sostituibile con l’altro. In quanto pezzo
il pezzo è già posto in vista della sostituibilità. ‘pezzo di fondo’ significa ciò
che è segregato in quanto pezzo e ingabbiato in modo rimpiazzabile in un
impiegare. Pensato in modo rigoroso anche ciò che chiamiamo parte meccanica
non è mai parte. È vero che esso è inserito nel meccanismo, ma lo è come pezzo
rimpiazzabile. Invece la mia mano non è un pezzo di me. Io stesso sono
totalmente me stesso in ogni gesto della mia mano, sempre ogni singola volta»
(60).
Il termine ‘pezzo’ si riferisce a qualcosa privo di vita, ciò nonostante esso deve
essere utilizzato, secondo Heidegger, anche in riferimento all’uomo. «Sia in
160
quanto manovra le macchine, sia in quanto all’interno dell’impiegare del
macchinario, le costruisce e le fabbrica […]. L’uomo è un pezzo di fondo nel
senso rigoroso delle parole pezzo e fondo». Anche l’uomo, infatti, viene
utilizzato come un sostituibile pezzo dell'ingranaggio all’interno del processo
dell’ordinare, che provoca alla presentazione ogni singolo prodotto, perché esso
sia costantemente a disposizione per un ulteriore ordine.
Citazione a pagina 61.
Come pezzo di fondo l'uomo è, secondo Heidegger, uno strumento nelle mani
della tecnica. Attraverso l’uomo il Ge-Stell ordina la totalità degli essenti
presenti, in un processo circolare, che coinvolge tutto, senza eccezioni.
Anche la natura, che sembra porre un confine decisivo alla tecnica, in realtà
appartiene essenzialmente al suo ambito. L’interpretazione secondo la quale
infatti, la tecnica rimarrebbe assegnata alla natura, che, fornendo i materiali, le
porrebbe un confine decisivo, non tiene conto che la natura, nella misura in cui
fornisce le forze che vengono ordinate nella trasformazione tecnica, è già
originariamente provocata nella sua essenza. La natura non è contrapposta al
Ge-Stell come qualcosa di oggettivo, che viene sfruttato e provocato
dall’esterno all’accumulo, ma è posta nell’ambito stesso del provocare
ordinante. «Nell’epoca della tecnica la natura non è un confine della tecnica.
Essa è solo il pezzo fondamentale di fondo del fondo tecnico e nient’altro al di
fuori di esso» (43-44). Essa stessa, a partire da questa appartenenza, è fondo, e,
precisamente fondo fondamentale (Grundbestand).
*
161
La questione della tecnica come questione dell’essere. Macchine e macchinismo in Heidegger (e
Marx )
dott. Paolo Primi
per contatti: [email protected]
«11. I tecnici trasformano il mondo solo in modi differenti, nell’indifferenza generalizzata; ciò che conta è pensare il
mondo e interpretare le trasformazioni nell’inaccessibilità del loro fondamento, di comprendere e esperire la differenza
che lega l’essere al nulla»138.
L’aspetto forse più singolare del pensiero di Heidegger consiste nell’insistente affermazione del
primato che un problema filosofico-accademico, il significato della parola “essere”, detiene nel
determinare il destino (Geschick) dell’umanità, il nucleo più intimo della sua capacità di futuro. La
paradossalità dell’opera filosofica di Heidegger risulta dall’oscillazione fra la complicata
elaborazione di temi e problemi teoreticamente rarefatti e una critica dell’età moderna forse la più
radicale dell’epoca. In realtà, dietro al problema ontologico, all’apparenza così anodino, si nasconde
un confronto di estrema intensità teoretica con i “fenomeni” più laceranti del mondo contemporaneo
– come la svalutazione dei valori e la crisi delle identità tradizionali, in una parola il dissesto latente
e infrastrutturale della modernità – ricapitolabili nell’espressione un po’ sovraccarica di mal-essere.
Appoggiandoci per un istante su quest’espressione linguistica, ambiguamente pregiudicata dal suo
alone psicologistico, e tuttavia non del tutto estranea al lessico filosofico heideggeriano (se si lascia
collidere l’istanza esistenziale con l’emergenza ontologica dello Unwesen), vediamo come tutto giri
intorno alla soluzione di quello che lo stesso Heidegger ha chiamato negli anni Sessanta il suo
“rompicapo” ontologico139: la questione dell’essere. Lo stesso problema aveva ricevuto una
formulazione molto più enfatica rispetto a quest’idea un po’ dimessa di sciarada nel § 1 di Essere e
tempo, proprio nelle parole d’attacco dell’opera: «Benché la rinascita della “metafisica” sia un
vanto del nostro tempo, il problema dell’essere è oggi dimenticato. Si crede infatti di potersi
sottrarre a una rinnovata gigantomachía perí tês ousías»140.
È tale dimenticanza dell’essere, mascherata nell’effetto di signoria sull’ente, il movente metafisico
del mal-essere moderno, che trova in espressioni come nichilismo e tecnica una codificazione
ampiamente condivisa nell’ambito della cultura tedesca tra fine 800 e anni Trenta del 900 in quel
filone di ricerche noto col titolo di “filosofia della tecnica”141. Nella negligenza dell’essere, l’uomo
può concentrarsi sull’ente per dominarlo e padroneggiarlo, innescando una guerra devastante per la
sovranità, segretamente dipendente dal suo “rimosso” ontologico142. Qui l’orizzonte problematico
heideggeriano si configura come un intenso confronto col fenomeno nichilistico a partire
dall’identificazione della questione dell’essere con la questione della tecnica moderna, ovvero a
partire dall’individuazione e dalla ristrutturazione del campo ontologico della gigantomachia.
La tesi che intendo articolare è che l’intenzionalità segreta della lettura heideggeriana di Marx si
collochi al centro del tentativo di rinnovare la battaglia intorno all’essere, ripensando a fondo le
K. AXELOS, “Su Marx e Heidegger. Tesi su Marx”, in ID., Marx e Heidegger, trad. it., intr. e note di E. Mazzarella,
Napoli 1977, p. 149.
