Università degli studi di Napoli “Federico II” Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in filosofia Cattedra di Filosofia della storia Prof. Giuseppe Antonio Di Marco Semestre invernale 2003-2004 I Modulo (ottobre-metà novembre 2003) Tema del corso: “Lavoro” e “Lavoratore” tra marxismo e nichilismo Referente: Dott. Giovanni Sgro’ Testi di riferimento: KARL MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858, trad. it. di Enzo Grillo, La Nuova Italia, (Classici della filosofia, n. 20), Scandicci (Firenze), 1968 (ristampa “Paperbacks Classici” 1997), vol. I, pp. 3-40. KARL MARX, Per la critica dell’economia politica [1859], trad. it. di Emma Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 3-8. 2 PREMESSA Si riportano qui di seguito i materiali che sono serviti da testo-base per le lezioni relative alla prima parte del primo modulo del corso. Ogni seduta del corso si è arricchita in fieri di interventi, spiegazioni e osservazioni critiche sia del professore che degli studenti. Di questo materiale non si è potuto purtroppo tener traccia. Per ogni lezione si è provveduto inoltre a distribuire fotocopie di altri testi indispensabili o ausiliari alla comprensione del discorso marxiano. Per quesiti, dubbi, richieste di spiegazioni, reperimento testi etc. scrivete a: [email protected] 3 Martedì 07 ottobre 2003 Testi di riferimento: 1. Scheda bio-bliografica su Marx: BEDESCHI, GIUSEPPE, Introduzione a Marx, Roma-Bari, Editori Laterza, (I filosofi, n. 32), 19976 (1a ediz. 1981), pp. 231-234. [Fotocopie] PIANCIOLA, CESARE, (a cura di), Il pensiero di Karl Marx. Una antologia dagli scritti, Torino, Loescher Editore, (Classici della filosofia), 1971 (11 a ristampa 1989), pp. IX-XLVI. 2. Concezione materialistica della storia: KARL MARX, Per la critica dell’economia politica [1859], trad. it. di Emma Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 3-8. [Fotocopie, ma anche on-line: http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1859/criticaep/prefazione.htm] KARL MARX, Lettera a Pavel Vasilevič Annenkov del 28 dicembre 1846, in ID., Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» del signor Proudhon, trad. it. di F. Rodano, introd. di N. Badaloni, Roma, (I Testi, n. 50), 19937 (1a ediz. 1950), pp. 125-137. [Fotocopie, ma anche on-line: http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/miseria-filosofia/annenkov.htm ] FRIEDERICH ENGELS, Lettera a Joseph Bloch del 21 settembre 1890, in K. MARX-F. ENGELS, Opere. Vol. XLVIII: Lettere gennaio 1888-dicembre 1890, a cura di Antonio Santucci, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 491-494. [Fotocopie, ma richiamabile anche all’indirizzo: http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1890/9/21-bloch.htm ] FRIEDERICH ENGELS, Lettera a Konrad Schmidt del 27 ottobre 1890, in K. MARX-F. ENGELS, Opere. Vol. XLVIII: Lettere gennaio 1888-dicembre 1890, a cura di Antonio Santucci, Roma, Editori Riuniti, 1983. [On-line: http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1890/10/27-schmidt.htm] 4 1. Scheda bio-bliografica su Marx: 1.1. Il periodo di formazione (1818-1844): Karl Heinrich Marx nasce a Treviri il 5 maggio 1818. Inizia gli studi universitari a Bonn (giurisprudenza) ma dopo un anno si trasferisce a Berlino (filosofia). Dalla Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859: «La mia specialità erano gli studi giuridici, ma io non li coltivavo se non come disciplina subordinata, accanto alla filosofia e alla storia. Nel 1842-43, come redattore della Rheinische Zeitung1, fui posto per la prima volta davanti all’obbligo, per me imbarazzante, di esprimere la mia opinione a proposito di cosiddetti interessi materiali». […] «Fui […] sollecito nell’approfittare dell’illusione dei gerenti della Rheinische Zeitung, i quali credevano di poter far revocare la condanna a morte caduta sul loro giornale dandogli una linea più moderata, per ritirarmi dalla scena pubblica nella stanza da studio. Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una revisione critica della filosofia del diritto di Hegel2, lavoro di cui apparve l’introduzione nei Deutsch-französische Jahrbücher3 pubblicati a Parigi nel 1844. La Il titolo completo era Gazzetta renana per la politica, il commercio e l’industria [Rheinische Zeitung für Politik, Handel und Gewerke], ed era sorta con lo scopo iniziale di difendere gli interessi della grande classe media renana e con i favori del governo, che vedeva nel giornale uno strumento per controbilanciare la Gazzetta di Colonia [Kölnische Zeitung], un foglio ultramontano e antiprussiano. Successivamente con il passaggio della redazione dall’economista protezionista Friederich List a Jung, Oppenheim e Renard, che Moses Hess aveva convertito al radicalismo, il giornale divenne sempre più l’organo di espressione dei Giovani hegeliani, fino alla direzione del giornale da parte di Adolf Rutenberg, cognato di Bruno Bauer, che mise in allarme l’autorità per la tendenza del giornale e fece crescere il controllo della censura. Dal 15 ottobre 1842 Marx ne fu redattore capo fino alla soppressione del giornale, nel marzo 1843, per motivi di censura. Per un primo esauriente resoconto relativo alla fondazione del giornale si veda A. CORNU, Marx ed Engels dal liberalismo al comunismo, trad. it. parziale di F. Cagnetti e M. Montinari, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 323-333. 1 2 Edizioni italiane: KARL MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, trad. it. di Galvano della Volpe, introd. di Umberto Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1983 oppure Id., Critica del diritto statuale hegeliano, trad. it. e commentario di Roberto Finelli e Francesco S. Trincia, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1983. 3 La pubblicazione fu iniziata da Marx e da Ruge alla fine del febbraio 1844, dopo che entrambi si erano trasferiti a Parigi (Marx dall’ottobre e Ruge dal dicembre 1843). Della rivista uscì solo il primo numero, doppio, che comprendeva i seguenti contributi marxiani: Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione e La questione ebraica. In seguito essa cessò la pubblicazione, soprattutto a causa delle divergenze manifestatesi tra i due editori. Edizione italiana: AA. VV., Annali franco-tedeschi di A. Ruge e K. Marx, a cura di G.M. Bravo, Milano, 1965. 5 mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di “società civile”; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica. Avevo incominciato lo studio di questa scienza a Parigi4, e lo continuai a Bruxelles, dove ero emigrato in seguito a un decreto di espulsione del sig. Guizot». […] «Friedrich Engels, col quale, dopo la pubblicazione (nei Deutsch-französische Jahrbücher) del suo geniale schizzo di critica delle categorie economiche5, mantenni per iscritto un continuo scambio di idee, era arrivato per altra via (si confronti la sua Situazione della classe operaia in Inghilterra6, allo stesso risultato cui ero arrivato io, e quando nella primavera del 1845 si stabilì egli pure a Bruxelles, decidemmo di mettere in chiaro, con un lavoro comune7, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica8. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore a Hegel. Il manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo, era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi, in Vestfalia, quando ricevemmo la notizia che un mutamento di circostanze non ne permetteva la stampa. Abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in noi stessi». 1.2. Attività rivoluzionaria e teoria della rivoluzione (1845-1849): «Dei diversi lavori sparsi in cui esponemmo al pubblico in quel periodo, sotto questo o quell’aspetto, i nostri modi di vedere, menzionerò soltanto il Manifesto del Partito comunista9, redatto in comune da Engels e da me, e un Discorso sul libero scambio10 4 KARL MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di Norberto Bobbio, Torino, Einaudi, (Nuova Universale Einaudi, n. 92), 19682 (edizione rivista; 1a ed. 1949). 5 F. ENGELS, Lineamenti di critica dell’economia politica [1844]. Traduzione italiana in: AA. VV., Annali franco-tedeschi di A. Ruge e K. Marx, a cura di G.M. Bravo, Milano, 1965 e in K. MARX-F. ENGELS, Opere. Vol. III: 1843-1844, a cura di Nicolao Merker e Nicola De Domenico, Roma, Editori Riuniti, 1976. 6 Trad. it. di Raniero Panzieri in K. MARX-F. ENGELS, Opere. Vol. IV: 1844-1845, a cura di Raniero Panzieri e Aldo Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1972. 7 K. MARX-F. ENGELS, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti [1845], trad. it. di Fausto Codino, introd. di Cesare Luporini, Roma, 19939 (1a ed. 1958, 2a ed. riv. 1968). 8 Resa dei conti già iniziata l’anno prima con un altro lavoro in comune La sacra famiglia o Critica della critica critica contro Bruno Bauer e soci [1844], trad. it. di Aldo Zanardo in K. MARX-F. ENGELS, Opere. Vol. IV: 1844-1845, a cura di Raniero Panzieri e Aldo Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1972. 9 K. MARX-F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, trad. it. di Emma Cantimori Mezzomonti, con saggio storico-critico di Bruno Bongiovanni, Torino, Einaudi, (Einaudi tascabili), 1998. 10 K. MARX, Discorso sul libero scambio, a cura di Alberto Burgio e Luigi Cavallaro, Roma, Deriveapprodi, (Fuorifuoco), 2002. 6 da me pubblicato. I punti decisivi della nostra concezione vennero indicati per la prima volta in modo scientifico, benché soltanto in forma polemica, nel mio scritto Miseria della filosofia11, pubblicato nel 1847 e diretto contro Proudhon, ecc. La pubblicazione d’una dissertazione, scritta in lingua tedesca, sul Lavoro salariato12, in cui raccoglievo le conferenze tenute da me su questo argomento nella Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles, venne interrotta dalla rivoluzione di febbraio e dalla mia espulsione dal Belgio che ne seguì. La pubblicazione della Neue Rheinische Zeitung nel 1848 e nel 1849 e i successivi avvenimenti interruppero i miei studi economici, che poterono essere ripresi soltanto a Londra nel 1850». 1.3. L’esilio a Londra e gli studi economici (1850-1863) «L’enorme quantità di materiali per la storia dell’economia politica che sono accumulati nel Museo britannico, il fatto che Londra è un punto favorevole per l’osservazione della società borghese, infine la nuova fase di sviluppo in cui questa società sembrava essere entrata con la scoperta dell’oro dell’Australia e della California, mi indussero a incominciare di nuovo dal principio, e a studiare a fondo, in modo critico, i nuovi materiali. Questi studi mi portavano da sé, in parte, a discipline in apparenza molto lontane, sulle quali dovetti indugiare per un tempo più o meno lungo. In particolare, però, il tempo di cui disponevo mi venne ridotto dalla necessità imperiosa di lavorare per un guadagno. La mia collaborazione, che dura ormai da otto anni, al primo giornale anglo-americano, la New York Tribune13, provocò una straordinaria dispersione dei miei studi, dato che non mi occupo che per eccezione di giornalismo propriamente detto. Gli articoli che scrivevo sui principali avvenimenti economici in Inghilterra e sul continente formavano però una parte così importante del mio lavoro, che fui costretto a familiarizzarmi con dei particolari pratici che escono dal terreno della scienza dell’economia politica propriamente detta». 1857-8: Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica14. 1859: Per la critica dell’economia politica. 1861-1863: Storia dell’economia politica15 da James Steuart e Smith fino alla Vulgärökonomie. 11 K. MARX, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» del signor Proudhon [1847], trad. it. di F. Rodano, introd. di N. Badaloni, Roma, (I Testi, n. 50), 19937 (1a ediz. 1950). 12 Id., Lavoro salariato e capitale, trad. it. di Palmiro Togliatti, Roma, Editori Riuniti, (I Piccoli), 1991. 13 Organo democratico-borghese americano fondato nel 1841. Marx vi collaborò dal 1851 e, dal 1855, ne divenne l’unico corrispondente dall’Europa. 14 Saranno pubblicati postumi da Pavel Veller solo nel 1939-1941 per opera dell’Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca. 15 Pubblicata postuma da Karl Kautsky nel 1905 in un’edizione rimaneggiata e con il titolo improprio di Teorie sul plusvalore. Edizione italiana: K. MARX, Storia dell’economia politica. Teorie sul plusvalore, trad. it. di Cristina Pennavaja, introduzione di Giorgio Lunghini, Roma, Editori Riuniti, 3 voll., 19932. 7 1863-1865: Manoscritti per il III libro de Il capitale. 1867: pubblicazione del 1° volume de Il capitale16. 1.4. L’Internazionale e la Comune (1864-1872) Ripresa di un forte impegno politico che lo porta alla fondazione della «Associazione internazionale degli operai» (1864). Entra in polemica con gli anarchici di Bakunin, i proudhoniani francesi e i lassalliani tedeschi.. Riflessioni sulla Comune di Parigi (1871): primo governo rivoluzionario della classe operaia, nato non dall’appropriazione delle leve dello Stato borghese, ma dalla sua distruzione e sostituzione con nuovi organismi eletti dal basso e direttamente controllati dal proletariato in armi. Per Marx la Comune è «la forma politica finalmente scoperta» della dittatura del proletariato. 1872: Il congresso dell’Aia decide assieme all’espulsione degli anarchici, il trasferimento del consiglio Generale a New York, il che, in pratica, equivale a decidere la fine dell’Associazione internazionale dei lavoratori. 1.5. Gli ultimi scritti (1873-1883) Gli ultimi scritti politici di Marx sono contributi allo sviluppo dei partiti socialisti europei. Critica del programma di Gotha17 (1875), cioè del progetto di programma comune delle due frazioni dei socialisti tedeschi (i lassalliani e il partito fondato a Eisenach nel 1869 da Liebknecht e Bebel) che fu approvato al congresso di unificazione tenuto a Gotha, da cui nacque la socialdemocrazia tedesca.. Appunti, estratti di etnologia, antropologia, scienze naturali, matematica18, etc. 2 dicembre 1881 muore Jenny von Westphalen, compagna di tutta la sua vita.. Gennaio 1883 muore la figlia maggiore, Jenny. 14 marzo 1883 Karl Marx muore a Londra e viene sepolto nel cimitero di Highgate. K. MARX, Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo. Il processo di produzione del capitale, trad. it. di Delio Cantimori, introduzione di Maurice Dobb, Roma, Editori Riuniti, (I Testi, n. 1), 1994 5. Il secondo e il terzo volume usciranno postumi a cura di Engels, rispettivamente nel 1885 e nel 1894. 17 Id., Critica del programma di Gotha [1875], Roma, Editori Riuniti, 1990. 18 Id., Manoscritti matematici, a cura di Francesco Matarrese e Augusto Ponzio, Bari, Dedalo, 1975. 16 8 2. Concezione materialistica della storia. Dalla Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859: «Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco purché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana». 9 Giovedì 09 ottobre 2003 Il rapporto di Marx con Hegel Quale breve premessa val la pena di ricordare e riaffermare che lo Hegel di Marx non è più semplicemente lo Hegel storico, ma è quel Hegel storico che è stato recepito, inglobato, modificato, digerito e assimilato criticamente da Marx durante tutto l’arco della sua esistenza. 1. Tappe della ricezione marxiana della filosofia di Hegel. 1837-1841: Primo incontro con Hegel. Nonostante le prime titubanze, si tratta di un hegelismo profondamente vissuto. 1842: Entrata in crisi del suo hegelismo in seguito all’esperienza pratico-politica della Gazzetta renana. 1843: Critica del diritto statuale hegeliano. Marx critica duramente la logica aprioristica e surrettizia del maestro e gli muove l’accusa di «misticismo logico e panteistico». 1844: Ultimo capitolo dei Manoscritti economico-filosofici del 1844: Critica della dialettica e della filosofia hegeliana in generale. Fermo restanti le critiche al modo di procedere della Logica hegeliana, Marx considera positivamente la Fenomenologia dello spirito e la concezione hegeliana del lavoro. 1845-1850: La posizione di Marx nei confronti di Hegel è critica o di rifiuto. Hegel viene attaccato soprattutto in forma mediata, indirettamente, nelle persone di Bruno Bauer e ancor di più di Proudhon. 1851-1859: Ripresa dello studio della Logica hegeliana. Lettera a Engels del 16.01.1858: «Nel metodo del lavoro mi è stato di grandissimo servizio l’aver riletto, by mere accident, la Logica di Hegel […]. Se tornerà mai il tempo per lavori del genere, avrei una gran voglia di rendere accessibile all’intelletto dell’uomo comune in poche pagine, quanto vi è di razionale nel metodo che Hegel ha scoperto ma nello stesso tempo mistificato». 1861-1864: Silenzio nelle opere e lettere di Marx su Hegel. Dal 1865 si occupa di nuovo della dialettica hegeliana soprattutto in relazione ai problemi di esposizione (Darstellung) dei risultati della ricerca. 1868: Lettera a Dietzingen del 09.05.1868:«Mi sono deciso a scrivere una dialettica, non appena mi sarò scrollato di dosso il fardello economico». 1873: Poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873. 10 1.1. La prima produzione poetica romantica e la conversione all’hegelismo: l’approdo nelle «braccia del nemico» della Lettera al padre del 10-11 novembre 1837. Marx arriva a Berlino nell’autunno del 1836, dopo aver trascorso avventurosamente un anno goliardico a Bonn tra buon vino, poesie e duelli. Anche a Berlino continua a comporre versi più ardenti che mai per il suo amore Jenny von Westphalen, contenuti nel Libro dei canti [Buch der Lieder], in due volumi, e nel Libro dell’amore [Buch der Liebe]. Ma a mio avviso, la parte più importante della produzione letteraria di quell’anno è una serie di epigrammi su Hegel, in cui il grande filosofo è accusato di arroganza, ambiguità e soprattutto incomprensibilità: 1. «Poiché ho scoperto il sommo e ho trovato meditando il profondo, come un dio sono rude, come lui nel buio m’avvolgo. A lungo ricercai e vagai sul mare ondeggiante dei pensieri, e là trovai la parola [il Logos], mi tengo forte a ciò che ho trovato». 2. «Parole insegno, mischiate in demoniaco ingranaggio confuso, ognuno ne pensi poi ciò che gli piace pensare. […] Tutto infatti dico, perché un bel nulla vi ho detto!19» 3. «Kant e Fiche volentieri verso l’etere volteggiano, cercavano là un paese lontano, ma io cercavo soltanto bravamente di comprendere ciò che… per la strada ho trovato!20» 4. «Chiediam venia, noi bazzecole epigrammatiche, se melodie fatali andiam cantando, in Hegel noi ci siam studiando immersi della sua estetica ancora non ci siam… purgati»21. 19 Un giorno gli allievi di Hegel portarono per scherzo un garzone di bottega in aula per fargli sentire una lezione del grande maestro. Alla fine della lezione gli chiesero che ne pensasse ed egli rispose di non aver neanche capito di che fosse parlato, se di anatre o di oche. Gli allievi composero subito un epigramma: «Se di anatre o di oche / qui si parli tu ci chiedi. / Capovolgi, orsù, il quesito / e neanch’esse mancheranno». Come a dire che in una filosofia come quella di Hegel, tutto si muove, nessun concetto resta fisso in sé ma continuamente si capovolge nel suo opposto. 20 Nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto (1821), Hegel scriveva: «La filosofia, poiché è lo scandaglio del razionale, appunto per ciò è l’apprendimento di ciò che è presente e reale, non la costruzione di un al di là, che sa dio dove dovrebbe essere» e poco oltre, «comprendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Per quel che concerne l’individuo, del resto, ciascuno è figlio del suo tempo; così anche la filosofia, è il tempo di essa appreso in pensieri». 21 K. MARX, Epigrammi, in K. MARX - F. ENGELS, Opere complete. Vol. I: agosto 1835-marzo 1843, a cura di M. Cingoli e N. Merker, Roma, 1980, pp. 78-79. Da ora in poi abbreviata in MEOC. 11 Ma c’è un altro documento del 1837 per noi molto importante perché, oltre ad informarci esaurientemente dell’attività svolta in quell’anno, ci offre la cronaca di quella crisi filosofica che lo impegnò nel giro di pochi mesi e che segna l’avvenuta “conversione” di Marx all’hegelismo, nonostante le riserve e le frecciatine degli epigrammi: la Lettera al padre del 10-11 novembre 1837. L’esordio è prettamente hegeliano: «vi sono momenti, nella vita, che, come segnali di confine, concludono un periodo ormai trascorso, ma al tempo stesso indicano con certezza una nuova direzione. In simili momenti di transizione sentiamo il bisogno di contemplare con l’occhio d’aquila del pensiero il passato e il presente, per giungere così alla coscienza della nostra reale situazione. Anzi, la stessa storia mondiale si compiace di questi sguardi retrospettivi, ed esamina se stessa, il che le dà poi spesso l’apparenza del regresso e della stasi, mentre essa si butta soltanto in poltrona per comprendersi, per penetrare spiritualmente l’opera sua, dello spirito»22. Oramai Marx considera la vita «come l’espressione di un’attività spirituale che si esplica ed imprime la propria forma in ogni sfera, nella conoscenza, nell’arte, ed infine nella vita privata»23 e cita quasi letteralmente dalla prefazione alla Fenomenologia dello spirito l’esempio con cui Hegel contrappone il metodo matematico al metodo scientifico24. Segue l’amara constatazione della fine del vecchio mondo «pieno di gnomi, sirene, canti alle stelle e principi coraggiosi»25 e la confessione di aver aderito «all’attuale filosofia del mondo»: «Un sipario era caduto, il mio sacrario era spezzato, e nuovi dèi dovevano essere insediati. Dall’idealismo - del quale, sia detto per inciso, erano stati per me modello ed alimento quello kantiano e quello fichtiano - giunsi a cercare l’idea nella realtà stessa. Se prima gli dèi avevano abitato al di sopra della terra, ora ne erano divenuti il centro. Avevo letto frammenti della filosofia di Hegel, la cui grottesca melodia rocciosa non mi era piaciuta. Volli ancora una volta tuffarmi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale 22 MEOC, I, p. 8. Ivi, p. 9. 24 «A ciò [al fatto, cioè che nella sua presunta filosofia del diritto che pretendeva di «abbracciare l’intero ambito del diritto», Marx avesse fatto precedere una «metafisica del diritto, cioè principi, riflessioni, determinazioni concettuali staccate da ogni diritto reale e da ogni forma reale del diritto»] si aggiungeva, costituendo in anticipo un ostacolo alla comprensione del vero, la forma non scientifica del dogmatismo matematico in cui il soggetto si aggira sulla cosa, e va ragionando di qua e di là - senza che la cosa stessa si configuri come qualcosa di vivente che si dispiega in tutta la sua ricchezza. […] Invece nell’espressione concreta del vivente mondo del pensiero - come nel diritto, nello Stato, nella natura, nell’intera filosofia – l’oggetto stesso deve essere silenziosamente spiato nel suo sviluppo, non debbono essere introdotte suddIvisioni arbitrarie, la ragione della cosa stessa deve svolgersi come qualcosa di in sé conflittuale e trovare in sé la sua unità». Ivi, p. 10 (corsivo mio). Per l’esposizione hegeliana cfr. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di Enrico De Negri, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia, 19733 (1a ed. 1933-36, 2a ed. riv. 1968), vol. I, pp. 32-34. 25 D. McLELLAN, Marx prima del marxismo. Vita e opere giovanili, trad. it. di R. Long, Torino, 1974, p. 51. 23 12 altrettanto necessaria, concreta e saldamente conchiusa di quella fisica, di non usar più arti di scherma, ma di tenere la pura perla alla luce del sole»26. Marx mantiene fede a questo suo proposito, legge «dal principio alla fine Hegel, insieme alla maggior parte dei suoi discepoli» e tramite i suoi amici più intimi di Berlino, i dott. Adolf Rutenberg e Karl Friederich Köppen, comincia a frequentare le discussioni del Doktorclub e si lega «sempre più saldamente all’attuale filosofia del mondo, alla quale avev[a] pensato di sfuggire»27. 1.2. K. MARX – F. ENGELS, La sacra famiglia ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci (1844). Cap. V. § 2. Il mistero della costruzione speculativa28. [Fotocopie] L’intento di Marx, in queste semplici e gustose pagine, è di «caratterizzare in generale la costruzione speculativa», di svelare «il mistero della costruzione speculativa, della costruzione hegeliana» (p. 62). a) Astrazione mistificante. Pag. 62: da «Se io, dalle mele, pere, fragole, mandorle, reali …» fino a «la cui vera essenza è “la sostanza”, “il frutto”». K. MARX, Miseria della filosofia. Risposta alla «Filosofia della miseria» del signor Proudhon. Capitolo secondo: La metafisica dell’economia politica. 1. Il metodo. Prima osservazione. [Fotocopie] «C’è forse da meravigliarsi se ogni cosa, in ultima astrazione, poiché di astrazione si tratta e non di analisi, si presenta come categoria logica? C’è da meravigliarsi forse se, eliminando a poco a poco tutto ciò che costituisce l’individualità di una cosa, facendo astrazione dai materiali di cui essa si compone, dalla forma che la distingue, voi arrivate a non avere più che un corpo; se, facendo astrazione dai contorni di questo corpo, ben presto, non avrete più che uno spazio; e se facendo infine astrazione dalle dimensioni di questo spazio, finirete per non avere più che la quantità in sé, la categoria logica? A forza di astrarre in questo modo, da ogni soggetto, da tutti i pretesi accidenti, animati o inanimati, uomini o cose, abbiamo certo ragione di dire che, in ultima astrazione, si arriva ad avere come sostanza soltanto le categorie logiche»29. 26 MEOC, I, p. 14, (corsivo mio). Ivi, p. 15. 28 K. MARX – F. ENGELS, La sacra famiglia ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci (1844), in K. MARX – F. ENGELS, Opere. Vol. IV: 1844-1845, a cura di Raniero Panzieri e Aldo Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1972. 29 K. MARX, Miseria della filosofia, cit., p. 66. 27 13 b) Capovolgimento di soggetto e predicato. Pag. 63: da «Questo avviene, risponde il filosofo speculativo …» fino a «così come per esempio tutte le membra del corpo si risolvono continuamente nel sangue e dal sangue continuamente sono prodotte». c) Ipostatizzazione del predicato. Pag. 65: «Questa operazione si chiama con espressione speculativa: concepire la sostanza come soggetto, come processo interno, come persona assoluta, e questo concepire forma il carattere essenziale del metodo hegeliano». d) Positivismo acritico. Pag. 64: «Quindi, ciò che è bello nella speculazione …» fino a «dalla sua esistenza come uva passa alla sua esistenza come mandorla». e) Trasfigurazione del reale. Pag. 64: da «Il valore delle frutta profane …» fino a «egli compie un atto creativo». f) Valore ideologica della mistificazione che la coglie la realtà ma in forma capovolta. Pag. 65: da «Nella esposizione del signor Szeliga …» fino a «considerare reale lo sviluppo speculativo e speculativo lo sviluppo reale». 14 Lunedì 13 ottobre 2003 La Critica del diritto statuale hegeliano (1843) La Critica del diritto statuale hegeliano consiste in un commento puntuale ai paragrafi 261-31330, riguardanti Il diritto statuale interno, della terza sezione, Lo Stato, della terza parte, L’eticità, dei Lineamenti di Filosofia del diritto di Hegel. Ricostruiamo brevemente le tappe dello svolgimento hegeliano: Nell’eticità lo spirito oggettivo, dopo aver attraversato e sperimentato l’insufficienza logica e ontologica, l’astrattezza e unilateralità del diritto astratto e della moralità, si trova nella sua sfera più concreta. L’eticità è l’unità e il compimento di quelle due «totalità relative» del «bene senza soggettività», che «soltanto deve essere», il diritto, e della «soggettività senza l’essente in sé», «che soltanto deve essere buona»31, la moralità. Ma anche nella sfera concreta dell’eticità lo spirito oggettivo sperimenta diversi gradi di concretezza. Il primo è quello della famiglia, «la sostanzialità immediata dello spirito [che ha] l’amore», «la di lui unità senziente sé [...], per propria determinazione»32. Il secondo, «la perdita dell’eticità», è la società civile, «il mondo dell’apparenza nell’ambito dell’ethos»33, «lo stato della necessità e dell’intelletto»34 che ha entro di sé il sistema dei bisogni, l’amministrazione della giustizia, la polizia e la corporazione. Con il superamento dialettico (Aufhebung), che toglie e conserva, di questi due precedenti gradi, lo spirito oggettivo raggiunge nello Stato il suo pieno dispiegamento, realmente infinito. Lo Stato quindi, in quanto compimento dell’eticità, in quanto «realtà dell’idea etica»35 e coerentemente all’insegnamento della Logica36, appare e compare da 30 Nel manoscritto rimastoci manca il primo foglio (Bogen), che molto probabilmente conteneva il commento ai paragrafi 257-260, con cui inizia appunto la sezione sullo Stato nei Lineamenti di Hegel. Per una descrizione fisica del manoscritto si veda la Nota filologica di F.S. Trincia e R. Finelli all’edizione italiana della Kritik da loro curata e da me adottata: K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, trad. it. e commentario di F.S. Trincia e R. Finelli, Roma, 1983, pp. 17-29. pp. 12-17. 31 G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio, a cura di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 1999 (nuova ed. riv., con le Aggiunte di E. Gans), Annotazione al § 141, p. 131. 32 Ivi, § 158, p. 141. 33 Ivi, § 181, p. 154. 34 Ivi, §183, p. 155. 35 Ivi, § 257, p. 195. 36 «In virtù della [...] natura del metodo la scienza si presenta come un circolo attorto in sé, nel cui cominciamento, il fondamento semplice, la mediazione ritorce la fine. Con ciò questo circolo è circolo di circoli [...]. [...] Così dunque anche la logica è tornata, nell’idea assoluta, a questa semplice unità che è il 15 ultimo, alla fine, come risultato, ma in realtà e allo stesso tempo, per chi, come Hegel, riesce a superare la «mestizia della finità»37, è il prius, il fondamento e il fine ultimo immanente dei suoi «momenti finiti e ideali»38, a lui subordinati, costituiti dalla famiglia e dalla società civile. Lo Stato sorge per elevare il particolare all’universale, o meglio per scoprire e tenere uniti l’universale nel particolare 39. Lo Stato «ha la sua forza nell’unità del suo universale fine ultimo e del particolare interesse degli individui, nel fatto ch’essi in tanto hanno doveri di fronte ad esso, in quanto hanno in pari tempo diritti»40; in esso, cioè, «dovere e diritto sono uniti in una e medesima relazione»41 e la sua «enorme forza e profondità, [è appunto quella] di lasciare il principio della soggettività compiersi fino all’estremo autonomo della particolarità personale, e in pari tempo di ricondurre esso nell’unità sostanziale e così di mantener questa in esso medesimo»42. La critica della logica aprioristica-surrettizia e del capovolgimento di soggetto e predicato: Il commento ai paragrafi sul “passaggio” allo Stato e la critica della deduzione hegeliana del monarca ereditario. Ed è proprio con la messa in questione di questa deduzione dello Stato come risultato e fine immanente della società civile e della famiglia e della mediazione di particolare e universale che lo Stato pretende di compiere, che prende le mosse la Kritik di Marx, il quale si chiede: «come, per quale via si realizza la mediazione, il “riportarsi” del particolare all’universale? I termini dell’indagine critica di Marx sono qui squisitamente concettuali: è la forma concettuale in cui si realizza (anzi, non si realizza) la mediazione, ciò che lo interessa; non sono [ancora] in discussione i contenuti, la configurazione storico-politica di famiglia, società civile e Stato»43. Questa critica di Marx al concetto, «il mistificato mobile del pensiero astratto»44, alla logica sottesa al modo di procedere hegeliano è giustificata dal fatto che «Hegel [stesso] non parla qui di collisioni empiriche; egli parla della relazione delle “sfere [corsivo di Marx] del diritto privato e del benessere privato, della famiglia e della società civile” allo Stato; si tratta della relazione essenziale di queste sfere stesse»45. Per Hegel, società civile e famiglia sono in un rapporto di subordinazione e cominciamento suo». G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, trad. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, introd. di L. Lugarini, Roma-Bari, 1996, vol. II, p. 955. 37 Ivi, I, p. 129. 38 «La proposizione, che il finito è ideale, costituisce l’idealismo». Ivi, vol. I, p. 159. 39 «Tutto dipende dall’unità dell’universalità e della particolarità nello Stato». Id., Lineamenti di filosofia del diritto, cit., Aggiunta al § 261, p. 359. 40 Ivi, § 261, p. 201. 41 Ivi, Annotazione al § 261, p. 202. 42 Ivi, § 260, p. 201. 43 F.S. TRINCIA-R. FINELLI, Commentario, in K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 249. 44 K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 64. Ma si veda anche quest’altra bella raffigurazione marxiana del concetto hegeliano: «L’anima degli oggetti, qui dello Stato, è compiuta, predestinata prima del loro corpo, il quale di fatto è solo apparenza. Il “concetto” è il figlio entro l’“idea”, che è Dio padre, il concetto è l’agens, il principio determinante, differenziante. “Idea” e “concetto” sono qui astrazioni rese autonome», ivi, pp. 54-55. 45 Ivi, p. 42. 16 dipendenza nei confronti dello Stato, ma «“subordinazione” e “dipendenza” sono le espressioni per un’identità “esterna”, forzata, apparente, come espressione logica, della quale Hegel usa giustamente la “necessità esterna”»46. L’evidente conclusione a cui Marx arriva è che «Hegel pone qui un’antinomia irrisolta. Da un lato necessità esterna, dall’altro fine immanente. L’unità dell’universale scopo finale dello Stato e del particolare interesse degli individui deve consistere in ciò, che i loro doveri di fronte allo Stato e i loro diritti verso lo stesso sono identici (quindi ad esempio il dovere di rispettare la proprietà coinciderebbe con il diritto alla proprietà)»47. Al posto quindi di un rapporto di dipendenza intrinseca, per cui la parte si costituisce come parte proprio per entro il suo rapporto con il tutto che la pone e la toglie48, si istituisce qui un rapporto che isola i suoi estremi per poi subordinarne esternamente uno all’altro. Così però viene negato il rapporto immanente che lega la parte al suo tutto e la parte, l’elemento che viene negato, qui la famiglia e la società civile, viene contraddetto e limitato nella sua essenza. 1. Il «misticismo logico, panteistico» di Hegel. Veniamo adesso al paragrafo in cui «è deposto l’intero mistero della Filosofia del diritto e della filosofia hegeliana in generale»49, al paragrafo in cui «appare molto chiaramente il misticismo logico, panteistico»50 di Hegel: il paragrafo 262. Hegel scrive: «L’idea reale, lo spirito, che scinde se stesso nelle due sfere ideali del suo concetto, la famiglia e la società civile, in quanto nel momento della sua finità, per essere, a partire dalla idealità di quelle, spirito reale per sé infinito, distribuisce con ciò a queste sfere il materiale di questa sua realtà finita, gli individui in quanto la moltitudine, così che questa assegnazione al singolo appare mediata dalle circostanze, dall’arbitrio e dalla propria scelta della sua determinazione»51. 46 Ivi, p. 43. Ibid. 48 Cfr. G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, cit., II, pp. 575-580 («Il rapporto del tutto e delle parti»). 49 K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 47. 50 Ivi, p. 44. 51 G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 203. Per una lettura di questo paragrafo che ne metta in luce le premesse teologiche e cristologiche e la conseguente critica feuerbachiana di Marx, si veda G. MARINI, Tra due secolarizzazioni: il «mistero della filosofia hegeliana» e la critica di Marx al § 262 della «Filosofia del diritto», in L. LOMBARDI VALLAURI-G. DILCHER (a cura di), Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, Milano, 1981, pp. 369-405, secondo il quale «la mediazione dell’idea è la versione secolarizzata della provvidenza divina; le circostanze, l’arbitrio, la scelta personale della destinazione, sono la versione secolarizzata del libero arbitrio di cui parla la teologia cristiana; e in questa coesistenza di piani si ripropongono i problemi della coesistenza di provvidenza divina e libero arbitrio», ivi, p. 285. 47 17 Secondo Hegel quindi, famiglia e società civile «sono mosse dall’idea reale; non è il loro proprio processo vitale che le unisce allo Stato, ma è il processo vitale dell’idea, che le ha distinte da sé; e precisamente esse sono [la] finità di questa idea; sono debitrici della loro esistenza ad uno spirito diverso dal proprio; sono determinazioni poste da un terzo, non autodeterminazioni; perciò vengono determinate anche come “finità”, come la finità specifica dell’“idea reale”. Lo scopo della loro esistenza non è questa esistenza stessa, ma l’idea espelle da sé questi presupposti “per essere a partire dalla loro idealità spirito reale per sé infinito”»52. “Traducendo” questa frase «in prosa»53, Marx spiega che in realtà famiglia e società civile «svolgono se stesse a Stato. Esse sono la forza attiva [das Treibende]. […] Lo Stato politico non può essere senza la base naturale della famiglia e la base artificiale della società civile; esse sono per lo Stato una conditio sine qua non»54, ovvero, è lo Stato che emerge da famiglia e società civile «in un modo inconsapevole e arbitrario. Famiglia e società civile appaiono come l’oscuro fondamento naturale, da cui si accende la luce dello Stato»55. Che cosa è successo? Come e perché possiamo trovarci di fronte a questa opposizione di “interpretazioni”? Come è arrivato Hegel a “questo” Stato? Per il semplice fatto che nel procedimento hegeliano «la cosiddetta “idea reale” (lo spirito come infinito, reale) viene […] rappresentata come se agisse secondo un principio determinato e per uno scopo determinato. Essa si scinde in sfere finite, fa questo, “per ritornare in sé, per essere per sé” e fa ciò precisamente “così che” ciò è proprio come è realmente. […] È [infatti] lo Stato che si scinde in esse [famiglia e società civile], che le presuppone, e precisamente fa questo “per essere a partire dalla idealità di quelle spirito reale per sé infinito”. “Esso si scinde, per”. Esso “distribuisce con ciò a queste sfere il materiale della sua realtà, così che questa assegnazione etc. appare mediata”»56. 2. Capovolgimento di soggetto e predicato. In questo modo di procedere mistificante, «il vero cammino viene rovesciato [auf dem Kopf gestellt]. Il più semplice è il più intricato e il più intricato è il più semplice. Ciò che doveva essere punto di partenza diviene risultato mistico, e ciò che doveva essere risultato razionale diviene mistico punto di partenza57. […] L’idea viene soggettivata e la relazione reale allo Stato di famiglia e società civile è concepita come sua interiore, immaginaria attività. Famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato; essi sono gli attivi veri e propri; ma nella speculazione ciò viene capovolto. Ma se l’idea viene soggettivata, qui i reali soggetti, società civile, famiglia, “circostanze, arbitrio etc.” si trasformano in irreali, significanti altro [della Volpe traduce “allegorici”], oggettivi momenti dell’idea»58. 52 K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 46. Ivi, p. 44. 54 Ivi, p. 46. 55 Ivi, p. 44. 56 Ibid. 57 Ivi, p. 94. 58 Ivi, p. 45. 53 18 Ci troviamo qui di fronte al famoso «rovesciamento di soggetto e predicato» 59, «all’inversione del soggettivo nell’oggettivo e dell’oggettivo nel soggettivo»60, al capovolgimento, criticato già da Feuerbach e che attraversa tutta la Kritik61, del predicato (in questo caso, l’idea della realtà etica, dello Stato) in soggetto e del vero soggetto (la famiglia e la società civile) in predicato del proprio predicato, operazione in cui «la condizione viene posta come il condizionato, il determinante come il determinato, il producente come il prodotto del suo prodotto»62. 2.1. Ipostatizzazione del predicato. Il primo momento di questa logica aprioristica e surrettizia consiste nella ipostatizzazione del predicato, il quale, sganciato e reso autonomo, per un atto di astrazione arbitrario, dal suo autentico subjectum, υποχείμενον, si ritrova ad essere il mistico soggetto e conseguentemente il vero soggetto è ridotto a mero «momento della mistica sostanza». «Invece di concepire queste [soggettività e personalità] soltanto come predicati dei loro soggetti, Hegel rende autonomi i predicati e li lascia successivamente tramutarsi in un modo mistico nei loro soggetti. L’esistenza dei predicati è il soggetto: quindi il soggetto è l’esistenza della soggettività etc. Hegel rende autonomi i predicati, gli oggetti, ma li rende autonomi avendoli separati dalla loro autonomia reale, dal loro soggetto. Poi il reale soggetto appare allora come risultato, mentre si deve partire dal reale soggetto e considerare la sua oggettivazione. La mistica sostanza diventa quindi soggetto reale e il reale soggetto appare come un altro, come un momento della mistica sostanza. Proprio perché Hegel muove dai predicati della determinazione universale invece che dall’Ens reale (υποχείμενον, soggetto) e pure deve esserci un soggetto portatore [Träger] di questa determinazione, la mistica idea diviene questo portatore»63. 3. Trasfigurazione del reale. Per chi segue questo modo di procedere, tutto è “logicizzabile”, ovvero, per il semplice fatto che al reale vengono sottratte, tramite l’astrazione speculativa, quelle caratteristiche concrete e determinate, “specifiche” e non “generiche”, che lo 59 Ivi, p. 51. «Inversione che […] dipende dal fatto che Hegel vuole scrivere la storia della vita dell’astratta sostanza, dell’idea, dal fatto che […] l’attività umana etc. deve apparire come attività e risultato di un altro, dal fatto che Hegel vuol far agire l’essenza dell’uomo per sé, come una immaginaria singolarità, invece che nella sua reale, umana esistenza». Ivi, p. 93. 61 Eccone solo alcuni esempi: «È importante che Hegel ovunque faccia dell’idea il soggetto e del soggetto vero e proprio, reale, come il “sentimento politico”, il predicato», ivi, p. 49. «Egli [Hegel] ha fatto di ciò che è il soggetto di quella [la costituzione politica] un prodotto, un predicato dell’idea [di organismo]», ivi, p. 54. «Ma proprio perché si è partiti [nella determinazione del fine dello Stato] dall’“idea” o dalla “sostanza” quale il soggetto, quale l’essenza reale, il soggetto reale appare solo come ultimo predicato del predicato astratto», ivi, p. 58. «Il soggetto è la cosa [la proprietà fondiaria] e il predicato l’uomo. La volontà diviene la proprietà della proprietà», ivi, p. 204. 62 Ivi, p. 46. 63 Ivi, pp. 70-71. 60 19 costituiscono in particolare, tutto può essere considerato come un “momento” dello sviluppo di una particolare idea, come suo momento “concreto”. «Il contenuto concreto, la determinazione reale appare come formale; la determinazione formale interamente astratta appare come il contenuto concreto. L’essenza delle determinazioni statali non è che esse sono determinazioni statali, ma che nella loro forma più astratta possono essere trattate come determinazioni logicometafisiche. Non la Filosofia del diritto, ma la Logica è il vero interesse. Il lavoro filosofico non è che il pensiero si fa corpo in determinazioni politiche, ma che le determinazioni politiche esistenti si volatilizzano in pensieri astratti. Non la logica della cosa, ma la cosa della logica è il fattore [Moment] filosofico. La logica non serve a prova dello Stato, ma lo Stato serve a prova della logica»64. Nelle Grundlinien ci troviamo quindi di fronte solo a «un capitolo della Logica»65, o meglio, visto che «l’essenza appartiene alla Logica ed è compiuta [fertig] prima della Filosofia del diritto, […] l’intera Filosofia del diritto è solo parentesi rispetto a Logica. [E] la parentesi è, come si comprende da sé, solo hors d’oeuvre dello sviluppo vero e proprio»66. Infatti il passaggio dalla famiglia e società civile allo Stato non è derivato «dall’essenza particolare della famiglia etc. e dall’essenza particolare dello Stato, ma dal rapporto universale di necessità e libertà. È completamente il medesimo passaggio, che nella Logica viene attuato dalla sfera dell’essenza nella sfera del concetto. Lo stesso passaggio viene compiuto nella Filosofia della natura dalla natura inorganica nella vita. Sono sempre le stesse categorie, che prestano il principio animatore ora per questa ora per quella sfera. Interessa unicamente ciò, trovare per le singole determinazioni concrete le corrispondenti astratte»67. In altri termini, l’unico interesse di Hegel è di ritrovare «l’“idea” tout court [schlechthin], l’“idea logica” in ogni elemento, sia esso dello Stato, sia esso della natura, e i soggetti reali […] diventano i loro meri nomi, così che è presente solo l’apparenza di un investigare reale; i soggetti reali rimangono unicamente delle determinazioni non concepite concettualmente, perché non concepite nella loro essenza specifica»68. 