139
Cfr. Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Napoli, p. 56.
140
M. HEIDEGGER, Essere e tempo, p. 17.
141
Cfr. M. CACCIARI, Excursus storico-politico sulla questione della Tecnica, in ID., Salvezza che cade…
142
Qui sarebbe il caso di indagare su una certa ricezione del tema freudiano della Verdrängung (e della Zänsur come
fenomeno della coscienza derivato dal Trieb) in Sein und Zeit, soprattutto a margine delle riflessioni sulla struttura del
Gewissen e sulla funzione esistenziale della Uneigentlichkeit.
138
162
strutture e le modalità d’esecuzione di quella battaglia di titani, quella machía, quella
macchinazione [ontologico-politica], verificandone gli esiti attraverso il confronto (scontro) con una
posizione filosofica, forse la sola della tarda modernità, consapevolmente ingaggiata in quella lotta
per l’assunzione e la ristrutturazione della totalità del quadro ontologico, nella figura della
trasformazione del mondo (qui “mondo” Heidegger l’intenderebbe nel significato metafisico di
totalità dell’ente, omnitudo realitatis). La gigantomachía perí tês ousías, rispetto a cui «le guerre
mondiali restano qualcosa di superficiale»143 (come si esprimerà Heidegger nel 1955), costituisce
l’alveo di senso dentro il quale si disloca un’analisi della modernità effettuata in “contrappunto”
rispetto alle tesi del marxismo, espressione di una posizione filosofica collocata esplicitamente agli
antipodi rispetto a quella heideggeriana: dove, dico in anticipo, all’alienazione viene contrapposto
l’oblio dell’essere, e al dominio di classe la tecnica144.
I filosofemi principali dell’itinerario heideggeriano sembrano, inoltre, rovesciare e disinnescare i
risultati più solidi della critica marxiana dell’ideologia, attribuendo alla filosofia il rango di “base” o
struttura, e relegando tutto ciò che resta nell’inferno della “sovrastruttura”. Leggo, in ordine sparso,
alcune affermazioni di Heidegger in proposito: «Ogni epoca della storia occidentale si fonda sulla
propria metafisica»145; oppure: «La storia della metafisica è il fondamento essenziale di ogni
storia»146; o anche: «Poiché la metafisica determina la storia del periodo occidentale del mondo,
l’umanità occidentale, in tutti i suoi rapporti con l’ente, e quindi anche con se stessa, è in ogni senso
portata e guidata dalla metafisica»147.
Heidegger concepisce la storia della metafisica secondo un modulo congenere a quello kantiano (e
poi fichtiano) come Kampfplatz, come teatro dello scontro epocale fra posizioni irriducibili, per lo
piò connotate geopoliticamente (Critica della ragion pura, A VII)148. La migrazione interna rispetto
a tale paradigma, in grado di riattivare la struttura polemologica della metafisica dopo l’urto con la
critica marxiana dell’ideologia e di restituirle così peso ontologico, è inscritta nella definizione del
fenomeno dell’oblio dell’essere. Ossia in un dispositivo teorico capace di mostrare come ogni fase
storica della metafisica celi una determinata interpretazione dell’ente in quanto ente, dove l’essere
stesso “è assente” o “si nasconde”, o “si ritrae”. La modalità secondo cui l’ente in quanto tale viene
compreso condiziona globalmente il mondo storico dell’uomo. L’interpretazione della natura come
res extensa da parte di Descartes, ad esempio, determina uno stato di cose in cui diventa
metafisicamente possibile il macchinismo dell’età moderna, e da ciò un nuovo rapporto col mondo
e una nuova umanità ad essa corrispondente. In un simile contesto, una critica della società orientata
su Marx, quindi sulla decostruzione dei “rapporti di produzione” come fondamento
dell’estraneazione dell’uomo, è radicalmente invalidata. La stessa determinazione della sfera
produttiva sarà situtata nel contesto di un’analisi dell’essenza della razionalità moderna, della logica
che si nasconde nella rappresentazione del mondo come un che di “tecnologico”. La trasformazione
del mondo intenzionata da Marx, per attuarsi, implicherebbe, restando per il momento solo alla
superficie del discorso heideggeriano, non il mutamento dei rapporti di produzione, ma del rapporto
dell’uomo con l’essenza della produzione, ossia del mondo in quanto tecnica. D’altra parte non si
tratta nemmeno di sostituire una rappresentazione del mondo con un’altra, mettiamo con una
rappresentazione non-tecnologica, ma di comprendere come il mondo nella modernità sia anzitutto
compreso a partire dal rappresentare e dall’attività rappresentativa (attività che riduce tutti gli enti a
oggetti disponibili per la dominazione dell’uomo), ad esempio, e come ciò sia un implicito
invisibile stato di cose, un’ovvietà mai tematizzata in base a cui viene compresa quella totalità di
rapporti, o interezza di rimandi (Verweisunsganzheit) che per Essere e tempo coincide con la
definizione ontologica del “mondo”. Non è una classe, allora, ossia un raggruppamento sociale che
M. HEIDEGGER, La questione dell’essere, in: JÜNGER/HEIDEGGER, Oltre la linea, Milano, p. 165.
P. ROHS, Martin Heidegger, in E. NORDHOFEN (a c. di), Filosofi del novecento, Torino 1988, p. 73
(Physiognomien. Philosophen des 20. Jahrhunderts in Portraits, Königstein/Ts. 1980, tr. it. di A. M. Marietti).
145
M. HEIDEGGER, Nietzsche, 2 voll., 1961, I, p. 479.
146
Ibid, II, p. 202.
147
Ibid., p. 343.
148
Cfr. su quest’ultimo connotato dell’idea kantiana della metafisica: G. DELEUZE/F. GUATTARI, Che cos’è la
filosofia?, Torino 1995.
143
144
163
organizza e impone la propria dominazione politica e ideologica, ma la tecnica come modo
peculiare in cui si configura il mondo come un intero, nella figura del dominio, ciò che oggi dispone
dell’uomo149. Questa, in estrema sintesi, la tesi di Heidegger.
Si tratta qui della radicalizzazione di un programma filosofico consistente, secondo un’espressione
di Essere e tempo, in un’«ontologia fondamentale» – sulla base di cui Heidegger credeva di poter
avviare una fase ultra-metafisica della storia, con tutta l’ambiguità del prefisso, una nuova fase, un
nuovo stadio della storia dell’essere in cui sarebbe trasformato il rapporto dell’uomo con la tecnica.
Peraltro sulla base di una vischiosa dichiarazione dello stesso Heidegger sulla «verità e grandezza»
del nazionalsocialismo in un corso del 1935, Introduzione alla metafisica (che non è resa meno
ambigua dalla parentesi esplicativa aggiunta nell’edizione a stampa del 1953, dove il
nazionalsocialismo viene presentato come una modalità inedita e dirompente di «incontro della
tecnica planetaria con l’uomo moderno»; dotata evidentemente di un ineffabile privilegio rispetto
alle modalità del comunismo e dell’americanismo150), tutta l’ambiguità del prefisso ultra- è stata
rilevata, con estrema durezza da critici marxisti come Adorno il quale, in Dialettica negativa
(Torino 1970, p. 53), afferma: «In Germania continuano ad avere influenza le ontologie,
specialmente quella heideggeriana, senza che atterriscano le tracce del passato politico. Tacitamente
l’ontologia viene intesa come la disponibilità a sanzionare un ordine eteronomo, sottratto alla
giustificazione di fronte alla coscienza. Il fatto che simili interpretazioni vengano smentite da fonti
autorevoli come malinteso, uno scivolare nell’ontico, una mancanza di radicalismo del problema,
non fa che rafforzare la dignità del richiamo: l’ontologia sembra essere tanto più numinosa, quanto
meno si lascia fissare a contenuti determinati. L’inafferrabilità diventa inattaccabilità… Ma la sua
influenza non sarebbe comprensibile se essa non andasse incontro ad un bisogno sentito, indice di
un’omissione, la nostalgia di non doversi accontentare del verdetto kantiano sul sapere assoluto»151.
Mantenendo sullo sfondo questa oscillante determinazione critica della questione dell’essere, presa
tra la maliconia del “bisogno ontologico” kantiano e la sanzione in termini di teologia negativa di
un ordinamento eteronomo dell’ente, l’intenzione di questa breve esposizione delle direttrici
principali della lettura heideggeriana di Marx consiste nel retrodatare il confronto con il
“marxismo” rispetto agli anni Quaranta, quando il tema emerge esplicitamente in una lettera
indirizzata al francese Jean Beaufret (1946), innestandolo fin dentro alla prima formulazione del
problema dell’essere, con l’effetto di sottrarre gli esordi filosofici di Heidegger al loro carattere
impolitico, poco più che accademico.
Tale approccio ha due ordini di legittimazione: uno, marcatamente storiografico, coinvolge
essenzialmente una problematica comune d’inizio secolo (Novecento) e che possiamo articolare
nella doppia ricezione della genealogia nietzscheana del nichilismo (come decostruzione del
cristianesimo) e nella critica marxiana dell’alienazione (come decostruzione dell’umanismo); l’altro
di ordine quasi filologico, ricavato dalla trama concettuale e argomentativa di un ciclo di seminari
organizzati tra la Francia e la Germania e che si tennero fra il 1968 e il 1973, in anni quindi di
intensa propulsione teoretica e politica del marxismo. Seminari – è il titolo del volume che raccoglie
i protocolli di quelle sedute di lavoro – sarà il testo di riferimento per esaminare questo nodo di
problemi. Questo testo costituisce, inoltre, anche l’ultimo ciclo di contributi filosofici heideggeriani,
ed è dedicato prevalentemente ad una retrospettiva sul proprio pensiero, ovvero sulla «questione
dell’essere», a partire da tre punti di accesso: Hegel, Kant e Husserl. Tuttavia, secondo le parole
dello stesso Heidegger, che ribadiscono quella paradossalità di cui s’è detto al principio: «Questo
seminario, con il suo punto di partenza apparentemente così specialistico, si vede posto in verità di
fronte alle decisioni ultime che questa realtà ci costringe ad assumere»152.
149
P. ROHS, cit., pp. 95-97.
Su questo punto, cfr. M. HEIDEGGER, Ormai solo un dio ci può salvare. Inervista con lo Spiegel, (13 maggio
1976), tr. it. di A. Marini, Parma 1987, pp. 129-131.
151
Cit. in G. Vattimo, Introduzione a M. Heidegger, Saggi e discorsi, p. V.
152
M. HEIDEGGER, Seminari, p. 169.
150
164
1. La scena filosofica e la questione – Partiamo dagli esordi filosofici, con lo scopo di sagomare
velocemente e con “tendenziosità” il profilo storiografico di Heidegger per come si costruisce,
facendo blocco con il Novecento, tra la prima e la seconda guerra mondiale, con tutti i limiti e le
insufficienze di uno schema. Ciò servirà a complicare la circostanza che all’inizio ci sia «un
problema puramente accademico, situato nel contesto dell’interpretazione di Aristotele, e inteso
all’elucidazione del significato di un’espressione linguistica»153, emerso essenzialmente dalla lettura
della dissertazione di Franz Brentano, Del molteplice senso dell’ente secondo Aristotele (1862) e
del trattato del teologo Carl Braig, Dell’essere. Compendio di ontologia (1896). Se il primo ci
tornerebbe utile nella definizione del metodo filosofico che Heidegger opporrà al discorso del
metodo marxiano, il secondo invece c’installa immediatamente nel fitto del dibattito teologicopolitico a cavallo del Novecento. Anzitutto la cronologia: nel 1896, anno d’edizione del trattato di
Braig, si svolgono ad Atene i primi giochi olimpici moderni e Strauß scrive Also sprach Zarathustra
– ciò avviene appena sette anni dopo la nascita di Heidegger a Meßkirch, nel 1889, anno del crollo
psichico di Nietzsche e della nascita di Charlie Chaplin, Ludwig Wittgenstein e Adolf Hitler.