64 Ivi, p. 58. E ancora: «[la] relazione reale viene espressa dalla speculazione come manifestazione, come fenomeno. Queste circostanze, questo arbitrio, questa scelta della determinazione, questa mediazione reale sono solamente la manifestazione di una mediazione, che l’idea reale intraprende con se stessa, e che accade dietro il sipario. La realtà non viene espressa come se stessa, ma come un altra realtà. L’ordinaria empiria ha a legge [zum Gesetz] non il suo proprio spirito, ma uno estraneo, laddove l’idea reale ha ad esistenza [zum Dasein] non una realtà sviluppata a partire da se stessa, ma l’ordinaria empiria», ivi, p. 45. 65 Ivi, p. 59. 66 Ibid. «L’importanza eccezionale della Critica del diritto statuale hegeliano […] risiede nel fatto che essa […] è una critica radicale della Logica, oltre che della Filosofia del diritto, ed è soprattutto una critica radicale per la sua fondazione su motivi di tipo inconsueto alla critica “sinistro-hegeliana” dell’idealismo». G. della Volpe, Marx e lo Stato moderno rappresentativo. Un saggio della critica marxiana della dialettica mistificata (1947), in Id., Umanesimo positivo e emancipazione marxista, Milano, 1964, SugarCo, p. 27. 67 K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., pp. 48-49. 68 Ivi, p. 51. 20 4. Positivismo acritico. Contemporaneamente e conseguentemente a questo capovolgimento, Marx rileva un altro «difetto fondamentale dello svolgimento»69, «un’altra conseguenza di questa speculazione mistica»70, la peggiore pecca del metodo hegeliano, quello che gli permette di essere strumento di santificazione della realtà ordinaria: l’interpolazione (Unterschiebung) surrettizia e arbitraria della realtà esistente nel processo di formazione e di sviluppo dell’idea, tramite un continuo «rovesciarsi di empiria in speculazione e di speculazione in empiria»71. Il risultato di questo processo di mistificazione è che «un’esistenza empirica viene assunta in maniera acritica come la reale verità dell’idea; perché [qui] non si tratta di portare l’empirica esistenza alla sua verità ma di portare la verità ad una empirica esistenza e allora l’esistenza più immediata viene sviluppata come un reale momento dell’idea»72, come contenuto razionale e adeguato, «incarnazione»73 dell’idea. «La realtà empirica pertanto è assunta come essa è; essa è anche espressa come razionale, però non è razionale a motivo della sua ragione specifica ma in quanto il fatto empirico ha nella sua empirica esistenza un significato altro che se stesso. Il fatto, da cui si parte, non è concepito in quanto tale, ma come risultato mistico. Il reale diventa fenomeno, ma l’idea non ha nessun altro contenuto che questo fenomeno. L’idea non ha anche nessun altro scopo che quello logico: “di essere spirito reale per sé infinito”»74. 5. Astrazione mistificante. Si verifica, cioè, tramite un processo di astrazione mistificante, un passaggio dalla realtà fattuale alla speculazione per cui la realtà empirica, privata delle sue caratteristiche concrete diviene puro pensiero. «La realtà fattuale è che lo Stato scaturisca dalla moltitudine così come essa esiste in quanto membri delle famiglie e membri della società civile; la speculazione esprime questa realtà fattuale come azione dell’idea, non come l’idea della moltitudine, ma come azione di un’idea soggettiva, separata dalla realtà fattuale stessa»75. Quindi, tornando al giusto rapporto di fondazione o di condizionalità tra famiglia e società civile da una parte e Stato dall’altra, possiamo adesso scorgere nel procedimento hegeliano che le circostanze casuali, l’arbitrio e la scelta della propria determinazione attraverso cui secondo la veduta parziale e particolare del singolo gli 69 Ivi, p. 73. Ivi, p. 93. 71 Ibid. 72 Ibid. 73 «A Hegel importa di fare questo, presentare il monarca come il reale Dio fatto uomo, come la reale incarnazione dell’idea», ivi, p. 71. Nel monarca, quindi, «un’esistenza particolare, empirica, una singola esistenza empirica a differenza dalle altre è concepita come l’esistenza dell’idea. Di nuovo, fa una profonda impressione mistica il vedere una particolare esistenza empirica posta dalla idea e così incontrare ad ogni grado un farsi uomo di Dio», ivi, pp. 93-94. 74 Ivi, p. 47. 75 Ibid. 70 21 viene assegnato il materiale dello Stato, tutte queste cose vengono direttamente espresse da Hegel «non come il vero, il necessario, il giustificato in sé e per sé; non vengono fatte passare in quanto tali per il razionale; ma pure d’altro lato esse diventano nuovamente il razionale, solo in modo tale che vengono spacciate per una mediazione apparente, in modo tale che vengono lasciate come sono, ma al tempo stesso ricevono il significato di una determinazione dell’idea, di un risultato, di un prodotto dell’idea. La differenza non sta nel contenuto, ma nel modo di considerare, o nel modo di dire. È una doppia storia, una esoterica e una essoterica. Il contenuto risiede nella parte essoterica. L’interesse della parte esoterica è sempre quello di ritrovare nello Stato la storia del concetto logico. Ma è dal lato essoterico che procede lo sviluppo vero e proprio»76. 6. L’interpolazione (Unterschiebung) surrettizia e arbitraria della realtà esistente nel processo di formazione e di sviluppo dell’idea. Questo particolare modo di mistificazione per cui dopo aver trasfigurato l’empiria in speculazione, avendo astratto da questo dato empirico ogni caratteristica concreta e specifica, si deve tornare necessariamente77 alla empiria, per offrire una concretizzazione e una vita sanguigna a questo puro pensiero e quindi giustificare e santificare tale realtà come incarnazione dell’idea, lo ritroviamo all’opera nella deduzione del monarca ereditario, a cui Hegel dedica i §§ 275-286 delle Grundlinien, la cui critica costituì se non nell’esecuzione, almeno nell’idea, il primo nocciolo della Kritik. Per delineare speculativamente la monarchia ereditaria, Hegel non si rinchiude nella «Santa Casa (della Logica)»78, ma si guarda intorno e “distorce” metafisicamente la realtà in cui e di cui vive, facendo di una persona, il monarca, la massima realizzazione della volontà. Ma Hegel non parte da un monarca qualsiasi, qui si tratta di un particolare e determinato tipo sovrano, il quale, pour cause, si ritrova ad essere «la “sovranità personificata”, la “sovranità divenuta uomo”»79. 76 Ivi, p. 45. «Hegel è costretto a scambiare effettivamente la speculazione in empiria, proprio per aver scambiato l’empiria in speculazione. Cioè: proprio per aver fatto del “subbietto reale”, o “ente reale (ypokeimenon)”, o “determinante reale”, ch’è, qui, la “società [Sozietät]”, il “momento” o “predicato” di una “mistica sostanza”, cioè del “subbietto” destinato a esser “predicato” (l’Idea, lo Stato), Hegel è costretto a trovare effettivamente il “contenuto”, lo “sviluppo”, dalla parte del predicato “mistificato”, vale a dire, dell’ex“subbietto reale”; è costretto a realizzare lo sviluppo, il progresso, con dei “motivi del tutto empirici, cioè motivi empirici molto astratti, molto cattivi”, che si riassumono, nella fattispecie, nella realtà e concezione volgare della “società civile”, come società “borghese”, classista». G. della Volpe, Marx e lo Stato moderno rappresentativo. Un saggio della critica marxiana della dialettica mistificata (1947), in Id., Umanesimo positivo e emancipazione marxista, cit., p. 27. , cit., pp. 47-8. 78 K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 54. 79 Ivi, p. 75. 77 22 Come procede infatti Hegel? «Di tutti gli attributi del monarca costituzionale nell’Europa odierna Hegel fa delle autodeterminazioni assolute della volontà. Egli non dice: La volontà del monarca è la decisione ultima, ma La decisione ultima della volontà è - il monarca: la prima frase è empirica. La seconda distorce il fatto empirico in un assioma metafisico»80. Per Hegel quindi il monarca è «la coscienza dello Stato fatta corpo fisico, per cui quindi tutti gli altri sono esclusi da questa sovranità e dalla personalità e dalla coscienza dello Stato, ma al tempo stesso Hegel non sa dare a questa “Souveraineté Persone” alcun altro contenuto che l’“Io voglio”, il momento dell’arbitrio nella volontà. La “ragione dello Stato”, e la “coscienza dello Stato” è un’“unica”, empirica persona con esclusione di tutte le altre, ma questa ragione personificata non ha altro contenuto che l’astrazione dell’“Io voglio”. L’Etat c’est moi81. […] Invece di essere dunque lo Stato prodotto come la più alta realtà della persona, come la più alta realtà sociale dell’uomo, un unico uomo empirico, la persona empirica viene prodotta come la più alta realtà dello Stato»82. Non solo questo. Hegel suppone e pretende anche di aver dimostrato che «la soggettività dello Stato, la sovranità è “essenzialmente” il monarca, “in quanto questo individuo, astratto da ogni altro contenuto, e questo individuo determinato a dignità di monarca in modo immediato, naturale, dalla nascita naturale”. La sovranità, la dignità monarchica nascerebbe dunque. Il corpo del monarca determinerebbe la sua dignità. Al culmine dello Stato dunque, invece della ragione, deciderebbe la mera Physis. La nascita determinerebbe la qualità del monarca, come determina la qualità del bestiame. Hegel ha dimostrato che il monarca deve nascere, cosa di cui nessuno dubita; ma egli non ha dimostrato che la nascita trasforma in monarca. La nascita dell’uomo a monarca si lascia tradurre in una verità metafisica tanto poco quanto l’immacolata concezione di Maria Madre»83. Ma solo «nella sua sommità lo Stato esprime il suo segreto»84. L’ereditarietà del sovrano risulta dal concetto del sovrano. «Egli deve essere la persona specificatamente distinta dall’intero genere, da tutte le altre persone. Ora qual è l’estrema, salda differenza di una persona da tutte le altre? Il corpo. La più alta funzione del corpo è l’attività sessuale. Il più elevato atto costituzionale del re è quindi la sua attività sessuale, poiché per mezzo di essa egli fa un 80 Ivi, p. 73. Ivi, p. 75. 82 Ivi, p. 93. 83 Ivi, p. 84. Al riguardo osserva ironicamente Marx: «È molto comune che l’uomo sia nato; e che questa esistenza posta attraverso la nascita fisica si sviluppi a uomo sociale etc. e, più in alto, fino al cittadino dello Stato; attraverso la nascita l’uomo diviene tutto ciò che diviene. Ma è cosa molto profonda, è frappant che l’idea dello Stato nasca immediatamente, che abbia partorito se stessa all’esistenza empirica nella nascita del sovrano. In questo modo non è conseguito alcun contenuto, ma è solo modificata la forma del vecchio contenuto. Questo ha ottenuto una forma filosofica, un attestato filosofico», ivi, p. 93. 84 Ivi, p. 95. 81 23 re e perpetua il suo corpo. Il corpo di suo figlio è la riproduzione del suo proprio corpo, la creazione di un corpo reale [königlichen Leibes]»85. In conclusione: ««I due momenti [del potere sovrano] sono: la casualità del volere, l’arbitrio, e la casualità della natura, la nascita, dunque Sua Maestà il Caso. Il caso è pertanto l’unità reale dello Stato»86. Hegel cioè non ha fatto altro che dimostrare «come assolutamente razionale l’irrazionale»87, senza aver dimostrato e dedotto razionalmente di fatto un bel niente, perché il «mezzo [di cui si serve] è l’assoluto volere e la parola del filosofo; lo scopo particolare è nuovamente lo scopo del soggetto filosofante, di costruire dalla pura idea il monarca ereditario. La realizzazione dello scopo consiste nella [sua] semplice assicurazione»88 e in ciò si rivela appunto «l’intera non-critica della [sua] Filosofia del diritto»89. 85 Ibid. Ivi, p. 87. 87 Ivi, p. 85. 88 Ivi, p. 87. 89 Ivi, p. 90. 86 24 Manoscritti economico-filosofici del 1844. III manoscritto. Critica della dialettica e in generale della filosofia di Hegel. «In Hegel vi è un duplice errore»90. Il primo errore è il suo idealismo, o meglio, il suo «misticismo logico, panteistico»2, per es. il suo considerare la storia come una Fenomenologia dello spirito. Hegel infatti «non ha trovato altro che l’espressione astratta, logica, speculativa per il movimento della storia, che non è ancora la storia reale dell’uomo come soggetto presupposto, ma è soltanto l’atto di generazione dell’uomo, la storia dell’origine dell’uomo»3. In questa concezione idealistica della storia l’uomo non è il soggetto, eppure questo «processo deve avere un portatore [Träger], un soggetto; ma il soggetto si forma soltanto come risultato; questo risultato, il soggetto che sa di essere autocoscienza assoluta, è quindi Dio, lo spirito assoluto, l’idea che conosce e attua se stessa»4. Alla fine del corso storico, quindi, «lo spirito, questo pensiero che ritorna al suo luogo d’origine, che come spirito antropologico, fenomenologico, psicologico, etico, artistico-religioso vale pur sempre soltanto per sé, sino a che si trova alla fine come sapere assoluto nello spirito ormai assoluto, cioè astratto, e come tale si riferisce a se stesso, e ivi raggiunge la sua esistenza cosciente e adeguata. Infatti, la sua esistenza reale è l’astrazione»5 o detto più semplicemente l’«assoluto è lo spirito; questa è la suprema definizione dell’assoluto»6. Che ne è poi in tutto ciò dell’uomo? «L’essere umano, l’uomo, è equiparato in Hegel all’autocoscienza. Ogni estraneazione dell’essere umano è quindi null’altro che estraneazione dell’autocoscienza»7 e la «cosa principale è che l’oggetto della coscienza non è altro che l’autocoscienza o che l’oggetto è soltanto l’autocoscienza oggettivata, l’autocoscienza come oggetto (Posizione dell’uomo = autocoscienza)»8. Conseguentemente, l’«alienazione dell’autocoscienza pone la cosalità. Poiché l’uomo è uguale ad autocoscienza, il suo essere oggettivo alienato o la cosalità è uguale all’autocoscienza alienata […] e la cosalità è posta da questa alienazione. [È infatti] comprensibile che una autocoscienza, cioè la sua alienazione, può porre 90 K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 164. Id., La critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 44. 3 Id., Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 162. 4 Ivi, p. 181. 5 Ivi, p. 164. 6 Ivi, p. 188 (Qui Marx riporta la definizione data da Hegel nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 384). 7 Ivi, p. 169. 8 Ivi, p. 168. 2 25 soltanto la cosalità, cioè può porre soltanto una cosa astratta, una cosa dell’astrazione non una cosa reale»9. Il secondo errore di Hegel consiste nella identificazione di estraneazione e oggettivazione. «Come essenza posta e quindi da sopprimere dell’estraneazione vale [per Hegel] non già il fatto che l’essere umano si oggettivizzi in modo disumano, in opposizione a se stesso, ma il fatto che si oggettivizza differenziandosi e opponendosi al pensiero astratto»10, cioè per Hegel ciò che deve essere eliminato non è il modo disumano, estraniato ed estraniante dell’autooggettivazione, tipico di una società alienata ed alienante quale quella capitalistico-borghese, ma al contrario si tratta di eliminare l’oggettivazione stessa, cioè il fatto che l’uomo (per Hegel l’autocoscienza) «si oggettivizza differenziandosi e opponendosi al pensiero astratto». L’oggettività, la realtà materiale, costituisce per Hegel solo un momento parziale e transitorio, unilaterale ed astratto, nel cammino dello spirito verso se stesso e come tale va superato [aufgehoben]. «[L’] appropriazione dell’essere oggettivo estraniato o la soppressione [Aufhebung] dell’oggettività sotto la determinazione dell’estraneazione - che deve procedere dall’estraneità indifferente sino all’estraneazione ostile reale - significa per Hegel ad un tempo, o meglio principalmente, la soppressione dell’oggettività, perché per la autocoscienza ciò che vi è di scandaloso nell’estraneazione non è il carattere determinato dell’oggetto, ma il suo carattere oggettivo. L’oggetto è quindi qualcosa di negativo, qualcosa che si sopprime da sé, una nullità [Nichtigkeit]»11. «Bisogna ora cogliere i momenti positivi della dialettica hegeliana nell’ambito della determinazione dell’estraneazione»12. «Uno sguardo al sistema hegeliano. Si deve incominciare con la Fenomenologia di Hegel, dove si trova il vero luogo di nascita ed è racchiuso il segreto della filosofia hegeliana»13. «L’importante nella Fenomenologia di Hegel e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore e generatore – sta dunque nel fatto che Hegel concepisce l’autogenerazione dell’uomo come un processo, l’oggettivazione come una contrapposizione, come alienazione e soppressione di 9 Ivi, p. 171. Ivi, p. 165. 11 Ivi, p. 175. 12 Ivi, p. 179. 13 Ivi, p. 162. 10 26 questa alienazione; che in conseguenza egli intende l’essenza del lavoro e concepisce l’uomo oggettivo, l’uomo vero perché reale, come il risultato del suo proprio lavoro»14. Di questo passo vorrei mettere in evidenza tre elementi fondamentali: 1. La dialettica della negatività, ovvero la famosa «soppressione [Aufhebung], dove la negazione e la conservazione, l’affermazione, sono connesse»15. Evidente è il riferimento di Marx alla Fenomenologia dello spirito di Hegel: «Il superare [Aufheben] presenta il suo vero duplice significato che noi abbiamo visto nel negativo; è un negare e parimenti un conservare. Il nulla, come nulla del questo, conserva l’immediatezza ed è esso stesso sensibile: ma è una immediatezza universale»91. Aufhebung deriva dal verbo aufheben il quale ha sostanzialmente tre gruppi di significati: a) levare da terra, raccogliere, alzare, sollevare; b) togliere, sospendere, annullare, abrogare, ritenere, revocare; c) conservare, mettere in serbo, custodire, ritenere. La Aufhebung è quindi quel processo che elimina (la particolarità, l’unilateralità, l’elemento astratto), conserva (ciò che vi è di positivo) ed eleva (a una formazione superiore e più matura dello spirito). È importante sottolineare e precisare che il togliere di cui parla Hegel non equivale ad un immediato eliminare o annullare. Sul termine e sul significato di Aufhebung si veda inoltre la nota che Hegel vi dedica nella Scienza della logica: «Quello del togliere [aufheben] e del tolto [aufgehoben] (ossia dell’ideale) è uno dei più importanti concetti della filosofia; è una determinazione fondamentale, che ritorna addirittura dappertutto, e di cui occorre cogliere precisamente il senso, distinguendola in particolare maniera dal nulla. – Quello che si toglie, non perciò diventa nulla. Nulla è l’immediato. Ciò che è tolto, all’incontro, è un mediato; è un non essere, ma come resultato derivato da un essere. Quindi ha ancora in sé la determinatezza da cui proviene. La parola togliere ha nella lingua il doppio senso, 14 Ivi, p. 167. Ivi, p. 177. 91 G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., vol. I, p. 94. 15 27 per cui val quanto conservare, ritenere, e nello stesso tempo quanto far cessare, mettere fine. Il conservare stesso racchiude già in sé il negativo, che qualcosa è elevato dalla sua immediatezza e quindi da una esistenza aperta agli influssi estranei, affin di ritenerlo. – Così il tolto è insieme un conservato, il quale ha perduto soltanto la sua immediatezza, ma non perciò è annullato»92. 2. Soprattutto, il «fatto che Hegel concepisce l’autogenerazione dell’uomo come un processo, […] come il risultato del suo proprio lavoro». È questo il grande “vantaggio” di Hegel riguardo anche ad altri grandi pensatori i quali, pur partendo dal concreto sensibile, restano però fermi a una mera intuizione immediata del reale. 1a tesi su Feuerbach: «Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l’oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall’idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l’idealismo ignora l’attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l’attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell’Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l’importanza dell’attività “rivoluzionaria”, dell’attività pratico-critica». 3. Secondo Marx, «Hegel si è posto dal punto di vista dell’economia politica moderna. Concepisce il lavoro come l’essenza, come l’essenza che si avvera dell’uomo», ma, ancora una volta, «il solo lavoro che Hegel conosce e riconosce, è il lavoro astrattamente spirituale»16. Riguardo alla profonda considerazione (nonostante la sua appartenenza alle scienze dell’intelletto) che Hegel aveva dell’economia politica si vedano i §§ 188-189 dei Lineamenti di filosofia del diritto: «§ 188. La società civile contiene i tre momenti: A) La mediazione del bisogno e l’appagamento del singolo grazie al suo lavoro e grazie al lavoro e appagamento dei bisogni di tutti gli altri, - il sistema dei bisogni. 92 16 Id., Scienza della logica, cit., vol. I, pp. 100-102. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 168. 28 B) La realtà dell’universale ivi contenuto della libertà, la protezione della proprietà ad opera dell’amministrazione della giustizia. C) La previdenza contro l’accidentalità restante in quei sistemi e la cura dell’interesse particolare come di un che di comune, ad opera della polizia e della corporazione. A) Il sistema dei bisogni §189. La particolarità in primo luogo come ciò che è determinato di fronte all’universale della volontà in genere (§ 6) è bisogno soggettivo, il quale consegue la sua oggettività (cioè appagamento) grazie al mezzo α) di cose esterne, le quali ora sono parimenti la proprietà e il prodotto di altri bisogni e volontà, e β) grazie all’attività e la lavoro, come ciò che media i due lati. Giacché il fine di tale bisogno è l’appagamento della particolarità soggettiva, ma nella relazione con i bisogni e il libero arbitrio di altri si fa valere l’universalità, ne segue che questo parer della razionalità in questa sfera della finità è l’intelletto, il lato che importa nella considerazione e che costituisce esso medesimo l’elemento conciliatore all’interno di questa sfera. L’economia politica è la scienza che ha la sua origine da questi punti di vista [della particolarità soggettiva, della sfera della finità, dell’intelletto], ma poi deve esporre il rapporto e il movimento delle masse nella loro complicazione e determinatezza qualitativa e quantitativa. – È questa una delle scienze che sono sorte nell’età moderna come in loro terreno. Il suo sviluppo mostra lo spettacolo interessante di come il pensiero (v. Smith, Say, Ricardo) movendo dall’infinita moltitudine di fatti singoli, che si trovano dapprima davanti ad esso, rintraccia i principi semplici della cosa, l’intelletto che è attivo in essa e che la governa. – Come da un lato è l’elemento conciliatore il conoscer nella sfera dei bisogni questo parer della razionalità il quale nella cosa risiede ed è attivo, così viceversa è questo il campo ove l’intelletto coi suoi fini soggettivi e le sue opinioni morali sfoga il suo malcontento e la sua stizzosità morale»93. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Lettera a Engels del 16.01.1858: «Nel metodo del lavoro mi è stato di grandissimo servizio l’aver riletto, by mere accident, la Logica di Hegel […]. Se tornerà mai il tempo per lavori del genere, avrei una gran voglia di rendere accessibile all’intelletto dell’uomo comune in poche pagine, quanto vi è di razionale nel metodo che Hegel ha scoperto ma nello stesso tempo mistificato». 93 G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., §§ 188-189, pp. 159-160. 29 Dal 1865 si occupa di nuovo della dialettica hegeliana soprattutto in relazione ai problemi di esposizione (Darstellung) dei risultati della ricerca. 1873: Poscritto alla seconda edizione tedesca de Il capitale del 1873: «Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico, non solo è differente da quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l’opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli, col nome di Idea, trasforma addirittura in soggetto indipendente, è il demiurgo del reale, mentre il reale non è che il fenomeno esterno del processo del pensiero. Per me, viceversa, l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini. Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent’anni fa [1873-29/30=1843-1844, cioè nella Critica del diritto statuale hegeliano e nei Manoscritti economico-filosofici]94, quando era ancora la moda del giorno. Ma proprio mentre elaboravo il primo volume del Capitale i molesti, presuntuosi e mediocri epigoni che ora dominano nella Germania colta si compiacevano di trattare Hegel come ai tempi di Lessing il bravo Moses Mendelssohn trattava lo Spinoza: come un “cane morto”. Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico. Nella sua forma mistificata [Hegel], la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale [Marx], la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e per i suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza»95. Marx è stato quindi il migliore e il più grande allievo di Hegel non nonostante ma proprio perché ha criticato e superato [aufgehoben] il maestro. Ancora una volta mi viene in mente il Nietzsche del Così parlò Zarathustra. Parte prima. I discorsi di Zarathustra. Della virtù che dona: «Si ripaga male un maestro se si rimane sempre e soltanto un discepolo [Man vergilt einen Lehrer schlecht, wenn man immer nur der Schüler bleibt]»96. 94 Come si può vedere il confronto con il maestro, con Hegel, lo ha impegnato ed occupato per tutta la sua vita, dalla Lettera al padre del 1837 fino a questo Poscritto del 1873. Anche per Marx vale ciò che Nietzsche dice di Strauss: «Chi […] si è ammalato una volta di hegelismo […] non guarirà mai del tutto». F. NIETZSCHE, Prima considerazione inattuale. David Strass. L’uomo di fede e lo scrittore. § 6. 95 K. MARX, Il Capitale. Libro primo. Il processo di produzione del capitale, cit., pp. 44-45. 96 F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, introduzione e commento di G. Pasqualotto, Milano, 20006 (1a ediz. 1985), p. 97. 30 Martedì 14 ottobre 2003 1. La via di Marx alla sua (critica dell’) economia politica. Un primo confronto serio di Marx con l’economia politica classica si ha negli anni ‘40 e si ritrova nei cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844. La seconda tappa di mirati studi economici comincia con l’esilio londinese dal 1850 in poi. Sullo sfondo c’è, come motivazione critica di Marx, il proposito di cogliere adeguatamente la sfera economica della società borghese, le sue tendenze di sviluppo e di crisi. La critica alle condizioni del tempo viene quindi trasportata nel processo di analisi delle sue condizioni materiali e della sua rappresentazione. L’interesse per i temi economici è dopo il 1850 estremamente poliedrico e rientra nel sistema di pensiero dell’economia politica classica. I primi anni ‘50, documentati nei “Quaderni londinesi” (1850-1853), presentano un impegno intenso con le teorie della moneta e con le correlate teorie della crisi. Già in questi anni Marx formula – anche se in un contesto non ancora sistematico – riflessioni centrali per la questione del plus-valore e sul salario e capitale che si staccano chiaramente dal precedente riferimento e dipendenza da Ricardo. Significativo per il successivo processo del lavoro deve essere stato il ripreso confronto critico con le opere principali dei classici dell’economia politica classica e cioè Steuart, Smith e Ricardo. In questo ambito maturano le riflessioni sui rispettivi modi di procedere metodici e i sistemi dell’economia scientifica. Negli anni 1854-1856 il corso degli studi è meno intenso, interrotto soprattutto da lavori pubblicistici. In questo periodo Marx mette insieme i primi risultati e si crea quelle condizioni che gli permetteranno dal 1857 la rapida stesura dei “Grundrisse”. Ancora durante la stesura dei “Grundrisse” Marx arriva, nell’ambito dello sviluppo della sua concezione del valore, del denaro e del capitale alla concezione della merce e alla contrapposizione valore di scambio/valore d’uso. In tal modo erano gettate le basi per il passaggio alla rappresentazione delle categorie economiche: la merce è la forma cellulare da cui la critica dell’economia politica può venire sviluppata97. La scoperta della merce è inoltre di decisivo significato anche perché al contrario della rappresentazione del valore in lei la forma del capitale trova il suo punto d’approdo adeguato, specialmente per quanto riguarda il rapporto capitale/lavoro salariato. 97 «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci” e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce». K. MARX, Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, cit., p. 67. 31 In Per la critica dell’economia politica, opera apparsa nel 1859, Marx collega espressamente il doppio carattere della merce con quello del lavoro (lavoro “astratto” e “concreto”) e sviluppa con ciò alla teoria del valore/lavoro. Gli anni seguenti fino al 1863 sono contrassegnati dalla ulteriore sistematizzazione delle teorie del denaro e del capitale. Dal 1863 al 1867 stende ulteriori quaderni di appunti e di estratti da cui saranno tratti i tre volumi de Il capitale e le Teorie sul plusvalore. 2. Definizioni. 2.1. Economia politica. L’economia politica è in senso lato la scienza delle leggi della produzione, consumo, scambio e distribuzione delle condizioni materiali di vita degli uomini. Come momento della coscienza sociale (borghese) si trova in un rapporto di dipendenza dialettica dallo sviluppo economico materiale; L’economia politica esprime questo sviluppo teoreticamente in una molteplicità di forme mediate. In un senso più strettamente storico-determinato, l’economia politica ha per oggetto le leggi economiche della società capitalistico-borghese ed è allo stesso tempo scienza fondamentale per la comprensione di tutte le ulteriori branche e rapporti della società borghese (vedi Adam Smith, David Ricardo, John Stuart Mill). Come “critica dell’economia politica” Marx espone ne Il capitale la struttura economica della società borghese. Lettera di Karl Marx a Ferdinand Lassalle del 22.2.1858: « Il lavoro di cui si tratta [Per la critica dell’economia politica, 1859] per ora è la critica delle categorie economiche o if you like il sistema dell’economia borghese esposto criticamente. È in pari tempo esposizione del sistema e critica dello stesso per mezzo dell’esposizione»98. 2.2. Economia volgare. L’economia volgare (Jean-Baptiste Say, Frédéric Bastiat, Henry Charles Carey, Wilhelm Roscher, Pierre-joseph Proudhon etc.) è l’espressione teoretica delle inasprite contraddizioni del modo di produzione capitalistico e delle sue corrispondenti lotte di classe. A differenza dell’economia politica classica non tenta di ricercare le intime connessioni della società capitalistica, ma si limita e si Insieme ad altre lettere di Marx riguardanti Per la critica dell’economia politica, la si può leggere nell’Appendice a KARL MARX, Per la critica dell’economia politica [1859], trad. it. di Emma Cantimori Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1971. 98 32 compiace di tradurre le manifestazioni esteriori e le loro corrispondenti rappresentazioni capovolte nella forma della teoria economica, soprattutto nella formula trinitaria: terra-rendita fondiaria, capitale-profitto, lavoro-salario. Con lo sviluppo crescente delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico cambia anche corrispondentemente il punto di vista ideologico dell’economia volgare: da una iniziale celata/dissimulata difesa dei rapporti capitalistici visti come intramontabili e insuperabili, l’economia volgare si sviluppa fino a diventare una cosciente e aperta apologetica di questi rapporti nelle più diverse forme. 3. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858 (Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie). Sette quaderni (I-VII) stesi dall’ottobre 1857 al giungo 1858. Einleitung (quaderno M) redatto tra il 23 agosto e la metà di settembre 1857. Divisa in quattro paragrafi o sottosezioni: § 1. Produzione, consumo, distribuzione, scambio (circolazione). a) Produzione. [Individui autonomi. Idee del XVIII secolo]. b) Eternizzazione di storici rapporti di produzione. Produzione e distribuzione in generale. Proprietà. § 2. Il rapporto generale tra produzione, distribuzione, scambio e consumo. a) Consumo e produzione. b) Distribuzione e produzione. c) Scambio e produzione. § 3. Il metodo dell’economia politica. § 4. Produzione. Mezzi e rapporti di produzione e rapporti di scambio. Forme di Stato e della coscienza in relazione ai rapporti di produzione e di scambio. Rapporti giuridici e rapporti famigliari. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pagg. 3-11: § 1. Produzione, consumo, distribuzione, scambio (circolazione). «Oggetto della nostra analisi è anzitutto la produzione materiale. Il punto di partenza è costituito naturalmente dagli individui che producono in società – e perciò dalla produzione socialmente determinata degli individui»99. KARL MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. 1857-1858, trad. it. di Enzo Grillo, La Nuova Italia, (Classici della filosofia, n. 20), Scandicci (Firenze), 1968 (ristampa “Paperbacks Classici” 1997), vol. I, p. 3. 99 33 «Produzione socialmente determinata materiale degli individui», questo genitivo va letto in duplice modo: Genitivo soggettivo: La produzione ha luogo nella società, sono gli individui il soggetto, sono loro che producono socialmente. Genitivo oggettivo: Gli individui stessi sono un prodotto sociale. Zoon politicon Gattungwesen. ------------------------------------------------------------------------------------------------------Segue un attacco critico al «punto di partenza» [Ausgangspunkt] degli economisti classici (pp. 3-6). Robinsonate: Daniel Defoe, Robinson Crusoe, 1717. L’individuo isolato e «indipendente» o è una vuota astrazione (qualcosa che non è mai esistito storicamente), oppure, nella misura in cui ha un senso, costituisce il prodotto (storicamente determinato) della società fondata sulla libera concorrenza, cioè della società borghese moderna. Gli economisti classici sono vittime di questa illusione, di questa «falsa coscienza»: essi attribuiscono alle prime epoche della storia quello che il frutto maturo della società moderna, cioè proiettano il presente borghese sul passato, l’uomo borghese sull’uomo preborghese. La robinsonata è l’illusione dell’epoca borghese, la quale deriva, per un verso, dal tentativo di legittimare l’individualismo, proprio dell’economia borghese; per un altro, dalla cecità di chi non comprende come anche l’individuo isolato sia possibile, solo, perché esiste una certa maniera di organizzare la società, che appunto esprime se stessa (ideologicamente) attraverso (e come) individui isolati. La robinsonata è un costrutto propriamente ideologico basato sul proiettare all’indietro, all’“origine”, una condizione, che è caratteristica e desiderata invece, per il presente; lo scopo è, evidentemente, di legittimare così quella condizione, spacciandola per naturale, razionale, eterna etc. Robinson è il figlio del suo tempo. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 6: Zoon politicón – Gattungwesen [ente generico - il termine Gattung, infatti, rimanda a Gatte = compagno, coniuge ed a gatten = unirsi]. 34 Zoon logon èchon = animale parlante, che ha il linguaggio. Cfr. Aristotele, Politica, I (A), 2, 1252 b – 1253 a100. [Fotocopie] ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Ritorno di Marx al suo punto di partenza, la «produzione socialmente determinata materiale degli individui». Pag. 6: «La produzione in generale è un’astrazione, ma un’astrazione che ha un senso [verständige Abstraktion]…». Entro quest’ottica, posti gli individui a, b, c, ..., n, elaborarne il concetto significa raccogliere tutte - e solo - le caratteristiche comuni agli individui in questione, scartandone, invece, le altre, quelle che differenziano un individuo dall’altro. L’astrazione, a patto però che sia sensata (verständige) e storicamente determinata, si rivela essere un indispensabile strumento per la ricerca scientifica. Prefazione alla prima edizione de Il capitale del 1867. All’«analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l’uni e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione»101. «Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento, loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione è l’Inghilterra principalmente che serve a illustrare lo svolgimento della mia teoria»102. Non si tratta qui di un’astrazione mistificante (Hegel), ma di un’astrazione sensata [verständige Abstraktion]. L’aggettivo verständige rimanda al Verstand, l’intelletto; dal che ricaviamo che questa forma di astrazione si colloca all’interno di quello scindere l’immediata totalità dell’esperienza, che è, per così dire, il compito o risultato della critica 100 ARISTOTELE, Politica, a cura di Renato Laurenti, Roma-Bari, Editori Laterza, (Economica Laterza, n. 9), 19952, pp. 6-7. 101 K. MARX, Il Capitale. Libro primo, cit., p. 32. 102 Ibidem. 35 intellettuale (quella, ad es., che produce le robinsonate, di contro al naturale punto di partenza dell’economia politica). In altre parole, ci rendiamo conto a questo punto che comprendere cosa sia produzione non è mai possibile, se non combinando – di volta in volta in modo diverso - caratteristiche comuni a tutti i modi di produzione e caratteristiche che, invece, differenziano questo da quello. L’individuazione precisa dell’Unterschied (differenza) mi consente di comprendere la Verschiedenheit (diversità). Come si vede, dunque, mettere in evidenza il generale o comune, per Marx, è funzionale al far emergere la differenza, in quanto lo scopo del conoscere è comprendere la diversità - ovvero, il modo determinato in cui generale e differente si intrecciano volta a volta103. In conclusione, mediante l’analisi critica della verständige Abstraktion, Marx propone, in realtà, una concezione del conoscere scientifico che, articolando comune e differente, giunge a cogliere la particolarità del proprio oggetto di ricerca. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 7: “Dimenticanza” degli economisti borghesi. In un primo momento si tralascia o «si dimentica», a favore della «produzione in generale», la differenzia essenziale, differentia specifica; poi l’universale indebitamente ipostatizzato («la produzione in generale») si incarna nella differenza trascesa (il modo di produzione capitalistico). La produzione capitalistica viene trascesa, trasfigurata, nei suoi caratteri specifici a favore di un concetto più astratto, la «produzione in generale»; ma poi quest’ultima viene identificata con la produzione capitalistica, la quale appare così come qualcosa di metastorico, di eterno, razionale e naturale. Secondo Marx non è per caso che l’economia politica usa non criticamente la verständliche Abstraktion; al contrario, questo errore teorico e metodologico ha una funzione pratico-politica (ideologica): scopo dell’economia politica è, partendo da una pretesa nozione di “produzione in generale”, ricavare direttamente la giustificazione logica e storica del modo specificamente capitalistico di organizzare la produzione stessa. Per questo, nel suo modo di procedere, l’economia politica deve trascurare i momenti della differenza (Unterschied), della diversità (Verschiedenheit) e della particolarità (Besonderheit). 103 Già nella Kritik del 1843 Marx scriveva: «Una spiegazione che però non dà la differentia specifica, non è una spiegazione». K. MARX, Critica del diritto statuale hegeliano, cit., p. 51. 36 ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pagg. 9-10: «Ma questo non esaurisce tutto ciò di cui, secondo gli economisti, questa parte generale deve realmente trattare. …» Leggere dalla Miseria della filosofia. Capitolo secondo: La metafisica dell’economia politica. 1. il metodo. La settima osservazione. «Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure stabiliscono due sorta di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è una emanazione di Dio. Dicendo che i rapporti attuali - i rapporti della produzione borghese - sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne che debbono sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più. C’è stata storia perché sono esistite istituzioni feudali e perché in queste istituzioni feudali si trovano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese, che gli economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni»104. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 10: Marx definisce vuota tautologia un enunciato come questo: “senza appropriazione (dunque, proprietà), non c’è produzione”. In effetti, produrre presuppone che si abbia una materia su cui operare e strumenti per trasformarla; in questo senso, basta comprendere il significato di termini come “produrre”, “produzione”, per intendere, anche, che essi portano con sé implicitamente termini come “appropriarsi” e “appropriazione”. Affermare, dunque, che non c’è produzione senza appropriazione è come dire che non c’è produzione senza (le condizioni della) produzione. E questa è una (apparentemente) vuota tautologia. Sennonché, l’economia politica fa di questa vuota tautologia, di questa mèra esplicazione, nel predicato, del significato del soggetto, la premessa maggiore di un sillogismo, che potremmo costruire in questo modo: 104 K. MARX, Miseria della filosofia, cit., p. 78. 37 (premessa maggiore) ogni produzione implicita appropriazione/proprietà; (premessa minore) la proprietà privata capitalistica è, appunto, proprietà; (conclusione) dunque, ogni produzione implicita/implica la proprietà privata capitalistica. Il “trucco” evidentemente sta nella premessa minore, la quale riconduce senz’altro alla classe generale “appropriazione/proprietà” una forma storicamente determinata di appropriazione/proprietà (la proprietà privata borghese), senza porsi il compito di spiegare perché produrre (in certe condizioni storiche) impliciti questa e non un’altra forma di proprietà. Dal punto di vista formale, l’argomentazione sillogistica è basata su questa contraddizione: da un lato, si muove ad un livello puramente astratto-formale; dall’altro, però, inserisce - surrettiziamente e senza alcuna giustificazione - un determinato contenuto storico (la proprietà borghese). La conseguenza è che, nella conclusione, la forma privata capitalistica di proprietà (cioè, il determinato contenuto storico) viene legittimata dall’apparente rigore formale dell’argomentazione logico-deduttiva, trascurando completamente di mettere in evidenza il nesso fra quella forma di proprietà (in generale) e certe condizioni storiche. Analogamente, agli ideologi borghesi che accusavano i comunisti di voler abolire la libertà, la giustizia, la famiglia, la persona, la proprietà, in pratica tutti i valori fondamentali della moderna società (borghese), Marx ed Engels rispondevano nel Manifesto del partito comunista: «Ma non discutete con noi misurando l’abolizione della proprietà borghese sul modello delle vostre idee borghesi di libertà, cultura, diritto e così via. Le vostre idee stesse sono prodotti dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, come il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a legge, volontà il cui contenuto è dato nelle condizioni materiali di esistenza della vostra classe. Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate quell’idea interessata mediante la quale trasformate in eterne leggi della natura e della ragione, da rapporti storici quali sono, transeunti nel corso della produzione, i vostri rapporti di produzione e di proprietà. Non vi è più permesso di comprendere per la proprietà borghese quel che comprendete per la proprietà antica e per la proprietà feudale»105. K. MARX – F. ENGELS, Manifesto del partito comunista [1848], a cura di Emma Cantimori Mezzomonti, prefazione di Lucio Colletti, Roma-Bari, Editori Laterza, (Economica Laterza, n. 41), 1995, p. 113. 