Il cattolico Braig si muoveva nel contesto di una peculiare corrente culturale dell’epoca chiamata
«antimodernismo»154, e sanzionata teologicamente nel 1907 con l’enciclica Pascendi dominici
gregis («De falsiis doctrinis modernistarum»). Se l’impianto teorico dell’enciclica e delle
argomentazioni provenienti dalle schiere di chierici antimodernisti si attradava su tematiche già
resistenziali come la difesa dei dogmi ecclesiastici (come l’‘immacolata concezione’) e dei principi
della gerarchia (come l’‘infallibilità del papa’), Carl Braig, nel suo Was soll der Gebildete vom
Modernismus wissen?, scopriva «presupposti fideistici irriflessi» nelle varianti della scientificità
moderna e sollecitava un nuovo risveglio dal “sonno dogmatico” in cui vedeva cristallizzate le
strutture della moderna civilizzazizone. Progresso, scienza, evoluzione biologica, leggi storicoeconomiche, la stessa categoria di civiltà venivano messi duramente in crisi e rappresentati nei
termini di un processo di imprigionamento coincidente con l’emergere irriflesso, sotto la vernice
sociologica dell’individualismo, dell’atomizzazione sociale e della contemporanea massificazione,
di un fenomeno ben più lacerante. Nell’ottica antimodernista di Braig, si trattava di portare alla luce
il nucleo filosofico della modernità, identificato nell’«autonomia del soggetto», il cui assolutismo
sarebbe informato da una nozione di libertà fattizia, ricavata da un rapporto pragmatico-utilitaristico
con la verità, intesa a sua volta come «ciò che procura risultati» – in un gusto estremo e impoverito
del disprezzo per il mistero, nei confronti del quale è ormai impossibile provare quel timore e
tremore, concepibile solo con un ritorno ad una forma di realismo pre-kantiano e un assetto sociale
pre-illuministico fondato su un nuovo ordine teologico. Tali tematiche rispecchiano un’inquietudine
decisamente metafisica di cui il clima culturale coevo era impregnato, e rappresentano una sorta di
schema abbreviato riesposto con estrema intensificazione teoretica nelle analisi heideggeriane del
Moderno. Per una maggiore enfasi documentaria su questa convergenza con una serie di
atteggiamenti interpretativi, di approcci caratteristici nei confronti del mondo moderno e della
civiltà industriale, si tenga presente l’adesione del giovane Heidegger al Gralbund, gruppo di stretta
osservanza antimodernista facente capo al ‘movimento giovanile cattolico’, la cui guida spirituale, il
viennese Richard von Kralik, era un fanatico della ricostruzione della fede cattolica e dell’impero
cattolico-romano della nazione tedesca avente per centro gli Asburgo (l’Austria), in quanto
alternativa al progetto militare-industriale protestante della Prussia (ma su questa divaricazione di
modelli si veda la prospettiva di Musil in L’uomo senza qualità). Figura guida degli antimodernisti
contro la corrente liberale del cattolicesimo: Abraham a Sancta Clara (1644-1709), simbolo di
cristianesimo sociale e antisemitismo, due marche teorico-politiche dotate di non poche analogie
con quell’altro filone della cultura tedesca fin de siècle, il neo-romanticismo di Paul de Lagarde,
Julius Langbehn e Möller van den Bruck, da inscrivere nella più ampia crisi della cultura tedesca
post-hegeliana e che fornirà al III Reich le sue irriferibili radici culturali. Tale critica della
modernità, analoga per molti aspetti a quella dell’antimodernismo cattolico, in effetti, si produceva
153
P. ROHS, cit., p. 75.
A tale proposito, cfr. la ricostruzione di R. SAFRANSKI, Ein Meister aus Deutschland, München/Wien 1994 (tr. it.
di N. Curcio: Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, Milano 1996).
154
165
sul livello più basso del progetto di distruzione della ragione attraverso le figure del déracinement o
della perdita di patria (Heimatlosigkeit) – questione sociologicamente affrontata senza l’ambiguo
misticismo di queste posizioni attraverso la concettualizzazione della crisi delle comunità organiche
rurali, in concomitanza con lo sviluppo della metropoli contemporanea come sito della società
capitalistica e industriale, incarnata da una figura sociologica dotata di un massimo potenziale di
sradicamento: l’ebreo, istanza di finanziarizzazione, fluidificazione monetaria del reale che,
attraverso l’eco-nomia, desostanzializza e sovverte il senso dell’oikos ancestrale e comunitario155.
Questa locuzione, Heimatlosigkeit, affetta dalle ripugnanti, e tuttavia irreversibili, semantiche
patriottiche proprie dell’ideologia del Volk (terra e sangue), viene originariamente proposta come
categoria cruciale di quell’alternativa politica e filosofica alla teoria dell’alienazione e della “lotta di
classe” costituita dalla strategia del “radicamento” del polpolo nel suolo natío, in una sinergia
cosmico-irrazionalistica in grado di rivitalizzare il Volksgeist e così sottrarre la nazione tedesca al
destino dell’isterilimento nichilistico della meccanizzazione. Tale movimento, detto völkisch, e le
sue assisi culturali sono descritte e ricostruite nel libro di George L. Mosse, The Crisis of German
Ideology, 1964 (tr. it. di F. Saba-Sardi: Le origini culturali del Terzo Reich, Milano 1968)156.
Si trattava di quella che è stata definita la “rivoluzione conservatrice”157: una critica ‘da destra’
della società borghese impegnata in un attacco corrosivo nei confronti delle conquiste della
rivoluzione francese e codificata in un programma politico alternativo sia rispetto alla soluzione
individualistica liberale che a quella del collettivismo comunista, entrambe riportate al progetto
razionalistico-illuministico inteso come origine controfattuale dello stato nichilistico dei rapporti
umani, il quale partito da un ideale di liberazione dell’umanità l’aveva poi esposta alla violenza
demoniaca e negatrice del binomio materialismo-mercantilismo. Un esempio tipico di tale
atteggiamento lo si ritrova nel poeta Stefan George il cui circolo, il Geroge-Kreis, attrasse nel
periodo anteguerra numerosi intellettuali, affascinati dal conservatorismo spiritualistico e dalle idee
esoteriche e mistiche propugnate dallo stesso George. Secondo tali teorie le popolazioni
contemporanee che si ritiene si siano liberate dai vincoli delle relazioni gerarchiche sussistenti
all’interno della originaria comunità (Gemeinschaft), sarebbero in realtà cadute vittime delle
relazioni economiche impersonali dell’astratta società del commercio e del libero scambio
(Gesellschaft). George sosteneva che denaro e affari, costituenti della società moderna, avessero
deformato il mondo, fatto della vita una quantità calcolabile, assorbendo il sostrato vitale del popolo
in un amorfo dispositivo di negazione:
Dopo cinquant’anni di ininterrotto progresso, persino gli ultimi resti di ogni sostanza saranno scomparsi, se
non viene al mondo null’altro che la macchia (Makel) del progresso, se attraverso commercio, giornali,
scuole, fabbriche e baracche la contaminazione del progresso urbano si è spinta negli angoli più remoti del
mondo, e il mondo è stato diabolicamente capovolto, il mondo dell’America, l’antimondo si sarà alla fine
imposto158.
Paradossalmente, nonostante l’avversione congenita nei confronti della civiltà industriale e della
tecnica propria di tale milieu, molti intellettuali reazionari – in particolare in seguito alla sconfitta
155
Ciò avviene secondo le molteplici declinazioni del tema della oikía: dalla dimestichezza (etim.: domestichezza:
domus) dell’abitare alla domesticazione politica del gregge umano attraverso la definizione teologico-politica di un
potere pastorale, dall’eco-nomia all’eco-logia, passando per le odiose semantiche patriottiche e nazionalistiche, quelle
dello sradicamento (/alienazione) nichilistico dal tessuto comunitario e dall’apparteneza ad un mondo (-della-vita) di
tradizioni (cfr. S. WEIL, L’enracinement), e quelle sociologiche dell’anomia e dell’insensibilizzazione etica (cfr. E.
DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale) – fino naturalmente alla questione dell’«abitare» e, secondo l’immagine
della casa hölderliniana, alla “casa dell’essere” (contemporaneamente: mondo, essere, patria, casa, suolo natale), con la
corrispondente tematica ontologico-epocale della Heimatlosigkeit in Heidegger («l’assenza di patria» che «diviene un
destino mondiale»).
156
Cfr. anche Rodney STACKELBERG, Idealism Debased: from Völkisch Ideology to National Socialism, Kent 1981.
157
Cfr. K. SONTHEIMER, Der Tatkreis, in «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», 7, 1959, pp. 229-260; S. BREUER,
Anatomie der konservativen Revolution, Darmstadt 1993.
158
Cit. in Christian Graf von KROCKOW, Die Entscheidung: Eine Unter-suchung über Ernst Jünger, Carl Schmitt,
Martin Heidegger, Stoccarda 1958, pagg. 37-38
166
della Germania nella prima guerra mondiale – si persuasero del fatto che solo con adeguate,
moderne strutture industriali e nuovi, aggiornati armamenti fosse possibile difendere la Germania
dall’ostilità delle nazioni confinanti e adempiere alla missione cui era chiamata la nazione tedesca
di dominio mondiale (es.: il titanismo della produzione totale in Jünger)159. A tale proposito,
Heidegger dirà nei Seminari: «Si dovrebbe meditare, in proposito, sulla comparsa di una nuova
forma di nazionalismo fondata sulla potenza tecnica, e non più (per fare un esempio) sui peculiari
caratteri etnici»160.