105 38 Per due vie si può arrivare così all’apologesi del capitalismo: a) identificando la proprietà capitalistica con la proprietà in generale e, dunque, con un’essenziale condizione per l’esistenza della produzione (in generale); b) ma, anche, facendo scomparire dal quadro l’elemento della storicità della forma capitalistica di proprietà (la quale se esiste perché legata a certe determinate condizioni, in mancanza di queste stesse condizioni, non ha più un rapporto necessario con il produrre, dunque, non ha più giustificazione). La produzione - dunque, una forma d’attività, mediante cui pongo fuori, estraneo da me qualcosa - in tanto può svolgersi, in quanto implicita l’opposta attività, mediante cui rendo a me propria qualcosa. Che le due attività si implichino significa che, se dico l’una dico anche l’altra. Dunque, ho a che fare con una tautologia. Non inutile, però: infatti, la comprensione che tautologica è la reciproca implicazione tra produzione ed appropriazione, mi aiuta a comprendere quanto sia illegittimo ricavare, posta la produzione, la sanzione o legittimazione, santificazione non dell’appropriazione in generale, ma di una forma storica particolare di appropriazione che in questo modo viene spacciata e gabellata per eterna, razionale, naturale etc.. È così che giungo a comprendere come tra forma generale e sua determinata manifestazione storica, l’economista borghese possa stabilire un rapporto mistico, dogmatico, non svolto storicamente, non dimostrato. E l’economista borghese fa ciò non per caso: ciò che egli vuole evitare, infatti, è esattamente che risalti il carattere storicamente determinato (dunque, limitato) della proprietà privata e della proprietà privata nella sua forma specificamente capitalistica. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 11: Per riassumere …. 39 Giovedì 16 ottobre 2003 Nel § 1. Marx ha definito il suo oggetto di ricerca: la «produzione socialmente determinata degli individui». L’oggetto è determinato, si tratta di questa produzione, di questo particolare stadio sociale. Ma l’oggetto per Marx non può essere concepito ala maniera degli empiristi e dei positivisti, cioè come un oggetto materiale e basta, dotato di certe qualità esteriori percepibili immediatamente, bensì deve essere visto come un organismo vivente, da cogliere nel suo processo unitario di riproduzione e sviluppo. L’oggetto società, quindi, è sì un oggetto materiale, ma è anche qualcosa di complessamente articolato - «il concerto è concreto perché sintesi di molte determinazioni» - cioè è una totalità organica e dialettica, da ricostruire e intendere nella sua intima e vivente connessione. Questo è proprio ciò che gli economisti borghesi non fanno. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pagg. 11-26: § 2. Il rapporto generale tra produzione, distribuzione, scambio e consumo. Pag. 11: «La rozzezza e la genericità [Begriffslosigkeit] stanno proprio nel fatto di porre in una relazione reciproca accidentale cose che sono connesse organicamente, di ridurle cioè ad una mera connessione della riflessione [Reflexionszusammenhang]» «Die Rohheit und Begriffslosigkeit liegt eben darin, das organisch Zusammengehörende zufällig aufeinander zu beziehen, in einen bloßen Reflexionszusammenhang zu bringen». La traduzione italiana non è in questo caso molto felice. Come si può vedere dal confronto con l’originale tedesco, l’intenzione di Marx era di far risaltare la contrapposizione, istituita da Hegel, Begriff (concetto) vs. Reflexion (riflessione). Per la caratterizzazione della “ Riflessione” si veda G.F.W. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 81. Nota106. 106 G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B. Croce, introd. di C. Cesa, glossario di N. Merker, Roma-Bari, Editori Laterza, (Biblioteca Universale Laterza, n. 102), 199410 (1a ediz. 1907). 40 Per il “concetto” si vedano ivi i §§ 160-165. [Fotocopie] ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 12: «Produzione, distribuzione, scambio, consumo formano così un sillogismo in piena regola; la produzione, è l’universalità; la distribuzione e lo scambio, la particolarità; il consumo, l’individualità in cui il tutto si conchiude». Per cogliere l’origine hegeliana di questa caratterizzazione del sillogismo si veda G.F.W. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., § 181. Nota. [Fotocopie] ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 14: «Questa identità di produzione e consumo perviene al principio di Spinoza: determinatio est negatio» «La determinatezza [Bestimmtheit] è la negazione posta come affermativa, è la proposizione di Spinoza: omnis determinatio est negatio. Questa proposizione è di un’importanza infinita». HEGEL, Scienza della logica, cit., vol. I, p. 108. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 15: «Una ferrovia sulla quale non si viaggi e che quindi non si logori e non venga consumata, è soltanto una ferrovia δυνάμει [in potenza], non in realtà». Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, I, 6107. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 16: «L’oggetto artistico – e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto – crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico ..». Cfr. KARL MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., pp. 118-119. Da «Per altro verso, dal punto di vista soggettivo: …» a «un senso umano che fosse corrispondente a tutta la ricchezza dell’essere umano e naturale». ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------107 ARISTOTELE, Etica nicomachea, introduzione, traduzione e commento di Marcello Zanatta, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1996, pp. 91-92. 41 Pag. 17-18: Riassumendo, consumo e produzione si rapportano quale: a. Identità immediata. b. Ciascuno dei due termini si presenta come mezzo dell’altro. c. Ciascuno di essi realizzandosi crea l’altro, si realizza come l’altro. Per cogliere la matrice hegeliana dell’andamento di questa triade dialettica si veda la famosa prima triade (essere, nulla, divenire) con cui Hegel inizia la sua Scienza della logica108. [Fotocopie] ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 18: «Niente di più semplice a questo punto, per un hegeliano, che identificare produzione e consumo. E ciò è avvenuto non per opera dei belletristi socialisti, ma perfino di economisti prosaici, come ad es. Say …» Legge di Say: Trattato di economia politica (1803): «l’offerta crea la domanda», «l’offerta desiderata è sempre uguale alla domanda aggregata desiderata». Say la formulò sia in riferimento allo scambio individuale (ciascun soggetto che produca più di quanto serva al suo consumo offre l’eccedenza, per ottenere in cambio altri beni, per cui «ciascun prodotto finito offre, istantaneamente, uno sbocco ad altri prodotti»), sia, in riferimento al commercio internazionale (il rimedio, per es., alla sovrapproduzione di cotone delle colonie inglesi è l’esportazione in Brasile; ma la condizione per esportare è che il Brasile ottenga il potere d’acquisto, producendo il caffè). La legge divenne uno strumento per celebrare acriticamente il lassez-faire e il libero commercio internazionale. Questa legge fu considerata valida fino alla grande crisi (di sovrapproduzione) del 1929, quando il colosso capitalistico si trovò a crollare su sé stesso perché «l’immane raccolta di merci» da esso prodotto non trovò uno sbocco sul mercato. Riflettendo sulla “Grande crisi” del ‘29 Keynes arrivó ad elaborare un nuovo modello di crescita e di sviluppo economico facendo prendere così all’economia americana (e mondiale) un New Deal (nuovo corso). ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------108 G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, cit., vol. I, pp. 70-71. 42 Pag. 18: «Ma la cosa più importante da mettere in rilievo è che produzione e consumo, considerati come attività di un soggetto o di più individui, si presentano in ogni caso come momenti di un processo in cui la produzione è l’effettivo punto di partenza e perciò anche il momento egemonico [das übergreifende Moment]». «Das Wichtigste ist hier nur hervorgehoben, daß, betrachte man Produktion und Konsumtion als Tätigkeiten eines Subjekts oder einzelner Individuen, sie jedenfalls als Momente eines Prozesses erscheinen, worin die Produktion der wirkliche Ausgangspunkt und darum auch das übergreifende Moment ist». La traduzione di «das übergreifende Moment» con «momento egemonico» non mi sembra che restituisca tutta la ricchezza di significati del termine tedesco, il cui procedere, a mio avviso, è strettamente imparentato con la Aufhebung hegeliana. Übergreifend deriva infatti dal verbo übergreifen il quale a sua volta è composto da: Über: oltre, al di là – come per es. in Übermensch = oltreuomo e da greifen: afferrare [da cui deriva anche begreifen: comprendere (afferrare) concettualmente, il cui sostantivo è appunto il Begriff: concetto]. Übergreifen indica quindi il comprendere entro di sé e, contemporaneamente, superare qualcosa. La produzione è quindi il momento che comprende/supera gli altri momenti i quali in essa si affermano e per-vengono ad unità. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Pag. 21: «In tutti questi casi, e sono tutti casi storici, non è la distribuzione che sembra determinata dalla produzione, ma al contrario la produzione che sembra strutturata e determinata dalla distribuzione» (corsivo mio). Anche in altri passi delle sue opere Marx ribadisce questa funzione critica e radicale della scienza che non fermandosi alla apparenza immediata ed ingannevole dei fenomeni, scava per «cogliere le cose alla radice»109. 109 K. MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, MEOC, III, p. 197. 43 Salario, prezzo, profitto costituisce la trascrizione di una conferenza, che Marx tenne in inglese nelle sedute del consiglio centrale dell’Internazionale il 20 e il 27 giugno 1865. «Quindi, per spiegare la natura generale dei profitti, dovete partire dal principio che le merci in media sono vendute ai loro valori reali, e che i profitti provengono dal fatto che le merci si vendono ai loro valori, cioè proporzionalmente alla quantità di lavoro che in esse è incorporata. Se non potere spiegarvi il profitto su questa base, non potete spiegarlo affatto. Ciò sembra un paradosso e in contraddizione con l’esperienza quotidiana. È anche un paradosso che la terra gira attorno al sole e che l’acqua è costituita da due gas molto infiammabili. Le verità scientifiche sono sempre paradossi quando vengono misurate alla stregua dell’esperienza quotidiana, la quale afferra solo l’apparenza ingannevole delle cose»110. «Ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero»111. 110 111 Id., Salario, prezzo e profitto, in MEOC, XX, p. 127. Id., Il capitale. Libro III, cit., p. 930. 44 Lunedì 20 ottobre /Martedì 21 ottobre / Giovedì 23 ottobre 2003: Pagg. 26-37: § 3. Il metodo dell’economia politica. A) Fissiamo alcuni elementi fondamentali: Qual è l’oggetto dell’analisi di Marx? «Oggetto della nostra analisi è anzitutto la produzione materiale. […] produzione socialmente determinata degli individui», p. 3. Ma l’oggetto per Marx non può essere concepito alla maniera degli empiristi e dei positivisti, cioè come un oggetto materiale e basta, dotato di certe qualità esteriori percepibili immediatamente, bensì deve essere visto come un organismo vivente, da cogliere nel suo processo unitario di riproduzione e sviluppo. L’oggetto società, quindi, è sì un oggetto materiale, ma è anche qualcosa di complessamente articolato - «il concerto è concreto perché sintesi di molte determinazioni» - cioè è una totalità organica e dialettica, da ricostruire e intendere nella sua intima e vivente connessione. Ed il soggetto? «Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo [la nostra analisi], saldo nella sua autonomia fuori del cervello [della mente]; […] Anche nel metodo teorico, perciò, la società deve essere sempre presente alla rappresentazione come presupposto», p. 28. Sì, ma quale società, che tipo di società? «Come in generale in ogni scienza storica e sociale, nell’ordinare le categorie economiche si deve sempre tener fermo che, come nella realtà così nella testa [mente], il soggetto – qui la moderna società borghese - è già dato, e che le categorie perciò esprimono modi di essere, determinazioni d’esistenza, spesso soltanto singoli lati di questa determinata società, di questo soggetto, e che pertanto anche dal punto di vista scientifico essa [la società] non comincia affatto nel momento in cui se ne comincia a parlare come tale. Questo fatto deve essere tenuto ben presente, perché offre elementi decisivi per la ripartizione della materia», p. 34. Questo è proprio ciò che Marx si proponeva di fare: organizzare il proprio lavoro di analisi scientifica della società borghese, ovvero nell’ambito della sua critica dell’economia politica, di cui questi 2 volumi rappresentano solo i Grundrisse, i Lineamenti fondamentali, Marx si chiedeva: 45 1. Quale strumento di ricerca posso utilizzare? 2. Quale paese esistente mi si offre quale privilegiato punto di osservazione, tale da presentarmi, da offrirmi il fenomeno nella sua forma pura o perlomeno in quella meno offuscata? 3. Come devo procedere nella ricerca? In quale ordine presentare ed esporre i risultati di questa ricerca? 1. All’«analisi delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l’uni e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione»112. Quindi la forza d’astrazione è lo strumento che mi permette di cogliere la complessità del fenomeno concreto da studiare nei suoi elementi semplici (categorie). Che senso hanno queste categorie, queste astrazioni? § 1. Produzione: «Ma tutte le epoche della produzione hanno certi caratteri in comune, certe determinazioni comuni. La produzione in generale è un’astrazione, ma un’astrazione che ha un senso [verständige Abstraktion], nella misura in cui mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione. Tuttavia questo elemento generale, ovvero l’elemento comune che viene astratto e isolato mediante comparazione, è esso stesso qualcosa di complessamente articolato, che si dirama in differenti determinazioni», pp. 6-7. 2. «Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più pregnante e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest’opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento, loro sede classica è l’Inghilterra. Per questa ragione è l’Inghilterra principalmente che serve a illustrare lo svolgimento della mia teoria»113. 3. «Certo, il modo di esporre [Darstellungsweise] un argomento deve distinguersi formalmente dal modo di compiere l’indagine [Forschungsweise]. L’indagine deve appropriarsi il materiale nei particolari, deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo e deve rintracciarne l’interno concatenamento. Solo dopo 112 113 K. MARX, Il Capitale. Libro primo, cit., p. 32. Ibidem. 46 che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera conveniente»114. Proprio partendo da questa illuminante [beleuchtende] osservazione metodologica contenuta nel Poscritto alla seconda edizione de Il capitale del 1873, vi vorrei proporre una possibile chiave di lettura dell’intero § 3 dedicato, certamente, al metodo dell’economia politica, ma anche al metodo che Marx va elaborando, che ha intenzione di utilizzare e che poi effettivamente utilizzerà, nella e per la sua critica dell’economia politica. B) Iniziamo con la Forschungsweise, con il modo di compiere l’indagine. Marx ha di fronte a sé l’oggetto da analizzare – la moderna società borghese – la quale è la «più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione» (p. 32) e si chiede, giustamente, dove inizio, con che inizio? «Sembra115 corretto cominciare con il reale e concreto, con il presupposto effettivo e, dunque, nell’economia, per es., con la popolazione, che è il fondamento e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, ad un più attento esame, ciò si rivela falso116. […] Se, dunque, cominciassi con la popolazione, comincerei con una rappresentazione caotica del tutto e, mediante un’ulteriore determinazione, dovrei pervenire analiticamente a concetti sempre più semplici; dal concreto rappresentato117 (vorgestelltes Konkretum) ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici. Da quel punto, il percorso sarebbe da ricominciare all’indietro118, finché non ritornassi alla popolazione, ma questa volta 114 Ivi, p. 44. Ancora una volta ritorna la contrapposizione dialettica tra il sembrare della esperienza immediata e la verità della realtà colta concettualmente (begriffen). 116 Così come ad Hegel si rivela falsa la prima forma di conoscenza immediata, quella della certezza sensibile. Cfr. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., vol. I, pp. 81-92. 115 117 Per il ruolo, la funzione e il valore del conoscere della rappresentazione (Vorstellung) rispetto al begreifen, al conoscere concettuale, si vedano i seguenti passi hegeliani: «La filosofia ha i suoi oggetti in comune con la religione, perché oggetto di entrambe è la verità, e nel senso altissimo della parola, - in quanto cioè Dio, e Dio solo, è la verità. Entrambe, inoltre, trattano del dominio del finito, della natura e dello spirito umano, e della relazione che hanno tra loro e con Dio, come lor verità. Onde la filosofia può ben presupporre, anzi deve, una certa conoscenza dei suoi oggetti, come anche un interessamento per essi: non foss’altro per questo, che la coscienza, nell’ordine del tempo, se ne forma prima rappresentazioni che concetti; e lo spirito pensante, solo attraverso le rappresentazioni e lavorando sopra queste, progredisce alla conoscenza del pensante e del al concetto» (Enciclopedia, § 1). ««Sentimenti, intuizioni, appetizioni, volizioni ecc., in quanto se ne ha coscienza, vengono denominati, in genere rappresentazioni: si può dire perciò, in generale, che la filosofia pone, al posto delle rappresentazioni, pensieri, categorie e, più propriamente, concetti. Le rappresentazioni in genere possono essere considerate come metafore dei pensieri e concetti. Ma, col possedere rappresentazioni, non però si conosce ancora il loro significato pel pensiero, cioè non ancora si conoscono i pensieri e concetti loro corrispondenti. Reciprocamente, altro è aver pensieri e concetti ed altro sapere quali sieno le rappresentazioni, le intuizioni e i sentimenti che loro corrispondono» (Enciclopedia, § 3 nota). 118 Era questo anche il problema di Hegel: «Nella mia formazione scientifica, che ha preso l’avvio dai bisogni più subordinati degli uomini, dovevo esser sospinto verso la scienza, e l’ideale degli anni giovanili doveva mutarsi in una forma riflessiva, e nel contempo in un sistema. Adesso, mentre sono ancora occupato con questo sistema, mi chiedo quale strada io possa trovare per intervenire nuovamente nella vita degli uomini». G.W.F. HEGEL, Lettera a Schelling, 2.11.1800, in Id., Epistolario. Vol. I: 1785-1808, a cura di Paolo Manganaro, Napoli, Guida Editori, (Micromegas, n. 8), 1983, p. 156 (corsivo mio). A quel “sistema” dedicherà poi Hegel tutta la sua vita: «La vera figura nella quale esiste la verità può essere soltanto il sistema scientifico di essa. Collaborare a che la filosofia si avvicini alla 47 non come la caotica rappresentazione di un insieme, bensì come una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni. […] Quest’ultimo chiaramente è il metodo scientificamente corretto», pp. 32-33. Quindi queste «categorie semplici» (denaro, lavoro, rendita fondiaria, valore di scambio etc.) le abbiamo ricavate, grazie allo strumento dell’astrazione, dalla formazione sociale più complessa – la moderna società borghese – e nella moderna società borghese queste «categorie semplici», ad. esempio denaro, lavoro, rendita fondiaria, compaiono nella loro massima espansione, concretezza e ricchezza. Queste «categorie semplici» vengono astratte [ab-traho], tirate fuori, dalla formazione sociale più complessa e sviluppata. Sono categorie storicamente determinate e presuppongono quale loro fondamento la base reale da cui derivano. «La più semplice categoria economica, come per esempio il valore di scambio, presuppone la popolazione, una popolazione che produce entro rapporti determinati; ed anche un certo genere di sistema familiare o comunitario, o politico etc. Esso [il valore di scambio, quale “più semplice categoria economica”] non può esistere altro che come relazione astratta, unilaterale di una totalità vivente e concreta già data [la moderna società borghese]. In quanto categoria [logica], invece, il valore di scambio ha un’esistenza antidiluviana [perché lo possiamo ritrovare anche in altre formazioni sociali]», p. 28. E infatti quando Marx si chiede: «Ma queste categorie semplici [astrazioni logiche: denaro, lavoro, rendita] non hanno anche una esistenza storica o naturale indipendente, prima delle categorie più concrete [quelle della moderna società borghese]?», p. 28. Lo scopo della sua domanda è di vedere se queste categorie semplici, ad es. denaro, lavoro, valore di scambio, che noi abbiamo astratto dalla moderna società borghese, dalla «più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione», siano apparse e comparse nella storia anche prima della loro forma più concreta, che raggiungeranno e possono raggiungere solo nella moderna società borghese119. forma della scienza – ossia alla meta dove essa possa deporre il nome di amore per il sapere ed essere invece sapere effettivo – ecco ciò che mi sono proposto». G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, cit., vol. I, p. 4. 119 Marx sta dicendo che la compiuta esistenza (nel Dasein, nella moderna società borghese) della categoria economica semplice presuppone la presenza (nel Dasein, nella moderna società borghese) di una serie di condizioni; ma sta dicendo, anche, che - in quanto contenuto del pensiero (astrazione logica) - quella categoria può essere formulata, anche in mancanza delle condizioni della sua compiuta esistenza storica. In altre parole, la categoria di valore di scambio è rintracciabile già nel pensiero di Aristotele, pur in mancanza di quel complesso di condizioni storiche reali, che consentono al valore di scambio di esistere compiutamente. Ciò significa che la presenza - nel pensiero - della categoria economica non è sottoposta alle stesse condizioni, che valgono per la sua compiuta esistenza nel Dasein, nella moderna società borghese. Quando, però, una categoria è presente nel pensiero prima che nel Dasein, essa conduce un’esistenza antidiluviana, in un duplice senso: (a) perché è più antica della sua presenza nel Dasein; (b) perché esiste nella realtà ancora elementarmente, rozzamente, in somma, non ha ancora la ricchezza di rapporti con altre categorie, che la caratterizzerà quando sarà una compiuta presenza nel Dasein. Di nuovo, dobbiamo sottolineare la presenza di un motivo hegeliano: il compiuto dispiegarsi del concetto non è un mèro processo logico, ma sì logico-storico. 48 A questa domanda Marx risponde con un: Ça dépend. Dipende – si tratta di vedere non solo se queste categorie semplici, denaro, lavoro, valore di scambio sono esistite storicamente anche prima della loro categoria concreta, capitale, lavoro astratto, ma si tratta di vedere anche sotto quale veste, con quale funzione e che ruolo esse ricoprivano nelle formazioni sociali precedenti alla moderna società borghese. 1° Esempio: Il denaro «Il denaro [quale categoria semplice] può esistere ed è storicamente esistito prima che esistessero [le sue forme più concrete che poi ritroviamo nella moderna società borghese] il capitale, le banche», il fondo monetario internazionale, il mercato mondiale etc., p. 29. Ma che vita conduceva? Benché «il denaro svolga una funzione importante molto presto e in tutti i sensi, tuttavia, come elemento dominante esso appartiene nell’antichità, solo a nazioni caratterizzate in modo unilaterale, a nazioni commerciali», quindi come mero mezzo, mero intermediario di scambio, p. 30. «Per es., nell’Impero romano, nel momento del suo maggiore sviluppo, la base rimase l’imposta e la prestazione in natura. Il sistema monetario, in sostanza, si sviluppa solo nell’esercito [quale paga dei soldati che ricevevano il “soldo”] e non investì neppure tutta la sfera del lavoro», ibidem. «Questa categoria del tutto semplice [denaro] non compare, dunque, storicamente nella sua piena intensità [ricchezza, espansione, sviluppo], se non nelle condizioni più sviluppate della società [quali appunto quelle borghesi moderne in cui il denaro dalla sua forma più semplice a quelle più complesse e concrete di capitale, banche, sistemi di credito, fondo monetario internazionale etc. invade e pervade l’intera società, diventandone il dio onnipresente e onnipotente120]», ibidem. «Quindi, benché la categoria economica più semplice [denaro] possa essere esistita storicamente prima di quella più concreta [capitale, interesse, banche, sistemi di credito etc.], essa [categoria semplice “denaro”] può appartenere nel suo pieno sviluppo intensivo ed estensivo [può raggiungere la sua onnipotenza e onnipresenza] solo ad una forma sociale complessa [e articolata, quale la moderna società borghese, che è la «più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione»], ibidem. 120 Cfr. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Terzo manoscritto. Denaro, cit., pp. 151-157. 49 2° Esempio: Il lavoro. Il lavoro come categoria economica, come semplice lavoro, come lavoro in generale che noi abbiamo astratto dalla moderna società borghese - come nella realtà così nella testa [mente], il soggetto – qui la moderna società borghese - è già dato - dalla «più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione», sembra essere una categoria molto antica, ritrovabile e applicabile quindi a tutte le altre formazioni sociali della storia precedenti la moderna società borghese. In realtà il lavoro come categoria economica, come semplice lavoro, come lavoro in generale, come lavoro astratto lo ritroviamo e lo possiamo trovare come categoria «praticamente vera»» solo in una determinata società, storicamente determinata, quale quella capitalistico-borghese. Ma ripercorriamo brevemente il percorso storico che ha portato il lavoro a diventare lavoro astratto, semplice, sans phrase; quindi quella categoria (apparentemente) semplice è il risultato di un percorso storico, è una categoria storicamente determinata. I bullionisti121 o mercantilisti122 (1500-1700) ad es. pongono «la ricchezza in modo ancora completamente oggettivo, come cosa (Sache) al di fuori di sé [al di fuori del soggetto], nel denaro», ibidem. «Rispetto a questo punto di vista, fu un grande progresso, quando il sistema manifatturiero o commerciale trasferì la fonte della ricchezza dall’oggetto [oro] all’attività soggettiva - il lavoro commerciale o manifatturiero», p. 31. Il sistema fisiocratico123 (1750-1780) pone come creatrice della ricchezza una determinata forma di lavoro – lavoro agricolo - l’agricoltura. «Un enorme progresso [ein ungeheuerer Fortschritt] compì Adam Smith, rigettando ogni carattere determinato dell’attività produttrice di ricchezza e considerandola lavoro senz’altro: non lavoro manifatturiero, né commerciale, né 121 Bullionismo: da Bullions, metalli preziosi detenuti come riserva monetaria. Così furono chiamati i mercantilisti che raccomandavano agli stati di regolare a proprio favore il flusso di pagamenti internazionali attraverso il divieto di esportare monete e le alterazioni del contenuto aureo delle stesse (sec. XVI-XVII). 122 Mercantilismo: Insieme di dottrine e di politiche economiche sviluppatesi tra la fine del sec. XVI e l’inizio del sec. XVIII. Il commercio estero è considerato da tutti gli autori mercantilisti come la principale attività economica capace di incrementare la ricchezza dello stato attraverso il perseguimento di una bilancia commerciale attiva e quindi un aumento delle disponibilità monetarie interne. 123 Fisiocrazia: dal greco physis, natura e kràtos, potere. Scuola economica francese sviluppatasi fra il 1750 e il 1780. I fisiocratici ritengono che nell’ordine naturale della società l’agricoltura sia l’unico settore in grado di fornire un sovrappiù, mentre l’industria sarebbe sterile. Quindi la ricchezza nazionale può essere accresciuta dal governo solo attraverso il miglioramento delle tecniche di produzione del settore primario, che è la fonte della ricchezza, e misure economiche atte a favorire i produttori agricoli. 50 agricolo, ma tanto l’uno che l’altro [cioè come semplice erogazione di forzalavoro]», ibidem. Con l’economia politica di Smith e Ricardo siamo in piena fase di formazione ed affermazione della società capitalistica, da essi presentata e rappresentata nelle loro opere. Siamo quindi arrivati di nuovo all’epoca storica presente – la moderna società borghese - da cui avevamo preso le mosse. «Così l’astrazione più semplice [lavoro astratto, in generale], che l’economia moderna [Smith e Ricardo] pone al vertice [della produzione come fonte di ricchezza] – e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società [perché anche nelle altre forme di società ritroviamo all’opera particolari tipi di lavoro] - si presenta tuttavia praticamente vera [realizzata, concretizzata nella sua forma più sviluppata ed estesa] in questa astrazione solo come categoria della società moderna», p. 32. «L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte [le più semplici e generali], sebbene siano valide - proprio a causa della loro natura astratta - per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche [storicamente determinate] e posseggono la loro piena validità solo entro e per queste condizioni [solo per ed entro la moderna società borghese]», ibidem. Perché è solo nella moderna società borghese infatti che si danno «individui [che] passano con facilità da un lavoro ad un altro e [solo in essa] il genere determinato del lavoro è per essi [individui, lavoratori] fortuito ed indifferente», ibidem. Ma come è possibile che queste categorie semplici – denaro, lavoro, rendita etc. – che abbiamo ottenuto per astrazione dalla moderna società borghese siano valide ed efficaci anche per le altre formazioni sociali? Perché essendo la moderna «società borghese […] la più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione [, le] categorie che esprimono i suoi rapporti [di produzione] e che fanno comprendere la sua struttura [la sua complessa articolazione interna] permettono quindi di penetrare al tempo stesso nella struttura e nei rapporti di produzione di tutte le forme di società passate [che continuano a vivere nella società borghese sotto la forma delle categorie semplici], sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita [in quanto prodotto storico essa stessa], e di cui si trascinano in essa ancora residui parzialmente non superati, mentre ciò che in quelle [società passate] era appena accennato [denaro, lavoro particolare, etc.] si è sviluppato [nella moderna società borghese] in tutto il suo significato [la sua estensione, ricchezza e concretezza diventando capitale, profitto, interesse, banche, sistema di credito, lavoro astratto] etc. L’anatomia dell’uomo [forma superiore, sviluppata] è la chiave per l’anatomia della scimmia [forma primitiva]. Invece, ciò che nelle specie inferiori accenna a qualcosa di superiore 51 [denaro] può essere compreso solo se la sua forma superiore è gia conosciuta [capitale]. L’economia borghese fornisce così la chiave per [comprendere ed analizzare] l’economia antica, [feudale] etc», pp. 32-33. Ritorniamo alla distinzione da cui eravamo partiti: «L’indagine deve appropriarsi il materiale nei particolari [astrarre le categorie semplici], deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo [se queste categorie sono esistite anche storicamente e in che modo] e deve rintracciarne l’interno concatenamento [tra le varie categorie e tra i vari momenti della società borghese: § 2 Il rapporto generale tra produzione, distribuzione, scambio e consumo]. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera conveniente»124. C) Passiamo quindi adesso alla Darstellungsweise, al momento e al problema dell’esposizione dei risultati della ricerca, e in particolar modo dell’ordine in cui disporre le categorie più semplici (lavoro, proprietà fondiaria, capitale) astratte dalla moderna società borghese. Ritorna l’interrogativo: «con che cominciare?». «Niente sembra125 più naturale che cominciare con la rendita fondiaria, con la proprietà fondiaria, dal momento che essa è legata alla terra, alla fonte di ogni produzione e di ogni esistenza, e alla prima forma di produzione di tutte le società in qualche modo consolidate, e cioè all’agricoltura», p. 34 (corsivo mio). Quindi sia dal punto di vista storico – in quanto «prima forma di produzione di tutte le società» - che da quello logico - «ogni produzione è un’appropriazione della natura da parte dell’individuo, entro e mediante una determinata forma di società», p. 10 – sembrerebbe naturale e corretto cominciare l’esposizione con la rendita fondiaria. «E tuttavia nulla sarebbe più errato. In tutte le forme di società vi è una determinata produzione che decide del rango e dell’influenza di tutte le altre [categorie], e i cui rapporti [di produzione] decidono perciò del rango e dell’influenza di tutti gli altri [momenti della società: distribuzione, scambio e consumo]. [La produzione] è una illuminazione generale in cui tutti gli altri colori sono immersi e che li modifica nella loro particolarità [come in una stanza con una lampada rossa o fucsia o verde che cambia il colore a tutti gli altri]. [La produzione] è una atmosfera particolare che determina il peso specifico di tutto quanto essa avvolge [è a causa della assenza della miscela gassosa chiamata “aria” che ad es. sulla luna i pesi sono 3 volte più leggeri]», ibidem. 124 125 K. MARX, Il Capitale. Libro primo. Il processo di produzione del capitale, cit., p. 44. Ancora una volta ritorna il carattere fallace delle rappresentazioni immediate. 52 Già nel terzo dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, nel capitolo intitolato Proprietà privata e comunismo, Marx scriveva: «La religione, la famiglia, lo stato, il diritto, la morale, la scienza, l’arte ecc. non sono che momenti particolari della produzione e cadono sotto la sua legge universale»126. Ma non c’è bisogno nemmeno di andare a scomodare i Manoscritti del 1844, perché poche pagine prima, nel § 2. Il r a p p o r t o g e n e r a l e tra produzione, distribuzione, scambio e consumo, Marx scriveva che produzione, distribuzione, scambio e consumo «si presentano in ogni caso come momenti di un processo in cui la produzione è l’effettivo punto di partenza e perciò anche il momento egemonico [das übergreifende Moment]», p. 18. Alla fine del § 2. produzione, distribuzione, scambio e consumo si presentano «quali articolazioni di una totalità [organica], differenze nell’ambito di una unità [unità differenziata]. La produzione assume l’egemonia [greift über] tanto su se stessa […] quanto sugli altri momenti. […] Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché determinati rapporti reciproci tra questi diversi momenti», p. 26. E riprendendo il testo dei Manoscritti del 1844 potremmo aggiungere anche che una produzione determinata comporta una determinata «religione, famiglia, stato, diritto, morale, scienza, arte ecc.» Ora nella moderna società borghese predomina il modo di produzione … capitalistico, e secondo voi nel modo di produzione capitalistico quale categoria avrà la precedenza, la priorità e l’egemonia sulle altre? Quali di queste sarà das übergreifende Moment? La rendita fondiaria, il lavoro o il capitale? «Il capitale è la potenza economica della società borghese che domina tutto. Esso deve costituire il punto di partenza così come il punto di arrivo, e deve essere trattato prima della rendita fondiaria [e del lavoro salariato]. Dopo che […] saranno considerati separatamente, dovrà essere preso in esame il loro rapporto reciproco», p. 35. Ritornando al problema del corretto ordine di esposizione delle categorie della società borghese… «Sarebbe dunque inopportuno ed erroneo disporre le categorie economiche nell’ordine in cui esse furono storicamente determinanti [proprietà fondiaria, lavoro, capitale]. La loro successione è invece determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese [in cui predomina il modo di produzione capitalistico], e che è [la loro successione] esattamente 126 Id., Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 112. 53 l’inversa di quella che si presenta come loro relazione naturale o [di quella che] corrisponde alla successione dello sviluppo storico», ibidem. «Non si tratta della posizione che i rapporti economici assumono storicamente nel succedersi delle diverse forme di società [in tal modo scriveremmo solo la storia dei diversi modi di produzione che si sono succeduti storicamente] ed ancor meno [si tratta] della loro successione “nell’idea” […] ma della loro articolazione organica all’interno della moderna società borghese», (pp. 35-36) che non a caso costituisce l’oggetto dell’analisi di Marx, presentato e definito nel § 1. L’esposizione dei risultati della ricerca scientifica non ha per Marx solo il valore di un piatto rendiconto ma porta con sé un progetto politico rivoluzionario che mira alla «dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul valore di scambio», p. 241. Lettera di Marx a Lassalle del 22 febbraio 1858: «Il lavoro di cui si tratta per ora è la critica delle categorie economiche o if you like il sistema dell’economia borghese esposto criticamente. È in pari tempo esposizione del sistema e critica dello stesso per mezzo dell’esposizione». Leggere l’Aufbauplan, pp. 36-37 + l’Aufbauplan, pp. 240-241. Poscritto del 1873 alla seconda edizione de Il capitale: «Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente [nell’analisi scientifica della moderna società capitalistico-borghese] include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza»127. 127 K. MARX, Il Capitale. Libro primo. Il processo di produzione del capitale, cit., p. 45. 54 BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: A) Letteratura primaria: KARL MARX, Critica del diritto statuale hegeliano [1843], trad. it. e commentario di Roberto Finelli e Francesco S. Trincia, Roma, 1983. Id., Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di Norberto Bobbio, Torino, Einaudi, (Nuova Universale Einaudi, n. 92), 19682 (edizione rivista; 1a ed. 1949). K. 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Claudia Giordano) per contatti: [email protected] Il 1894 è un anno centrale per la storia della Germania: si chiude il Neue Kurs della politica tedesca voluto da Guglielmo II e con esso tramontano definitivamente le speranze di un'evoluzione liberale del sistema fino a quel momento impedita dall'autoritarismo della Realpolitik bismarckiana. Sostenuto dall'alleanza storica tra la casta agraria e militare degli Junker e la grande industria, il Kaiser conduce la Germania sulla strada della Weltpolitik, la politica mondiale, che per il ventennio successivo porterà più volte l'Europa sull'orlo della guerra. Con l'abbandono della politica dell'equilibrio diplomatico, la Weltpolitik segna la reale svolta rispetto alla Realpolitik di Bismarck, sul piano della politica estera: la Germania avvia il riarmo navale, compie un grande investimento nell'industria bellica, è impegnata come le altre grandi potenze europee nell'espansione coloniale, soprattutto in Africa e nel Pacifico. In politica interna Guglielmo II prosegue invece sulla linea indicata da Bismarck, adottando una legislazione sociale in funzione imperialista, pensando così di poter controllare il movimento operaio dopo aver abrogato la legislazione repressiva voluta dal cancelliere contro i socialisti. Il cosiddetto imperialismo sociale tedesco, sostenuto dall'ideologia nazionalista, consentiva in altri termini ad un paese nato da poco di tenere sopiti gli antagonismi di classe all'interno, consolidando la struttura sociale delle vecchie classi dirigenti, e di costruire il consenso delle masse su una politica estera di grandezza e di potenza. Ha scritto uno storico tedesco: «Quella tensione fra impulso distruttivo e forza creatrice, che dilaniò il volto della cultura nella repubblica di Weimar, era già presente alla svolta del secolo. Tutte le idee degli anni Venti avevano la loro origine nella stanchezza e nella rivolta, nello stacco e nello scatto dell'inizio del secolo. Lo sviluppo e la via del progresso correvano sul ciglio dell'abisso, aprivano alla fin de siècle il panorama sullo Stato autoritario e la guerra civile, sull'imperialismo e le riforme sociali, sulla perdita di identità e l'angoscia di massa». (M. Stürmer, La Germania industriale, in AA. VV., La Germania. Dall'antichità alla caduta del Muro, Roma-Bari 1990). 60 Ernst Jünger nasce a Heidelberg nel 1895, da Ernst, chimico e farmacista, e Karoline Lampl. È lo stesso anno del caso Dreyfus, della scoperta dei raggi X e della nascita del cinema con i fratelli Lumière. Sono i tre eventi che hanno segnato, per Jünger, la nascita del mondo moderno. Frequenta il Gymnasium a Hannover dove la famiglia si era trasferita poco dopo la sua nascita e nel 1911 entra a far parte della sezione locale del Wandervögel, un movimento fondato nel 1901 da Karl Fisher che al romanticismo e al pangermanesimo propri della cultura tedesca di inizio secolo univa lo spirito di avventura e gli ideali di vita all'aperto. Nel 1913 Ernst fugge in Francia, si arruola a Verdun nella Legione straniera francese e viene inviato in Algeria. Quell'esperienza, poi raccontata negli Afrikanische Spiele (Ludi africani) del 1936, deve interrompersi sei settimane dopo, per volontà del padre. Tornato in Germania, nel 1914 Ernst consegue il diploma presso il Gildemeister Institut di Hannover, dove per la prima volta si avvicina alle opere di Nietzsche. Allo scoppio della guerra si arruola come volontario nell'esercito tedesco e viene inviato sul fronte francese. Alla fine della guerra è tenente delle truppe d'assalto, assegnato al 73o Reggimento Fucilieri di Hannover. Ferito quattordici volte, sarà premiato con la più alta decorazione tedesca, l'«Ordre pour le mérite». Nel 1920 Jünger pubblica a sue spese In Stahlgewittern (Nelle tempeste d'acciaio), il suo diario della prima guerra mondiale. Ad esso seguiranno il racconto Sturm, pubblicato a puntate nel 1923, che descrive la condizione di tre giovani soldati durante la guerra, e poi Das Wäldchen 125 (Il boschetto), e Feuer und Blut (Fuoco e sangue), rispettivamente i racconti di un mese e di un giorno di guerra, apparsi entrambi nel 1925. Nelle tempeste d'acciaio riscuote un successo immediato. Pur essendo pienamente partecipe del conflitto, nelle pagine del suo diario Jünger è riuscito a fotografare l'oggettività della guerra, assumendo la prospettiva di un osservatore che descrive lo spettacolo di potenza a cui assiste. Lo scrittore Jünger "vede" la guerra e ne coglie il carattere per la prima volta "totale": dietro lo scontro militare c'è lo scontro tra le grandi potenze industriali che fa apparire l'eroismo individuale incapace di determinare l'esito dei combattimenti. Il soldato della prima guerra mondiale è la vittima "calcolata" della guerra dei materiali e delle macchine, è il soldato perfettamente sostituibile che muore da sconosciuto nella carneficina di massa determinata dalla guerra tecnologica. L'eroe della Grande Guerra è il milite ignoto, che ha accettato il sacrificio di sé rivestendo un ruolo oggettivo nella guerra di trincea. I diari della prima guerra mondiale: Il diario copre l'intero arco del primo conflitto mondiale, seguendo le vicende del 73 reggimento fucilieri "Gibraltar" di Hannover. Andrè Gide ha considerato nel 1942 nelle Tempeste d'acciaio il libro più bello sulla Grande Guerra, riconoscendogli tre pregi: «buona fede, veracità, onestà perfette». Il libro fu letto molto negli anni Venti e Trenta in Germania, anche durante il periodo nazista, generando un interesse che aveva poco a che fare con la letteratura e che poi ha consentito che si diffondesse, specie dopo la seconda guerra mondiale, una maniera accusatoria di riferirsi al libro, interpretandolo come un'apologia della guerra e della violenza, come una rappresentazione esaltata della volontà di distruzione. Polemiche a parte, il libro è rimasto uno dei più letti di Jünger, non solo in Germania, ed ha rappresentato uno dei temi su cui ha maggiormente insistito la critica (oltre alla quantità notevole di studi specifici, non c'è monografia sull'autore che non parta dal problema della guerra). Ma il libro ha poco in comune con gli altri diari della prima guerra mondiale. Rispetto a Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, per fare un esempio di un libro che è stato molto letto in Italia e che ha rappresentato la denuncia del carattere disumano della nuova guerra, della desolazione morale provocata dalla guerra di trincea, con le Tempeste d'acciaio siamo in una prospettiva 61 opposta. Il valore del diario si misurava per lo stesso Jünger in base al suo «grado di oggettività»: «io non voglio descrivere come sarebbe potuto essere ma come fu», scrive nella prefazione alla quinta edizione del libro, motivando la necessità di lasciare pochissimo spazio nel diario alle riflessioni personali, all'espressione dei sentimenti, alla narrazione fatta da un punto di vista individuale. Se così fosse, il diario di Jünger sarebbe niente altro che una testimonianza del primo conflitto, invece è proprio quella scrittura impassibile, avalutativa, a consentire a Junger di cogliere l'essenza della prima guerra mondiale e di corrispondere ad essa (anche esteticamente): 1. La novità della Grande Guerra (vedi prima e seconda citazione alla fine del testo) Partito per il fronte con lo spirito romantico dell'avventura e della difesa della patria, capisce che la guerra non è più decisa dalle azioni dei singoli, ma che i singoli possono solo partecipare ad una guerra "totale" che è decisa dalla tecnica. La Grande guerra vede contrapposte grandi potenze industriali, ed eserciti che sono armati come non erano mai successo prima e perché quelle armi sono il risultato dell'applicazione dei progressi tecnologici alle esigenze della guerra. Le mitragliatrici automatiche, l'artiglieria pesante, fucili a ripetizione, e soprattutto i gas, le armi chimiche e invisibili, sono queste armi a decidere la guerra. Jünger descrive questa guerra, che è una guerra dei materiali e delle macchine (vedi terza citazione), e che proprio per questo si trasforma subito in una guerra di logoramento. Il tipo di armi rende difficile sfondare le linee avversarie, i fronti si stabilizzano quasi subito, e la trincea diventa subito lo spazio della guerra: gli eserciti nemici sono immobili, ognuno nella propria trincea, e sanno che non può essere più l'azione degli uomini, il coraggio degli assalti (che non vengono decisi se non raramente) a determinare le sorti del conflitto ma la tecnica, la potenza materiale, industriale che sta dietro gli eserciti che si fronteggiano. La guerra decisiva non è quella che si combatte al fronte, ma nelle fabbriche, nell'enorme sforzo produttivo che si fa nei settori industriali collegati alla guerra. 2) Il soldato sostituibile (vedi quarta e quinta citazione). Nella guerra della tecnica, il nemico non ha volto, la guerra di trincea ha reso il nemico invisibile: dentro il fossato scavato nel terreno, il nemico è esposto a una morte che può arrivare in qualunque momento e da qualunque parte e che spesso arriva senza essere vista (può essere ad esempio causata dai gas). Anche il soldato in questa guerra è diventato materiale, un materiale tra gli altri, che può essere perso e che quindi verrà immediatamente sostituito: la sua sostituibilità è data proprio dal fatto che ogni soldato è uguale agli altri, non gli viene più richiesta nessuna qualità individuale, il suo eroismo non è più quello del coraggio dell'azione. Al soldato in trincea viene richiesta la costanza, la pazienza dell'attesa, dell'immobilità, la sopportazione della noia della guerra, l'accettazione di una fine che è decisa dalla tecnica. Ciò che si chiede al soldato in trincea è di essere continuamente esposto al pericolo della morte, di essere in ogni attimo tra la vita e la morte. 3. Il milite ignoto (vedi sesta citazione). Se il soldato della Grande Guerra è sostituibile, allora l'eroe non esiste più o meglio qui l'eroe è il milite ignoto, è nessuno, è il soldato che muore senza che abbia un nome perché il suo nome, la sua individualità non sono funzionali alla guerra, mentre lo sono il fatto che egli continui a svolgere la sua funzione nella guerra, lo è il fatto che continui a vivere "all'ombra della morte", vivendo come se dovesse morire in qualsiasi momento. La Grande guerra permette a Jünger di fare l'esperienza dell'immortalità (vedi settima citazione) dell'eternità, perché se è sostituibile, il soldato, come l'ingranaggio di una macchina, non muore ma immediatamente sostituito continua a lavorare; nella guerra non si muore ma si lavora, perciò il soldato è «l'operaio della morte in un accadere puramente meccanico» (W. Kaempfer, Ernst Jünger, Bologna 1991). È chiaro che solo una guerra tecnologica, in cui per la maggior parte del tempo il soldato aspetta, all'ombra della morte, di essere funzionale al compimento di un 62 destino che è deciso dalla tecnica, poteva consentire a Jünger di collocarsi su una doppia dimensione rispetto agli eventi: di essere «il partecipante appassionato alla strage materiale e l'appassionato spettatore della strage materiale» (Kaempfer, cit., p. 15). Nel 1922 esce una nuova edizione di In Stahlgewittern, a cui ne seguiranno altre cinque, assieme al saggio Der Kampf als inneres Erlebnis (La guerra come esperienza interiore), in cui Jünger riflette ancora sul rapporto irrisolto tra l'esigenza di soddisfazione personale del soldato e la ricerca di un significato oggettivo della guerra. Nel 1923 si dimette dall'esercito e si iscrive all'Università di Lipsia per studiare scienze naturali, in particolare zoologia, e filosofia. Tra il febbraio e l'aprile del 1925 soggiorna a Napoli, presso l'Acquario della stazione zoologica Anton Dohrn. Nel 1926, dopo aver abbandonato gli studi universitari, si trasferisce con sua moglie Gretha von Jeinsen a Berlino, per vivere da scrittore indipendente. Non abbandonerà mai invece la passione per l'entomologia che lo porterà spesso in giro per il mondo. Diverse specie di insetti, scarabei in particolare, saranno battezzate con il suo nome. «Le sue incursioni nella biologia - scriverà Bruce Chatwin - «tendevano alla classificazione linneiana della specie - piaceri estetici che gli lasciavano intravedere il Paradiso Primordiale non ancora contaminato dall'Uomo. Oltre a ciò, il mondo degli insetti, nel quale gli istinti governano il comportamento come una chiave si adatta alla serratura, attirava in modo irresistibile un uomo dotato della sua visione utopistica» (B. Chatwin, Che ci faccio qui?, Milano 1990, pp. 364-5). A Berlino, per circa cinque anni fino al 1930, Jünger partecipa attivamente al dibattito politico tedesco, dalla parte degli oppositori della Repubblica di Weimar. Scrive assiduamente su settimanali militari e collabora in particolare alla rivista «Der Widerstand» (La Resistenza), l'organo del nazional-bolscevismo guidato da Ernst Niekisch, che Hitler farà arrestare nel 1937. Di Niekisch, sessant'anni dopo, Jünger dirà che incarnava veramente «l'ethos della resistenza», una resistenza «contro la Repubblica di Weimar, contro la borghesia, contro il mondo occidentale e contro i suoi imperativi economici e capitalistici. E il mondo occidentale per lui era rappresentato dall'Inghilterra con il suo spirito mercantile e colonialista, da Parigi con le riparazioni di guerra imposte alla Germania, dal cattolicesimo e dalla socialdemocrazia tedesca. Niekisch ammirava invece l'anima russa e l'ordine prussiano, con il suo senso dello Stato e il suo esercito popolare» (A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano 1997, p. 37). Nel 1929 appare Das Abenteuerliche Herz (Il cuore avventuroso), che rivela le qualità letterarie di Jünger ma che non suscita subito grande interesse, probabilmente perché in quegli anni la figura dello scrittore resta troppo ancorata alla sua immagine di eroe di guerra. La pubblicazione dei suoi primi saggi di maggiore interesse teorico coincide con l'abbandono dell'attivismo nazionalista. Tra il 1930 e il 1934 appaiono infatti Die totale Mobilmachung (1930, La mobilitazione totale), Der Arbeiter (1932, L'Operaio) e Über den Schmerz (1934, Sul dolore). L'Operaio, pubblicato nella casa editrice diretta da Niekisch, trova sulle pagine del «Widerstand» numerosi pareri favorevoli, mentre interpreti autorevoli come Spengler e Schmitt (quest'ultimo sarà legato a Jünger da una profonda amicizia) fraintesero inizialmente il senso del libro, schiacciando la figura dell'operaio su quella del proletario. Priva di qualsiasi carattere sociologico, la figura dell'Arbeiter rappresentava per Jünger la forma metafisica adeguata alla nuova realtà. Nel 1933, come era già accaduto qualche anno prima, Jünger respinge l'offerta di un seggio parlamentare da parte dei nazionalsocialisti. Nello stesso anno si rifiuta di entrare a far parte della Accademia tedesca di poesia. Per motivare il suo rifiuto rivendica "il carattere essenzialmente da soldato" del proprio lavoro e la necessità di rimanere fedele, libero da vincoli accademici, alla 63 mobilitazione tedesca cui aveva partecipato dal 1914. Era un modo per non compromettersi con il regime e, allo stesso tempo, per non destare sospetti. Nel 1939 pubblica il romanzo Auf den Marmorklippen (Sulle scogliere di marmo), una sorta di trasfigurazione letteraria della realtà politica tedesca. Nel tentativo, fallito, di tirannicidio a cui assistono i due fratelli protagonisti del romanzo, si può leggere retrospettivamente una premonizione del complotto dei generali nazisti del luglio del '44 contro Hitler. La pubblicazione del romanzo mette in pericolo Jünger, ma sarà l'intervento dello stesso Hitler ad impedirne l'arresto. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Jünger viene richiamato alle armi. È inviato sul fronte occidentale, con il grado di capitano e poi a Parigi, dove nel luglio del 1941 viene assegnato al Comando tedesco nella città occupata e addetto all'ufficio della censura. Nella capitale francese frequenta molti scrittori e artisti dell'epoca, tra cui Céline, Cocteau, Morand, Picasso. Sempre più lontano dal pangermanesimo degli anni giovanili e orientato su posizioni di internazionalismo politico e culturale, tra il 1941 e il 1942 lavora ad uno scritto su Der Friede (La Pace) che circolerà clandestinamente proprio tra i militari che organizzarono il fallito attentato a Hitler del luglio del 1944. All'indomani dell'attentato, nonostante la vicinanza di Jünger agli ispiratori del complotto, non emergono prove a suo carico perciò riuscirà miracolosamente a salvarsi. Si ritira comunque dall'esercito chiedendo un congedo per malattia che la Wehrmacht non esita a concedergli. Lascia Parigi e si trasferisce a Kirchhorst nel settembre del '44. Il figlio Ernst, che aveva più volte manifestato la sua opposizione al regime nazista, viene inviato al fronte italiano; è ucciso a novembre nelle cave di marmo di Carrara. Dopo la resa dei tedeschi, nel 1945 Jünger si rifiuta di sottoporsi alla procedura dei tribunali per la denazificazione e per quattro anni subisce il divieto di pubblicazione. Nel 1949 pubblica il romanzo Heliopolis, secondo di una trilogia iniziata con Sulle scogliere di marmo, e i suoi Strahlungen 1941- 45 (Irradiazioni), i diari della seconda guerra mondiale. I toni, rispetto a quelli della Grande Guerra, sono completamente mutati. La ricerca della perfezione formale ha del tutto oscurato il realismo dei primi diari: Jünger è diventato l'"esteta in guerra", non più attore ma solo spettatore degli eventi, che cerca nella letteratura il modo per difendersi dalla paura della morte e il luogo in cui esprimere il distacco dalla realtà del conflitto. Nel 1950 pubblica Über die Linie (Oltre la linea), un saggio dedicato ad Heidegger sul tema del nichilismo. In esso però Jünger non vede più, come Nietzsche, un attacco frontale ai valori borghesi quanto piuttosto la caduta, lo svanimento di essi. Cinque anni dopo, con il saggio poi intitolato Zur Seinfrage (La questione dell'essere), Heidegger risponderà a Jünger e gli riconoscerà il merito di aver colto nel nichilismo e nella tecnica il problema centrale della modernità, collocandosi appieno nella partire dalla metafisica nietzscheana della volontà di potenza. Über die Linie rientra in un'altra importante fase saggistica di Jünger dopo quella degli anni 30. Lo scritto appartiene infatti allo stesso periodo di Der Waldgang (Trattato del ribelle), che appare nel 1951, e di Der Gordische Knoten (Il nodo di Gordio) del 1953, sulla questione del rapporto tra Oriente e Occidente scritto in dialogo con Schmitt. In particolare, in Der Waldgang Jünger descrive una forma di interiorità che sembra fornire una motivazione filosofica del suo rifiuto della politica: l'anarca, il ribelle, vive una condizione di indipendenza interiore che assicura il suo rapporto con la società da qualsiasi implicazione ideologica. Nel 1950 Jünger si trasferisce a Wilflingen, nell'Alta Svevia, da cui non si sposterà più. Abita prima nel castello degli Stauffenberg, poi nella vicina foresteria. Con Albert Hofmann, lo scopritore dell'Lsd, sperimenta gli effetti del nuovo allucinogeno che poi descrive in Annäherungen. Drogen und Rausch (Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza), apparso nel 1970. 64 Compie numerosi viaggi, in Sardegna, negli Stati Uniti, in Medio Oriente e poi di nuovo in Francia. Nel 1959 fonda con lo storico delle religioni Mircea Eliade la rivista «Antaios» che dirigerà fino al 1971. Nello stesso anno pubblica il saggio An der Zeitmauer (Al muro del tempo) in cui si avverte l'influenza della filosofia della storia di Spengler nella sua formazione. Nel 1960 pubblica Der Weltstaat (Lo Stato planetario), una riflessione su quale fosse l'organizzazione politica corrispondente al carattere planetario della tecnica e dell'economia. Nel 1962 sposa in seconde nozze l'archivista Liselotte Bauerle che vivrà con lui a Wilflingen fino alla sua morte. Nel 1964 pubblica note e osservazioni su L'Operaio dal titolo Maxima-Minima. L'anno dopo appare la prima edizione delle sue opere complete in dieci volumi. Nel 1967 raccoglie le sue osservazioni sulle ricerche entomologiche nel volume Subtile Jagden (Cacce sottili). Dalla fine degli anni sessanta Jünger non smetterà mai di viaggiare. Visita il Marocco, la Tunisia, la Turchia, la Sicilia, la Grecia. Nel 1973 pubblica il romanzo Die Zwille (La fionda) in cui rievoca l'atmosfera del Gildemeister Institut, il collegio privato dove aveva conseguito il diploma. Nel 1977 appare invece Eumeswil, il romanzo che conclude la trilogia iniziata con Sulle scogliere di marmo. Il protagonista, Venator, intrattiene con il mondo un rapporto di pura osservazione che gli consente di compiere il proprio lavoro di storico, conservando la completa neutralità politica. Nel 1981 pubblica il saggio Der Schrifteller und das Schreiben (L'autore e la scrittura). A partire dagli anni ottanta, Jünger riceve importanti riconoscimenti in Germania e all'estero. Nel 1982 viene insignito del Premio Goethe della città di Francoforte, tra aspre polemiche che riaprono il dibattito sul suo complesso rapporto con il nazismo. Nel 1983 appare Aladins Problem (Il problema di Aladino), metafora del mondo attuale e della decadenza che Jünger vedeva in esso: «invece di edificare un mondo magnifico in cui si realizzerebbero grandi utopie, in cui, ad esempio, più nessuno avrebbe bisogno di lavorare, non ci pensiamo nemmeno, utilizziamo la nostra lampada per ammucchiare delle scorte di bombe atomiche. I geni che evochiamo non sono quelli buoni: creiamo l'Est e l'Ovest e forse corriamo verso la nostra fine» (J. Hervier, Conversazioni con Jünger, Parma 1986, p. 101). Nel 1984, a Verdun, su invito di Mitterand e Kohl, partecipa ai festeggiamenti della riconciliazione franco-tedesca. I due gli faranno più volte visita a Wilflingen. Nel 1985 la regione del Baden-Württemberg istituisce il Premio Ernst Jünger per l'entomologia. Nello stesso anno riceve la Grande Croce al Merito della Repubblica Federale Tedesca e pubblica un racconto poliziesco, Eine gefährliche Begegnung (Un incontro pericoloso), ambientato nella Parigi fin de siècle, negli anni immediatamente antecedenti all'affaire Dreyfus. Nel 1986 a Palermo riceve il Premio Mediterraneo e a Roma il Premio Tevere. A Monaco viene insignito del Bayerischer Maximiliansorden per l'arte e la scienza. Nel 1990 gli viene conferito il Premio per l'Arte dell'Alta Svevia. Continua a viaggiare, va alla Isole Mauritius, alle Seychelles, in Svizzera e a Rodi. A Venezia, nel 1993 riceve il Gran Premio Punti cardinali per l'Arte dalla 45a biennale. La prefazione al catalogo della biennale scritta da Jünger sarà poi pubblicato su «Die Zeit» con il titolo Gestaltwandel (Metamorfosi). Nel 1994 pubblica la quarta serie di Seibzig verweht (Settant'anni volati via), i diari della vecchiaia il cui primo volume era apparso nel 1980. Nel 1996 gli viene conferita la laurea honoris causa dalla università Complutense di Madrid. Muore a Wilflingen nel 1998. Citazioni tratte dai diari della prima guerra mondiale 65 L'arrivo al fronte: 1. Avevamo lasciato le aule universitarie, banchi di scuola, officine; e poche settimane d'istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d'entusiasmo. Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l'irresistibile attrattiva dell'incognito, il fascino dei grandi pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un'ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo ebbri di rose e di sangue. Non il minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su prati fioriti dive il sangue sarebbe sceso come rugiada. «Non v'è al mondo morte più bella…» cantavamo. Lasciare la vita sedentaria e prender parte a quella grande prova. Non chiedevamo altro. 2. Un breve soggiorno al reggimento era stato sufficiente a guarirci del tutto dalle vecchie illusioni. In luogo dei pericoli sperati, avevamo trovato il fango, la fatica, le notti di veglia, tutti mali la cui sopportazione esigeva un eroismo poco confacente alla nostra natura. Ma il peggio era la noia, più snervante per il soldato che la vicinanza stessa della morte. Speravamo in un attacco; ma avevamo scelto, per il nostro ingresso sulla scena, un periodo sfavorevole in cui ogni azione di movimento poteva dirsi cessata. La guerra dei materiali: 3. Bombe sferiche, leggere e pesanti, bombe-bottiglia, shrapnels, proiettili di ogni genere. Non riuscivo più a distinguere tutto quello che ronzava, rombava e esplodeva. (…) A volte l'udito rimaneva completamente assordato da uno schianto unico, infernale, accompagnato da bagliori di fiamme. Poi un sibilo alto, ininterrotto, dava l'impressione che centinaia di schegge da una libbra volassero una dietro l'altra a velocità incredibile. Un proiettile arrivava senza esplodere, con un colpo breve, violento, e la terra intorno sussultava. Gli shrapnels scoppiavano a dozzine con la grazia di confetti fulminanti, spargendo nugoli di bilie, mentre le spolette li seguivano soffiando. Quando una granata piombava vicina, il terriccio strepitava, ricadeva e le schegge si conficcavano con un colpo secco nel suolo. Il nemico: 4. Mi sforzai sempre, durante tutta la guerra, di guardare l'avversario senza odio, anzi di stimarlo per il suo coraggio virile. Cercai, certo, di incontrarlo in combattimento per ammazzarlo senza naturalmente aspettarmi altro da parte sua. Mai, però, ne ho pensato male. 5. Tonfi sordi e profondi come tuoni accompagnavano la nostra marcia. Centinaia di occhi erano puntati su quel paesaggio morto, in agguato dietro i fucili e le mitragliatrici. Eravamo già lontani dalle nostre linee. Da ogni parte fischiavano proiettili attorno ai nostri elmetti e si schiacciavano con urti violenti contro le pareti della trincea. Ogni volta che quelle palle di ferro a forma di uovo si alzavano, l'occhio si impadroniva di loro con quell'acutezza della vista che si acquista soltanto nei momenti in cui si decide la vita o la morte. In quegli attimi di attesa, bisognava cercar di guadagnare un posto dal quale fosse possibile vedere il più largo tratto di cielo perché soltanto su quel pallido sfondo era possibile distinguere con sufficiente chiarezza il ferro nero scanalato di quelle palle micidiali. Ognuno lanciava la propria bomba a mano e saltava in avanti. Nemmeno uno sguardo per il nemico che cade: quello ha finito il suo gioco, si comincia un altro duello. L'incontro tra due comandanti: 66 6. Fra tutti i terribili momenti della guerra nessuno è così memorabile come l'incontro di due comandanti di plotone tra le strette pareti argillose della posizione. Non c'è ritorno, né salvezza. Lo sa bene chiunque abbia visto nel loro regno i prìncipi delle trincee, con i loro visi duri e cupi, saltare audacemente e rapidamente nell'una e nell'altra direzione, con occhi acuti e iniettati di sangue, uomini che conoscevano a fondo e compivano fino al limite estremo il loro dovere e che nessun bollettino di guerra ha nominato e nomina mai. L'istante della morte: 7. Nell'attimo stesso del colpo, compresi che la pallottola aveva troncato la vita alla radice. Sulla strada di Mory avevo già sentito la mano della morte, ma questa volta essa stringeva più forte e più decisa. Mentre crollavo pesantemente sul fondo della trincea, ebbi la certezza di essere definitivamente perduto. Eppure, cosa strana, quel momento è stato uno dei rarissimi nei quali possa dire di essere stato veramente felice. Compresi in quell'attimo, come alla luce di un lampo, tutta la mia vita nella sua più intima essenza. Provai una certa sorpresa per il fatto che essa dovesse finire proprio in quel punto; ma quella sorpresa, devo dire, era piena di felicità. Sentii, piano piano, i colpi indebolirsi come se stessi affondando sotto la superficie di un'acqua scrosciante. Dove ora mi trovavo, non v'erano più né guerra, né nemici. (Citazioni tratte da Ernst Jünger, Nelle Tempeste d'acciaio, tr. it. di G. Zampaglione, Parma 1990, rispettivamente p. 5; p. 12; p. 80; pp. 65-6; p. 243; p. 245; p. 320). Ernst Jünger – Der Arbeiter dott. Simona Giacometti per contatti: [email protected] Dalla ricostruzione della vicenda biografica di Ernst Jünger abbiamo ricevuto importanti indicazioni su alcuni elementi che nelle pagine dell’Operaio si caricano di densa problematicità teorica: la guerra = guerra dei materiali → questione della tecnica; la nuova figura del soldato = salariato della morte; la rilevanza dell’interesse entomologico, sintomatico dell’attrazione jüngeriana per un idea d’ordine che pone in questione il rapporto di libertà e necessità. Essenziale alla lettura del testo è un’osservazione preliminare: rispetto all’analisi marxiana della questione in esame, il lavoro, Jünger utilizza un impianto concettuale completamente diverso, movendo da riferimenti teorici di tutt’altra natura. Ritenendo metodologicamente fallimentare accostarsi ad un autore applicando strumenti di indagine diversi da quelli che egli stesso fornisce nella sua opera. È necessario mettere, quindi, solo temporaneamente da parte Marx e cercare di cogliere la specificità del discorso di Jünger per procedere in seconda battuta ad un confronto tra i due. 67 La caratteristica che emerge immediatamente dalla lettura è il carattere poco sistematico con cui Jünger sviluppa le sue argomentazioni, un dato non casuale ma riconducibile ad una posizione teorica coerentemente sostenuta anche nella prassi della scrittura: la polemica antiborghese contro un pensiero della scissione che si articola secondo uno schema meccanicistico di successioni determinate di cause ed effetti. Una sorta di giustificazione della scrittura jüngeriana nell’Operaio può essere ricavata da quanto l’autore stesso sostiene in un passaggio di Blätter und Steine del 1942: “Per un decimo di secondo fu chiaro nella mia mente che noi ci avviciniamo di nuovo ad un punto, viste dal quale fisica e metafisica sono identiche. È questo il luogo geometrico in cui bisogna cercare la Forma del lavoratore. Il libro che porta questo titolo rappresenta uno sforzo durato due anni e dedicato alla riscoperta di questo decimo di secondo. Come in un sogno si scorge per un momento il meraviglioso tappeto della vita: ma restano solo pochi fili, che si cerca faticosamente di collegare”. Il testo compare nel 1932 e presenta una certa continuità ideale con Die Totale Mobilmachung (1930) e Über den Schmerz (1934). Fin dalle prime battute la figura dell’operaio è definita a partire dalla sua opposizione a quella del borghese: sulla natura di questa opposizione Jünger è esplicito: “Tra il borghese e l’operaio la distinzione non è soltanto d’epoca, ma soprattutto di rango”128. Anche alla luce dei molteplici ed illustri fraintendimenti circa la natura dell’operaio di Jünger ed in considerazione del fatto che finora ci siamo mossi entro l’orizzonte teorico marxiano, è indispensabile chiarire fin da principio che l’operaio non è una categoria sociologica, politica né tanto meno economica. In questo senso risultano forse più comprensibili le dispute sorte attorno all’opportunità di rendere il termine tedesco Arbeiter con la voce italiana Operaio e non piuttosto con quella più neutra di Lavoratore. “In terzo luogo rimane da distruggere la leggenda secondo cui la qualità fondamentale dell’operaio sarebbe una qualità economica” (Ivi, p.27) e, a poche pagine di distanza, leggiamo: “…per l’operaio da indurlo a rifiutare ogni interpretazione che tenti di spiegare lui ed il suo manifestarsi come una manifestazione economica, o addirittura come un prodotto di processi economici, il che significa, in fondo, una sorta di prodotto industriale” (Ivi, p.29). E’ significativo il fatto che, riferendosi presumibilmente a Marx, Jünger attribuisca a questa interpretazione un’origine borghese. Jünger precisa che concepire l’operaio come il rappresentante di una nuova classe, l’esponente di una nuova società, un organo dell’economia significa lasciare 128 E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, a cura di Quirino Principe, Parma, 1991, p. 18. 68 sopravvivere nella sua struttura essenziale la concezione borghese del mondo, garantire la continuità nell’ordine delle cose, confermare una concezione evoluzionistica della storia per la quale al domino del terzo stato dovrebbe seguire quello del quarto stato; l’operaio è tale solo nell’immagine riflessa del mondo borghese. “Questa interpretazione assegna all’operaio una finta posizione difensiva, all’interno della quale è assicurato l’ordine borghese nelle sue norme decisive” (Ivi, p.30). Piuttosto è opportuno guardare all’operaio come al “rappresentante di una forma particolare agente secondo leggi proprie, che segue una propria missione e possiede una propria libertà”. Ritorniamo a specificare ulteriormente la natura del rapporto tra queste due figure, precisando con Jünger che la relazione tra l’operaio e la società borghese non è di opposizione, ma di totale diversità. Una relazione d’opposizione può essere stabilita solo nel momento in cui il terreno di confronto è lo stesso; la figura dell’operaio rivoluziona radicalmente il sistema di riferimento borghese. A determinare la distinzione di rango cui Jünger si riferiva nel passaggio citato è l’incapacità del borghese di stabilire un rapporto con l’elementare; al contrario, l’operaio compie un atto rivoluzionario nella visione di forme, che implica il riconoscimento di un essere nell’intatta ed unitaria pienezza della sua vita. (la centralità della visione è affermata fin dalla premessa alla prima edizione del luglio 1932). È centrale a questo punto la definizione della forma come “un tutto che comprende più che la somma delle sue parti” (ivi, p. 31), una grandezza così come si presenta ad uno sguardo per il quale la connessione del reale non è data dalla formula di causaeffetto, quanto piuttosto da quella di sigillo e impronta. Il senso del passaggio può risultare più comprensibile se specifichiamo la possibilità, in assoluto, di distinguere due modalità di approccio al reale: la realtà può essere indagata a partire dalle categorie logiche di causa ed effetto e allora la rappresentazione che di essa è data è quella di una successione meccanicamente determinata di un evento all’altro, oppure, in alternativa, è possibile vedere in essa la connessione data dalla relazione esistente tra sigillo e impronta e quindi coglierne la totalità, quel “più” rispetto alla somma delle parti che le categorie di causa ed effetto ignorano completamente. Le categorie di causa ed effetto non danno la totalità, ma la successione meccanica di evento all’altro secondo uno schema puramente logico e non rispondente al reale. Quella distinzione di rango tra borghese ed operaio è posta allora dalla capacità di quest’ultimo di cogliere la totalità, il “più” che dà la connessione tra le parti in un senso completamente diverso da quello che fornisce il criterio meramente logico della successione di causa ed effetto di matrice borghese. L’immagine cui possiamo ricorrere per rendere la visione di forme di cui è capace l’operaio è quella del cerchio in opposizione alla retta che dà l’idea della successione in cui il borghese organizza la sua immagine della realtà. La forma è una totalità nello stesso senso in cui “un uomo è più che la somma degli atomi, delle membra, degli organi e degli umori, una famiglia è più di marito, moglie 69 e bambino. […] Nel secolo XIX ci si è abituati a confinare nel reame dei sogni qualsiasi spirito che tentasse di appellarsi a questo più, a questa totalità come se quelle realtà avessero sede in un mondo più bello e fantastico, non nel mondo reale” (Ivi, pp. 32-33). In sostanza, il ricorso al criterio logico-matematico di causa-effetto è sintomatico dello spirito proprio del XIX secolo che Jünger definisce nei termini di un’epoca atomizzatrice di cui il borghese è l’incarnazione più compiuta. “Nell’età borghese tutto si è liquefatto in idee concetti o meri fenomeni, e i due poli di questo liquido sono stati il sentimento e la ragione” (ivi, p. 36). L’accusa rivolta al razionalismo borghese può essere sinteticamente espressa dalla sua tendenza caratteristica a leggere il reale secondo gli schemi esclusivamente logici del concetto; la protesta jüngeriana contro il razionalismo è manifesta nella rinuncia a quello strumento di dissoluzione che è il concetto e nella sua sostituzione con la forma che ripristina un’unità organica in luogo della sistematica unità borghese. Le caratteristiche peculiari del borghese da ricondurre al dominio di un principio razionalistico sono individuate da Jünger: 1) Culto borghese della sicurezza in virtù del quale egli tenta di negare l’aspetto pericoloso dell’esistenza e di chiudere ermeticamente lo spazio vitale all’irruzione delle forze elementari. La strategia che il borghese mette in atto a tale scopo è significativa nella misura in cui manifesta la sua natura più propria: “Egli sospinge le forze elementari – con le quali non è in grado di stabilire una relazione autentica - nel dominio dell’errore, dei sogni o di una cattiva volontà che non può non essere cattiva, ed anzi esso la interpreta come dissennata assurdità” (Ivi, p. 20). Il borghese edifica o meglio circoscrive lo spazio del suo agire invocando i principi supremi della razionalità e della moralità, tutto ciò che non può essere disciplinato a partire da essi è tacciato di irrazionalità e di immoralità e perciò perde il diritto all’esistenza: “ l’ideale condizione di sicurezza che il progresso si sforza di raggiungere consiste nell’egemonia universale della ragione borghese, la quale si propone il compito non soltanto di ostruire le sorgenti del pericolo, ma persino di inaridirle del tutto. Ciò avviene nel momento in cui il pericolo, alla luce della ragione, assume le sembianze dell’assurdo, e con ciò perde il proprio diritto a realizzarsi” (Ivi, p. 47). “Questo rimprovero mosso dal borghese rappresenta il mezzo con cui ogni oppositore viene emarginato dalla società, quindi dall’umanità e dalle sue leggi” (ibid.). Sintomatica, in tal senso, “l’antipatia che il borghese prova dinanzi a quelle ed ad altre figure, che già soltanto con la loro maniera di vestire portano nelle città l’odore del pericolo. È l’avversione che nasce contro il tentativo di aggredire non propriamente la ragione, ma piuttosto il culto della ragione. Il pericolo d’aggressione è 70 rappresentato dalla mera esistenza di quei modi non borghesi di vivere” (Ivi, p. 46). Ad evitare ogni fraintendimento, vale la pena di precisare che non il principio di razionalità in assoluto, ma la sua specifica forma borghese è incompatibile con l’impulso elementare. Non è possibile identificare tout court l’ordine borghese con il principio razionale e lo forma dell’operaio con il dominio dell’irrazionale: l’operaio non nega il diritto all’esistenza a tutto ciò che non può essere disciplinato dal principio della forma, il razionale non è rifiutato ma accolto ad un livello più alto che raggiunge a partire dal suo rapporto con l’elementare. Nell’applicazione di questa strategia si manifesta agli occhi di Jünger la natura più propria del borghese che appare come “la personificata unità del principio razionale con quello etico” (ibid.); rispetto alla sfera delle sue forze, gli impulsi elementari che incalzano provengono da una dimensione del tutto estranea alla propria e con la quale egli non può interagire in base alla sua logica consueta. La logica alla quale ci si riferisce e che Jünger assume come distintiva della natura borghese è quella della trattativa, della contrattazione, del patteggiamento che il borghese mette in atto anche quando, come abbiamo visto in precedenza, considera l’operaio il rappresentante di una nuova classe, l’esponente di una nuova società, un organo dell’economia e che, nel giudizio di Jünger, è funzionale alla conservazione dell’impianto borghese. In definitiva, il sistema borghese tende a raggiungere compromessi invece di cercare soluzioni, a scartare la difficoltà invece di contrastarla. 2) Connessa al culto borghese della sicurezza, Jünger riconosce una serie di caratteristiche che gli appartengono costitutivamente fin dalle origini: la predilezione che costui rivela per la professione di avvocato, la sua costante preoccupazione ad identificare l’avversario con l’aggressore perché il proprio ruolo è essenzialmente quello del difensore, la struttura urbanistica che conferisce alle grandi città (“le antiquate cinte di fortificazione sono divenute strutture a nido d’ape in cui pietra asfalto e vetro rinserrano la vita e le cui strutture più interne riproducono la forma in generale. Ogni vittoria della tecnica è qui una vittoria della comodità, Ivi, p. 45). In merito alla seconda delle caratteristiche elencate, Jünger è esplicito: “Il borghese respinge il fondamento essenziale della guerra, l’aggressione, poiché sente nell’intimo che l’istinto aggressivo non è tagliato a sua misura[…]. Il borghese conosce soltanto la guerra difensiva” (Ivi, p. 21). L’incapacità del borghese di stabilire un rapporto con l’elementare e di vedere in atto il dominio della forma, quindi di “un tutto che comprende più che la somma delle sue parti”, è a fondamento di un altro elemento distintivo dell’apparente dominio borghese, 71 3) La concezione dell’uomo come individuo. Dire uomo non significa immediatamente dire individuo; l’individuo è la specifica immagine che il borghese ha dell’uomo. In merito Jünger parla di “una bizzarra ed astratta raffigurazione dell’uomo” (Ivi, p. 22); a suo fondamento risiede ancora lo spirito razionalistico del XIX secolo che sottrae i singoli contenuti alla loro connessione vitale negandone in tal modo l’appartenenza alla forma: con esso è in atto un principio che trasferisce questi contenuti dal piano reale a quello logico. Nel momento in cui la realtà è isolata nella più completa astrazione secondo la connessione logica propria del concetto, si può procedere all’elaborazione di principi universali, primo tra tutti quello dell’uguaglianza di tutti gli uomini nella comune essenza razionale; il pensiero borghese, figura più rappresentativa della scissione, pone questa universale razionalità come condizione della tutela del diritto all’individualità. “ D’altra parte, all’atto pratico il singolo si vede contrapposto non già all’umanità, bensì alla massa, alla sua esatta immagine riflessa in questo mondo stranissimo e quanto mai immaginario” (Ivi, p.22). Vedremo in seguito come alla coppia individuo –massa costruita nell’astratto immaginario borghese corrisponda quella di singolocomunità organica in cui la forma dell’operaio pensa il rapporto tra tutto e parte. Intanto anticipiamo la definizione jüngeriana di massa come “somma, numerabile quantità di individui dotati di qualità” (Ivi, p. 92). L’uomo borghese si struttura come individuo nell’esercizio dei suoi diritti universali e lo spazio di questo esercizio è la società, spazio borghese per eccellenza. Si tratta, nella definizione fornita da Jünger, dell’ordine orizzontale tipico del contratto sociale in cui l’individuo entra con gli altri contraenti – titolari degli stessi diritti- in una relazione che in qualsiasi momento può decidere di interrompere. In merito Jünger parla esplicitamente della “preoccupazione del borghese di vedere lo Stato, che si fonda su una gerarchia, come una società retta dal principio basilare dell’uguaglianza e fondata mediante un atto della ragione” (Ivi, p. 47). Assumendo questa dimensione come sintomatica della diversità tra borghese ed operaio, i termini dell’opposizione sono dati da società civile, ordine orizzontale tipico del contratto sociale vs Stato, ordine verticale, gerarchia. Nell’era dell’apparente dominio borghese viene messa in atto una sistematica operazione di distruzione dello Stato assoluto ad opera dei principi universali, per la quale in esso non è più riconosciuto né riconoscibile come il supremo strumento di potere a favore della società elevata a forma in sé. Nella politica borghese non esiste alcuna grandezza che non venga concepita come società; sintomatico in tal senso il fatto che“ Società è lo Stato, la cui essenza si cancella in proporzione a come la società assoggetta lo Stato alle proprie categorie. Questo forzato adattamento è una vera e propria aggressione; suo strumento è il concetto di libertà borghese, il cui 72 compito è la trasformazione di tutti i vincoli responsabili in rapporti contrattuali con possibilità di rescissione” (Ivi, p. 22). Va considerato a questo punto come proprio con la stessa intensità con cui il borghese lo respinge all’esterno del proprio spazio vitale edificando una sicurezza del tutto fittizia, l’elementare faccia irruzione al suo interno, preparando in tal modo la più significativa ed autentica rivoluzione, il dominio della forma in cui “ il pericolo è sempre presente […]non esige soltanto di essere parte di ogni ordine possibile, ma è anche la matrice di quella superiore sicurezza dalla quale il borghese sarà sempre escluso” (Ivi, p. 47). “lo scoppio della guerra mondiale traccia il largo e rosso frego conclusivo sull’ultima pagina di quest’epoca” (Ivi, p. 51). Il rapporto della forma con il molteplice: libertà e necessità (dott. Adriana Maestro) per contatti: [email protected] Posizione del problema Nelle lezioni scorse è stata evidenziata, tra gli altri, la centralità dei temi della guerra e dell’irruzione del pericolo, dell’elementare nello spazio della sicurezza borghese. E’ proprio da qui che vorrei riprendere le fila del ragionamento, per cercare di soffermarci ulteriormente sul problema della Forma e del rapporto della Forma con il molteplice. Indagare questo rapporto vuol dire dar ragione del molteplice in senso spaziale, ma anche temporale, ovvero vuol dire indagare il molteplice, con riferimento alla dimensione spaziale, ma anche la sequenza, con riferimento alla dimensione temporale. Vuol dire, dunque, affrontare i grandi temi della libertà e della necessità, per quanto riguarda la relazione del singolo con la Forma, e temi come lo sviluppo, il progresso, l’evoluzione, per quanto riguarda il percorso storico. Parlare di sviluppo, 73 progresso, evoluzione vuol dire analizzare dei possibili dispositivi di lettura del corso storico. Bisogna vedere, appunto, come Jünger si pone rispetto a tali dispositivi. La guerra. Il Bisogno di forma in Jünger Credo che la guerra abbia aperto per Jünger una grande domanda di senso. Domanda di senso a cui non può rispondere la scienza borghese, la logica borghese; quel sapere, appunto, che ritiene che il male del mondo sia frutto di errore, ovvero che derivi da una provvisoria incompiutezza della conoscenza. E, di fatti, Jünger così scrive: “ All’interno di questo spazio, il modo di porre i problemi, siano essi di natura artistica, scientifica o politica presuppone sempre un punto fermo: che il conflitto sia evitabile. Se però il conflitto si presenta, come non possiamo fare a meno di ammettere di fronte a persistenti realtà di fatto, la guerra o il crimine, è sufficiente interpretarlo come un errore la cui ripetizione può essere evitata mediante l’educazione o la filosofia dei lumi o il diffondersi dell’istruzione. Questi errori nascono unicamente perché i fattori di quella grande operazione di calcolo matematico, il cui risultato sarà l’identità tra la popolazione del globo terrestre e un’umanità tutta unita, fondamentalmente buona, razionale e garantita dalla sicurezza, non sono ancora oggetto di conoscenza generale. La fiducia in questa visione dei problemi e nella sua forza di convinzione è uno dei motivi che spingono la filosofia dei lumi a sopravvalutare le energie che le sono concesse”(L'Operaio, p. 48). Come egli stesso dice, la guerra è il frego che chiude il XIX secolo. Con la guerra è visibilmente in crisi il mondo della sicurezza borghese e compare in prima linea sulla scena, in maniera ineludibile il pericolo. “Certo, non mancano gli sforzi tesi ad interpretare questo mondo, ma non possiamo attenderci una spiegazione da un particolare tipo di dialettica né da una sorta di utilitario interesse. Tutto questo affaticarsi ha per oggetto un essere che è ancora troppo ampio anche per gli estremi slanci del pensiero. Tuttavia uno spettacolo impressionante si offre a chi vede quale lucidità e acutezza d’intelletto, quale intensità di fede, quale quantità di vittime umane si consumino in 74 combattimenti parziali - uno spettacolo che appare sopportabile soltanto a condizione che ciascuno di quegli scontri abbia una sua funzione all’interno dell’operazione militare nel suo insieme” ( cit.,p. 56). Di qui, dunque, quello che oserei chiamare il bisogno di Forma di Jünger, il bisogno, appunto, di attingere al Tutto, alla totalità che racchiude in sé più della somma delle parti e che riesca a dar ragione dell’apparente disarmonia del reale. Nella forma è racchiuso il tutto, che comprende più che non la somma delle proprie parti, ed era un obiettivo irraggiungibile per un’epoca anatomizzatrice (cit., pag.32). Che vuol dire ciò? Vuol dire che il prius, non in senso temporale, ma in senso di dignità di rango, è la forma, è il tutto, che, rispetto alle singole parti è eccedente, è più. La forma, dunque, non è assolutamente un tutto a cui si giunge per sintesi, o per somma di parti, non è un insieme di più individualità; è il tutto, è il sigillo che imprime di sé ogni cosa, che di questo sigillo non è che l'impronta. Per comprendere il pensiero di Jünger, bisogna tenere sempre ben presente che per lui la Forma è una Totalità Organica e che questa totalità è il punto di partenza del suo discorso. Di essa, il singolo fa parte come, appunto, parte di una totalità organica. Libertà come espressione della necessità Ciò significa che la libertà del singolo consiste nella certezza di essere inseriti nella necessità del tutto. Per Jünger, la libertà di chi agisce vede se stessa come singolare espressione della necessità. E, infatti, così scrive: Uno dei contrassegni della libertà è la certezza di essere inseriti profondamente nel nucleo germinale del tempo - una splendida certezza che dà le ali ad azioni e pensieri, e nella quale la libertà di chi agisce vede se stessa come singolare espressione della necessità. Questo punto di riconoscimento, in cui destino e libertà s'incontrano come sul filo del coltello, è il sintomo che la partita della vita è ancora in gioco, e che la vita stessa si concepisce come portatrice di forza storica e di storica responsabilità (cit., p. 55). 