La medesima inquietudine metafisica è documentabile anche attraverso una letteratura di diverso
rango scientifico. Con la dissoluzione dell’idealismo tedesco, e del suo tentativo di mettere in forma
teologia e politica, lo stesso problema era stato filtrato e codificato dalla cultura borghese attraverso
la ripresa di un tema filosofico maledetto della modernità: il materialismo. Tenendo conto solo
dell’ambito tedesco, ma qui tedesco vuol dire Mitteleuropa, tutta una letteratura, a partire dalla fine
degli anni quaranta del diciannovesimo secolo, si deposita a strati su questo segmento del discorso
filosofico moderno al quale aderisce lo stesso Marx, ovviamente non solo nella scelta
dell’argomento della dissertazione dottorale: Karl Vogt, Lettere psicologiche (1845), e Fede cieca e
scienza (1854); Jacob Moleschott, La circolazione della vita (1852); Ludwig Büchner, Energia e
materia (1855) [letto in quegli anni come manifesto epistemologico-politico dell’illuminismo
insieme a Il messaggero dell'Assia (1834), un pamphlet socio-rivoluzionario redatto dal fratello, lo
scrittore e drammaturgo Georg Büchner, in collaborazione con il teologo protestante Friedrich
Ludwig Weidig e rappresentante del punto più alto della pubblicistica rivoluzionaria nel Vormärz
tedesco]; Heinrich Crolbe, Nuova esposizione del sensualismo (1855). Solo nel 1866 le tensioni
latenti in questo dibattito raggiungono una massa critica, esplodendo nella fondamentale Storia del
materialismo di Friedrich Albert Lange161, destinata ad avere notevoli influssi sia su Nietzsche sia
sulle scuole neokantiane162, sia sulle filosfie della vita. In breve, si tratta di una ricostruzione della
distinzione kantiana fra un «mondo dei fenomeni» analizzabile secondo le leggi della fisica
newtoniana e un mondo della libertà (o Spirito o cosa in sé), evidentemente sottratto allo schema di
comprensione epistemologica dei fenomeni naturali. Secondo Lange non c’è distacco di livelli
dell’essere; l’esperienza scientifica, la materia e lo spirito si dispongono su di un piano di
coesistenza, in cui la distinzione fra verità (epistemologica) e valore (culturale-spirituale) è
ricondotta ad un dualismo prospettico più che ontologico, dove spirito e materia sono in equilibrio,
in un rapporto di compensazione degli squilibri causati dal complesso tecno-scientifico. Proprio
questa politica ontologica dell’equilibrio sarà aggredita da Nietzsche il quale «metterà poi la parola
fine a questa coesistenza pacifica di verità e valore concepita da Lange»163, liquidando radicalmente
la duplicazione delle sfere dell’ente (persistente in Lange nella figura della «organizzazione psicofisica dell’uomo»164) attraverso la costruzione, solo “sperimentale”, di un paradigma in cui sia i
fenomeni spirituali sia quelli naturali siano comprensibili nel quadro di una medesima struttura
ontologica, quello della “vita” come potenza e lotta non-armonizzabile per la potenza fondata sulla
dis-misura, intesa come “differenza” di grado. (Potenza e trascendenza: oltre-uomo).
Tale malessere metafisico viene registrato nei percorsi della cultura borghese d’inizio Novecento, la
quale non fa che prolungare e intensificare quell’esperienza di crisi, religiosa economica sociale,
che caratterizza la seconda metà del diciannovesimo secolo in stretta relazione con l’annunciarsi di
una società pianificata e con l’imporsi sempre più massiccio di una logica dell’apparato tecnicoscientifico che esploderà con la Grande Guerra. La Kulturkritik tedesca dei primi decenni del
Novecento, in cui culmina la riflessione su quest’opprimente stato di cose, è una riflessione che si
159
Cfr. J. HERF, Il modernismo reazionario,
M. HEIDEGGER, Seminari, Milano, p. 129.
161
F. A. LANGE, Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart (1866), Frankfurt/M.
1974.
162
Cfr. K. Ch. KÖHNKE, Entstehung und Aufstieg des Kantianismus. Die deutsche Universitätsphilosophie zwischen
Idealismus und Positivismus, Frankfurt/M. 1986, pp. 233-257; J. SALAQUARDA, Nietzsche und Lange, in «Nietzsche
Studien», 7, 1978, pp. 236-253.
163
R. SAFRANSKI, cit., p. 47.
164
Cfr. F. A. LANGE, cit., p. 481.
160
167
sviluppa a ridosso della crisi più generale della Repubblica di Weimar e che raggiungerà il suo
apice con la Grande Crisi del 1929. Qui si registra il senso diffuso di un declino della civiltà
occidentale, espresso con grande successo editoriale da libri come Il tramonto dell'Occidente di
Oswald Spengler, il quale sintetizza con molta efficacia lo stato delle cose, secondo i moduli di
reazione della cultura borghese dell’epoca: il contrasto fra vita e scienza, impostato su una
rivendicazione dell’esistenza come vita vivente, irriducubile agli schemi predittivi e operativi della
scienza posti a fondamento di una società polarizzata fra la burocrazia statale e la grande industria
capitalistica165.
Inserita in questo contesto, il senso dell’operazione filosofica di Heidegger si riassume nella
ricostruzione della “dinamica” della civiltà occidentale e delle sue “declinazioni”, effettuata sullo
sfondo teorico della sociologia tedesca dell’età gugliemina (Sombart, Simmel e soprattutto Weber).
Il tema centrale di queste riflessioni potrebbe essere ricapitolato nel confronto con il problema
marxiano dell’alienazione. Questa problematica torna al centro del dibattito, come abbiamo visto in
negativo attraverso il breve excursus nel “pensiero reazionario”, tra la fine dell’Ottocento e i primi
del Novecento. L’industrializzazione con le sue discontinuità antropologiche, sociologiche e
politiche induce sociologi e filosofi come Georg Simmel (1858-1918), Werner Sombart (18631941) e Max Weber (1864-1918) a indagare le caratteristiche essenziali della società moderna,
cercando di definire un modello esplicativo del fenomeno della disumanizzazione in diretto, seppur
critico, confronto con l’analisi marxista della società capitalistica. Max Weber, estraneo a quelle
tonalità nostalgiche nei confronti del mondo premoderno che abbiamo osservato nei movimenti
neoromantici e antimodernisti, mette a fuoco la drammaticità della condizione umana nel mondo
moderno. L’elemento teorico di divaricazione nei confronti di Marx deriva per Weber
dall’insufficienza del modello marxiano della divisione delle classi, al quale egli oppone l’idea di
un crescente livello di “razionalizzazione” della società responsabile del progressivo e inesorabile
distacco da ogni sottofondo magico-religioso nell’esperienza del mondo166, del “disincanto del
mondo”, ossia della sua desacralizzazione e riduzione a oggetto calcolabile e scientificamente
dominabile. L’uomo moderno vive nella salda convinzione che «ogni cosa, in linea di principio,
può essere dominata dalla ragione... Che non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per
ingraziarci gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze. A ciò sopperiscono la
ragione e i mezzi tecnici» (La scienza come professione). Nel mondo moderno e capitalistico, si
tratta per Weber di una razionalità meramente “strumentale” basata sullo schema dell’efficienza del
rapporto mezzi/fini, e sulla tendenza ad inficiare le tipologie tradizionali di razionalità, espressione
di un diverso riferimento all’emotività e ai valori. L’esito della moderna società capitalistica,
pertanto, consiste nella formazione di una «gabbia d’acciaio» da cui è impossibile evadere – qui si
può solo imparare a vivere senza nostalgie regressive o illusioni progressiste, accettando l’apparato
burocratico come “destino” dell’Occidente nella figura della politica tecnico-amministrativa, e
recuperando la dimensione emotiva e valorativa nella sfera della personalità e della condotta
individuale (politeismo dei valori come assunzione radicale del carattere prospettico della verità)167.
Analoga a quella di Weber risulta l’analisi della modernità condotta da Simmel, in particolare, nella
Filosofia del denaro (1900), in cui l’analisi dell’economia monetaria sfocia in una raffigurazione
dell’intera epoca moderna in quanto caratterizzata da una crescente intermediazione universale che
165
G. VATTIMO, Introduzione alla trad. it. (1976) di M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, Milano 1997, p. IX. Vattimo
prosegue – e questo è l’orizzonte ermeneutico della sua lettura di Heidegger – sostenendo che, «ponendolo come
problema del senso dell’essere, Heidegger opera già una prima radicalizzazione, nel senso che in tal modo propone già
implicitamente quella che sarà una delle tesi essenziali di tutto il suo itinerario di pensatore: il problema di una
riappropriazione del mondo dei significati da parte del singolo esistente concreto si pone non solo, o anzitutto, perché
nella società della pianificazione massificata il singolo diventa una rotella in un ingranaggio il cui funzionamento
inevitabilmente gli sfugge; ma anzitutto perché è accaduto un obnubilamento, appunto, del senso dell’essere, e ciò da
molto tempo prima che la tecnica moderna avanzasse le sue pretese di dominio sulla vita dei singoli e della società»
(ibid.).
166
Cfr. l’analisi delle conseguenze nefaste del positivismo in cui l’esperienza (Erfahrung) oggettivante della scienza
devitalizza (ent-lebt) l’esperienza vissuta (Erlebnis) delle persone (Per la determinazione della filosofia, 1919).
167
Devitalizzazione/demondificazione (disincanto del mondo); Scienza e specializzazione disciplinare.
168
lega uomini e cose in rapporti sempre più oggettivi e impersonali, attraverso l’immissione
dell’individuo in un reticolo complesso di interdipendenze che lo assoggettano a forze oggettive e
anonime sovrastanti la sua capacità d’azione. L’apporto sociologico maggiore di Simmel consiste
nell’elaborazione di una vera e propria fenomenologia dell’alienazione dell’uomo moderno nel
contesto di una realtà dominata dal calcolo e dalla riduzione di ogni aspetto qualitativo a parametri
rigorosamente quantitativi, insediata topograficamente nella grande città, oggetto di una
pionieristica trattazione nell’opera La metropoli e la vita mentale (1903). Il tratto fondamentale
della civiltà moderna viene rappresentato da Simmel in un’antinomia lacerante fra soggetto e
oggetto, nella forma del prevalere dello spirito oggettivo (lavoro e istituzioni) sullo spirito
soggettivo, delle forme sulla vita (divenire e creatività), innescata dall’intensificazione moderna del
processo di astrazione che caratterizza i fenomeni dell’alienazione e dell’espropriazione moderna, e
inibisce quella sintesi di soggettività e oggettività che è la cultura. L’individuo non riesce a
controllare e dominare il sapere oggettivato nella società attraverso la dimensione della
riappropriazione cultrale. Nel quadro di questa dicotomia tra spirito oggettivo e soggettivo, Simmel
colloca la sua analisi della divisione del lavoro, inquadrata nel processo lavorativo capitalistico e
riconosciuta come una delle cause fondamentali del moderno predominio dell’oggettività, ossia
dell’irrigidimento o reificazione dell’attività creativa dell’uomo e dei suoi contenuti spirituali in
costrutti impersonali e cosalizzazioni estraneate. L’esito speculativo di Simmel consiste in una
ripresa di alcuni motivi schopenhaueriani e nietzscheani della metafisica dell’arte, con la scelta
aristocratica individualistica dell’atteggiamento estetico come accesso privilegiato o forse unico
all’identità di soggetto e oggetto. Rispetto a questo esito ambiguamente impolitico (cfr. adesione
alla grande guerra 1914)168 di adeguamento all’esistente, Bloch e Lukacs, che si erano conosciuti
nel 1910 frequentando le lezioni berlinesi di Simmel, e che ne avevano recepito la problematica
dell’alienazione nei termini del principio della calcolabilità che informa di sé il fenomeno della
reificazione (cfr. Storia e coscienza di classe), si distanzieranno presto dalle posizioni del maestro
attraverso l’adesione al marxismo e la valorizzazione del problema della fuoriuscita dal sistema
nella forma della prassi storica collettiva disalienata. È su questo crinale scosceso fra alienazione e
transizione che si concentrerà con una rilevante torsione ontologica il dibattito fra Jünger e
Heidegger sul superamento del nichilismo, e sull’oltre la linea. Lukacs, in Storia e coscienza di
classe, attiva un’originale sintesi fra la teoria marxiana del “feticismo” e quella weberiana della
“razionalizzazione”, mostrando come la vita moderna sia influenzata dallo spirito capitalista del
calcolo razionale169. C’è da dire ancora, che tale sintesi di concetti di Weber e di elementi della
teoria di Marx appare quasi esplicitamente come posta in gioco nell’ultimo § (83) di Essere e
tempo: «Ciò che appare così evidente come la differenza dell’essere dell’esserci esistente rispetto
all’essere dell’ente non commisurato all’esserci (per es. la semplice-presenza), è tuttavia solo il
punto di partenza della problematica ontologica, ma niente in cui la filosofia possa acquietarsi. È
noto già da tempo che l’ontologia antica lavora con “concetti cosali” e che sussiste il pericolo di
“reificare la coscienza”. Ma cosa significa reificazione? Da dove proviene? Perché l’essere viene
“compreso” “innanzitutto” proprio a partire dall’ente semplicemente presente e non dall’ente
utilizzabile? Perché questa reificazione arriva sempre di nuovo a dominare? Come è strutturato
positivamente l’essere della “coscienza” in modo tale che la reificazione le resti inadeguata? Basta
la “differenza” fra “coscienza” e “cosa” per uno svolgimento originario della problematica
ontologica?»170 - Se facciamo poi caso alle parole con cui il § inizia, non possiamo sottrarci
all’impressione retrospettiva che tutta l’opera sia concepita con l’intento di tradurre in un
dispositivo più radicale la questione dell’alienazione dell’uomo nel transito dalla società borghese
alla società industriale (la soglia sociologica del mondo tecnico)171: «Il compito delle precedenti
168
Cfr. G. SIMMEL, Sulla guerra, tr. it. di S. Giacometti, Napoli 2003.