75 Jünger, dunque, contesta la concezione borghese di libertà, intesa come libertà dell’individuo, ritenuto soggetto di storia. Libero non è chi dispone di se stesso senza alcun vincolo di sorta, bensì chi sente di essere impegnato in un’opera comune, chi “avverte in sé la certezza che egli, al di là degli interessi, è legato nel modo più profondo al proprio spazio e al proprio tempo(…)” (cit., p.57) e sente così “di appartenere non soltanto alla sostanza della natura, ma anche a quella della storia (…)”, (ibidem) chi riconosce, appunto, “il proprio compito” (ibidem). La distanza Questo significato della libertà come partecipazione a un’opera unitaria, superiore, può essere scorto solo ponendosi a dovuta distanza, sia in senso spaziale che temporale. Vediamo che il tema della distanza ( Entfernung, Distanz, Abstand) è particolarmente importante in Jünger e ritorna spesso. Prendere distanza significa porsi fuori dal terreno dell’empiria, per assumere un punto di vista in cui l’empiria stessa è giustificata da un ordine trascendente, un punto di vista che pone in una situazione molto diversa da quella in cui il singolo, inteso come parte, si trova, nel mondo, in rapporto con il tutto. Distanza spaziale A una grande distanza non si vedono più i diversi fini, i diversi obiettivi: essi si mescolano gli uni negli altri e la loro differenza si annulla. Se fosse possibile vedere il mondo ad una lontananza per noi inimmaginabile come, per esempio, con un telescopio, dalla superficie lunare, allora esso ci apparirebbe in maniera unitaria, il pensiero delle sue differenze interne sarebbe così lontano, come è lontano, nel singolo, l’idea di percepirsi in maniera microscopica, come somma di molecole. “Ad uno sguardo posto a distanza cosmica, e perciò sottratto al gioco di azione e reazione di movimenti contrari, non può sfuggire che qui un’unità ha creato la propria copia in termini spaziali. Questo tipo di considerazione si distingue dagli sforzi di concepire l’unità della vita nel modo più superficiale, ossia come addizione, poiché coglie la forma creativa, l’opera, la quale si realizza malgrado tutti i contrasti, o grazie al loro aiuto” (cit., p.60). 76 Distanza temporale Nel tempo, la contemplazione delle rovine è quello che maggiormente colpisce e fa avvertire al singolo l’Unità dell’Opera Umana e la consapevolezza di farne parte. Nelle rovine si percepisce, infatti, non tanto l’opera di un singolo individuo, quanto l’opera corale e anonima. “Quelle pietre, coperte dall’edera o dalla sabbia del deserto, sono un monumento non soltanto del potere di uomini dominatori, ma anche del lavoro anonimo, di tutte le minime operazioni manuali che qualcuno impiegò. In ciascuna di quelle pietre si è infiltrato il rumore di cave dimenticate, si sono insinuati i pericoli di scomparse strade di campagna, di rotte marittime cancellate, il trambusto delle città portuali, i progetti dei mastri costruttori, e i pesi imposti ai servi della gleba, lo spirito, il sangue e il sudore di razze da lungo tempo estinte. Quelle pietre sono il simbolo della più profonda unità della vita, che la luce del giorno solo di rado svela” (cit., p.58). L’anonimia dell’Opera, dunque, è quello che sta a cuore a Jünger. Per comprendere il significato di un’opera, bisogna che, di fronte ad essa, scompaia ogni sentimento e risentimento umano, che essa appaia, dunque, come una creazione anonima. Ciò può essere realizzato solo tramite la distanza. La distanza, dunque, assolve a una funzione analoga a quella della maschera; la funzione, appunto, di trasformare il molteplice in unità, di uniformare le differenze, di trasformare la somma degli sforzi nella volontà che li trascende, il mondo degli uomini in mondo oggettivo. Tipo umano e Totalità Organica All’individuo si sostituisce il Tipo umano. Appartenere, essere rappresentante del tipo umano, significa appartenere ad un ordine gerarchico del tutto diverso. Ciò presuppone altre qualità dell’uomo, presuppone che egli non appaia isolato ma in un contesto. Libertà, dunque, non significa più una misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo; libertà è il grado in cui l’esistenza di questo sa esprimere la totalità del mondo in cui è inserito. Ne deriva l’identità di libertà e ubbidienza (cit., p. 135). 77 Ne deriva un nuovo ordine verticale, gerarchico, e non orizzontale, in cui dominio e servizio sono tutt’uno e la medesima cosa. A tal proposito Jünger così scrive: Una qualità che tutti gli altri considerano il connotato distintivo del tedesco, ossia l’ordine, viene sempre sottovalutata, se non si è in grado di riconoscerla come l’immagine della libertà riflessa in uno specchio d’acciaio. L’ubbidienza è l’arte di ascoltare, e l’ordine è la disposizione ad accogliere la parola, la disposizione ad accogliere il comando che trascorre come un fulmine dalla cima alle radici. Ognuno e ogni cosa trova il suo posto nell’ordine feudale, e il capo della nazione è riconoscibile dal fatto che egli è il primo servitore, il primo soldato, il primo operaio. Perciò sia la libertà che l’ordine si riferiscono non già alla società, bensì allo Stato, e il modello di ogni struttura è la struttura militare, non certo il contratto sociale. Quindi, la nostra forza esterna è assicurata, se nessun dubbio sussiste su chi deve guidare e chi deve seguire. Un principio deve essere affermato: dominio e servizio sono tutt’uno e la medesima cosa (cit., p.15). Ne deriva, dunque, la rottura degli antichi legami. Ma ciò non significa che il tipo umano non abbia legami, anzi! Tali legami sono di tipo diverso. La sua esistenza non è, come abbiamo visto, un’esistenza individuale, unica, nel senso in cui lo è per l’individuo; dunque: unica e irripetibile. E’, piuttosto, un’esistenza univoca. Di conseguenza, il singolo non è insostituibile, ma anzi assolutamente sostituibile. L’emblema di questo nuovo ordine è il milite ignoto, è il soldato anonimo che muore in battaglia, e al cui posto è già pronto un altro singolo per sostituirlo. Il singolo, dunque, è sostituibile nella sua individualità. Non è sostituibile, invece, la sua funzione; qualora il singolo cada, deve essere, quindi, immediatamente sostituito da un altro. Nella totalità jüngeriana, che non è affatto caotica, bensì regno dell’ordine, la funzione ricopre un ruolo ben più importante di colui il quale questa funzione ricopre. Per Jünger, la totalità organica è una realtà simile ai cristalli, in cui, quindi, la struttura è rigida. Il cristallo è formato da tante molecole in sé perfettamente uguali e quindi sostituibili, ma sostituibili nella loro individualità, non nella loro funzione. 78 Perché, infatti, la struttura non ne risenta, è necessario che ciascuna molecola sia al suo posto, eserciti la sua funzione. E’ interessante notare che tale distinzione tra struttura cristallina e struttura amorfa è presa direttamente dalla realtà organica, dal mondo delle scienze della natura. Con tali termini si definiscono, infatti, nelle scienze della natura, due differenti strutture dei solidi: i solidi con struttura amorfa e i solidi con struttura cristallina. I primi sono quelli senza una struttura ordinata, in cui le singole molecole sono aggrovigliate e non riconoscibili; i secondi sono quelli in cui le molecole sono disposte ordinatamente, in una maniera seriale, ripetitiva e riproducibile; in cui, quindi, si può prevedere la posizione delle molecole. In un cristallo, cioè, c’è quella che si chiama cella elementare del reticolo cristallino, la quale si ripete sempre uguale indefinitamente e in cui, quindi, sono contenute tutte le informazioni che ci permettono di descrivere il cristallo di qualsivoglia grandezza. Nella parte, dunque, è contenuto il tutto. Questo mi sembra di grande aiuto per comprendere il rapporto Tutto-parte, così come è pensato da Jünger. Jünger così scrive: La massa è, per sua essenza, amorfa, e perciò è sufficiente l’uguaglianza puramente teorica degli individui, i quali sono gli elementi che la compongono. Al contrario, la costruzione organica del XX secolo è una forma di natura cristallina, e perciò esige che il tipo umano inserito in essa le conferisca struttura in modo ben diversamente forte e intenso (cit., p.129). Tale esempio, credo, ci aiuta bene a capire l’idea che Jünger ha della totalità organica e del rapporto tra le parti e il tutto e della differenza che c’è tra totalità organica e massa amorfa, intesa come pura somma delle parti disposte in maniera disordinata. Fare parte del tutto significa condividerne l’ordine interno. E' questo il caso dell'organismo vivente, che è molto più della somma delle sue parti e in cui il singolo organo non è una semplice parte del tutto. Ogni organo, infatti, trae la sua ragion d'essere, la sua funzione, proprio dalla connessione organica col tutto. E ciò lo si capisce bene riflettendo sulla differenza che c'è tra un corpo vivente ed un cadavere. 79 E, infatti, così scrive Jünger: il corpo comprende più della somma delle sue membra, mentre il cadavere è uguale alla somma delle sue parti anatomiche (cit., p.14). Essere portatori della forma significa essere all’altezza del proprio compito. Soggetto della storia Artefice di storia non è, dunque, l’individuo ma, a questo punto, non è, in un certo senso, neanche l’uomo. La storia, appunto, non è opera dell’uomo, ma della vita, di cui l’uomo non è che lo strumento. Libertà, in questo contesto, significa essenzialmente riconoscersi come parte del tutto ed assecondare, in un certo senso, il compiersi del Destino; vivendo, però, quel destino non solo come destino, appunto, ma come scelta. Abbiamo già letto, a questo proposito, un passaggio illuminante: “Questo punto di riconoscimento, in cui destino e libertà s'incontrano come sul filo del coltello, è il sintomo che la partita della vita è ancora in gioco, e che la vita stessa si concepisce come portatrice di forza storica e di storica responsabilità (cit., p.55). Spunti problematici di riflessione Problematicità di affermazioni di questo tipo che, indubbiamente, rischiano di giustificare, sotto la parola destino, qualsiasi cosa, qualsiasi atrocità, e relegano l’azione umana a un “puro attivismo” senza finalità propria; un agire per l’agire, dunque, in cui l’uomo non incide più sulla storia, ma diventa mero strumento di essa. Non gli rimane altro che lasciarsi trasportare dalla corrente, senza vederne né la foce, né la meta, con le quali è in comunicazione solo mediante intuizioni, visioni non determinabili razionalmente. Se la distanza, come la maschera, è inizialmente un mezzo per far scomparire l’individuo, finisce per sacrificare anche l’uomo. Soggetto, dunque, non è l’uomo ma la Forma. Essa non diviene, non si realizza, ma E’, è immutabilmente ciò che è, “nessuna evoluzione la accresce o la diminuisce. Perciò, la storia dell’evoluzione non è la storia della forma, ma tutt’al 80 più il suo commento dinamico” (cit., p.75). Il dato storico non è altro che il commento dinamico della forma. “La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della Forma” (ibidem). In quest’ottica, ogni perdita, ogni fine è vista non come una fine, appunto, ma come il modellarsi di una forma che già c’era, allo stesso modo in cui la parte di materia che lo scultore toglie via dal blocco di pietra non è visto come una perdita, ma come una riaffermazione della forma. “E in verità ogni urto tra forze avverse, per quanto possa essere condotto alla cieca, somiglia a un colpo di scalpello che scavi in modo sempre più incisivo, da una massa indeterminata, l’uno o l’altro dei lineamenti di quest’epoca già formati in anticipo” (cit., p.56). “Abbiamo già mostrato come un processo d’impoverimento sia inconfutabile. Esso deriva essenzialmente dal fatto che la vita consuma se stessa, come avviene all’interno della crisalide in cui l’imago dell’insetto consuma il bruco. Raggiungiamo in tal modo un punto di osservazione dal quale i luoghi della perdita e della rovina appaiono alla vista come la massa petrosa che salta via dal blocco durante la lavorazione di una statua. Abbiamo raggiunto un frangente in cui la storia dell’evoluzione fallisce il suo compito se non viene letta con segno opposto, cioè da una prospettiva nella quale la forma intesa come l’essere non subordinato al tempo, determina l’evoluzione della vita in divenire. A questo punto, però, scopriamo una metamorfosi che ad ogni passo si fa più chiara.” (cit., pp. 110-111). Ho usato, precedentemente, il termine riaffermazione, a proposito della forma, termine che probabilmente è improprio, ma non saprei quale usare. Non si può parlare, infatti, di realizzazione perché la Forma già c’è, non si realizza. In Jünger non c’è la processualità dinamica che c’è per esempio in Hegel. E lo stesso Jünger, in una riflessione del 1978, così si espresse in proposito: “non sono hegeliano poiché non sono amico del progresso. Per me l’universo ha sempre la stessa grandezza. Lo sviluppo è nell’universo, ma l’universo non si sviluppa. E’ per questo che io, d’altra parte, non provo maggiore simpatia per l’idea platonica”. 81 La dissoluzione dell’individuo borghese prodotta dal tipo umano dell’operaio. dott. Simona Giacometti Nelle pagine che analizziamo in questa lezione tornano, in una prospettiva d’analisi più orientata alla descrizione della fenomenologia della società del XX secolo, i temi forti sui quali già si è posto in precedenza. Questo anche a conferma della struttura e del movimento circolare del testo ai quali accennavo nella prima lezione su L’operaio. La ridefinizione del rapporto tra parte e tutto nella genesi della totalità organica, la coincidenza di libertà e necessità in questo nuovo orizzonte, le problematiche connesse alla concezione jüngeriana della storia e dei concetti di evoluzione / progresso e metamorfosi. Dissoluzione dell’individualità borghese: “L’individuo non compare più, come al tempo dell’assolutismo monarchico, in tutta la sua plasticità, primeggiante sul suo sfondo naturale, architettonico e sociale” (Ivi, p. 92). Diventa anacronistica ogni forma di organizzazione sorta sulla base di categorie etiche, sociali o politiche dal momento in cui “appare evidente che qui non si può parlare più di relazioni tra individui” (ivi, p. 97). All’esperienza unica irripetibile ed individuale si sostituisce una chiara e tipica, univoca entro la quale il singolo è sostituibile nella sua individualità, insostituibile nella funzione di cui si fa carico. Ad essa corrisponde la progressiva dissoluzione della massa, intesa da Jünger come “somma, quantità numerabile di individui dotati di qualità” (Ivi, p. 92), cui si sostituisce una diversa struttura la cui configurazione è simile “a file di formiche, il cui movimento in avanti non è più a discrezione di ciascuno, ma segue una disciplina da automi” (ibid.). Con l’obiettivo di verificare nel concreto della fisionomia della società quanto espresso teoricamente, Jünger considera come essa abbia perso quella capacità di assalto che aveva rivelato nelle insurrezioni di piazza della rivoluzione francese o nelle assemblee politiche organizzate dopo la sua ascesa al potere. Il sintomo più lampante di questa deficienza è individuabile nella circostanza paradossale per cui la polizia, che in precedenza era chiamata a sorvegliare la massa raccolta in raduni, adesso deve assumere il ruolo del suo protettore. La dissoluzione della massa è altrettanto evidente in considerazione del fatto che elementi d’altra natura incidono sul corso degli eventi: “Nessuna deliberazione di massa determina l’ascesa anonima dei prezzi, il tracollo della moneta, le aliquote fiscali, il misterioso magnetismo della quotazione dell’oro” (ivi, p. 106); nel concreto della prassi rivoluzionaria, d’altra parte, il tentativo di riversare le masse nelle strade si rivela una strategia assai meno efficace rispetto all’occupazione dei centri nevralgici delle città sedi di governo 82 “La bipolarità del mondo e del singolo costituisce la felicità e la sofferenza dell’individuo. Il tipo umano, invece, dispone sempre meno di mezzi con cui isolarsi dal proprio spazio […]” “…tutta questa vita dai molteplici aspetti è chiusa nella sua compiuta e isolata totalità, e si prende parte a questo mondo in quanto si è inseriti in esso, non in quanto ad essi ci si contrappone” (ivi, pp. 131-132). Tra i singoli che cooperano alla costituzione della totalità organica si stabiliscono vincoli esistenziali in nome dei quali “quanto più l’individualità si dissolve, tanto più diminuisce l’opposizione del singolo alla propria mobilitazione” (ivi, p. 134). In questi passaggi si evince la continuità ideale con i saggi del 1930 e 1934 Die totale Mobilmachung e Über den Schmerz. Si tratta di un coinvolgimento totale senza eccezioni, che “si distingue dal teorico coinvolgimento nel sistema dei diritti universali dell’uomo per il fatto che è assolutamente pratico ed irrecusabile. Si poteva decidere di essere borghesi oppure no; ma questa libertà di decisione non è più concessa per quanto riguarda l’operaio” (ivi, p. 135). L’ordine gerarchico definito dalla sua forma consiste nell’appartenenza inevitabile al tipo umano in tutto il suo essere, in una modellatura che è poi l’impronta della forma, la quale si plasma sotto la costrizione di una ferrea regolarità. “uno dei contrassegni della libertà è la certezza di essere inseriti nel nucleo germinale del tempo – una splenditi certezza che dà le ali ad azioni e pensieri, e nella quale la libertà di chi agisce vede se stessa come singolare espressione della necessità” (ivi, p. 55). In questo ordine verticale la libertà coincide con la necessità, con l’ubbidienza, è “il grado in cui l’esistenza del singolo sa esprimere la totalità del mondo in cui è inserito” (ivi, p.135). Nell’argomentazione jüngeriana è pregnante la descrizione della fisionomia della società così come appare nel 1933 a chi la osserva dall’esterno: “Per Ahasvero, che nell’anno 1933 ricomincia la sua peregrinazione, la società umana ed il suo agire sono un singolare spettacolo d’insieme” (Ivi, p. 89). Questa figura rappresenta tradizionalmente l’ebreo errante, l’unico, a giudizio di Jünger, capace di cogliere la singolarità di questo spettacolo, perché non integrato al suo interno: “Questo movimento può essere veduto soltanto da occhi capaci di straneamento, da occhi che sappiano porsi totalmente al di fuori, poiché esso racchiude e circonda, come l’aria che si respira, coloro che dentro il movimento sono nati…” (Ivi, p. 90). È in atto un movimento sempre più intenso, minaccioso ed uniforme che procede con impersonale durezza e sembra impadronirsi di ogni attività in quanto tale per cui viene meno la tradizionale distinzione tra forze organiche e forze meccaniche; siamo di fronte alla prefigurazione del linguaggio del lavoro, la cui essenza è individuata nella meccanicità. 83 Il carattere di lavoro totale si afferma progressivamente sul carattere di lavoro individuale da intendersi nei termini di un “ procedimento e la modalità con cui la forma dell’operaio comincia a penetrare nel mondo” (ivi, p. 94). L’uniformità dell’attività che esprime il medesimo moto originario si evince nella strabiliante identità di procedimenti colta soltanto da un osservatore esterno: “fonte cui attinge ogni autentico valore produttivo della nostra epoca” (ibid., p. 95). Nella posizione di questo specifico obiettivo si annullano tutte le differenze di classe e di stato sociale ed il fronte della guerra si identifica con il fronte del lavoro. Indicativo della trasformazione in atto il fatto per cui “non ci si raduna in folla, ma ci si schiera in filata” (ibid.) e la singolare predilezione per l’uniforme. Si modifica significativamente la fisionomia del soldato di questa guerra dei materiali, che perde ogni tratto di individualità per acquisire quelli del tipo e che si caratterizza per la nitidezza e l’incisività di uno sguardo divenuto metallico. Emerge la figura del milite ignoto in uno scenario in cui è indifferente la natura distinta di colui che offre la prestazione rispetto al fatto puro e semplice che il compito in questione sia assoluto. “in qualsiasi direzione si volga, lo sguardo cade su un lavoro che viene compiuto in questo spirito di anonimato” (ibid., p. 95). Si configura un nuovo scenario di guerra sul quale non emerge più nella sua eroica distinzione il soldato adorno dei contrassegni allusivi al ceto cavalleresco, ma colui che “in sembianza poco appariscente, maneggia i volanti e le leve delle sue macchine di combattimento, che attraversa, con maschere e rivestimenti protettivi, zone infestate dai gas asfissianti, o colui che è chino sulle sue carte topografiche, tra il ronzio dei telefoni” (ibid.). Si ridefinisce anche il criterio di misura della moralità della guerra come capacità di realizzare il carattere di lavoro totale per la quale il corpo è soltanto uno strumento dal quale questo fine supremo riesce ad esigere prestazioni che superano di gran lunga i limiti posti dall’istinto di conservazione. Un esempio indicativo in questo senso è il fenomeno della duplice paternità delle scoperte scientifiche, e non è da escludere neppure il caso in cui la loro origine si perda addirittura nell’oscurità: “Perciò in quest’ambito neppure le scoperte suscitano più stupore: esse appartengono ad un ovvio stile di vita” (Ivi, p.132). È in atto una ridefinizione del rapporto tra i sessi: viene meno l’esperienza amorosa descritta nella Nouvelle Heloϊse, di straordinaria intensità ma limitata nella sua durata; si afferma una diversa immagine della natura intesa come spazio di dominio di “un’etica dell’asetticità, di igiene, monotoni culti solari, sport, educazione fisica” (Ivi, p. 97). In questa fenomenologia della società dei primi anni ’30 Jünger vede in atto la dissoluzione dell’individuo borghese e la genesi di un nuovo tipo umano “il cui corredo è più uniforme e commisurato ai compiti da svolgere, all’interno di un ordine definito dal carattere di lavoro totale (ibid.) / “condizione di ordine ferreo” 84 dietro alle quali è leggibile la volontà di formare “una razza” (ibid.), “una stirpe diversa e attiva in cui si incarna non il diritto universale, ma il dovere totale” (ivi, p. 137). Jünger delinea il processo di definizione di una “stirpe di combattenti che prende forma proprio nel corso della guerra, lasciando che una dopo l’altra le battaglie incidessero su di essa sempre più profondo il loro marchio” (ivi, p. 100). In quest’ottica Jünger assume la centralità di un episodio come l’assalto dei reggimenti volontari presso Langemark, tanto significativo per la storia dello spirito quanto irrilevante nella storia militare. La vicenda testimonia quanto ormai i valori eroici di individui animati da libera volontà, educazione, entusiasmo ed ebbro disprezzo della morte non hanno alcuna possibilità di affermazione e vittoria sulla “morte meccanica” inflitta dalla mitragliatrice. Nel modo in cui la guerra ha plasmato il destino del singolo è evidente il declino dell’individuo, il crollo del borghese come “portatore dell’idea” (ivi, p.100) di fronte all’incalzare delle forze della materia. In questi passaggi ritorna costante l’opposizione tra borghese ed operaio nei termini di un’opposizione tra astratto e concreto, tra la tendenza a leggere il reale secondo gli schemi esclusivamente logici del concetto e quella assolutamente alternativa in base alla quale la connessione reale viene dalla relazione tra sigillo e impronta: se, a proposito dell’operaio Jünger può affermare che “Nelle vicende che lo attraversano si rivela il massimo grado d’azione e il minimo grado di perché e di per cosa”e, ancora sullo scenario di guerra “il fuoco ha finito di ardere tutto ciò che non possiede un carattere di concretezza” (ivi, pp.100-101), nella definizione dell’individuo borghese parla di “una bizzarra ed astratta raffigurazione dell’uomo”, di “teorico coinvolgimento nel sistema dei diritti universali dell’uomo”. La definizione di un nuovo e superiore ordine è legata da Jünger al convincimento che la morte dell’individuo non coincide con la fine dell’uomo in generale: alle sue potenzialità alternative egli riconduce la capacità di stabilire un contatto con nuove fonti di energia, “ciò che muore è l’individuo come rappresentante di strutture indebolite e votate al declino. Attraverso questa morte il singolo deve transitare, finisca o no con lui il suo percorso visibile, ed è bello che egli non aspiri a schivarla, ma a cercarla nell’assalto” (ibid.). Questa nuova razza stabilisce un rapporto con la morte diverso da quello che sperimentava il borghese: il suo situarsi costantemente tra la vita e la morte determina uno straordinario incremento degli impulsi vitali e spirituali, il potenziamento di valori non individuali, ma funzionali. “in tale contesto il morire è divenuto più semplice […]” (ivi, p. 132): il concetto di incidente sviluppato dal tipo umano è in stretta relazione con il mondo delle cifre e ciò conferisce al destino uno speciale tono di secca necessità. “si può verificare questo istintivamente quando la morte si fa vicina in presenza di alte velocità. La velocità produce una specie di sobria ebbrezza, e ognuno dei corridori dà uno strano miscuglio di precisione e pericolo” (ivi, p. 133). 85 Anche lo spazio in cui entra in scena la morte e le armi assumono una nuova fisionomia: 1. In epoca classica lo scontro tra due persone aveva il carattere di un duello tra due contendenti dotati di armi portatili; 2. Con l’individuo entra in scena la batteria di grosso calibro. 3. “per il tipo umano il campo di battaglia è il caso particolare di uno spazio totale: egli perciò si presenta in battaglia con mezzi contrassegnati da un carattere totale. Sorge così il concetto di una zona di annientamento in cui non esiste de facto alcuna differenza tra combattenti e non combattenti” (ibid.). I contesti in cui comincia a delinearsi “la stirpe del XX secolo”, il nuovo tipo umano è la nuova realtà della costruzione organica in cui è già visibile lo specifico carattere di lavoro come “categoria e modalità in cui la forma dell’operaio giunge ad esprimersi in maniera organizzante” (Ivi, p. 107). La caratteristica distintiva della costruzione organica rispetto alla massa in cui si organizza una pluralità di individui è resa esplicitamente da Jünger: “A una costruzione organica non si appartiene con un atto di volontà individuale, ossia esercitando una libertà borghese, bensì mediante un’effettiva compenetrazione che determini lo specifico carattere di lavoro” (ivi, p. 108). I primi sentori della affermazione di un nuovo gusto nell’abbigliamento – in corrispondenza all’affermazione di un nuovo tipo umano – sono evidenti nella decadenza dello stile individuale che caratterizza già i primi anni del secolo: “non esiste forse nessun altra epoca in cui appaiono tanto mal vestite e con tanto cattivo gusto” (ivi, p. 112); questo effetto è ancora più forte allorquando il borghese si veste nelle occasioni particolari come la domenica poiché gli ordinamenti concreti di cui esse sono simboli sono ormai decaduti. Nei contesti in cui progressivamente viene ad affermarsi il carattere di lavoro totale all’abito borghese subentra l’uniforme dalle monotone sfumature che riproducono il colore del terreno su cui si combatte. Nell’ordine proprio della costruzione organica, l’uniforme del soldato è solo una variante particolare dell’uniforme da lavoro il cui compito è di sottolineare il tipo umano. Coerentemente alla logica sottesa alla scelta dell’uniforme, la fisionomia del nuovo tipo umano si caratterizza per la rigidità del volto confermata anche dalla frequenza con cui si ricorre alla maschera (maschera antigas, maschera protettiva per il lavoro, il casco) e l’armoniosità dei corpi. 86 L’evoluzione del gusto artistico offre testimonianze concrete del processo in atto: paradigmatica la trasformazione del teatro. Nel dramma classico, la persona riproduceva sulla scena l’unità armonica del mondo degli stati sociali e delle corporazioni. L’affermazione dei principi universali e dell’apparente dominio borghese segna la perdita di questa antica unità, resa evidente dalla presenza di una transenna che si innalza tra palcoscenico e platea. La rottura della piece classica si materializza nella comparsa del grande attore che altri non è se non l’individuo borghese; la sua apparizione sulla scena significa l’affermazione del primato dell’interpretazione sulle tradizionali regole di recitazione ed è indicativo in questo senso che la critica teatrale sia identificabile tout court con il discorso critico sugli attori. Rispetto al contenuto delle rappresentazioni, coerentemente con la logica che presiede ad ogni sua specifica manifestazione, il teatro borghese mette in scena l’esperienza unica, “l’esperienza del romanzo borghese, il quale è il romanzo di una società di tanti Robinson” (ibid., p. 120). La trasformazione radicale è compiuta nel momento in cui ci si interroga sulla natura del mezzo di comunicazione più adatto alla rappresentazione del tipo umano individuato nel cinema: l’attore cinematografico è chiamato a riprodurre il preciso ritmo della vita, la sua evidenza piuttosto che quegli aspetti per cui essa emerge nella sua unicità irripetibile. “nel cinema non esistono rappresentazioni uniche ed irripetibili […] un film viene proiettato contemporaneamente in tutti i rioni della città, e la proiezione si può ripetere a piacere con una precisione matematica spinta fino al secondo e al millimetro” (ibid., p. 122) ed il suo pubblico non è costituito da una cerchia di esteti. Nello spazio dominato dalle forme cade la validità del concetto in generale e di quello di evoluzione in particolare; l’avvento del tipo umano presuppone la morte dell’individuo “soltanto il pieno sfacelo il marasma delle strutture lascia ad un altro campo di forze la possibilità di rivelarsi” (ibid., p. 125). Non c’è evoluzione: l’avevamo già verificato fin dall’inizio quando Jünger denuncia la chiara matrice borghese del tentativo di trasferire i suoi modelli nei moti dell’operaio considerandolo il rappresentante di una nuova classe, l’esponente di una nuova società, l’organo dell’economia. Ma “se si vuole osare un nuovo attacco, questo può essere sferrato solo in direzione di nuovi fini” (ibid., p. 31). È questa la ragione per cui, al di fuori di qualsiasi prospettiva evoluzionistica, “l’energia essenziale del tipo umano è richiamarsi ad un altro presente, a un altro spazio, ad un'altra legge, tutte realtà il cui centro è la forma” (ibid., p. 125). Lo strumento più efficace attraverso il quale condurre questa rivoluzione è dato dalla pura esistenza, dalla mera presenza della forma. Jünger verifica un elemento di forte distinzione tra la gerarchia dell’individuo e quella del tipo umano di cui è sintomatico il richiamo a valori diversamente orientati: 1. Definizione dell’identità dell’io del tipo umano si compie nella ricerca dei connotati che si collocano al di là dell’esistenza del singolo → sviluppo di una 87 caratterologia scientifica, di una sorta di studio delle razze /rinascita dell’astrologia in luogo della fisiognomica. 2. desiderio di uniformità nel tempo → predilezione per il ritmo 3. centralità della cifra che sostituisce il nome come criterio di identificazione di un singolo che non è più individuo (inserimento nei codici numerici dell’elenco telefonico, valore di prova decisiva attribuito alla cifra dalla statistica come è evidente nei test). La tecnica come mobilitazione del mondo: il carattere di lavoro totale (dott. Claudia Giordano) Introduzione e definizione del tema Abbiamo visto fino ad ora come nell'Operaio Jünger descriva il declino dell'epoca dell'individuo borghese e come la prima guerra mondiale sia stata la prima devastante espressione di questo declino: «Lo scoppio della prima guerra mondiale traccia il largo e rosso frego conclusivo sull'ultima pagina di quest'epoca» (E. Jünger, L’operaio, tr. it. di Q. Principe, nuova ed., Parma 2000, p. 51). Nella prima guerra mondiale si è consumata l'estinzione di una particolare specie di uomini (i soldati eroi, quelli tesi all'assalto, quelli che pretendono che la guerra sia decisa dalle loro azioni), si è consumata la morte «dell'individuo come rappresentante di strutture indebolite e votate al declino» (L’operaio, p. 100). Ieri abbiamo anche visto come quando la specie umana dell'individuo muore, chi resta al fronte, chi combatte in trincea è il singolo in quanto espressione del tipo umano, ma il singolo nella sua tipicità non può morire nelle trincee, perché è sostituibile, intercambiabile. Jünger scrive che il «dissidio cosmico tra individuo e tipo umano che si è combattuto a Langemark porta con sé i simboli di un'era tecnica» (vedi L’operaio, p. 100). Quindi la prima guerra mondiale ha in sé i simboli dell'era tecnica: il tema di oggi è appunto quello della tecnica, come Jünger la intenda e come la comprensione del problema della tecnica ci consente di capire in modo definitivo il carattere di lavoro totale che solo corrisponde a quest'epoca. Analisi del tema della tecnica nell’Operaio 1. Jünger spiega in che modo intende la tecnica definendola, come aveva già fatto con la figura dell’operaio, in modo negativo, e mostrando la scarsa utilità ancora una volta delle categorie borghesi per comprendere l’essenza della tecnica: L'errore principale che Jünger attribuisce alla mentalità borghese consiste nel tentativo di vedere l'uomo sempre in contatto immediato con la tecnica: l'uomo o è creatore o è vittima del processo tecnico. Al contrario, secondo Jünger, «l'uomo è legato alla tecnica indirettamente e non direttamente", perché "la tecnica è il modo e la maniera in cui la forma dell'operaio mobilita il mondo» (L’operaio, p. 140). Questo significa: a) che esiste un rapporto specifico tra l'uomo e la tecnica (che il concetto di mobilitazione descrive) e che solo 88 nella misura in cui permane questo rapporto la tecnica è adeguata alla forma dell'operaio e non lo domina, ma resta a sua disposizione (in questo modo si esce dall'inevitabile aporia della concezione borghese dell’uomo come vittima-creatore del processo tecnico); b) ogni rappresentante di rapporti e di vincoli di ogni tipo, la cui sede è estranea al lavoro, non è coinvolto nel rapporto che l'operaio ha con la tecnica, poichè la tecnica esclude, aggredisce, distrugge tutti i rappresentanti di rapporti che sono estranei all'ambito del lavoro. Più avanti Jünger scrive che la forma dell'operaio «promuove la Mobilitazione Totale, così come distrugge tutto ciò che ostacola la mobilitazione » (L’operaio, p. 141) l'era tecnica si compie necessariamente attraverso una fase distruttiva che Jünger descrive. È necessario a questo punto chiarire il concetto di mobilitazione totale, per vedere proprio come la guerra sia l'espressione di questo potere inizialmente distruttivo della tecnica rispetto al mondo borghese. In La mobilitazione totale (1930), il saggio che precede L'operaio Jünger riferisce questo termine ad un cambiamento avvenuto in ambito militare. Ancora una volta, la prima guerra mondiale ha segnato un punto di svolta decisivo in un processo che Jünger descrive attraverso due passaggi: dalla mobilitazione parziale si è passati a quella generale, e poi da quella generale si è passati alla mobilitazione totale. Vediamo come. Dalla mobilitazione parziale a quella generale: Finché le guerre hanno richiesto alle nazioni un dispiegamento minimo di truppe e finché questo sforzo ha lasciato fuori la popolazione si è trattato di mobilitazione parziale. La mobilitazione parziale rispondeva anche all'essenza della monarchia, che rifiutava di ammettere che alla preparazione militare possano partecipare anche quelle formazioni astratte che sono l'intelligenza, il denaro, il popolo, cioè le forze nascenti della democrazia nazionale. Ma questo era un processo ormai inevitabile: la difesa armata del paese non poteva restare obbligo e privilegio delle caste militari. Il cambiamento si è avuto già con la Rivoluzione francese che ha richiesto per la difesa nazionale la partecipazione di tutti i cittadini: con l'introduzione della coscrizione obbligatoria si è passati alla mobilitazione generale. Dalla mobilitazione generale alla mobilitazione totale: Solo quando si è reso indispensabile allargare la partecipazione all'insieme delle volontà e degli strumenti, a tutti, civili e soldati, uomini e donne (nella prima guerra mondiale, per la prima volta, il lavoro delle donne nelle fabbriche sarà determinante e sostituirà il lavoro degli uomini impegnati al fronte), solo allora si può parlare, per Jünger di mobilitazione totale. È la guerra dei materiali, che vede uno di fronte all'altra non più grandi eserciti ma grandi potenze industriali, infiniti sforzi produttivi: il fronte della guerra e il fronte del lavoro sono identici perché è solo grazie all’attività incessante che gli operai svolgono nelle fabbriche che i soldati possono continuare a sopravvivere in trincea, perché è la disponibilità delle nazioni ad uno sforzo produttivo infinito a determinare la sorte dei combattimenti. La stessa rappresentazione della guerra è 89 cambiata: non è più soltanto un'azione armata ma un gigantesco processo di lavoro, perché non c'è più nessuna attività che non sia destinata all'economia di guerra. «La mobilitazione totale, più che compiere cose, si realizzerà, essendo l'espressione, in tempo di pace come in tempo di guerra, di un'esigenza segreta e costrittiva alla quale ci sottopone questa era di masse e macchine. Ogni esistenza individuale diventa quindi, senza che il minimo equivoco possa più conservarsi a lungo, un'esistenza da Operaio, alla guerra dei cavalieri, a quella dei sovrani, succede la guerra dei lavoratori - e il primo grande confronto del XX secolo già ci ha fornito uno scorcio di quelli che ne sarebbero la struttura razionale e l'impietoso carattere » (E. Jünger, La mobilitazione totale, in M. Decombis, Ernst Jünger. L'«ideale nuovo» e la «mobilitazione totale», Edizione del Tridente, 1981, p. 176). 2. La forma dell'operaio, dovendo promuovere la mobilitazione totale, deve distruggere ciò che la ostacola: «l'epoca volta al futuro divora l'epoca declinante» (L’operaio, p. 141). Che cosa si estingue necessariamente nell'epoca della mobilitazione totale? Si estinguono le monarchie nazionali, le antiche istituzioni statali, che sono crollate «come castelli di carte» (L’opeario, p. 142) per i motivi che abbiamo già visto sopra parlando della mobilitazione totale; si estingue la casta aristocratica che ha conservato, anche nell'epoca della coscrizione obbligatoria il suo esclusivo valore militare perché, come abbiamo più volte visto nel corso delle lezioni, il borghese non è adatto per sua natura alla guerra, perciò si fa rappresentare da una casta di guerrieri, ma questa casta non è più capace di corrispondere alla nuova natura della guerra, come guerra dei materiali. Dopo la guerra, in tempo di pace, è ormai chiaro che la condotta di vita borghese non è più possibile, infatti «l'elementare si è insinuato nello spazio vitale» (L’operaio, p. 143) e solo l'operaio sa stabilire un rapporto con questa nuova forza. Si estingue inoltre la fede cristiana, infatti tutti i tentativi che la Chiesa ha compiuto per parlare il linguaggio della tecnica sono solo un mezzo per accelerare il suo declino, nel processo di secolarizzazione. Esempio lampante è la Sagrada Famiglia: anche le chiese si vogliono costruire con i mezzi della tecnica moderna, cioè con i mezzi tipicamente anticristiani, dimostrando una falsità che è evidente sin nell'ultimo mattone, perché è completamente assurdo edificare ancora simboli dell'eterno. La Sagrada Famiglia è «un mostro romantico» (L’operaio, p. 168). Si è estinta la «religione popolare del XIX secolo, cioè l'adorazione del progresso» (L’operaio, p. 145). La tecnica è vista dal borghese come strumento del progresso, sempre riconducibile ad un piano di compiutezza razionale ed etica. In nome della ideologia del progresso il mondo borghese ha giustificato l'uso delle armi più devastanti: «la violenza delle armi è solo un incidente deplorevole e del tutto eccezionale, come un mezzo per addomesticare barbari non civilizzati dal progresso» (L’operaio, p.146), si dice che il loro uso serve a liberare i popoli, ma quello che hanno prodotto «non è stato un ordine universale ma una nuova distribuzione dello sfruttamento» (L’operaio, p. 146). Questo ha reso evidente tutta l'assurdità dei provvedimenti, degli armistizi tesi a mantenere l'ordine e a difendere 90 l'autodeterminazione dei popoli ( il riferimento esplicito è alla prima guerra mondiale, alla Società delle Nazioni, alle durissime riparazioni di guerra imposte alla Germania). Ma il «dominio di questi negoziatori, diplomatici, avvocati e affaristi è solo apparente» perché ovunque nel mondo scoppiano guerre che prima o poi faranno saltare in aria «tutto questo polverume»; e se la Germania ancora non c'è riuscita, è solo perché non ha avuto «una classe dirigente capace di parlare il linguaggio elementare del comando» (L’operaio, pp. 146-7). Dunque un intero mondo è in declino: la rivoluzione che è iniziata con la prima guerra mondiale e che è proseguita in tempo di pace è così profonda perché ha raggiunto anche le forme di vita più originarie e primitive. L’esempio che fornisce Jünger è quello del contadino; infatti la resistenza che egli tenta di opporre alla tecnica è vana, la libertà che i contadini rivendicano non è più possibile: «Il podere che viene lavorato con le macchine e fertilizzato con l'azoto artificiale delle fabbriche non è più lo stesso podere di prima. Non è vero perciò che l'esistenza del contadino è atemporale e che i grandi mutamenti passano sopra la zolla come il vento e le nubi» (L’operaio, p. 149). 3. Mentre ci sono tutti i sintomi di un inevitabile tramonto dell'epoca borghese, dopo la prima guerra mondiale «i simboli della tecnica hanno raggiunto i più lontani angoli del globo terrestre (…). Dove il linguaggio di questi simboli, tutto aderente ai fatti, fa il suo ingresso, là viene meno l'antica legge della vita; essa viene respinta dalla realtà nella sfera romantica - ma occorrono occhi speciali per vedere qui più che un processo di puro annientamento» (L’operaio, pp. 143-4) È questo un passaggio cruciale: sotto le rovine del vecchio mondo si nasconde una nuova possibilità di vita, e l'annientamento, la distruzione del vecchio mondo che Jünger sta descrivendo non è che la fase di transizione. L'annientamento, la distruzione sono soltanto ciò che appare in superficie. Nella prima guerra mondiale si è mostrato «un senso che nessun prodigio di delucidazione è riuscito a dominare » (La mobilitazione totale, p. 192). Di questo senso è segno «l'entusiasmo dei volontari in cui risuonò potentemente la voce del daimon tedesco e si allearono il disgusto dei vecchi valori e il desiderio incosciente di una nuova vita ». (La mobilitazione totale, p. 192). Ma occorrono occhi speciali per vedere ciò che c'è oltre questo processo di distruzione. Occorre quella nitidezza della vista di cui parlava nella prefazione all’Operaio del 1932. Non dobbiamo farci ingannare, per Jünger, dal paesaggio da officina che domina le nostre città (L’operaio, p. 154). Lo spettacolo delle nostre città ferisce lo sguardo, perché tutto è ancora mutevole, tutto ci sembra che venga prodotto per essere superato. Non c'è niente di stabile, nell'architettura, nel modo di vivere, nel lavoro (che è sempre parziale perché sono variabili i mezzi). Le città con «i loro fili telegrafici e i loro gas di scarico, con il loro rumore e la loro polvere, con le loro innovazioni che ogni dieci anni trasformano completamente il loro volto, sono gigantesche officine di forme» (L’operaio, p. 154). Il paesaggio è ancora privo di forma, è segno che il dominio della tecnica non ha ancora raggiunto il suo assetto definitivo. «Ciò che manca alle opere che edifichiamo è proprio la forma, è la 91 metafisica (…). Viviamo in uno strano periodo nel quale non c'è più domino e non c'è ancora dominio» (L’operaio, p. 169). Tuttavia si è in qualche modo già entrati nella «seconda fase del processo tecnico» (L’operaio, p. 169), quella costruttiva che segue la distruzione. Per descrivere il nuovo assetto tecnico del mondo (per descrivere cioè «le forme di un mondo trasformato», che era l'intenzione espressa nella prefazione del 1932) occorrono occhi speciali. Jünger “prevede” che cosa accadrà quando la tecnica avrà raggiunto il dominio planetario. Quell'assetto planetario lo descrive in termini di perfezione. Perché? La tecnica, si è visto, non è lo strumento del progresso perciò la sua perfezione non è il compimento di un processo di evoluzione, non può esserlo per Jünger. A noi sembra che ci sia anarchia perché continuiamo a pensare che ogni cosa sia destinata ad essere superata all'infinito, perché crediamo ad un'evoluzione assoluta (L’operaio, p. 153), alla possibilità di infiniti modi di essere. Ma non ci rendiamo conto che proprio l'esistenza dell'infinito dipende dall'impotenza dell'intelletto, dalla sua incapacità di concepire grandezze superiori al contesto spaziotemporale. «Ciò che l'intelletto non vede è il fatto che questo infinito, questo tormentoso “che cosa viene poi?” è stato creato unicamente da esso» (L’operaio, p. 152). La perfezione della tecnica non fa pensare ad un'ulteriore evoluzione, essa esprime non infiniti ma un modo d'essere determinato: «La perfezione della tecnica non è altro se non uno dei segni destinati a connotare il movimento conclusivo della Mobilitazione Totale in cui siamo coinvolti » (L’operaio, p. 158) L'ordine della perfezione della tecnica che, ancora una volta, non è il termine ultimo di un progresso, non determina il progresso, perché «nessuna evoluzione è in grado di trarre dall'essere più di quanto in esso sia contenuto » (L’operaio, p. 153), è un ordine invariabile che ha fatto subentrare ad «uno spazio dinamico e rivoluzionario uno spazio statico e sommamente ordinato» (L’operaio p. 159). 4. Così come il modo di pensare borghese si illude di poter ricondurre il movimento della tecnica a quello del progresso, di usare la tecnica ai fini di un progresso razionale e morale (e nella prima lezione Simona ci ha mostrato come il culto della razionalità e della moralità sia lo strumento che il borghese utilizza per difendersi dall'irruzione dell'elementare, del pericolo dal proprio spazio vitale), questo tipo di logica induce a pensare alla tecnica come ad una forza neutrale. Ancora una volta siamo di fronte ad un'apparenza: «La tecnica non è dunque affatto una forza neutrale, non è un serbatoio di mezzi efficaci o comodi dal quale una qualsiasi delle forze tradizionali possa attingere a sua discrezione. Proprio dietro quest'apparenza di neutralità si cela piuttosto la misteriosa e seducente logica con cui la tecnica è disposta a mettersi al servizio degli uomini. Questa logica si fa sempre più lampante e irresistibile in proporzione all'impulso con cui lo spazio del lavoro guadagna totalità» (L’operaio, p. 148) Solo quando la tecnica avrà conquistato l'universo sarà possibile un dominio totale sulla tecnica stessa, solo quando lo spazio e il tempo del lavoro saranno diventati uno spazio e un tempo totale. Ma il mondo si è già avviato a questa unificazione dello spazio operata dalla tecnica. La tecnica mobilita il mondo perché non lascia nessuna 92 energia, umana, naturale, a riposo. La tecnica è linguaggio, non distrugge solo i simboli del vecchio mondo, ma ha dei simboli propri. La forza di questo linguaggio consiste nel fatto che esso è comprensibile a tutti, i suoi segni e i suoi simboli sono comprensibili in virtù della loro semplice esistenza. Quello della tecnica non è tanto il linguaggio che funge da 'traduttore' per la comunicazione globale, ma è «l'unica lingua parlata da tutti perché immediatamente comprensibile» (Bonesio, Resta, Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell'era dei Titani, Mimesis, Bologna 2000, p. 93). È un unico stile che si diffonde su scala planetaria, che si esprime nell'abbigliamento, nel trucco delle donne. Anche l'arte deve esprimere la totalità del modo in cui viene pensata la vita. Tutto diventa materia dell'arte. 5. Solo l'operaio può esercitare il dominio della tecnica, solo l'operaio è all'altezza di quello stile e di quel linguaggio. Alla fase di distruzione, dell'anarchia apparente, del paesaggio da officina segue una fase di «ordine reale e visibile, e ciò avviene quando giunge al dominio quella razza che sa parlare il nuovo linguaggio non come strumento puramente intellettuale, come tramite di progresso, di utilità, di comodità, ma come linguaggio elementare» (L’operaio, p. 151). Questa razza, che per Jünger non ha assolutamente un carattere biologico, è quella dell'operaio. Solo l'operaio è in grado di padroneggiare le forze che sono state sconsideratamente scatenate, esercitando un dominio sulla tecnica in modo tale da non esserne dominato. Solo l'operaio usa la tecnica (la tecnica è dunque un mezzo) e la mette al suo servizio. Il dominio dell'operaio è il regno del lavoro totale, che ha investito anche il mondo della natura, gli animali, le piante come un processo eterno e universale : il lavoro è totale quando «non c'è un solo atomo che non sia al lavoro» (TM, p. 89) Cade la distinzione tra mondo organico e mondo inorganico, tra natura e tecnica, come era caduta la distinzione tra città e campagna: «l'ingresso nel mondo della forma modifica totalmente la vita, e non soltanto nelle sue parti » (L’operaio, p. 211): l'uomo si sente tutt'uno con i propri mezzi, perché quella contrapposizione e ostilità in cui fino ad ora era stato concepito il rapporto con i mezzi era segno di una «mancanza di totalità» (L’operaio, p. 211). Ma «questa distinzione tra meccanico e organico secondo piani di valore è uno dei connotati dell'esistenza indebolita, la quale soggiace agli assalti di una vita che si sente tutt'uno con i propri mezzi in virtù di quell'ingenua sicurezza con cui l'animale si serve dei propri organi » (L’operaio, p. 211). Il carattere totale del lavoro risiede nel suo poter inglobare tutte le aspirazioni umane, è l'espressione più completa della vita ( e la vita è completamente fusa con i mezzi di cui dispone). Lo spazio investito dall'azione dirompente dell'operaio assume una configurazione unitaria, planetaria. È interessante l'osservazione che fanno Caterina Resta e Luisa Bonesio, studiose di Jünger, sulla differenza tra l'operaio di Marx e l'operaio di Jünger, per comprendere il carattere radicale, totale appunto del lavoro: «se l'operaio marxiano, pur nel suo essere rappresentante di una determinata classe, incarnava tuttavia il desiderio di riappropriazione di sé del genere umano - da cui il carattere internazionalista del movimento rivoluzionario che avrebbe dovuto affermarsi a livello mondiale - le 93 istanze universalistiche e mondializzanti dell'operaio jüngeriano sono certamente ancora più radicali e cogenti. Avendo abbandonato ogni residuo 'ideologico', questo operaio si mostra infatti come il rappresentante di una nuova umanità che non ha più crediti né bandiere, perché ha riconosciuto nella tecnica quella potenza primordiale al cui servizio è necessario mettersi per esercitare un dominio su scala planetaria. La liberazione del lavoro non si tradurrà nella ricerca di un lavoro disalienato e tanto meno nell'utopia di una finale liberazione dal lavoro: l'obiettivo finale dell'Operaio è piuttosto quello di riconoscere nel carattere totale del lavoro l'insuperabile orizzonte in cui esplicare il proprio dominio» (Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell'era dei Titani, cit., p. 85). Insuperabile orizzonte, appunto. Non c'è altro oltre il lavoro, non c'è più nessuna dimensione della vita che possa sottrarsi al lavoro. La mobilitazione totale, ha avvertito Jünger, ha cancellato tutto ciò che la ostacolava. La fase distruttiva della mobilitazione ha sgomberato la vita da tutto quello che poteva impedire l'avanzare del nuovo. Dopo non c'è altro. Non è nemmeno possibile pensare ad un dopo, perché altrimenti ritorneremmo a pensare nei termini di progresso e regresso, di evoluzione. La forma dell'operaio, ha osservato Agostino Carrino, si fa promotrice di «un nuovo dominio, un nuovo ordine, di una nuova comunità in grado di restituire il senso non del progresso storicistico del mondo (oggi messo in crisi e caduto in discredito) ma della struttura e dell'orizzonte permanente, metapolitico e metastorico delle cose» (A. Carrino, L'Operaio di Ernst Jünger tra tecnica e dolore, «Democrazia e diritto», 1993, n. 1, pagg. 169-182. p. 181) 6. L'accettazione dell'ordine, l'identificazione nella totalità organica è la massima e unica libertà possibile. La razza superiore di cui l'operaio, come tipo umano, è rappresentante, accetta pienamente l'uniformizzazione, l'incorporazione nella totalità organica e nell'ordine gerarchico, accettare l'uniformizzazione, anzi provocarla rappresenta un reale atto rivoluzionario rispetto alle apparenti rivoluzioni borghesi. È solo in questo modo che il lavoro totale soddisfa autenticamente il desiderio di libertà e la volontà di forza, che invece il mondo borghese ha concepito solo in maniera astratta. Solo prendendo parte ad un'attività che si dispiega in modo del tutto corrispondente alla forma dominante, alla forma dell'operaio si può avere il sentimento della libertà. Bisogna dunque essere all'altezza dei mezzi, e «servirsene come di strumenti naturali e dati in partenza per dominare il mondo e dare ad esso forma» (L’operaio, p. 212). «Non è protestando contro la sorte, bensì accettando il destino, che egli (l'operaio) potrà liberarsi. L'avvento dell'operaio si farà unicamente attraverso lo stabilirsi del regno del lavoro». (M. Decombis, Ernst Jünger. L'«ideale nuovo» e la «mobilitazione totale», Edizione del Tridente, 1981, p. 143). Per Decombis è nel descrivere in positivo il dominio dell'operaio, nell'individuare nel tipo umano il nuovo dominatore del mondo che Junger passa dal piano metafisico a quello politico. Fino a quando dice che sotto le rovine del vecchio mondo si nasconde una nuova possibilità di vita, ma che essa va considerata secondo la forma, è rimasto 94 nei limiti della «speculazione pura». Quando però sostiene che è solo l'operaio a poter compiere una simile rivoluzione passa dal piano teorico a quello politico. È il rappresentante di un nuovo Stato. Ma questo nuovo Stato non ha niente a vedere con le strutture borghesi, si estende dal piano nazionale a quello internazionale, anzi planetario. Lo vedremo nel prossimo incontro. Dalla democrazia liberale alla democrazia del lavoro: lo Stato planetario. dott. Simona Giacometti Abbiamo fin qui analizzato i passaggi in cui Jünger teorizza e verifica nel concreto della fisionomia della società del XX secolo la progressiva dissoluzione dell’individualità borghese. Nella scorsa lezione Claudia ha chiarito la specifica definizione jüngeriana di tecnica come “il modo e la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo”. In quest’ultimo intervento è necessario sviluppare un altro passaggio centrale della riflessione di Jünger, non solo nelle pagine de L’operaio ma nel suo intero percorso di pensiero. Nella conversazione con Gnoli e Volpi del 1995 accenna alla sua idea di uno Stato mondiale: “Lo stato mondiale è il punto verso il quale tende l’organizzazione politica della umanità. Esso sancirà sul piano politico la globalizzazione già avviata dalla tecnica e dall’economia planetarie. Anche senza eliminare gli Stati nazionali, lo Stato mondiale ne assorbirà il potere centrale. La tecnica, in quanto fenomeno universale, cosmopolitico, che spinge inesorabilmente alla globalizzazione, prepara lo Stato mondiale e, anzi, in una certa misura lo ha già realizzato. Lo Stato mondiale ne è il corrispettivo politico” (A. Gnoli – F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano, 1997, pp. 66-67). L’unificazione tecnica del mondo richiede necessariamente un ordinamento politico che possa corrisponderle. Già precedentemente abbiamo avuto modo di chiarire come per il borghese “il pericolo d’aggressione è rappresentato dalla mera esistenza di quei modi non borghesi di vivere” (E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, a cura di Q. Principe, Parma, 1991, p. 46). Su quest’idea l’autore ritorna quando chiarisce che il mero fatto dell’esistere e dell’aggregarsi di una determinata stirpe d’uomini rappresenta una congiura rivolta contro lo Stato in un senso specifico e cioè “non per cercare di porre barrire difensive alla libertà contro lo Stato, ma nel senso che un nuovo e diverso concetto di libertà, di cui dominio e servizio sono sinonimi, deva fondersi e farsi tutt’uno con lo Stato inteso come il più importante e il più profondamente incisivo strumento di trasformazione” (Ivi, p. 217). Ancora vi richiamo ad un concetto già illustrato in precedenza: la società come spazio borghese per eccellenza entro il quale l’uomo si struttura come individuo nell’esercizio dei suoi diritti. Si tratta di un ordine orizzontale tipico del contratto sociale in cui l’individuo entra con gli altri contraenti – titolari degli stessi diritti- in una relazione che in qualsiasi momento può decidere di interrompere. Caratteristica 95 del borghese in relazione alla sua idea di spazio sociale la “preoccupazione del borghese di vedere lo Stato, che si fonda su una gerarchia, come una società retta dal principio basilare dell’uguaglianza e fondata mediante un atto della ragione” (Ivi, p. 47). In uno scenario così profondamente modificato dall’affermazione del carattere di lavoro totale, anche l’immagine dello Stato deve essere di tutt’altra natura rispetto a quella elaborata dal borghese. Jünger, teorizzando una distinzione di rango tra il borghese e l’operaio, ha chiarito fin dall’inizio che “se si vuole osare un nuovo attacco, questo può essere sferrato solo in direzione di nuovi fini” (ibid., p. 31). È questa la ragione per cui, al di fuori di qualsiasi prospettiva evoluzionistica, “l’energia essenziale del tipo umano è richiamarsi ad un altro presente, ad un altro spazio, ad un'altra legge, tutte realtà il cui centro è la forma” (ibid., p. 125); la prima tappa dell’affermazione di un’immagine nuova dello Stato richiede quindi il radicale superamento della precedente. Disperati tentativi di resistenza da parte del borghese che, se in precedenza appariva come il beneficiario di una cosiddetta rivoluzione, ora assume tutte le caratteristiche dello scudiero della restaurazione che propugna “ “rivoluzionarie formulazioni”, la monarchia legittima e l’articolazione “organica”come scopi della politica interna, nonché un’intesa con tutte quelle forze dalla cui esistenza è assicurato il perpetuarsi del cristianesimo o dell’Europa, e quindi anche del mondo borghese” (ivi, p. 219). L’esito della prima guerra mondiale è riconoscibile nella liquidazione dei grandi imperi e nell’affermazione delle democrazie nazionali che disponevano della fisionomia e della costituzione adatte a ciò che era richiesto dallo schieramento bellico in campi contrapposti (esempio della Russia che, “sebbene schierata al fianco delle potenze vincitrici, non poteva a nessun patto vincere la guerra” [ivi, p. 221]). L’affermazione del modello democratico-liberale fu evidentemente lo scopo della guerra anche in considerazione del fatto che, laddove - negli Imperi - non era già realizzato, s’impose per via rivoluzionaria: “La guerra suscita rivoluzioni, e i rapporti di forza modificati dalle rivoluzioni mettono di nuovo in moto azioni di guerra” (ivi, p. 222). Nonostante la loro sopravvivenza al conflitto, è evidente nella struttura delle democrazie nazionali l’assenza di un autentico ordine confermata anche dalla circostanza per cui “anche nel comportamento di uno Stato nei confronti dell’altro viene alla luce quell’elemento anarchico individualistico che è proprio di ogni istituzione ispirata al liberalismo” (ibid.). Questa diagnosi non può sorprenderci se pensiamo alla dinamica – già illustrata in precedenza - per cui il borghese, respingendo dal proprio spazio tutto ciò che non può essere disciplinato a partire dai principi di moralità e razionalità, ne rimane vittima perché proprio con la stessa intensità con cui egli esclude l’elementare all’esterno, questo fa irruzione nel cuore dell’ordine borghese. 96 “La fine della guerra mondiale non ha saputo dare al mondo un’autentica forza di dominio” (ibid., p. 223) nel momento in cui l’estensione dei diritti universali dell’uomo e del principio di autodeterminazione dei popoli a chiunque avesse partecipato alla crociata della civiltà umana contro la barbarie metteva in moto energie ingovernabili (emancipazione dei popoli di colore). Lo scenario descritto è tanto più allarmante in quanto la democrazia liberale si vede aggredita con i suoi stessi metodi: “C’è una grande differenza tra il vedersi contrapposti principi ribelli, caste di guerrieri, popoli di montanari e bande di predoni, oppure avvocati che hanno ricevuto la loro educazione in università europee, membri del parlamento, giornalisti, uomini insigniti del premio Nobel [….]” (Ivi, 224). Nazionalismo e socialismo appaiono quindi agli occhi di Jünger disfunzioni del sistema borghese prodotte al suo interno. Solo in teoria il socialismo ha un carattere internazionale; l’atteggiamento delle masse di fronte alla prospettiva di un intervento in guerra ha dimostrato piuttosto che “non esiste più alcuna sostanziale struttura articolata dalla quale il singolo sia assorbito” (ivi, p. 227) e che il socialismo opera una mobilitazione di cui nessuna dittatura poté mai osare di farsi la più pallida idea. Si apre a questo punto la questione relativa alla natura di questo socialismo a cui Jünger guarda come ad una disfunzione del sistema borghese. Individuato il principio del socialismo nell’opposizione contro una certa specie di società articolata, quale che sia tale articolazione, l’autore fa valere la norma per cui “esso è tanto più vitale quanto meno l’avversario è incline a concessioni” (ivi, p. 230); in un contesto sociale così frammentato in singolarità disarticolate, l’obiettivo di iniziative ispirate al principio del socialismo è limitato alla semplice sostituzione delle forze liberali in un sistema che rimane borghese nella sua struttura essenziale: “In tal modo gli spetta non più il ruolo di avvocato difensore dei sofferenti, ma l’ingrato ruolo del loro guardiano” (ibid.). È evidente a questo punto che il socialismo di cui parla Jünger nei termini di una disfunzione del sistema borghese altro non è che la socialdemocrazia che nella sostanza ne riconferma la logica di base. Lo scenario di totale anarchia che si profila all’ebreo errante conferma come la strategia con cui il borghese esclude l’elementare dal suo spazio vitale procuri una sicurezza del tutto illusoria, “uno spazio giuridico puramente teorico tra le cui maglie si infiltrano forme di vita organica prodotte dal pantano” (ivi, p. 234). Di ciò i tratti più evidenti sono riconoscibili nella progressiva autonomizzazione dei singoli organi dello Stato, nella privatizzazione dei diritti di sovranità, nella costituzione di eserciti permanenti dal cuore dei partiti, nel fiorire delle organizzazioni. “La padronanza delle situazioni può esistere solo in virtù di forze che abbiano attraversato in lungo e in largo la zona della distruzione acquistando, proprio in quel transito, una nuova e diversa legittimazione” (ivi, p. 235). Il loro obiettivo è la sostituzione definitiva della democrazia liberale o sociale con la democrazia del lavoro o la democrazia di Stato. 97 Questa trasformazione è assai più di una restaurazione nel senso di una ripresa dell’autentica tradizione dello Stato piuttosto che un richiamo alla tradizione della società: “Sotto questo punto di vista la democrazia del lavoro è più intimamente affine allo Stato assoluto che alla democrazia liberale dalla quale sembra derivare” (ibid.). La costruzione organica dello Stato si differenzia dalla formazione dello Stato assoluto per essere qualificata dalla metafisica presente nel mondo del lavoro: “Da modo di vivere, il lavoro si trasforma in uno stile di vita” (ivi, p. 237). In questo nuovo spazio politico ogni trasformazione va letta come trasformazione degli organi della società in organi dello Stato, prima fra tutte la conversione degli organi del concetto borghese di libertà e degli istituti destinati ad educare l’opinione pubblica in grandezze di lavoro; “prosciugamento e bonifica di quel pantano della libera opinione in cui si è trasformata la stampa liberale” (ivi, p. 240) per la tendenza del borghese a trasformare i fatti in opinioni. L’affermazione del valore individuale di un’opinione o comunque di ogni espressione borghese è funzionale alla rivendicazione dell’autonomia del borghese esclusivamente nei confronti dello Stato: “Nel XIX secolo vengono a galla quei grandi e famosi affaires nei quali il giornalista riesce a trascinare lo Stato dinanzi al tribunale della ragione della virtù, anzi, nel suo caso, della verità e della giustizia, e ad avere successo” (ivi, p. 241). L’opinione pubblica si trasforma da opinione di una massa composta di individui al sentimento vitale di un mondo in sé pienamente concluso e fortemente omogeneo ed il suo linguaggio sarà preciso ed univoco proprio di uno stile matematico che aderisce perfettamente alla realtà. La qualità richiesta al giornalista è quella della precisione descrittiva, la sua interpretazione non deve offuscare il dato di cronaca (cfr. il protagonismo del primo attore sulla scena del teatro borghese). La lettura stessa non è un otium in senso classico, ma assume i connotati dello specifico carattere di lavoro come consente di verificare la semplice osservazione dei lettori nei mezzi di trasporto pubblico: “Osservandoli si coglie un’atmosfera allo stesso tempo vigile e istintiva cui si adatta un servizio d’informazione dotato di somma precisione e velocità” (ivi, p. 243). I mezzi di informazione tipici del XX secolo sono la radio e il film che non danno risonanza all’individuo come dice già il fatto che la voce è artificiale e l’immagine è fissata sulla pellicola dal raggio di luce, ma esprimono la tipicità dell’operaio che è in rapporto metafisico con questi mezzi. Il criterio a partire dal quale si valuta la qualità di un film è la padronanza con cui il registra utilizza i tipici mezzi cinematografici. 98 ESSENZA E STORIA DELLA METAFISICA IN HEIDEGGER dott. Ulderico Iannicelli per contatti: [email protected] Abbiamo visto nelle lezioni precedenti la critica che Heidegger opera della modalità di pensiero teoretico-oggettivante; si tratta ora di mostrare come tale modalità non sia sempre stata valida e quindi nemmeno sia l’unica possibile ma vada vista nella sua provenienza storico-destinale (poi giustificherò il concetto); ed è a questo fine che mira la Distruzione della storia della metafisica come ontologia da Heidegger progettata fin da Essere e Tempo, se non prima. Vanno però poste due premesse rispetto al modo in cui Heidegger intende tale distruzione: Essa non ha innanzitutto un carattre meramente negativo-distruttivo; il termine che Heidegger usa è infatti Destruktion, da intendersi piuttosto nel senso di “decostruzione”, cioè un dipanare le concezioni dell’essere che ne hanno via via fatto perdere il luogo originario della sua scaturigine. Ed in seconda istanza proprio la riconduzione del senso dell’essere a tale luogo originario; la storia della metafisica non è infatti concepita da Heidegger in maniera meramente storiografica, cioè come un semplice susseguirsi di opinioni filosofiche aventi una qualche concatenazione ed una influenza sul presente, ma che quanto a se stesse sono irrimediabilmente “passate”. Heidegger ritiene invece che la metafisica abbia una sua essenza peculiare e costante che si ripete di volta in volta pur nelle diverse modalità del suo dispiegarsi. Tale essenza, liberata dai modi di corrispondere ad essa che la occultano, non va semplicemente compresa e messa da parte ma costituisce proprio ciò che il pensiero deve sempre di nuovo ripensare e precisamente il senso dell’essere, sia pure in maniera non occultante. Heidegger definisce perciò la storia della metafisica come storia dell’essere (il senso dello storico-destinale). Intendo perciò chiarire innanzitutto in cosa consista tale essenza della metafisica, per poi analizzarne il decorso storico. 99 A tal fine possiamo seguire da vicino un breve scritto di Heidegger del ’29, che s’intitola appunto Che cos’è metafisica. Qui Heidegger si interroga sull’essenza della metafisica a partire dal suo compimento nelle scienze che poi vedremo nella parte storica. Basti per ora dire che se la metafisica consiste per Heidegger nel progressivo obliare il differire dell’essere da ogni ente possibile (ciò che Heidegger chiama la differenza ontologica), le scienze, in quanto hanno di mira solo più l’indagine sull’ente a partire dall’ente stesso e in vista di un suo padroneggiamento, ne costituiscono il compimento. In particolare Heidegger prende qui le mosse dal modo in cui la scienza affronta il problema del nulla (o niente – das Nichts), il quale emerge proprio nel modo in cui la scienza definisce se stessa in base al proprio campo d’indagine: cioè, si dice, “le scienze sono scienze dell’ente e di nient’altro”. Da ciò l’atteggiamento ambiguo della scienza nei confronti del nulla: da un lato esso, come mera nullità, niente vuoto, è ciò che non fa problema e di cui non si può nemmeno parlare; dall’altro la scienza ha bisogno di chiamarlo in causa per definire se stessa. Ma al di là del disinteresse della scienza, ciò che ad Heidegger preme mostrare è come essa sia di fatto impossibilitata per essenza a tematizzare il nulla; se infatti domandiamo del niente in maniera tradizionale, cioè oggettivante, chiedendoci “che cos’è il niente”, lo assumiamo appunto come qualcosa che “è”, cioè come un ente; eppure, se c’è una cosa di cui siamo certi fin dall’inizio è che il niente è ciò che differisce da ogni ente e lo siamo sulla base del principio di non contraddizione: “ciò che non è non può essere”, per la logica sarebbe contraddizione in termini. La scienza ed il suo “strumento”, la logica, non possono andare oltre, tutt’al più possono far scaturire il niente dalla negazione come atto dell’intelletto che viene poi ipostatizzato in maniera cosale. Ma Heidegger intende mostrare esattamente il contrario, cioè come il nulla sia più originario del “non” della negazione. E tuttavia, se il nulla precede qualunque negazione puramente logica, come o dove esso si dà a vedere? Come è possibile tematizzarlo? Bisogna qui tenere presente quanto detto nelle lezioni precedenti, e cioè che per Heidegger la filosofia – ma il conoscere in generale, anche quello scientifico – è radicato nella vita, ha in ultima analisi origini esistenziali. Come aveva già fatto in Essere e Tempo Heidegger ricorre pertanto alla situazione emotiva dell’angoscia in cui è secondo lui possibile “fare esperienza” del nulla, non “oggettivarlo” dunque. Nell’angoscia infatti facciamo esperienza del fatto che non c’è più niente a cui possiamo aggrapparci perché tutto sprofonda nella più totale insignificanza, niente può essere più per noi punto di riferimento. 100 Ma tale esperienza non è puramente negativa, poiché il “nientificare” questo o quell’ente concreto pone l’Esserci di fronte all’ente nella sua totalità, cioè all’ente in quanto tale che diventa ora problematico quanto al suo senso. Ora, il problema del senso dell’ente in quanto tale, che non può essere come si vede un problema relativo a questo o a quell’ente specifico, è proprio ciò che Heidegger intende tematizzare nella sua domanda sul senso dell’essere. Il nulla pertanto, come nulla di ente, nulla che sia ente, coincide con l’essere stesso. Heidegger dirà che “il nulla e l’essere sono la stessa cosa”. Questo andare oltre la totalità dell’ente in direzione del suo essere in quanto “nulla di ente” è ciò che Heidegger chiama trascendenza in cui consiste la motilità propria dell’Esserci. L’Esserci cioè non può essere considerato alla stregua di tutte le altre cose come semplici presenze, ma ha come sua possibilità più propria quella di trascendere l’ente chiedendone il senso. Si vede pertanto come l’evidenza del predominio della logica non sia nulla di scontato, ma si basa su una decisione metafisica di fondo circa il modo di intendere l’ente e il suo possibile modo di darsi all’apprensione. Ma allora bisogna chiedersi ancora una volta: “che cos’è metafisica?” Abbiamo visto la trascendenza essere per Heidegger quel decisivo modo di essere dell’Esserci per cui, a partire dall’esperienza del nulla, la totalità dell’ente viene appunto trascesa in direzione del suo essere; ora, ci si potrebbe chiedere, la metafisica non fa proprio e da sempre questo? Non è essa quell’andare oltre (metà) l’ente verso il suo essere? E la risposta è che la metafisica domanda certamente e nomina sempre l’essere dell’ente, ma lo concepisce poi di fatto sempre a partire dall’ente stesso, cioè come “essentità” dell’essente (Seiendheit, come Heidegger traduce l’ousìa), e ciò in un duplice senso: “La metafisica si muove nell’ambito dell’ . La sua rappresentazione è diretta all’ente in quanto ente. In tal modo la metafisica rappresenta ovunque l’ente come tale nella sua totalità, l’enticità dell’ente (l’ dell’). Ma la metafisica rappresenta l’enticità dell’ente in due modi: da un lato la totalità dell’ente come tale nel senso dei suoi tratti universali ( , ), dall’altro la totalità dell’ente come tale nel senso dell’ente sommo e quindi divino ( , , )” (M. Heidegger, Introduzione a <<Che cos’è metafisica?>> in Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi., p. 330). La metafisica domanda dunque o dell’essenza dell’ente nel senso dei suoi caratteri generali nel senso delle categorie oppure nel senso dell’ente che ha in modo eminente i caratteri della 101 stabilità nella presenza ed è quindi “divino”, laddove l’essere come presenza è ciò che resta qui l’implicito non tematizzato in quanto tale. Tale risoluzione della questione dell’essere in quella dell’essente ha origine, secondo Heidegger; in Platone, nella sua determinazione dell’“essentità” dell’essente (ousìa) come idea. Essa è pensata a partire dall’esperienza greca dell’essere come physis, come ciò che da sé si schiude alla presenza ed in questa persistendo si mostra, lo “schiudentesi-permanente imporsi”; di questa l’idea conserva il carattere “sorgivo”, ciò che Heidegger evidenzia traducendola con “aspetto” (Aus-sehen, eidos), cioè il suo venire all’ “e-videnza”. Ma proprio in quanto così si mostra nella presenza (da cui deriva anche l’interpretazione temporale dell’essere come semplice presenza) essa si presta ad un impercettibile quanto decisivo spostamento d’accento da ciò che da sé si mostra al suo “stare di contro” ad un vedere e vedremo in che modo ciò comporti un nuovo senso della verità. La domanda sull’essere diventa dunque il definitorio tì estin, il “che cos’è” nel senso del tutto ontico di ciò che si mostra ad un vedere. L’ousìa, l’essenza, acquista a sua volta un duplice senso che sarà canonico per tutto il corso della storia della metafisica: Da un lato essa indica il semplice fatto che una cosa è, nel senso che è presente, cioè indica il che è, il semplice èstin Dall’altro il che cos’è di questo stesso ente presente, il tì èstin nel senso dei caratteri generali dell’ente E tuttavia, a causa della preminenza accordata da Platone alla domanda sull’ousìa, sul che cosa, il semplice essere di una cosa ed il suo senso come presenza viene di fatto assorbito nella prima domanda e non interrogato in quanto tale. Non solo, ma ciò che nel senso greco dell’essere come physis era primario, cioè l’imporsi nella presenza dell’ente stesso che così si dà a vedere, scade ora al rango secondario. Spiega infatti Heidegger: “Dal momento, comunque, che l’essenza dell’essere è posta nella quiddità (l’idea), quest’ultima, in quanto costituisce l’essere vero e proprio dell’essente, diventa anche quanto vi è di più essente nell’essente. Essa è così, a sua volta, l’essente per eccellenza: . L’essere come è ora promosso al rango di essente per eccellenza, e l’essente stesso, che era dianzi il predominante, decade al livello di ciò che Platone chiama : ciò che propriamente non dovrebbe essere e, di fatto, anche propriamente non è, in quanto deforma sempre l’idea, la pura e-videnza, col realizzarla, con l’incarnarla nella materia” (M. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, ed it. a cura di G. Masi, Milano 1968, p. 189). In sintesi, in Platone si dà così il rovesciamento dei rapporti originari tra la cosa e la sua essenza a favore di quest’ultima. L’idea come essenza nel senso delle determinazioni generalissime dell’ente diviene quindi ciò che propriamente è, l’essente vero e proprio, ciò che è più essente nell’essente in quanto ha il carattere della presenza indefettibile e non è soggetto al divenire (l’òntos òn), mentre l’ente sensibile è posto in quella condizione paradossale di essere contemporaneamente qualcosa di essente e che tuttavia è un non essere (il mé òv), ciò in cui consiste tra l’altro l’onticizzazione del problema del nulla stesso. Il problema del senso dell’essere e con esso quello del nulla vengono così ridotti ad un puro niente di fatto e di problema, in quanto pur avendo di mira l’essere la metafisica lo pensa 102 sempre a partire dall’ente ed in quanto così pensa rimane per Heidegger essenzialmente una fisica. In ciò consiste il carattere essenzialmente nichilistico della metafisica, in quanto cioè essa avvia quel processo – che per Heidegger si compierà in Nietzsche – per cui dell’essere non ne è più nulla. Alla domanda metafisica fondamentale “perché vi è, in generale l’essere e non piuttosto il nulla”, ciò a cui essa risponde è solo la prima parte della domanda e per di più in senso ontico, cioè “perché vi è l’essente”, cioè sforzandosi di dare fondamento alla totalità dell’ente nel senso di assicurarsi della sua stabilità tramite il ricorso ad un ente sommo (per Platone l’Agathòn), da cui il carattere onto-teologico della metafisica. In ciò emerge anche l’origine in ultima istanza esistenziale della metafisica, cioè a dire il suo carattere reattivo nei confronti dell’esperienza spaesante del nulla quale si manifesta nell’angoscia, manifestazione a sua volta della radicale finitezza dell’Esserci. Ancorare il pensiero a qualcosa di stabile vuol dire infatti tentare, da parte dell’ente finito che è l’Esserci, precisamente di assolversi da tale finitezza, ma con essa anche dalla possibilità di operare quella trascendenza dell’ente verso il suo essere di cui si e detto, e ciò, come vedremo, non è senza conseguenze per lo stesso vivere concreto dell’uomo nell’epoca della tecnica in cui per Heidegger la metafisica si compie. II Ma si è detto che con Platone muta essenzialmente anche in senso della verità. Tale problema è affrontato da Heidegger nel corso del ’31-32 La dottrina platonica della verità, in cui si analizza il mito della caverna platonico. In effetti Heidegger riconosce come qui non si parli esplicitamente della verità, ma innanzitutto della paidèia la cui definizione platonica Heidegger traduce in questo modo : “la guida di tutto l’uomo nella sua essenza ad un mutamento di direzione”. Il mito parla dunque del soggiorno dell’uomo nella totalità dell’ente, ma il modo di tale soggiornare dipende per Heidegger da un rapporto dell’uomo – consapevole o no – con la verità dell’essere. Ora, tale soggiorno è caratterizzato da una serie di passaggi da un luogo all’altro, laddove però ciò non vuol dire passare per luoghi semplicemente diversi ma compiere un percorso ascendente verso gradi sempre maggiori della verità, ecco la relazione. L’uomo deve passare dunque da una condizione in cui dimora presso l’ente che innanzitutto gli è noto nella caverna, lo svelato, in greco tò alethès, ad un’altra in cui sia capace di vedere ciò che è più vero nel senso greco, cioè più svelato. Ragion per cui Platone si muove ancora entro l’essenza greca della verità. verità è a-letheia, s-velatezza di ciò che da sé si mostra. 103 E tuttavia, se l’uomo deve ora vedere innanzitutto la luce del sole (le idee), e poi il sole stesso (l’agathòn, l’idea delle idee), ciò ci cui c’è innanzitutto bisogno è una paidèia dello sguardo nel senso dell’educazione a vedere le idee. A questo punto, ciò che è innanzitutto necessario è guardare in modo corretto, dice Heidegger, ora “tutto dipende dall’orthòtes, dalla correttezza (Richtigkeit) dello sguardo” (ID., La dottrina platonica della verità, in Segnavia, cit., p. 185). I gradi della visione di cui parla il mito dipendono da un guardare via via più corretto, il quale giunge alla massima correttezza nella concordanza (omoiosis, che sarà poi tradotta nella adaequatio) tra il conoscere e la cosa stessa come idea. A questo punto, ferma restando l’inevitabile ambiguità di Platone, la verità perde il carattere della svelatezza per diventare correttezza dell’apprensione e dell’asserzione, quest’ultima già a partire da Aristotele. Cambia così, oltre all’essenza, il luogo stesso della verità, che d’ora in poi sarà lo stesso intelletto umano, ed è per questo che, dice Heidegger “l’inizio della metafisica nel pensiero di Platone è nello stesso tempo l’inizio dell’ umanismo”8 , in quanto l’uomo, ed in particolare tramite il suo intelletto, acquista un ruolo privilegiato nella totalità dell’ente: “Secondo questa interpretazione dell’ente, il venire alla presenza non è più, come all’inizio del pensiero occidentale, lo schiudersi di ciò che è velato nella svelatezza, dove è questa svelatezza stessa, in quanto svelamento, a costituire il tratto fondamentale del venire alla presenza. Platone concepisce il venire alla presenza () come . Questa, tuttavia, non è subordinata alla svelatezza, nel senso che, essendo al servizio dello svelato, lo porti all’apparire. E’ piuttosto l’apparire (il mostrarsi) a determinare che cosa, all’interno dell’essenza dell’apparire e solo in riferimento ad esso, possa ancora chiamarsi svelatezza. L’ non è il primo piano in cui viene esposta l’, ma il fondamento che la rende possibile. Eppure, anche così, l’ rivendica ancora qualcosa dell’essenza iniziale, ma ignota, dell’. La verità come svelatezza non è più il tratto fondamentale dell’essere stesso, ma, divenuta correttezza per essere stata soggiogata all’idea, d’ora in poi è il tratto distintivo della conoscenza dell’ente”9. In questo modo, oltre al già visto divario (korismòs) che si apre tra l’essere come idea (indefettibile presenza, aeì òn, òntos òn) e l’ente vero e proprio (mè òn), si apre anche l’abisso tra essere e pensiero; infatti, nonostante si dia la possibilità del loro rapportarsi, il pensiero dovrà sempre preliminarmente guadagnare un accesso all’essere; da ciò nascerà l’esigenza del “metodo”, che 8 9 Ibid., p. 190. Ibid., p. 188. 