M. LOWY, Figures of Weberian Marxism, pp.431-45: Lukacs, i teorici francofortesi, Merleau-Ponty.
170
Cfr. N. TERTULIAN, Le concept d’aliénation chez Heidegger et Lukács, in «Archive de Philosophie», 56, 1993, pp.
431-443.
171
Su questa soglia, in cui il nuovo regime di accumulazione del capitale esibisce in modo straniante i suoi influssi sulla
società civile liberale-borghese attraverso una potente trasformazione delle forme di socializzazione mediate nella
169
169
riflessioni era quello d’interpretare in chiave esistenziale-ontologica a partire dal suo fondamento
(Grund) la totalità originaria (Ganze) dell’esserci fattivo in riferimento alle possibilità dell’esistenza
propria o impropria». Più di vent’anni dopo, nella prima edizione della Lettera sull’umanismo, nel
1949, Heidegger scrive in una nota: «autenticità (Eigentlichkeit) è da pensare partendo
dall’appropriare (Eignen) dell’evento-appropriazione (Er-eignen)».
Il programma filosofico che ispira queste analisi, concentrate sul tema della riappropriazione (il sé,
autós), consiste in una torsione ontologica della questione dell’alienazione, articolata sul concetto di
vita come prassi, ovvero come motilità orientata all’agire, dove si tratta di mostrare come la
metafisica non sia un evento casuale, ma una dinamica insita in quel movimento peculiare che è la
vita stessa dell’uomo in quanto movimento orientato, intenzionato, trascendente – e che Heidegger
denomina senza alcuna considerazione etico-morale decadenza (Verfallen). [movimento, dinamica,
proprietà: potentia aristotelica: essenza-eide precalcolata nella produzione, articolazione di
momento ideativo ed esecuzione dell’atto/produzione/opera/ergon: irrigidimento nella coppia
principio-causa come fondamento del reale: sequenzialità secondo la regola del “prima-poi”].
(Cfr. Essere e tempo, § 9: essenza/esistenza; esser-sempre-mio: ovvero il Dasein come paradigma di
de-soggettivazione, soglia esistenziale di alterazione-alienazione).
Materialismo, alienazione e trascendenza – alla luce di questo complesso categoriale, la cui
presenza articolata è visibile nelle ossessioni filosofiche mitteleuropee dei primi anni Venti (si veda
l’atteggiamento prototipico di Ernst Bloch rispetto a tale triade problematica nello Spirito
dell’utopia) e formulabile col titolo di un noto studio del 1919, La materializzazione dello spirito172,
sembra possibile avviare una ricognizione che, consapevole della filiazione di una certa metaforica
filosofica, possa sottrarre l’operazione heideggeriana alla piatta questione della compatibilità
filosofica con la concezione völkisch, e quindi coi prodromi della “filosofia dell’hitlerismo”. Il
campo di tensione teoretica formato da Uneigentlichkeit e Entfremdung173, nonostante le adiacenze
reazionarie della formazione intelletuale heideggeriana e l’abietta acquiescenza politica nei
confronti del nazionalsocialismo, in definitiva, non è ricoducibile ad una versione sublimata della
posizione del fascismo nei confronti dell’imminente configurazione fordista dei rapporti sociali 174.
produzione industriale e nella sfera riproduttiva della vita quotidiana, è imprescindibile il riferimento allo scritto del
1934 di A. GRAMSCI, Americanismo e fordismo, in Quaderni del carcere, Torino 1975, vol. III, pp. 2137- 2181.
172
Theodor L. HAERING, Die Materialisierung des Geistes. Ein Beitrag zur zur Kritik des Geistes der Zeit, Tübingen
1919.
173
Cfr. B. W. BALLARD, Marxist challenges to Heidegger on alienation and authenticity, in «Man and World», 23,
1990, pp. 121-141.
174
Cfr. il libro di Thomas HEINRICHS, Zeit der Uneigentlichkeit. Heidegger als Philosoph des Fordismus, Münster
1999; il quale si apre con una programmatica citazione di Rainer Marten: «Es kommt vorrangig auf ein genaues
Studium der Heideggerschen Philosophie an und auf die Offenheit, gerade in ihr eine tief verankerte und weitreichende
Solidarität mit der Ideologie des Nationalsozialismus zu entdecken» (p. 15). Il merito della ricerca di Heinrichs sta nello
sforzo descrittivo degli elementi sociologici impegnati nell’operazione di trasposizione analitica heideggeriana, ovvero
tutta la fenomenologia fordista dei processi lavorativi, della sfera del consumo e della struttura della vita quotidiana alla
luce del tema della temporalità (per l’essenziale, tuttavia, ci sembra che si tratti di capire, dopo l’antinomia moderna
“tempo della chiesa e tempo del mercante”, il nuovo binomio tardomoderno “tempo del capitale e temporalità
esistenziale” nel cono di proiezione dello scarto marxiano fra “tempo di lavoro e tempo-di-vita”).
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