104 renderà possibile, in età moderna, qualcosa come un’analisi delle condizioni di possibilità della conoscenza stessa. Infine il lògos come raccoglimento, perdendo il suo ancoraggio alla physis, diventa per Aristotele solo più enunciazione, e quest’ultima il luogo unico del vero e del falso. Da qui è aperta la strada perché il lògos diventi la “logica” come strumento (organon) del pensiero rappresentativo moderno. ARISTOTELE Nel passare ad Aristotele può essere utile riportare un brano che Heidegger pone in apertura alla sua storia della metafisica nel Nietzsche e che forse andava posto in apertura; l’ho posticipato solo per ragioni di comodo e tuttavia credo che proprio nel passaggio da Platone ad Aristotele faccia emergere chiaramente cos’è qui in questione, dia cioè la prospettiva: “Ad avere valore di «ente» è il reale, l’effettivo. «L’ente è reale, effettivo». Questa tesi significa due cose. Anzitutto: l’essere dell’ente consiste nella realtà effettiva. Poi: l’ente, in quanto è il reale, è « realmente, effettivamente» – cioè in verità –l’ente. Il reale effettivo (das Wirkliche) è ciò che è effettuato (das Gewirkte) da un effettuare (Wirken), e tale effettuato è esso stesso, daccapo, efficiente (wirkend) ed efficace (wirkfähig). La «realtà effettiva» (Wirklichkeit) è spesso chiamata anche «esistenza» («Dasein»). (…) Nella parola «esistenza» (Existenz, existentia) l’essere, inteso come la realtà effettiva del reale, enuncia il suo nome più comune. «Realtà effettiva» (Wirklichkeit), «esistenza» («Dasein», « Existenz ») dicono nel linguaggio della metafisica la stessa cosa. (…) È oscuro, tuttavia, in quale misura l’essere si determini come realtà effettiva (Wirklichkeit) in base all’effettuare, operare (Wirken) e all’opera (Werk)”. (ID., Nietzsche, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano, 1994; pp. 863-64). Abbiamo visto il modo di domandare della metafisica in Platone in base alla distinzione tra “che cos’è” e “che è”. Ora, se l’ente vero viene oggi e da lungo tempo definito a partire dall’esistenza del reale effettivo e questo come l’opera di un effettuare da parte di qualcuno o qualcosa che effettua, ciò è dovuto proprio alla preminenza del “che è” sul “che cos’è” nella domanda sull’ousìa ad opera di Aristotele. Infatti, se Platone aveva conferito all’ousìa il carattere dell’idea come ciò che rende possibile che un ente sia quell’ente che è indipendentemente dal fatto che esso sia presente o meno, Aristotele darà invece la preminenza al “che è” pensando l’ousìa come enérgheia nel senso della presenza “in carne ed ossa” dell’ente, di cui il “che cosa” costituisce un aspetto secondario. La Scolastica, traducendo – in un modo che però secondo Heidegger ne tradisce il 105 senso originario – il “che cosa” con essentia nel senso della possibilità e il “che è” come enérgheia con existentia nel senso della realtà e mantenendosi fedele ad Aristotele nell’ordine dei rapporti, determinerà appunto l’imporsi e il dominare della concezione dell’ente come realtà effettiva. Si tratta allora di vedere il passaggio dall’idéa all’enérgheia. Come Platone, anche Aristotele pensa l’ente nell’ambito greco della physis come ciò che schiudendosi viene a stare nella presenza e si mostra così da sé nella svelatezza (aletheia) come senso originario della verità. Aristotele pensa ciò che è venuto a stare nella presenza come qualcosa che stando dinanzi è in qualche modo in quiete, ma la quiete, a sua volta, è pensata come un modo eminente del movimento (non in senso innanzitutto locale), ciò in cui il movimento si compie. Secondo Heidegger non fa differenza se ciò che si produce così nella presenza sia un ente naturale o un artefatto, per i greci entrambi sono concepiti come “enti da physis”. Anche dei poioumena, ciò che è decisivo non è il fatto che questi siano prodotti da un fare umano, ma innanzitutto il fatto che essendo stati così prodotti ora si impongono nella presenza. Nel termine greco enérgheia risuona infatti la parola érgon, (opera) che vuol dire appunto ciò in cui si compie il movimento del venire alla presenza e non innanzitutto l’effetto di un operare ( ivi., p. 867). Dice Heidegger: “L’érgon connota adesso il modo dell’essere presente. La presenza, ousìa, si chiama pertanto enérgheia: l’essere-essenzialmente-come-opera in opera (das imWerk als-Werk-Wesen, dove Wesen va inteso in senso verbale, o l’essere opera (Werkheit)” (Ivi., pp. 867-868). Aristotele infatti adopera a volte anche la parola entelécheia al posto di enérgheia, a indicare precisamente che il “Télos è la fine in cui si raccoglie il movimento del pro-durre e porre-lì, raccoglimento che rappresenta l’essere presente di ciò che è e ha finito (das Be- und Ge-endete), cioè del compiuto (dell’opera)” (Ibid.). Pertanto, per Aristotele presenza nel senso primario è dunque l’òti estìn del tòde tì, cioè il “che è” del “questo qui”, la presenza del rispettivo ente presente ( existentia), in senso secondario il tì estìn cioè il “che cosa” di cui si torna a domandare nell’ente presente ( essentia). È per questo che Heidegger dice di Aristotele che pensa più grecamente di Platone, in quanto ripone di nuovo la preminenza nel venire alla presenza e nella sveltezza del “questo qui” di volta in volta presente: “Ciò che Platone pensava come l’enticità () autentica e per lui unica dell’ente, ossia la presenza nel modo dell’ (), passa ora, in seno all’essere, al rango secondario. Per Platone l’essenza dell’essere si raccoglie nel x dell’ e quindi sullo , il quale tuttavia, in quanto è l’Uno unificante, resta determinato a partire dalla 106 e dal , cioè dal lasciar schiudersi che raccoglie. Per Aristotele l’essere riposa nell’ de . Partendo dall’, l’ può essere pensato come un modo dell’essere presente. Partendo invece dall’ , il , l’ente che rispettivamente è rimane incomprensibile nella sua enticità. (Il è un eppure un )” (Ivi., p. 870). Ora, quando la filosofia cristiana cercherà di servirsi di tali concetti per giustificare l’idea del mondo a partire dalla creazione, ne opererà di fatto una trasformazione in cui andrà perso il carattere originario della physis. Su Dio viene infatti trasposto il carattere di causa che già l’idéa possedeva, ma non più nel senso di essere ciò che rende un ente quell’ente che è, ma come causa efficiente che crea il mondo dal nulla come assoluta mancanza di ente. E Dio è anche l’ente sommo nel senso dell’eterna presenza. In questo modo l’ente non si determina più a partire dal suo venire a stare nell’evidenza della presenza, dall’enérgheia, ma come l’existentia nel senso dell’actualitas, cioè come l’effetto di una causa efficiente che ha il carattere dell’ operare, del fare, mentre l’idèa, diventata ora l’essentia, in quanto potentia, è ciò che non ha ancora il grado di realtà dell’ente effettivo: “Nell’inizio della metafisica l’ente in quanto è ciò che è presente nel suo esser prodotto. Adesso l’ diventa l’opus dell’operari, il factum del facere, l’actus dell’agere. L’ non è più ciò che è lasciato libero nell’aperto dell’essere presente, ma ciò che è operato nell’operare, ciò che è fatto nel fare. L’essenza dell’opera non è più l’essere opera (Werkheit) nel senso dell’eminente essere presente all’aperto, ma la realtà effettiva (Wirklichkeit) di un reale che è dominato nell’effettuare (Wirken) e che viene ingaggiato nel processo dell’effettuare. L’essere, andatosene via dall’essenza iniziale dell’ , è diventato la actualitas” (Ivi., p. 874). DA CARTESIO A NIETZSCHE Si è visto in precedenza il determinarsi del primato dell’esistenza come realtà effettiva ad opera del Cristianesimo tramite l’assunzione, che ne muta però l’essenza, del primato aristotelico dell’enérgheia sull’idéa, e abbiamo anche visto come fin dalla metafisica platonica si prepari per Heidegger l’umanesimo come preminenza dell’uomo nella totalità dell’ente. Ora, ciò che Heidegger intende mettere in luce è come la modernità propriamente detta – che per lui ha inizio con Cartesio – scaturisca a partire da un rivolgersi di alcune istanze della dottrina cristiana contro se stessa: 107 Da un lato, infatti, il definire la realtà effettiva a partire dalla creazione dal nulla conferisce di per sé all’uomo uno statuto privilegiato in quanto anch’egli è nell’ambito del creato l’autentico fattore e partecipa dell’intelletto divino. Dall’altro il rapporto dell’uomo con Dio pone al cristiano l’esigenza dell’assicurazione della certezza della salvezza tramite la fede. Ma poiché l’uomo si rapporta a Dio ed al mondo anche attraverso il lumen naturale, l’intelletto, questo comincerà a richiedere per sé un tipo di certezza ad esso propria con il quale assicurarsi del suo rapporto con il reale. Spiega però Heidegger: “quando l’essenza della verità, diventata certezza, ottiene come effetto dall’uomo e per l’uomo stesso, posto nell’essenza della verità, il rapporto a essa adeguato con il reale, richiedendogli la costruzione dello scibile come ciò che può essere ottenuto sicuramente come effetto; quando, contemporaneamente, la certezza richiede per questa costruzione (Aufbau) quella infrastruttura (Unterbau) in cui la sua propria essenza rimanga incastrata come la prima pietra (Grundstein), bisogna allora porre prima al sicuro per ogni rappresentare un reale la cui realtà, cioè saldezza, rimanga sottratta a ogni scuotimento del rappresentare nel senso della dubitabilità. L’esigenza della certezza mira a un fundamentum absolutum et inconcussum, a una infrastruttura che non penda più dal riferimento a un altro, ma sia fin da principio svincolata da questo riferimento e riposi in sé” (Ivi., p. 887). Tale fondamento assoluto della verità diventata ora certezza sarà posto, come noto, da Cartesio nella soggettività. E però, allora, non è l’aver posto la soggettività quale fondamento della verità a far nascere l’esigenza che questa abbia il carattere della certezza, al contrario, è l’esigenza della certezza – inizialmente intesa come certezza della salvezza – a richiedere un fondamento ultimo per la sua autoassicurazione, il che vuol dire ancora, come ho accennato, che la modernità nasce dall’interno della dottrina cristiana stessa. Allo stesso modo, però, poiché la certezza valorizza il proprio portatore, si accende così la lotta tra Dio e uomo quali possibili portatori della sua essenza. La libertà del cristiano, la quale consiste nell’esser libero dal mondo per il Cristo, diventa ora la libertà dell’uomo per se stesso, per il libero sviluppo delle proprie potenzialità, diventa ricerca della potenza al fine del dominio della totalità dell’ente come realtà effettiva; Sapere è Potere (ivi, p. 653). Ma vediamo allora la nuova fondazione della verità come certezza nella soggettività ad opera di Cartesio. Heidegger analizza la tesi fondamentale cogito ergo sum. Innanzitutto bisogna comprendere il senso del cogitare; spiega Heidegger: “Descartes, in passi importanti, adopera per cogitare la parola percipere (per-capio) – prendere possesso di qualcosa, impossessarsi di una cosa, 108 qui nel senso del fornirsi (Sich-zu-stellen) che ha il carattere del porsi-dinanzi (Vor-sich-stellen), del rap-presentare (Vor-stellen)” (Ivi., p. 659). Cogitare vuol dire allora percipere nel senso di impossessarsi di qualcosa che è posto dinanzi nella rappresentazione (Vor-stellen) e solo ad essa, laddove, ormai è chiaro, ciò che diventa decisivo è che c’è qualcuno che pone così innanzi, non più l’ente nel senso di ciò che da sé si mostra. È per questo che il cogitare è essenzialmente un dubitare, non perché esso sia sempre nel dubbio e non metta mai capo a niente, ma al contrario proprio perché esso è riferito fin dall’inizio al certo, all’indubitabile come ciò a cui tende fin dall’inizio; il dubbio è perciò un dubbio metodico, attraverso il quale il pensiero non ammette come certo niente che non sia posto dinanzi a se stesso come indubitabile. Ma Cartesio dice anche che ogni ego cogito è cogito me cogitare, cioè che in ogni rappresentare è posto innanzi allo stesso tempo colui che rappresenta, ma non nel senso che ci si rappresenti contemporaneamente due oggetti – il che sarebbe impossibile – bensì come compresenza, nella rappresentazione, dell’oggetto rappresentato e di colui che rappresenta, è ciò significa che: “(…) la coscienza umana è per essenza autocoscienza. La coscienza di me stesso non si aggiunge alla coscienza delle cose, quasi come un osservatore che la osservi procedendo al suo fianco. Questa coscienza delle cose e degli oggetti è, per essenza e nel suo fondamento, anzitutto autocoscienza, e soltanto come tale è possibile la coscienza di oggetti (Gegen-stände). Per il rappresentare così caratterizzato, il sé dell’uomo è essenzialmente in quanto ciò che sta al fondamento. Il sé è sub-iectum” (Ivi., p. 663). Il pensare diventa dunque autocoscienza nel senso della ri-flessione (re-flexio) cioè il ripiegarsi della coscienza su se stessa e dentro se stessa, un “dentro” in cui essa trova contemporaneamente se stessa ed il suo oggetto in quanto se lo è così fornito. È solo a partire da tale impostazione che si porrà come problema metafisico quello della dimostrazione del mondo esterno; per un greco tale problema non avrebbe avuto senso. Il soggetto diventa così il fondamento ricercato di ogni oggettività (gegen-stand) nel senso appunto di ciò che è posto dal e nel rappresentare stesso di fronte alla soggettività; e d’altra parte da ciò consegue che tutto ciò che non ha o non può avere lo statuto della certezza della rappresentazione cade via via nell’improblematico Kant e i limiti della ragione. Così sintetizza Heidegger: “«Cogito sum» non dice né soltanto che penso, né soltanto che sono, né che dal fatto del mio pensare consegue la mia esistenza. La tesi esprime una connessione tra cogito e sum. Dice che io sono in quanto colui che rappresenta, che non soltanto il mio essere è essenzialmente determinato da questo rappresentare, ma che il mio rappresentare, in quanto re-presentatio determinante, decide sulla presenza (Präsenz) di ogni rappresentato, vale a dire sulla presenza (Anwesenheit) di ciò che in esso è intenzionato, 109 cioè sull’essere di quest’ultimo in quanto ente. La tesi dice: il rap-presentare che per essenza è rap-presentato a se stesso pone l’essere come rappresentatezza e la verità come certezza. Ciò a cui tutto viene riportato come al fondamento incontrovertibile è la piena essenza della rappresentazione stessa, in quanto in base a essa si determinano l’essenza dell’essere e della verità, ma anche l’essenza dell’uomo come colui che rappresenta e il modo di questo suo essere determinante” (Ivi., p.668). Quando l’uomo e la sua soggettività si pongono così a fondamento di tutto ciò che deve o non deve essere e del modo in cui deve essere – in questo caso come rappresentatezza – inizia ciò che storiograficamente si intende per età moderna, ma che per Heidegger è l’inizio del compimento della metafisica come Umanesimo e Nichilismo. Il carattere di tale compimento è la sua tendenza all’incondizionatezza, in quanto la verità come certezza non ammette vie di mezzo, essa è o non è; analogamente la soggettività, che ha già risolto dentro di sé l’oggettività come ciò che essa stessa si fornisce, deve tendere incessantemente alla propria assolutezza, cioè all’as-soluzione da qualunque limite ad essa esterno. Tutta la seguente storia della metafisica è posta così da Heidegger sotto il segno della soggettività e della sua tendenza all’incondizionato; dice infatti Heidegger: “quando la verità diventa la certezza del sapere di un’umanità autoassicurantesi, incomincia quella storia che nel conteggio storiografico delle epoche si chiama età moderna. Il nome dice di più di quello che intende. Dice una cosa essenziale di questa età. In quanto la verità in cui sta la sua umanità esige lo sviluppo dell’assicurazione di un incondizionato dominio dell’uomo, questa essenza della verità consegna l’uomo e il suo operare all’inevitabile e incessante preoccupazione di potenziare le possibilità di assicurazione e di porle al sicuro, daccapo, da nuovi pericoli innescati, progredendo nella continua novità dei suoi successi e delle sue scoperte, nella novità sempre più nuova delle sue acquisizioni e delle sue conquiste, nel carattere sempre inaudito delle sue esperienze vissute” (Ivi., p.883-84). Si incomincia qui a intravedere il compimento della metafisica in Hegel e poi in Nietzsche ed il suo mostrarsi effettivo nel dominio della tecnica. Lasciamo per ora tra parentesi il pensiero hegeliano e cerchiamo di vedere in che senso Nietzsche rappresenti il compimento – che significa insieme culmine e fine – della metafisica. Per comprendere il pensiero di Nietzsche bisogna innanzitutto, secondo Heidegger, considerarlo un pensatore metafisico rigoroso al pari di tutti gli altri e non bisogna lasciarsi dalla suo procedere in modo poetico o aforismatico. In secondo luogo va connessa la dottrina dell’eterno ritorno agli altri concetti nietzscheani fondamentali e non espunta come qualcosa di inorganico o di incomprensibile quando non il frutto della sua follia (Baeumler e Jaspers). In ultimo Nietzsche va incluso nella tradizione moderna, pensa cioè anch’egli a partire dalla soggettività e dalla verità come certezza della rappresentazione. 110 Tali concetti fondamentali sono per Heidegger: La volontà di potenza L’eterno ritorno Il nichilismo La giustizia Il superuomo Nietzsche prende le mosse dal carattere fondamentale del nostro tempo che individua nella “morte di Dio” con la quale non intende innanzitutto la morte del Dio cristiano, ma del “mondo sovrasensibile” in generale. Anche Nietzsche intende infatti la storia della metafisica come platonismo, ma nel senso della scissione tra il “mondo sovrasensibile” (le idee) ed il “mondo sensibile” come mutevole ed irreale; il cristianesimo ratificherà la scissione tra il mondo come “valle di lacrime” e “l’eterna beatitudine ultraterrena”, per cui dirà che il cristianesimo è “platonismo per il popolo”. Nietzsche sintetizza la storia della metafisica come platonismo in un passo del Crepuscolo degli idoli intitolato “Come il ‘mondo vero’ finì per diventare favola. Storia di un errore”, in cui la scissione va progressivamente radicalizzandosi, fino a diventare incolmabile: in sintesi, la verità, posseduta dal saggio (Platone), diventa con il cristianesimo una promessa di salvezza ultraterrena per chi percorre “rettamente” la via che porta ad essa; con Kant il mondo vero non è più tale in quanto inconoscibile, ma anche solo come “postulato della ragion pratica” rimane “una consolazione, un obbligo, un imperativo”. Ma ormai il mondo sovrasensibile, non essendo conoscibile né vero, viene abolito “ingenuamente” dal Positivismo in quanto esso abolisce il mondo vero ma lascia intatta la struttura della scissione, il cui definitivo oltrepassamento rappresenta il compito che Nietzsche si assume. La morte di Dio coincide dunque – già per Nietzsche – con il nichilismo come “logica interna” della metafisica occidentale, come stato in cui manca ogni fine che giustifichi e indirizzi l’agire umano. Il nichilismo consiste dunque per Nietzsche nella “svalutazione dei valori supremi”, dei quali “l’autorità della ragione, il progresso, la felicità del maggior numero, la cultura e la civiltà” non sono altro che delle estenuazioni. Ma se la regione del soprasensibile, scoperta nella sua radice “umana troppo umana”, ha perso come tale il suo potere vincolante c’è bisogno allora di una “trasvalutazione di tutti i valori” cioè di un nuovo modo di essere valore del valore che elimini la struttura stessa della scissione, ciò che comporta anche una ridefinizione del concetto stesso di vita. Dice Nietzsche in un aforisma della Volontà di potenza: “Il punto di vista del ‘valore’ è il punto di vista delle condizioni di conservazione-accrescimento in ordine alle formazioni complesse di relativa durata della vita in seno al divenire” (Af., 715). 111 Il valore, dunque, non ha una caratterizzazione innanzitutto morale, ma è tale in quanto posto da un “punto di vista”, cioè da un vedere di cui esso è l’“angolo visuale”; ma da Cartesio in poi il vedere si caratterizza come un rappresentare. I valori, come punti di vista della rappresentazione, sono condizioni di conservazione ed accrescimento della vita, in quanto essa non si arresta mai alla semplice assicurazione della possibilità di conservare se stessa, ciò vorrebbe già dire il suo declino, per cui ogni conservazione e sempre solo condizione necessaria ma non sufficiente per l’accrescimento. La volontà di potenza è allora il “che cosa” dell’ente come vita cioè il suo volere se stessa in un grado sempre maggiore di sviluppo, di potenza, di cui la vita nel senso della vita umana che pone valori non è che un quantum. La volontà non è dunque niente di psicologico ma il conatus essendi leibniziano. Ma qual è l’essenza della volontà di potenza? Nietzsche la individua nel “comando”; il comandare non è però inteso come “impartire ordini ad altri”, ma come un obbedire a se stesso che è così al di sopra di se stesso, per cui ciò che la volontà vuole non è qualcosa cui essa tenda senza ancora possederlo, né qualcosa di estraneo ad essa; la volontà non vuole altro che ottenere e disporre di se stessa tramite il comando per poter continuare a volere; è per questo Nietzsche la chiama anche volontà di volontà, oppure semplicemente volontà o potenza. Ma quali sono i valori supremi che assolvono alla funzione di potenziare la vita? Per Nietzsche sono essenzialmente verità e arte. Ora, secondo Heidegger, per operare il rovesciamento del platonismo Nietzsche ne deve presupporre la concezione della verità. Ma per Nietzsche è la volontà di potenza ciò che è innanzitutto vero, mentre la verità come eterno ideale sovramondano, irrigidendo la pur necessaria stabilizzazione del divenire finisce per essere d’ostacolo al potenziamento della vita. La verità come stabilizzazione non va quindi semplicemente rinnegata, ma reinterpretata e positivamente assunta a partire dalla volontà di potenza, cioè come quella “menzogna” senza la quale il vivente uomo (quantum della Vita) non potrebbe sopravvivere. La verità diventa così solo più una volontà di verità, nel senso di un “tenere per vero”, ed è tale solo in base ad una prospettiva che lo tiene come tale. È per lo stesso motivo che l’arte, come continua creazione di forme è per Nietzsche “l’attività metafisica per eccellenza”. Mentre la verità è la semplice stabilizzazione del divenire in un punto di vista tenuto fermo nel suo orizzonte, l’arte tiene cooriginariamente insieme stabilità e divenire, forma e creazione. L’arte, nella sua essenza creativa e nella cooriginarietà di dionisiaco ed apollineo, è il “dire si” alla vita nel suo continuo divenire che “a nulla rimanda”. È per questo che Heidegger sostiene che “la verità come assicurazione della sussistenza della potenza è per essenza riferita all’arte come potenziamento della potenza” (Ivi., p. 796). 112 Ora, se per Heidegger la volontà di potenza risponde alla domanda sul “che cosa” dell’ente, l’eterno ritorno risponde al “come”. Il problema è cioè come possa l’uomo della tradizione platonicocristiana non farsi strangolare dalla perdita dell’illusione della verità come autonomamente ed eternamente sussistente, accettare di essere un quantum della potenza e continuare così a potenziare la vita, senza soccombere a quella “malattia della volontà” che è il nichilismo. Ciò per cui l’uomo deve decidersi è qui il corrispondere alla riduzione di ogni verità a valore, che vale solo in quanto posto dalla volontà di potenza, ma che di per sé non ha senso oltre l’“eterno ripetersi”, allo stesso modo, della volontà che vuole se stessa. L’accettazione di ciò, dunque, è possibile solo per chi decida quale senso debba avere il passare del tempo – il vero generatore, per Nietzsche come per Heidegger, di ogni metafisica – nel suo provenire da un nulla ed andare verso un nulla; la decisione riguarda dunque quale senso dare al divenire, se essere schiacciati da esso oppure farsene signori nell’attimo della decisione; si tratta insomma di superare lo “spirito di vendetta”, il “peso più grande”, il “macigno del così fu” dinanzi al quale la volontà che tutto vuole non può nulla e di cui perciò si vendica s-valutando il divenire; l’uomo deve decidere se il tempo, e con esso tutte le cose, in quanto passa, sia anche degno di passare “invano”, o se questo “invano” possa essere voluto dalla volontà come il suo unico destino possibile, e dunque nonostante il suo passare, che è però sempre cooriginarità di essere e divenire, stabilizzazione e caos; è per questo che Nietzsche dice: “Imprimere al divenire il carattere dell’essere – questa è la suprema volontà di potenza” (Ivi., p.770). Diventa così comprensibile anche la figura del Superuomo; egli è allora colui che supera l’umanità finora esistita, e con essa l’ “ultimo uomo” incapace di reggere la mancanza di senso, in quanto riconosce e accetta, in un supremo “sì” trasfigurante, l’eterno auto-porsi della volontà senza scopo e dunque senza senso, mettendosi così al servizio del potenziamento della potenza. Questa è la conclusione cui mira tutta l’interpretazione heideggeriana di Nietzsche; con il suo pensiero si compie l’essenza nichilistica della metafisica come predominio dell’ente e della sua assicurazione da parte dell’uomo, il quale ora giunge alla possibilità del dominio incondizionato della terra. Tale processo giunge solo ora al suo compimento in quanto solo ora l’essenza “volontaristica” di tutto l’essente giunge ad essere pensata come incondizionata, poiché ogni condizione è posta dalla stessa volontà di potenza al fine del superpotenziamento della potenza. A partire da queste considerazioni è possibile comprendere anche il “ruolo” che Heidegger assegna ad Hegel nella storia della metafisica, così come il passo ulteriore che Nietzsche compie rispetto a questi. Se infatti con Hegel l’assolutezza dello spirito si compie nella forma della ragione, la quale ha però nell’oggetto ancora un residuo di autoestraneazione da ricomprendere nella fatica del concetto, la volontà di potenza, come essenza della vita che è innanzitutto corpo, non ha più davanti a sé niente che non abbia essa stessa posto come condizione del suo continuo potenziamento ( Ivi., 782). 113 La volontà di potenza, invece, ha “sotto di sé” la ragione come suo strumento, cioè come ponente valori al fine del superpotenziamento; anche la tradizionale essenza dell’uomo come animal rationale viene qui rovesciata dal primato del corpo (animalitas) – niente di biologistico – come concrezione della volontà di potenza, per cui l’uomo diventa un “brutum bestiale”. La certezza, cui a partire dalla modernità tende la metafisica, diventa la Giustizia (Gerechtigkeit) nel senso della giustificazione che la volontà dà a se stessa a partire da se stessa per il dispiegamento incondizionato della propria essenza come volere oltre sé; tale volere oltre sé rimane però sempre in se stesso, poiché ciò che è posto come condizione lo è, ancora una volta, a partire dalla volontà che comanda a se stessa, mentre “l’incondizionatezza del rappresentare è ancor sempre condizionata da ciò che è a essa fornito” (Ivi, p. 781), (Ivi., p. 782). Infine, il pensiero di Nietzsche, proprio in virtù del suo rovesciamento del platonismo, rappresenta il compimento della metafisica nel senso della compiuta preminenza dell’ente come presenza; secondo Heidegger, lungi dal pensare l’essere ed il divenire nella loro cooriginarietà, Nietzsche afferma la più incondizionata stabilizzazione, di volta in volta operate dalla volontà di potenza, del divenire nella presenza, compiendo così il primato dell’existentia che abbiamo visto delinearsi a partire da Aristotele, la quale diventa però solo più la “realtà effettiva” (Wirklichkeit) a disposizione dell’incondizionato effettuare umano: (Ivi., p. 553) Bibliografia essenziale: M HEIDEGGER, Nietzsche, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano, 1994; pp. 651-673, 863-910. ID., Che cos’è metafisica in Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano, 1987; pp. 59-77. ID., Introduzione alla metafisica, trad. it. di G. Masi, Milano, 1968; pp. 185-200. Introduzione Dalle lezioni dedicate a Marx e Jünger è emerso che un possibile filo conduttore per i discorsi che qui sono stati affrontati può essere individuato nella questione dell’alienazione. Soprattutto rispetto al tema del lavoro, ma abbiamo visto che in realtà sia in Marx che in Jünger, in modi diversi, la questione del lavoro è connessa a quella delle macchine, o se vogliamo della tecnica, la questione dell’alienazione, o meglio del lavoro alienato, è una discriminante importante per differenziare il discorso di Jünger da quello di Marx. È sulla base di questo filo conduttore che intendo introdurre il discorso di Heidegger. 114 Da un punto di vista metodologico voglio attirare la vostra attenzione sul fatto che la tematizzazione del pensiero di Heidegger rispetto alla questione dell’alienazione è, mediata dal terreno culturale che nasce in Italia negli 70/80 intorno ad alcuni ambienti della sinistra italiana legati all’operaismo e quindi ad una specifica interpretazione di Marx. Vi do le coordinate della mia interpretazione, perché ad una prima lettura, i dispositivi di Heidegger e Marx sono così differenti che un accostamento e un confronto non è necessariamente scontato, e d’altro canto, se esso è stato affrontato (penso in questo momento alla recezione heideggeriana avvenuta Praga ad opera di Patocka e a Zagabria ad opera di Gaio Petrovic) non necessariamente è stato affrontato rispetto alla questione dell’alienazione. Quindi l’interpretazione che vi presento quindi è una possibile interpretazione. Essa, come ogni interpretazione, non è semplicemente giustapposta, ma parte da alcune dichiarazioni fatte da Heidegger nella Lettera sull’«Umanismo»: 1) «Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in un senso essenziale e significativo come l’alienazione dell’uomo affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno» (p. 70) 2) e inoltre «Marx nell’esperire l’alienazione penetra in una dimensione essenziale della storia» (ibid.) Heidegger vede la possibilità di «un dialogo produttivo con il marxismo» (ibid.), proprio a partire dal concetto di alienazione. Il mio discorso su Heidegger non sarà schiacciato solo sul rapporto di Heidegger a Marx, ma prenderà in considerazione anche l’interpretazione heideggeriana dell’Operaio di Jünger, anzi tenterà di mettere in evidenza, come alcune analisi non secondarie del pensiero di Marx da parte di Heidegger siano proprio mediate dalla sua recezione di Jünger. Ma procediamo per passi: in questa mia breve introduzione, che tenta di tirare le fila dei discorsi fatti fino ad adesso, mi limiterò a delineare una figura fondamentale del pensiero di Heidegger, che può essere letta, se assumiamo in questo momento la terminologia marxiana, in termini di alienazione o a partire dalla questione dell’alienazione. Se si assume questo paradigma interpretativo, cioè se si comprende questa figura fondamentale del pensiero di Heidegger, si può affermare che nell’ambito del pensiero di Heidegger, Marx e Jünger possono essere considerate come delle figure dell’alienazione o dello spaesamento o del nichilismo. Nelle lezioni seguenti ci occuperemo dell’interpretazione heideggeriana della questione della tecnica, con particolare riferimento alla questione della macchina. Poi seguirà una lezione in cui verrà esplicitata l’interpretazione che Heidegger da di Marx Una lezione sull’interpretazione heideggeriana di Jünger 115 E una lezione conclusiva sulla questione dell’agire e della possibilità di un superamento del nichilismo a partire dalla prospettiva di Heidegger. La figura fondamentale del pensiero di Heidegger che intendo mettere in evidenza è una figura formale che si riempie di contenuti diversi nelle varie fasi del pensiero di Heidegger. Questa figura riguarda la comprensione dell’intero e della sua articolazione interna, quindi il rapporto che, di volta in volta, in contesti differenti, si instaura fra parti e tutto. Questa figura è una costante del pensiero di Heidegger, ed è visibile sin dalla prima formulazione programmatica di esso. Il pensiero di Heidegger nasce nel punto d’incrocio delle tematiche neokantiane con il metodo fenomenologico husserliano e l’ermeneutica di stampo diltheyano. Nella sua prima formulazione originaria il programma di Heidegger si propone di comprendere la vita nella sua complessità, nella sua interezza e movimento, senza ridurla ad oggetto e con categorie che derivino dalla vita stessa. In una lezione degli anni ’20 Heidegger descrive addirittura questo programma nei termini di un ritorno della filosofia alla vita dalla alienazione : Nel descrivere il suo programmam in polemica con la filosofia del neokantismo, Heidegger dice «c’è in gioco il riportare la filosofia in dietro a se stessa a partire dalla sua estraniazione (Entäusserung)» (GA 59, p. 29). Ciò che va chiarito è però: che cosa è l’estraniazione o l’alienazione compresa qui nei termini di un’oggettivazione della vita nella filosofia? Per comprenderlo dobbiamo partire dalla differenza fra Gegenstand, ‘ciò che mi sta di fronte’, termine con cui si traduce ‘oggetto’ e Objeckt, che è anche ‘oggetto’, senso negativo. «Objekt e Gegenstand non sono lo stesso. Tutti gli Objekte sono Gegenstände, non tutti i Gegenstände sono Objekte» (GA 60, 55). Ogni comprensione oggettiva è sempre comprensione oggettiva di qualcosa che sta fuori di me e di fronte a me, ma non tutto ciò che mi sta di fronte deve essere compreso oggettivamente. Cosa si intenda per ‘oggettivazione’ è evidente a partire dalla vita e dalla sua articolazione interna.→ Heidegger comprende la vita come un intero significativo, in movimento. [Attraverso un atteggiamento teoretico, che comprende ciò a cui esso si rapporta, !in questo caso la vita), scindendolo dal modo in cui si attua/ si realizza questo rapporto, la vita viene oggettivata.] 116 La vita è un oggetto nella misura in cui è fissata, bloccata e estrapolata dalle sue connessioni significative. Per descrivere questo fenomeno Heidegger usa un insieme di termini molto suggestivi: - smembrata (zerschlagen) - è ridotta ad un cumulo di cose (senza connessioni) L’oggettività deriva da un processo di distillazione (herausdistilliert) del mondo circostante Tale contesto è cancellato con un colpo di spugna(ausgelöscht). L’oggettività è de-vitalizzata, privata della vita (ent-lebt), del significato (ent-deutet), della storia (ent-geschichtlicht). In quanto oggettiva la vita è ‘ridotta in pezzi’ (zerstückeln) (questo termine sarà molto importante nella tematizzazione della tecnica) la riduzione di tutto l’ente a fondo o a risorsa che è propria della tecnica moderna coincide con la riduzione di tutto l’ente a pezzi intercambiabili di un meccanismo; Attraverso questa descrizione Heidegger non intende invitare ad un ‘superamento’ dell’oggettività, ma intende mettere in evidenza come essa debba essere compresa a partire dalla vita che si dà come un tutto, fatto di connessioni significative. A questo proposito Heidegger fa l’esempio dell’esperienza vissuta della situazione di una lezione universitaria. Entrando in un aula uno studente non vede prima la superficie bianca, un forma determinata e poi riconosce la cattedra, ma entra in un contesto significativo e vede immediatamente la cattedra. Secondo Heidegger anche l’esempio di un senegalese - che entra in un’aula e si trova di fronte a qualcosa con cui non sa da dove cominciare, mette in evidenza che il mondo ci viene sempre incontro in un insieme significativo. Se guardiamo l’esperienza fattuale della vita nella direzione del contenuto esperito, allora indichiamo ciò che è esperito come mondo e non come oggetto. Il mondo è qualcosa in cui posso vivere, l’oggetto no. L’oggettività deve essere compresa a partire da questo contesto significativo e cessa di essere una devitalizzazione della vita se è compresa la sua genesi in essa. L’oggettività è un modo derivativo, cioè un modo che deriva dalla vita nella sua complessità nel momento in cui si estrapola un momento di questa complessità, lo si blocca dirigendo la propria attenzione ad esso. La vita nella sua oggettivazione deve essere compresa a partire dalle connessioni significative della vita, come parte della vita e non come pezzo, isolato dal suo contesto significativo. Non si tratta quindi di un superamento dell’oggettivazione tout court ma di una sua comprensione a partire dal tutto e dalle sue articolazioni e soprattutto dalla sua attuazione in essa. Per dimostrare come il confronto con la questione della tecnica e in un certo modo con il marxismo sia implicito già nel modo di intendere la vita oggettivata come un cumulo di cose e di pezzi, e come quindi al di là di differenze di impostazione vi sia un filo rosso che collega le varie fasi del pensiero di Heidegger, è 117 possibile fare riferimento ad una citazione di Heidegger, in cui lo sgretolamento dell’intero della vita e delle sue connessioni di significato è letta nell’ottica di una ‘socializzazione’ e ‘comunizzazione’, messa in comune di ‘pezzi di significatività’. In una lezione degli anni ’20, in cui è centrale la tematica del ritorno della filosofia alla vita, Heidegger afferma: «Nella modificazione della vita fattuale, che abbiamo indicato come un ‘prender conoscenza’ eravamo diretti, in una rimozione radicale, alla determinazione di una connessione, che è completamente staccata dalla connessione dell’esperienza fattuale. La tendenza della vita e la tendenza del prender conoscenza continuano a sussistere, si continua a comprendere la realtà, ma il senso specifico della realtà dell’esperienza è perduto. I pezzi di significatività sono derubati del cerchio/dell’intero della significatività ; essi sono “socializzati” (sozializiert), o “comunizzati” (kommunisiert) e cioè posti tutti sullo stesso piano» (GA 58, p. 223.). Rotta l’unità delle connessioni significative, la vita è compresa come un oggetto, estrapolato dal cerchio della significatività, come un pezzo intercambiabile, messo sullo stesso piano, socializzato, messo in comune. In queste affermazioni è implicita la critica fondamentale che Heidegger muoverà al comunismo, a partire dalla sua parziale sovrapposizione con l’essenza della tecnica all’interno della storia dell’essere intesa come metafisica. - Sintetizzando nella critica all’oggettività è possibile vedere la critica ad una comprensione della vita, che blocca una parte di essa, rendendola come un pezzo privo di contesto significativo, quindi scissa dal suo intero. Se si considera solo la figura formale che poi si ripete con contenuti diversi, la critica all’oggettività implica il rifiuto di una comprensione di una parte scissa dal tutto, che non tenga presente l’articolazione fra parte e tutto e il loro rapporto. Anche nell’analitica esistenziale si può trovare la stessa figura fondamentale nella dinamica dell’esistenza autentica e in autentica. Il ‘Si’ costituisce il modo di essere quotidiano dell’Esserci e si muove come contraffazione della verità originaria, resa possibile dalla struttura stessa dell’Esserci. Il ‘Si’ è il velamento della verità originaria dell’Esserci in quanto sua apertura e si dà nella presunzione di possedere il tutto. Tale presunzione lo rende prigioniero di se stesso e della propria inautenticità. La deiezione, infatti, non solo è la contraffazione della verità dell’Esserci (come intero) ma è anche la dimenticanza stessa di questa contraffazione data nella presunzione di possedere e raggiungere il tutto. Tale presunzione chiude l’Esserci sempre più in se stesso, facendolo cadere nel gorgo dell’inautenticità. 118 Il superamento di questa inautenticità è possibile attraverso il recupero del «poter-essere-un-tutto» da parte dell'Esserci. Anche qui abbiamo una dinamica che riguarda il rapporto fra una parte, la vita in autentica che si identifica con il mondo ed è la contraffazione della sua apertura originaria e il tutto, il mondo compreso come un intero e un essere un tutto. In uno schizzo programmatico del ’22 Heidegger legge la deiezione nei termini di una alienazione: → la tendenza alla deiezione è definita come ‘estraniante’ ‘alienante’, perché la vita fattuale( termine con il quale è indicato l’esserci) assimilandosi al mondo di cui si prende cura, diviene sempre più estranea (alienata Entfremdent) a se stessa e perde di vista la sua motilità e interezza, credendo di essere la vita: «la tendenza alla deiezione è estraniante/alienante e cioè la vita fattuale diviene, nel suo identificarsi con il mondo di cui si cura, sempre più estranea a se stessa e la motilità del curare, lasciata a se stessa nella convinzione di essere la vita, sottrae ad essa sempre di più la possibilità fattuale di prendere nella preoccupazione se stessa nello sguardo e con ciò di assumersi come meta del ritorno che si riappropria di sè» (NB, ted. p. 20). La tendenza alla deiezione, in quanto assume la sua assimilazione al mondo come il tutto della motilità della vita è alienante. La deiezione, o se vogliamo dirlo nei termini che Heidegger usa in questo schizzo programmatico, l’alienzazione, è una motilità fondamentale della vita che non può essere superata se non a partire dalla comprensione della vita come essere un tutto. - . La stessa dinamica e la stessa figura fondamentale si possono riscontrare anche nella analisi della storia della metafisica, sia dal punto di vista sistematico, che storico. Senza soffermarmi su questa dinamica (→ Ulderico) voglio solo sottolineare come, anche in seguito alla cosiddetta svolta nel pensiero di Heidegger, il sottrarsi di una parte al tutto rappresenta l’essenza stessa dell’essere, che si dà in un susseguirsi di epoche, che devono essere comprese a partire dalla storia del destinarsi dell’essere. 119 Solo come esempio: la tecnica, intesa come «l’essere dell’ente nel suo più esteriore e probabilmente ultimo destino» viene considerata da Heidegger come un pericolo, non come strumento mal utilizzato, ma in quanto è essa una modalità dell’essere che si impone come l’unica modalità, lasciando indietro (nach-stellen) nella dimenticanza ogni altro modo di darsi dell’essere stesso. Cioè essa è solo un’epoca in cui l’essere si dispiega/ si invia, ma non l’unica epoca o l’unica modalità. La tecnica quindi è il pericolo in quanto è l’essere, e l’essere è «il pericolo della propria essenza», in quanto nel suo darsi in modi diversi rimuove se stesso come totalità, posponendo un modo del disvelamento all’altro. Il superamento di questo pericolo è possibile attraverso una svolta, intesa come un soggiornare nella totalità dell’essere e attraverso il contegno della Gelassenheit, che Heidegger definisce come un’ insistenza, che indica lo stare dentro (in / stehen), e non deve essere compresa come un irriguardoso insistere su una modalità separata dell’essere, ma come un soggiornare nella vastità e nell’ampiezza della sua apertura. Anche se Heidegger qui non usa più il termine oggettivazione, in autenticità/alienzazione, ma pericolo, (altrove userà ‘spaesatezza’, ‘nichilismo’) abbiamo a che fare con lo stesso problema e cioè con quello della comprensione dell’intero e della sua articolazione interna, del suo modo di darsi e della possibilità della sua comprensione. È all’interno di questo dispositivo che dobbiamo tentare di comprendere in che modo avviene l’influenza di Jünger rispetto alla tematizzazione della tecnica e in cosa consiste la critica che Heidegger muove sia a Jünger che a Marx, ponendoli sullo stesso piano nella storia della dimenticanza dell’essere. Anche se la ricostruzione di questa figura fondamentale del pensiero di Heidegger rende comprensibile su quale piano avviene il dialogo produttivo con il marxismo, bisogna tener presente che il superamento dell’oggettività, dell’inautenticità, del nichilismo e della tecnica, come sua ultima espressione non sono la medesima cosa che il superamento dell’alienazione. Marx e Jünger come figure dell’alienazione: un dialogo produttivo con il marxismo 120 a partire dall’orizzonte del superamento del nichilismo. Nell’ultima settimana di lezione abbiamo tentato di tirare le somme delle questioni affrontate. Il metodo di lavoro che abbiamo utilizzato è stato quello di ricostruire il dispositivo di pensiero dei rispettivi autori e, laddove è stato possibile, quello di mettere a confronto questi dispositivi, a partire da tematiche analoghe, affrontate da punti di vista e in contesti diversi. È in quest’ottica che abbiamo analizzato: 1) da un lato, il tema del lavoro in Marx, inteso come determinazione astratta e lavoro alienato, e il tema del lavoratore, inteso come tipo umano, in Jünger; 2) dall’altro, il tema della macchina, che nel dispositivo di Marx è intesa come un momento costitutivo del capitale fisso nella fase di pieno sviluppo del capitale, e il tema del macchinismo, inteso da Heidegger come quel meccanismo di funzionamento della macchina ordinata nel funzionamento in circolo della tecnica. Abbiamo più volte sottolineato come un possibile filo conduttore delle nostre analisi possa essere individuato nella questione della alienazione. Affrontando le questioni poste in questi termini, è chiaro che l’impronta al nostro discorso è data dall’impostazione problematica di Marx e che gli altri dispositivi di pensiero sono messi in gioco per cercare di dialogare con il marxismo. Heidegger nasce sei anni dopo la morte di Marx e Jünger addirittura dodici anni dopo. Sono Jünger e Heidegger a conoscere il dispositivo di pensiero di Marx e quindi sono loro a confrontarsi, in modo più o meno esplicito con il marxismo. Sia nelle analisi dell’Operaio di Jünger, che nell’impostazione di pensiero, già, del giovane Heidegger un confronto con il marxismo è implicito. Nel primo caso senza che Jünger faccia esplicito riferimento a Marx, nella comprensione ‘borghese’ dell’operaio come «rappresentante di una nuova classe, come l’esponente di una nuova società e come organo dell’economia» (Operaio, it., p. 30) vi è un’implicita critica alla comprensione marxiana dell’operaio a partire da categorie economico-politiche. (Marx quindi diviene un esponente del mondo borghese). 121 Nel dispositivo di Heidegger abbiamo visto la presenza di una figura dell’alienazione. Analizzando la tecnica a partire dalla figura del macchinismo (Machinerie), come un processo circolare che non ha altra meta se non la perpetuazione di se stesso, sono emersi i punti di contatto con la trasformazione del mezzo di lavoro in un «sistema automatico di macchine» (Machinerie) (Lineamenti, it. p. 390). Nella parte conclusiva del corso abbiamo visto come un confronto esplicito con Marx sia tematizzato da parte di Heidegger già nel 1946 alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nel tentativo di istaurare un dialogo con il mondo francese e soprattutto con l’esistenzialismo marxista di Sartre. Non a caso però una presa di posizione più esplicita da parte di Jünger e Heidegger su Marx avviene soprattutto alla fine degli anni 60, quando in seguito alle manifestazioni studentesche il tema “Marx” torna alla ribalta. Abbiamo visto come in un’epistola ad Heidegger del ’68 Jünger affermi: «Nella forma del Lavoratore si può collocare l’intero marxismo, non al contrario» (testo inedito, in preparazione per la fine del 2004). In un’intervista televisiva dello stesso anno Heidegger afferma: «Si tratta di comprendere l’essenza della tecnica e il mondo tecnico. Secondo la mia opinione, ciò non può accadere fin quando ci si muove nella contrapposizione “soggetto-oggetto”. Questo significa. A partire dal marxismo non può essere compresa l’essenza della tecnica» (Intervista con R. Wisser). Marx viene interpretato a partire dal peculiare dispositivo di pensiero di Jünger e Heidegger, una volta come esponente del mondo borghese, in quanto intende l’operaio a partire da categorie economiche, un’altra volta come uno dei più sfrenati esponenti della tecnica. Se nel dispositivo di Jünger, Marx appare come esponente del mondo borghese, nel dispositivo di Heidegger, invece sia Marx che Jünger sono posti sullo stesso piano e cioè, come figure della alienazione, come momenti della storia della metafisica in cui l’essere si dà ritraendosi come tutto. 122 È tratta dal testo su Il Rettorato 1933/34. Fatti e Pensieri una affermazione esplicita del pensiero di Marx e quello di Jünger allo stesso orizzonte di pensiero: «Ciò che Ernst Jünger pensa nei concetti della signoria e della forma del milite del lavoro, ciò che intravede alla luce di tali idee, è nient’altro che il dominio universale della volontà di potenza nella storia, vista quest’ultima in una prospettiva planetaria. E a tale realtà va oggi ricondotto tutto – lo si chiami comunismo o fascismo o demoscrazia» (L’autoaffermazione dell’università tedesca. Il rettorato 1933/34, it., p. 35). Se il confronto con Jünger è localizzato nel testo Oltre la linea, il confronto con Marx non avviene in modo sistematico, ma deve essere ricostruito a partire dai vari punti in cui Heidegger cita Marx in testi differenti. Qui di seguito ricostruirò l’interpretazione heideggeriana di Marx tentando di dare una ricostruzione unitaria dei passi in cui Heidegger fa riferimento a Marx e l’interpretazione di Jünger a partire dalle tesi fondamentali che Heidegger enuncia nel testo di confronto con Jünger dal titolo Sulla linea. 1) Heidegger interprete di Jünger Oltre la linea è il titolo che F. Volpi ha dato al confronto fra Jünger e Heidegger concentrato sull’analisi dell’epoca contemporanea e la sua condizione di nichilismo, assumendo per estensione il titolo dato da Jünger al suo contributo scritto per i sessanta anni di Heidegger nel 1949.. Il titolo traduce l’espressione tedesca über die Linie che in tedesco indica sia l’oltre che il riguardo (de). Sulla diversa interpretazione dello ‘über’ si confrontano i due pensatori. 123 Entrambi gli interventi sono stati scritti per i sessant’anni dell’interlocutore, quello di Jünger nel 1949, quello di Heidegger nel 1955. Il problema comune e l’oggetto del contendere è la ‘linea’: 1) per Jünger essa rappresenta il termine di riferimento per diagnosticare la situazione estrema a cui è arrivato il mondo contemporaneo nel suo ‘stato’ di mobilitazione totale. Quindi la linea indica il ‘meridiano zero’ oltre il quale non valgono più né i vecchi né i nuovi ordinamenti. 2) Per Heidegger la linea segna il confine fra un’epoca e l’altra. Il titolo viene interpretato da Heidegger come su la linea. In quanto, pur condividendo la ‘diagnosi’ della malattia nichilista, H. non ritiene ancora possibile il superamento della linea. Egli riflette sulla linea e sul fondo metafisico della situazione che vuole indicare. Per mettere in evidenza la vera radice del problema, nell’edizione di Segnavia ripubblica il testo con il titolo La questione dell’essere (1967/76). Il contenzioso che è al centro della discussione è quello dell’attraversamento del nichilismo. 1) nel 1932 Jünger è convinto di aver delineato nell’Operaio una figura oltre il nichilismo, in quanto oltre ogni processo di valorizzazione. 2) Negli scritti successivi si assiste ad un mutamento di prospettiva, di cui il testo che qui stiamo analizzando è testimone. Qui Jünger parte dalla definizione nietzscheana del nichilismo come “svalutazione dei valori” divenuto “condizione normale”. Jünger associa il nichilismo all’ordine, e alla salute e classifica la letteratura nichilistica in forte o debole, attiva o passiva. Pur associando il nichilismo alla salute, come Heidegger gli farà notare, egli si cimenta non solo nella descrizione diagnostica, ma anche con una prognosi della 124 malattia nichilistica per poter raccomandare un comportamento all’individuo nella sua interiorità. La descrizione jüngeriana del movimento nichilistico si distingue per una caratteristica che la rende autonoma rispetto al modello nietzscheano: Jünger non sferza un attacco frontale contro i valori e gli ordinamenti che vanno svalutandosi, ma limita ad una descrizione del movimento nichilistico, che, come abbiamo visto, contribuisce al suo compimento. In questo modo, come Heidegger noterà, egli penetra a fondo la realtà nell’ottica della figura metafisica fondamentale della volontà di potenza. In questa descrizione si colloca la problematica della linea, la cui localizzazione è importante per capire in che modo Heidegger concepisce l’attraversamento del nichilismo. 1) Per Jünger la linea non è il punto finale, termine oltre il quale il nichilismo è oltrepassato. Essa è il punto mediano. Solo la testa è già oltre, mentre il corpo si attarda ancora nelle retroguardie. A giustificazione del suo ottimismo Jünger individua alcune avvisaglie significative come l’inquietudine delle masse, la fuoriuscita delle singole scienze dallo spazio copernicano e la comparsa di temi teologici nella letteratura mondiale (par. 17). Attraversare la linea significa entrare in quella zona 1) dove il nichilismo diventa totale, si fa condizione normale e 2) il niente diventa un aspetto essenziale della realtà. Rispetto a questa situazione Jünger non prospetta una trasvalutazione dei valori, ma la possibilità di un baluardo interiore e raccomanda un atteggiamento di resistenza che permetta di conservare qualche oasi di libertà. 125 2) Heidegger coglie un mutamento di prospettiva fra l’Operaio e la tematizzazione del nichilismo, attuata nel testo Oltre la linea, ma schiaccia le tesi qui enunciate da Jünger su un’unica prospettiva. In realtà, secondo Heidegger, già nel Lavoratore il nichilismo è pensato nella «direzione di un oltrepassamento» (Oltre la linea, p. 119). La tesi fondamentale espressa da Heidegger si può così sintetizzare: nonostante la metafisica di Nietzsche della volontà di potenza rappresenti l’orizzonte nel quale l’essente viene configurato secondo la forma del lavoratore, Jünger non si interroga sull’essenza e sull’apertura dell’esperienza metafisica . Questo è quanto vuole fare Heidegger compiendo una Localizzazione (Erörterung) della linea. Secondo Heidegger la figura dell’Operaio sta nella dimenticanza dell’essere. E poiché in questa dimenticanza, dell’essere non è niente, anche Jünger è prigioniero del nichilismo che egli descrive. Il suo tentativo di oltrepassare la linea rimane in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere. Quindi un rappresentare metafisico. La descrizione jüngeriana del nichilismo non coglie le sue radici profonde, che sono riposte nella storia dell’essere, delle sue destinazioni epocali e del suo ritrarsi, le cui tracce sono riconoscibili nei tratti fondamentali della storia della metafisica. All’analisi di Jünger Heidegger contrappone una localizzazione della linea e quindi anche del nichilismo. Heidegger condivide con Jünger che 1) la questione del superamento del nichilismo debba essere affrontata a partire dalla da una sua buona definizione. 2) In un certo senso condivide anche la concezione jüngeriana, secondo la quale il nichilismo non sarebbe una malattia. 126 Anche se declina questa tesi sostenendo che dall’essenza del nichilismo non si guarisce. Quindi si propone di pensare l’essenza del nichilismo. È dalla comprensione di questa essenza che può derivare la salvezza. - Heidegger concentra la sua analisi sulla prospettiva offerta dall’Operaio. 3) L’analisi del Lavoratore Il Lavoratore ha compiuto la descrizione del nichilismo europeo nella fase seguita alla prima guerra mondiale: esso appartiene alla fase del nichilismo attivo e mostra il carattere di lavoro totale della realtà, a partire dalla figura del lavoratore: il nichilismo appare nella sua tendenza planetaria. - Secondo Heidegger l’analisi di Jünger si muove, come ogni descrizione, su un orizzonte limitato: il modo di vedere e l’orizzonte risultano dall’esperienza fondamentale dell’ente nella sua totalità. Queste esperienze sono precedute da una radura che apre il modo in cui l’ente ‘è’. L’esperienza fondamentale che attraversa la rappresentazione di Jünger maturò nelle battaglie di materiali della I guerra mondiale. Ma l’ente nella sua totalità si mostra alla luce e all’ombra della metafisica della volontà di potenza di Nietzsche. Secondo Heidegger i tratti principali del Lavoratore si rivelano nel sottotitolo: dominio e forma. In particolare egli si interroga sull’essenza della forma. La forma deve essere intesa come idea in senso platonico, e cioè 1) come ciò che è immutabile ed è percepibile in un vedere 2) e come ciò che ha un rapporto con ciò che forma che può essere identificato con quello fra stampo ed impronta, 127 3) anche se in Jünger il dare impronta è inteso in senso moderno, come ciò che conferisce senso. Attraverso la coappartenenza di forma e idea platonica Heidegger intende mostrare che l’operaio è un’opera che ha la sua patria nella metafisica. In conformità ad essa tutto l’ente è rappresentato a partire da un essere che è in quiete (e questo anche in Hegel o Nietzsche, dove l’essere è pensato come puro divenire e assoluta motilità). La forma è potenza metafisica. -A differenza di Platone, la forma è fonte del conferimento di senso ed è forma di un’umanità, essa in quanto subjektum è a fondamento di tutto l’ente. 1) La soggettività estrema che emerge nel compimento della metafisica è un tipo. 2) Questa visione della metafisica corrisponde al progetto della forma di Zarathustra nella metafisica della volontà di potenza. Il tipo umano dell’operaio deve essere inteso come soggettità, cioè come ciò che è a fondamento dell’oggettività di un ente presente. Quindi la figura dell’operaio si colloca alla fine di quel processo innescato da Cartesio, per cui la soggettità, cioè ciò che è a fondamento di tutto l’ente, viene identificata nella soggettività, in quanto caratteritstica dell’egoità, dell’io. In Jünger non è più la soggettività del singolo a conferire senso alla totalità dell’ente, ma il tipo umano. Nella tematizzazione di Jünger ciò comporta due ulteriori mutamenti di prospettiva: 1) la forma del lavoratore conferisce la sua impronta all’ente attraverso il carattere di lavoro totale. Il lavoro è inteso come il carattere totale della realtà del reale ed è uguale all’essere nel senso della volontà di potenza. 2) Nel momento in cui la forma dell’essere umano diviene la fonte del conferimento di senso l’elemento metafisico della metafisica, la trascendenza, si trasforma, in rescendenza. La forma non è più qualcosa che trascende rispetto alla realtà e che dall’alto della sua trascendenza conferisce senso, ma è nella realtà stessa come l’impronta del suo conio. 128 La tecnica, in quanto mobilitazione del mondo attraverso la forma del lavoratore, si fonda sul rovesciamento della trascendenza nella rescendenza. Pensando la forma dell’operaio a partire dalla forma platonica, Heidegger colloca anche il lavoratore nel destino del dispiegamento dell’essere. La forma platonica e la forma del lavoratore devono essere pensate a partire dalla loro provenienza essenziale. L’essenza della forma scaturisce nell’ambito originario del Gestell. L’idea appartiene allo stesso ambito. Entrambe le forme devono essere pensate a partire dall’essenza del dispiegarsi dell’essere. A partire da questa prospettiva Heidegger pone la questione del superamento del nichilismo. 2) Heidegger interprete di Marx I testi fondamentali per ricostruire il confronto di Heidegger con Marx sono: 1) La Lettera sull’«Umanismo», 1946129 2) Alcuni appunti di lavoro pubblicati recentemente nel volume 69 della Gesamtasugabe di Heidegger con il titolo Schizzo per il per la storia dell’essere, tradotti in italiano con il titolo Il comunismo e la storia dell’essere (193940)130. 3) Alcune affermazioni contenute nella Prima conferenza del ciclo friburghese Principi del pensiero, 1957131 4) Alcuni passi contenuti nei seminari di a) Le Thor (1969); b) Zähringen (1973)132 5) L’intervista televisiva con Richard Wisser, realizzata il 24 settembre del 1969 e mandata in onda dal secondo canale della televisione tedesca due giorni dopo in occasione dell’80° compleanno di M. Heidegger, e in seguito pubblicata con il titolo Gespräch mit Martin Heidegger133. L’impostazione generale del confronto di Heidegger con Marx emerge dalla tematizzazione messa a punto nella Lettera sull’umanismo. [ricostruzione generale delle linee argomentative] → La Lettera rappresenta un confronto implicito con l’esistenzialismo marxista di Sartre e fu scritta in risposta a M. Heidegger, Lettera sull’«Umanismo», trad. it. a cura di F. Volpi, Milano 1995. Id., «Il comunismo e il destino dell’essere», trad. it. a cura di D. Thöma, in Micro-Mega, 131 Id., Conferenze di Brema e di Friburgo, trad. it. di G. Guirisatti, a cura di F. Volpi, Milano 2002. 132 Id., Seminari, trad. it. a cura di F. Volpi, Milano 1992. 133 Id., M. Heidegger in Gespräch, a cura di R. Wisser, München, 1968. 129 130 129 delle sollecitazioni del giovane studioso francese Jean Beaufret, che in una lettera del 10 novembre del 1946 [ancora inedita], aveva posto ad Heidegger delle questioni cruciali che ruotavano intorno alla possibilità di una conciliazione fra etica e ontologia e intorno alla possibilità di ridare un senso all’umanesimo. È quest’ultima questione a dare il titolo al testo di Heidegger. La Lettera si apre con una tematizzazione dell’essenza dell’agire. E si conclude con una riflessione sulla possibilità ddi un’etica che faccia fonte ai problemi posti dall’epoca della tecnica. 1) La tesi fondamentale espressa da Heidegger è che non sia stata ancora pensata a fondo l’essenza dell’agire. Tale essenza non consiste nel “produrre effetti”, ma nel “portare a compimento”. L’essenza propria dell’agire viene individuata nel pensare. «Il pensiero non si fa azione solo per il fatto che da esso scaturisce un effetto o un’applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa» (p. 31-32). 2) Perché questa essenza pura del pensare venga recuperata bisogna “liberarsi dall’interpretazione tecnica del pensiero” che scinde il pensiero in discipline e bisogna imparare a pensare prescindendo dall’uso di etichette. 3) Anche il termine ‘Umanismo’ è un’etichetta. Con tale termine si esprime «la preoccupazione che l’uomo diventi libero per la sua umanità e che trovi in ciò la sua dignità» (p. 42). I diversi tipi di umanismo di differenziano a seconda del modo in cui è intesa la libertà e la natura dell’uomo. Heidegger individua il tratto comune di tutte le forme di umanismo nella loro appartenenza alla metafisica. Tutte le forme di umanismo sono accomunate dal fatto che in essa la determinazione dell’umanità dell’uomo avviene a partire da «una interpretazione già stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nel suo insieme» (ibid.). Ogni umanismo o è metafisica o si pone a fondamento di una metafisica, in quanto tematizza la natura dell’uomo a partire da un’interpretazione già data dell’ente, senza che sia messa in questione la verità dell’essere. Tutte le forme di Umanismo tematizzano l’essenza dell’uomo come animal rationale a partire dalla definizione aristotelica dell’uomo come Zoon logon echonton. 4) Questa concezione dell’uomo è entrata in crisi già a partire dalla tematizzazione dell’uomo avvenuta in EeT. Per quanto all’animalità si possa aggiungere la razionalità, nella tradizione metafisica l’uomo è pensato a partire dall’essere animale e rimane in tale orizzonte. La metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas e non a partire dall’humanitas. Heidegger intende offrire una tematizzazione più radicale dell’essenza dell’uomo e pensa l’uomo come e-sistenza e cioè come “l’e-statico stare dentro nella verità dell’essere” (p. 48). 5) A partire da questa definizione Heidegger critica l’affermazione di Sartre secondo la quale “l’esistenza precede l’essenza”, in quanto semplice rovesciamento di una tesi metafisica che rimane nell’ambito della metafisica ed è segno della dimenticanza dell’essere. In contrapposizione a quanto emerge da un’analisi del pensiero di Sartre, alla temtatizzazione dell’essere è attribuito un ruolo centrale nell’impostazione di pensiero di Heidegger. 130 6) Non da Sarte ma dall’elegia di Hölderlin Heimkunft viene un contributo fondamentale al pensiero che tenta di pensare l’essere. In essa la vicinanza all’essere è tematizzata con il termine “patria”, mentre «la spaesatezza dell’uomo moderno» è pensata «a partire dall’essenza della storia dell’essere» (p. 67). È in questo contesto che si inserisce la tematizzazione più esplicita del rapporto con Marx. 7) Nella determinazione dell’essenza dell’uomo a partire dalla radura o dall’apertura dell’essere, come e-statico stare dentro la radura dell’essere, Heidegger intravede una preoccupazione più profonda per l’uomo e la sua dignità. Il pensiero di Heidegger è in questo senso profondamente umanista, ma Heidegger rifiuta questa etichetta, in quanto essa riconduce in seno alla metafisica. 8) Il rifiuto del termine ‘Umanismo’ non significa che il pensiero di Heidegger esalti l’inumano, così come il pensiero che parla contro i valori, o contro il predominio della logica, vuole solo aprire una sfera più originaria, sottolineando come i valori siano solo un’operazione di soggettivazione e come la logica debba essere pensata a partire dal significato originario del termine logos. 9) Ma se l’humanitas è così essenziale al pensiero dell’essere, diviene fondamentale tematizzare il rapporto fra ontologia ed etica. Rifiutando un’etica compresa come disciplina, Heidegger intravede la possibilità di ‘un’etica originaria’ nel pensiero che pensa il soggiorno dell’uomo nell’essere e che pensa «la verità dell’essere come l’elemento iniziale dell’uomo» (p. 93). 10) Il pensare che pensa la radura dell’essere è un fare, nel senso in cui è stato definito all’inizio della Lettera. “Ma è un fare che supera ogni prassi. Il pensare infatti è superiore all’agire e al produrre non per la grandezza delle sue prestazioni e neppure per gli effetti che causa, ma per quel poco che è proprio del suo portare c compimento privo di successi” (p. 100). Nell’ambito di questa critica dell’umanismo, nell’ottica di un pensare più originario, che ha i caratteri dell’agire, inteso come un portare a compimento, Heidegger cita Marx almeno tre volte: 1) Nella tematizzazione dell’essenza dell’uomo e nella sua critica all’umanismo (pp. 40-43). [Marx comprende l’essenza dell’uomo in modo umanistico] 2) Nella tematizzazione dell’essenza dell’essere e del suo modo di darsi metafisico (p. 64). [Marx ha rovesciato insieme a Nietzsche la metafisica assoluta di Hegel] 3) Nella tematizzazione della dimenticanza dell’essere, intesa, con i termini di Hölderlin, come ‘spaesatezza’. (pp. 69-70). [Qui Heidegger come abbiamo già visto, individua la possibilità di un dialogo produttivo con il marxismo nell’alienazione e individua nella questione della tecnica lo sfondo su cui deve avvenire questo dialogo, concludendo con la tesi secondo la quale il comunismo non è un partito o una visione del mondo, ma deve essere compreso a partire dalla storia della metafisica]. 131 Le tesi fondamentali che vengono espresse nella Lettera sull’«Umanismo» rispetto al pensiero di Marx sono due: 1) il pensiero di Marx si colloca all’interno della storia della metafisica 2) l’alienazione è dimensione essenziale della storia che fornisce ad Heidegger un terreno per affondare un dialogo produttivo con il marxismo. Rispetto alla prima tesi Heidegger fornisce argomenti differenti: il pensiero di Marx si muove all’interno della storia della metafisica a) per il suo modo umanistico di determinare l’essenza dell’uomo b) in quanto il suo pensiero rappresenta un rovesciamento della metafisica assoluta di Hegel c) nella sua concezione materialistica, secondo la quale tutto l’ente è messo a lavoro, si esprime l’essenza della tecnica moderna, che in quanto modo del disvelamento è un momento della storia dell’essere. d) Se il comunismo, in quanto ‘umanistico’, in quanto rovesciamento della metafisica assoluta di Hegel, in quanto espressione dell’essenza della tecnica, è un momento della storia della metafisica, esso non può essere considerato un ‘partito’ o una semplice ‘visione del mondo’. Ma procediamo per piccoli passi analizzando le singole tesi separatamente e a partire dai concreti riferimenti testuali. La prima tesi sostenuta da Heidegger riguarda l’appartenenza del dispositivo di pensiero di Marx all’interno della storia dell’essere intesa come metafisica. a) Heidegger colloca Marx all’interno della storia della metafisica innanzitutto per la sua concezione umanista dell’uomo. La determinazione dell’essenza dell’uomo avviene a partire da un’interpretazione dell’ente nella sua totalità che non mette in discussione l’appartenenza dell’essere all’ente. Anche Marx parte da una determinazione dell’essenza dell’uomo inteso come animal rationale. - Definizione dell’umanismo 132 Il termine ‘Umanismo’ è un’etichetta, con cui si esprime «la preoccupazione che l’uomo diventi libero per la sua umanità e che trovi in ciò la sua dignità» (p. 42). I diversi tipi di umanismo si differenziano a seconda del modo in cui è intesa la libertà e la natura dell’uomo. Heidegger individua il tratto comune di tutte le forme di umanismo nella loro appartenenza alla metafisica. Tutte le forme di umanismo sono accomunate dal fatto che in essa la determinazione dell’umanità dell’uomo avviene a partire da «una interpretazione già stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nel suo insieme» (ibid.). Ogni umanismo o è metafisica o si pone a fondamento di una metafisica, in quanto tematizza la natura dell’uomo a partire da un’interpretazione già data dell’ente, senza che sia messa in questione la verità dell’essere. Tutte le forme di Umanismo tematizzano l’essenza dell’uomo come animal rationale a partire dalla definizione aristotelica dell’uomo come Zoon logon echonton. «Per quanto queste forme di umanismo possono essere differenti nel fine e nel fondamento, nel modo e nei mezzi previsti per la rispettiva realizzazione, nella forma della dottrina, nondimeno esse concordano tutte nel fatto che l’humanitas dell’homo humanus è determinata in riferimento ad un’interpretazione già stabilita della natura, della storia, del mondo, del fondamento del mondo, cioè dell’ente nel suo insieme». (ibidem) «Ogni umanismo si fonda o su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che presuppone già, sia consapevolmente, l’interpretazione dell’ente, senza porre la questione della verità dell’essere. Per questo, se consideriamo il modo in cui viene determinata l’essenza dell’uomo, appare che il tratto specifico di ogni metafisica è nel suo essere “umanista”» (ivi, pp. 42-43.) - La definizione umanista dell’uomo in Marx «Per umanismo si intende in genere la preoccupazione che l’uomo diventi libero per la sua umanità, e trovi in ciò la sua dignità, allora l’umanismo è diverso a seconda delle concezioni della ‘libertà’ e della ‘natura’ dell’uomo. Ugualmente sono diverse le vie che portano alla sua realizzazione. L’umanismo di Marx non ha bisogno di alcun ritorno all’antico, e così pure l’umanismo che Sartre concepisce come esistenzialismo» (ivi, p. 42). «Ma partendo da dove e come si determina l’essenza dell’uomo? Marx pretende che l’”uomo umano” venga conosciuto e riconosciuto. Egli lo trova nella “società” per lui l’uomo “sociale” è l’uomo “naturale”. Nella “società” la “natura” dell’uomo, cioè la “totalità dei bisogni naturali” (nutrimento vestiario, riproduzione, sussistenza economica) è assicurata in modo uniforme». (Ivi, p.40). 133 b) Marx viene collocato all’interno della storia della metafisica per il suo rovesciamento della metafisica assoluta di Hegel «L’essere viene al destino in quanto esso, l’essere si dà. Pensato in termini di destino, ciò significa però: esso si dà e nello stesso tempo si nega. Nondimeno la determinazione hegeliana della storia come sviluppo dello “spirito” non è errata, così come non è in parte giusta e in parte falsa. Essa è vera come è vera la metafisica che con Hegel esprime per la prima volta in un sistema la sua essenza pensata in modo assoluto. La metafisica assoluta con i rovesciamenti che ne hanno fatto Marx e Nietzsche, appartiene alla storia della verità dell’essere. Ciò che da essa proviene non può essere colpito o eliminato mediante confutazioni, ma si lascia solo assumere riportando in modo più iniziale la sua verità al riparo dell’essere stesso e sottraendola all’ambito delle mere opinioni umane». (Lettera sull’Umanismo, it., p.64). In che senso il pensiero di Marx sia un rovesciamento della metafisica assoluta di Hegel e quindi in che modo esso appartenga alla storia della verità dell’essere diviene più chiaro attraverso un’ulteriore ricostruzione della posizione di Heidegger. c) Un po’ più avanti nella Lettera sull’Umanismo Heidegger fornisce la sua definizione del materialismo. Da essa si ricava un ulteriore elemento che spiega l’appartenenza del pensiero di Marx alla storia della metafisica. «L’essenza del materialismo non sta nell’affermazione che tutto è solo materia, ma piuttosto in una determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materiale da lavoro. L’essenza del lavoro secondo la metafisica moderna è pensata in anticipo nella Fenomenologia dello spirito come il processo autorganizzantesi della produzione incondizionata, cioè come oggettivazione del reale ad opera dell’uomo esperito come soggettività. L’essenza del materialismo si cela nell’essenza della tecnica, di cui si parla molto e si scrive poco. Nella sua essenza la tecnica è un destino entro la storia dell’essere, della verità dell’essere che riposa nell’oblio». (Lettera sull’Umanismo, it., p. 70-71). Da questa citazione di Heidegger ricaviamo che 134 a) L’essenza del materialismo deve essere compresa a partire dall’essenza della tecnica. b) Materialismo significa che tutto l’ente è divenuto materiale da lavoro. c) In quanto espressione dell’essenza della tecnica, il marxismo si colloca sul piano della storia dell’essere. d) Qui però il lavoro deve essere inteso in senso hegeliano, cioè come il processo autorganizzantesi della produzione incondizionata, intesa come oggettivazione del reale ad opera dell’uomo inteso come soggetto. Nella interpretazione del materialismo come “riduzione di tutto l’ente a materiale da lavoro” Heidegger utilizza un’espressione tipicamente jüngeriana134. Anche se abbiamo visto la dipendenza di Heidegger da Jünger, nella tematizzazione della questione delle tecnica che avviene nel ciclo di conferenze Sguardo in ciò che è, Heidegger non utilizza il termine ‘lavoro’ per indicare l’imposizione in circolo dell’ordinare del Ge-Stell nei confronti del reale dispiegato come fondo o risorsa. Heidegger utilizza questo termine soltanto nella più famosa conferenza del 1954 135, alla quale come sappiamo assistette anche Jünger. È lì che Heidegger dice: «Nel GeStell accade la disvelatezza conformemente alla quale il lavoro della tecnica moderna disvela il reale come “fondo”» (La questione della tecnica, p.15). La riduzione di tutto il reale a materiale da lavoro, che avviene nel materialismo di Marx, deve essere intesa, però come Heidegger afferma, a partire dalla tematizzazione del termine ‘lavoro’ che avviene nella Fenomenologia dello Spirito. Se pensata in questi termini, ‘la riduzione di tutto l’ente a materiale da lavoro’ va compresa come una riduzione di tutto l’ente a prodotto della produzione dell’uomo. Un’ulteriore chiarificazione in questo senso si può ricavare dal riferimento a Marx che Heidegger fa nella Prima conferenza del Ciclo di Friburgo136. Qui la tecnica viene pensata a partire dall’autoproduzione dell’uomo e questa autoproduzione viene pensata a partire dal concetto hegeliano di lavoro: Questa affermazione può essere fuorviante. Utilizzando l’espressione ‘materiale da lavoro’ Heidegger fa riferimento al filone Nietzsche-Jünger. Ma abbiamo visto come Heidegger contrappone in un certo senso Nietzsche a Hegel, in quanto nel primo si arriverebbe ad un ulteriore superamento dell’oggettività nella riduzione di tutto l’ente a volontà di potenza. A quest’ultime fase del pensiero metafisico apparterrebbe anche l’operaio di Jünger. Ma come può essere il pensiero di Marx una volta il capovolgimento della metafisica assoluta di Hegel e un’altra espressione di una riduzione di tutto l’ente a materiale da lavoro, espressione che presuppone un superamento dell’oggettività nel dominio della volontà di potenza? La risposta si può trovare se si prova a comprendere la riduzione tecnica dell’ente nel dispositivo di Marx interpretato da Heidegger a partire dall’autoproduzione dell’uomo. Da ciò deriva che nel dispositivo metafisico di Heidegger, dall’autoproduzione dell’uomo deriva la tecnica, cioè il funzionamento in circolo dell’impiegare, che si dispiega come macchinismo e cioè quel sistema autonomo di macchine (machinerie), che Marx scritica, sussumendolo sotto la circolarità del capitale. 135 M. Heidegger, «La questione della tecnica», in id., Saggi e discorsi, 136 Id., Conferenze di Brema e di Friburgo, trad. it., di G. Guirisatti, a cura di F. Volpi, Milano 2002. 134 135 «In uno scritto giovanile pubblicato postumo, Karl Marx spiega che “tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell’uomo mediante il lavoro, nient’altro che il divenire della natura dell’uomo” (Manoscritti economicofilosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Torino, 1968, p. 125). Molti respingeranno questa interpretazione della storia mondiale e la rappresentazione dell’essenza dell’uomo che ne sta a fondamento, però nessuno può negare che oggi la tecnica, l’industria e l’economia, in quanto lavoro dell’autoproduzione dell’uomo, determinino in modo decisivo tutta la realtà del reale. […].» «Sennonché con questa constatazione cadiamo già fuori dalla dimensione del pensiero in cui si muove l’asserzione di Marx circa la storia mondiale in quanto «lavoro dell’autoproduzione dell’uomo». Infatti la parola «lavoro», qui non significa la mera attività e operatività. Tale concetto parla nel senso del concetto hegeliano di lavoro, che è pensato come il tratto fondamentale del processo dialettico mediante il quale il divenire del reale sviluppa la sua realtà. Il fatto che Marx, in contrasto con Hegel, veda l’essenza della realtà non nello spirito assoluto che comprende se stesso, bensì nell’uomo che produce se stesso e i suoi mezzi di sussistenza, lo pone senz’altro in estremo contrasto con Hegel, eppure proprio in virtù di tale contrasto egli rimane all’interno della metafisica del suo antagonista; infatti la vita e il dominio della realtà sono ovunque il processo lavorativo inteso come dialettica, cioè come pensiero, sia esso inteso e realizzato come metafisico-speculativo o come scientificotecnico, oppure come miscuglio e imbarbarimento di entrambi». (M. Heidegger, Principi del pensiero. Conferenze di Friburgo del 1957, p. 126-127.) Laddove viene anche qui confermato: 1) che la concezione dell’autoproduzione dell’uomo è alla base del dispiegamento della tecnica; 2) che in quanto l’essenza della realtà non è più identificata nello spirito assoluto che comprende se stesso, bensì nell’uomo che produce se stesso, nel pensiero di Marx, avviene il capovolgimento della metafisica assoluta di Hegel. 136 d) Dall’analisi delle motivazioni in base alle quali il pensiero di Marx deve essere compreso a partire dalla storia della metafisica, e soprattutto dalla comprensione del marxismo a partire dalla questione della tecnica, Heidegger trae la conclusione che il comunismo non deve essere inteso come un ‘partito’ o una visione del mondo’. «In quanto forma della verità, la tecnica ha il suo fondamento nella storia della metafisica. Questa, a sua volta, è una fase eminente della storia dell’essere, e finora la sola che possiamo abbracciare con il nostro sguardo. Si possono prendere varie posizioni sulle dottrine del comunismo e sulla loro fondazione, ma sul piano della storia dell’essere resta fermo che in esso si esprime un’esperienza fondamentale di ciò che è la storia del mondo. Chi prende il “comunismo” solo come “partito” o come “visione del mondo” pensa in modo altrettanto angusto di coloro che pensano che con il termine “americanismo” si indichi solo e per giunta in modo spregiativo, un particolare stile di vita» (Lettera sull’«Umanismo», it., p. 71) - Questa interpretazione può essere integrata con la tematizzazione del comunismo in uno scritto di recente pubblicazione che, nella traduzione italiana, ha il titolo Il comunismo e il destino dell’essere (pubblicato su un recente numero della rivista Aut-Aut) Qui Heidegger afferma, sancendo definitivamente lo spostamento della tematizzazione del comunismo sul piano metafisico: «Il contrassegno metafisico del compimento dell’età moderna è storicamente l’ottenimento essenziale della potenza da parte del “comunismo” a costituzione dell’essere dell’epoca della compiuta mancanza di senso» (Ivi, p. 286). - Anche il rapporto fra marxismo e tecnica viene tematizzato in questo “frammento sul comunismo” in modo più esplicito: l’origine dell’incondizionato dominio del comunismo è la macchinazione. 137 La lotta contro il comunismo deve essere consapevole che «quel puro potere nel suo incondizionato dominio, da parte sua, rinvia indietro ancora ad un altro come sua origine e sostegno dell’essenza. Ciò è la “macchinazione”, parola con la quale si deve pensare una decisione essenziale nella storia occidentale dell’essere» (Ivi, p. 289). - Pensare il comunismo a partire dalla macchinazione e quindi dal meccanismo di funzionamento della tecnica, significa comprenderne la componente spirituale. «[Il] “materialismo è “spirituale” nel senso più alto, in modo così deciso che in esso si deve riconoscere il compimento dell’essenza spirituale metafisica dell’Occidente» (Ivi, p. 288). Da ciò deriva che, come per l’essenza della tecnica, il pericolo del comunismo consiste nella sottovalutazione della sua essenza spirituale. «E perciò il “pericolo” del comunismo non consiste nelle conseguenze economiche e sociali, quanto piuttosto nel fatto che la sua essenza spirituale, la sua essenza in quanto spirito non viene riconosciuta e il confronto reciproco viene posto ad un livello che assicura completamente il suo predominio e la sua irresistibilità» (Ivi, pp. 288-289). Ricostruendo la concezione umanistica dell’uomo, il suo rovesciamento della metafisica assoluta hegeliana e il suo legame con l’essenza della tecnica abbiamo analizzato i motivi secondo i quali, il pensiero di Marx rientra nel dispiegamento della storia dell’essere intesa come metafisica. Adesso dobbiamo passare all’analisi di quella che è stata definita la seconda tesi sostenuta da Heidegger nella Lettera sull’«Umanismo», ovverosia l’individuazione, nella tematizzazione dell’alienazione, di un punto di contatto fra il suo dispositivo di pensiero e quello di Marx. * 138 La seconda tesi che intendo discutere è quella della comprensione dell’alienazione come terreno per un possibile dialogo con il marxismo. Heidegger sostiene: 1) Marx esperendo l’alienazione penetra in una dimensione essenziale della storia. 2) L’alienazione affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno. In questo punto viene individuato un elemento per un dialogo produttivo con il marxismo. «La spaesatezza diviene un destino mondiale. Per questo è necessario pensare questo destino in relazione alla storia dell’essere. Ciò che Marx, partendo da Hegel, ha riconosciuto in senso essenziale e significativo come alienazione dell’uomo affonda le sue radici nella spaesatezza dell’uomo moderno. Questa viene provocata dal destino dell’essere nella forma della metafisica, che la consolida e nello stesso tempo la occulta come spaesatezza». (Lettera sull’Umanismo, p.6970). «Poiché Marx nell’esperire l’alienazione penetra in una dimensione essenziale della storia, la visione marxista della storia è superiore ad ogni altra “storiografia”. Ma siccome né Husserl, né per quello che vedo fin ora Sartre, riconoscono l’essenzialità della dimensione storica dell’essere, né la fenomenologia, né l’esistenzialismo pervengono a quella dimensione in cui soltanto diventa possibile un dialogo produttivo con il marxismo». (ibid.) A partire dalla due tesi fondamentali sostenute nella Lettera sull’«Umanismo» bisogna porsi la domanda sulla possibilità e sulla modalità di un dialogo produttivo con il marxismo. Sulla base di queste tesi verranno ricostruiti i riferimenti a Marx contenuti negli altri testi a cui ho fatto riferimento in apertura. Su quale piano può avvenire quindi il dialogo produttivo con il marxismo? - Per impostare questo dialogo bisogna tener conto della peculiarità del dispositivo di Heidegger. Nella prima lezione dedicata ad Heidegger, abbiamo visto come nell’ambito del suo pensiero sia possibile individuare una figura dell’alienazione. Il confronto con Marx avviene su un duplice binario: 1) da un lato abbiamo a che fare con una lettura del dispositivo di pensiero di Heidegger a partire dalla 139 questione, originariamente marxiana, dell’alienazione; 2) dall’altro dobbiamo confrontarci con la lettura heideggeriana di Marx. Nell’intervista televisiva con Richard Wisser Heidegger ci dà un’indicazione del piano su cui intende affrontare il confronto. Spinto a prendere posizione sulla possibilità o meno di modificare la società e in un certo senso sul suo modo di intendere l’azione Heidegger, avanzando una sua propria diagnosi dell’epoca in cui viviamo, risponde: «Si tratta di comprendere l’essenza della tecnica e il mondo tecnico. Secondo la mia opinione ciò non può accadere fin quando ci si muove nella contrapposizione ‘soggetto-oggetto’. Questo significa: a partire dal marxismo non può essere compresa l’essenza della tecnica». Non si tratta di comprendere l’essenza della tecnica attraverso il marxismo, ma di comprendere il marxismo a partire dall’essenza della tecnica e cioè a partire dal piano metafisico del dispiegamento dell’essere nella sua essenza e nella sua progressiva dimenticanza. Il cambiamento di dispositivo e la collocazione del pensiero di Marx all’interno della storia della metafisica implica il mutamento di impostazione nell’interpretazione del marxismo, che non più politica, ma metafisica. Il mutamento di impostazione emerge da alcune dichiarazioni di Heidegger nel seminario di Zähringen (1973). Heidegger afferma: «La mia interpretazione di Marx, spiega Heidegger, non è politica. Essa pensa guardando all’essere e al modo in cui l’essere si destina. In quest’ottica e in questa prospettiva posso dire: con Marx si è raggiunta la posizione del nichilismo estremo. Questa frase non significa altro che questo: nella teoria che spiega esplicitamente che l’uomo è l’essere supremo per l’uomo, viene in definitiva fondato e confermato il fatto che l’essere in quanto essere non è più niente per l’uomo» (171-72). «Se la frase di Marx viene intesa in senso politico, ciò significa allora far diventare la politica uno dei modi dell’autoproduzione – cosa che concorda perfettamente con il pensiero di Marx. Ma come si può leggere questa frase diversamente, come si può leggerla in chiave metafisica? Facendo attenzione allo strano salto con cui Marx passa oltre un anello mancante» (ibid.) 140 «Che cosa dice effettivamente la frase? “essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice per l’uomo è l’uomo stesso”. Qui osserva Heidegger, manca un pensiero intermedio che renda possibile passare dal primo pensiero al secondo. È il pensiero che l’uomo sia la cosa in questione. Per Marx fin da principio è deciso che l’uomo e unicamente l’uomo (e nient’altro) sia la cosa in questione. Da dove viene questa decisione? In che modo? con quale diritto? In base a quale autorità? A queste domande si può rispondere ritornando alla storia della metafisica. La frase di Marx, perciò, va intesa senz’altro come frase metafisica» (ibid.). Integrazione in cui si spiega la dipendenza di Marx da Hegel e da Feurbach: «La frase citata ieri – “essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice per l’uomo è l’uomo stesso” – non è una frase politica, dice Heidegger, ma metafisica, che diviene evidente nell’orizzonte del rovesciamento della metafisica hegeliana compiuto da Feurbach. Lo si può vedere nel modo seguente: per Hegel la cosa in questione del sapere è l’assoluto nel suo divenire dialettico. Ora Feuerbach rovescia Hegel facendo diventare l’uomo, e non l’assoluto, la cosa in questione del sapere. Tre righe dopo la frase riportata, nel testo di Marx si legge la frase seguente (proprio nel senso della critica feuerbachiana): “la critica della religione finisce con la teoria per cui l’uomo è per l’uomo l’essere supremo…”» (p. 171). L’interpretazione che Heidegger dà del pensiero di Marx è di carattere metafisico. In quanto Marx pone al centro la questione dell’uomo, affermando che l’uomo è l’essere supremo per l’uomo, egli conferma il fatto che l’essere, in quanto essere, non è più niente per l’uomo e raggiunge in questo modo la posizione del nichilismo estremo. Ma il carattere metafisico del pensiero di Marx non si limita alla centralità in esso assegnata alla “questione dell’uomo”, ma dipende dal modo in cui l’uomo viene compreso in quanto “autoproduzione”. 141 Come abbiamo già visto nell’interpretazione della Lettera sull’«Umanismo», l’uomo, inteso come autoproduzione, è, secondo Heidegger, alla base del dispiegamento metafisico della tecnica. Per questo, in quanto individua l’essenza dell’uomo nell’autoproduzione, il marxismo corrisponde alla situazione in cui regna semplicemente la autoproduzione dell’uomo e della società, ovverosia a quella che Heidegger altrove identifica con l’essenza della tecnica. A questo proposito Heidegger afferma: « “Essere radicali vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice per l’uomo è l’uomo stesso”. Su questa tesi […] poggia tutto il marxismo. Quest’ultimo pensa infatti a partire dalla produzione: produzione sociale della società (la società produce se stessa) e autoproduzione dell’uomo come essere sociale. Pensando in questo modo, il marxismo è appunto pensiero di oggi, il pensiero che corrisponde alla situazione in cui regna semplicemente la autoproduzione dell’uomo e della società». (Seminari, it., p. 164) - Nell’impostazione metafisica di Heidegger l’uomo, in quanto radice di se stesso e risultato di un’autoproduzione, è all’origine del dispiegamento della tecnica e quindi del pericolo. Heidegger ci dice qualcosa a tal proposito, sempre nel Seminario di Zähringen (1973). «Vorrei sostenere, o piuttosto supporre, che l’autoproduzione dell’uomo dà origine al pericolo dell’autodistruzione. Che cosa vediamo in verità? Che cosa domina oggi in quanto determina la realtà dell’intero pianeta? La coercizione a progredire. Questa coercizione esige una coercizione a produrre, che è abbinata verso una coercizione verso bisogni sempre nuovi. E quest’ultima, la coercizione verso bisogni sempre nuovi è tale, che tutto ciò che è coercitivamente nuovo è altrettanto immediatamente invecchiato e superato, rimosso dal “più nuovo” e così via. Nell’angustia prodotta da questi avvenimenti si realizza in particolare la rottura con qualsiasi possibilità di tradizione. Ciò che è stato non può più essere presente – se non nella forma del 142 superato, che di conseguenza non può affatto essere preso in considerazione» (Ivi, p. 165). «Il marxismo e la sociologia definiscono “coercizioni” ciò a cui la realtà odierna costringe» (ivi, pp. 165). Heidegger interpreta il significato di “coercizione”, dal punto di vista ontologico, riducendo le coercizioni al Ge-Stell. Nei Seminari infatti leggiamo: «Heidegger definisce l’insieme [della “coercizione”] nella parola impianto (Ge-stell). L’impianto è la raccolta, l’insieme di tutte le modalità del porre, che si impongono all’essere umano nella misura in cui quest’ultimo e-siste oggi. Così l’impianto non è in alcun modo il prodotto della macchina umana: è al contrario la figura estrema della storia della metafisica, cioè del destino dell’essere. In questo destino l’uomo è passato dall’epoca dell’oggettività nell’epoca dell’ordinabilità: in questa nostra epoca a venire tutto sarà disponibile per mezzo di una calcolo di un ordine. In termini rigorosi non c’è più alcun oggetto, ma solo “beni di consumo” a disposizione di qualsiasi consumatore, collocato lui stesso nel mercato di produzione e consumo» (ivi, pp. 165-66). «L’uomo secondo Marx, quell’uomo che è per se stesso la sua propria radice, è appunto l’uomo di questa produzione e del relativo consumo» → Spostando la questione della tecnica su un piano metafisico, Heidegger colloca la concezione marxiana dell’uomo come autoproduzione, nell’ambito del dispiegamento dell’essere come tecnica. La tecnica è l’ultima fase di quella dimenticanza dell’essere, di cui la concezione dell’uomo come radice di se stesso è un momento. Quelle che “genericamente” da Heidegger vengono definite come le “coercizioni” a cui la realtà odierna costringe, assumono in Marx lo specifico carattere del furto del lavoro altrui da parte di un esponente di una classe rispetto all’esponente di un’altra classe. Heidegger interpreta tali “coercizioni” da e a partire dal dispiegamento del Ge-Stell, Marx invece a partire dal 143 dispiegamento del capitale [che però nel dispositivo di Heidegger è interno al dispiegamento dell’essere, e quindi assume una dimensione metafisica]. Dalla dislocazione del pensiero di Marx sul piano metafisico deriva la sua assimilazione nell’orizzonte di dispiegamento della tecnica. Ciò ha come conseguenza che Heidegger finisce per attribuire, dal punto di vista metafisico, al marxismo, quel dispositivo che Marx, nella sua concezione economico-politica, attribuiva al modo di funzionamento del capitale. Un confronto fra la lettura heideggeriana dell’essenza della tecnica intesa come “macchinismo” e la lettura marxiana del “macchinismo”, inteso come sistema autonomo di macchine, effetto del processo di valorizzazione del capitale nella fase del suo più compiuto sviluppo, può dare un’indicazione in questo senso. Lo stesso fenomeno: il dominio di un sistema di macchine e del loro meccanismo di funzionamento viene letto: 1) da Marx come effetto del processo di valorizzazione del capitale 2) da Heidegger come effetto del funzionamento in circolo del Ge-stell. Nel dispositivo metafisico di Heidegger la concezione dell’uomo di Marx è un momento fondamentale del dispiegamento della storia della metafisica. * Ma allora in che termini può avvenire un dialogo produttivo con il marxismo? 1) Da quanto è stato detto fino ad adesso deve essere chiaro che il superamento dell’alienazione nei termini proposti da Marx rimane, nel dispositivo di Heidegger nell’ambito della metafisica. Se si parte da una concezione umanista dell’uomo, il superamento della alienazione della sua essenza non può che rimanere nella sua essenza. 2) Il problema del ‘superamento’ può essere posto nel dispositivo di Heidegger a vari livelli. Può essere posto nei termini di una ‘svolta’ interna all’essere. Ed è quanto avviene nelle conferenze che abbiamo preso in esame. Può essere posto nei termini della possibilità di un contributo dell’uomo. Ed è quanto avviene attraverso la determinazione del contegno dell’abbandono137. O se si pensa agli esempi presentati nella prima lezione, nei termini di un superamento dell’oggettivazione in direzione di una comprensione delle connessioni significative della vita. Ma se si parte da quelle ‘figure dell’alienazione’ che all’inizio del nostro discorso erano state individuate nel dispositivo di Heidegger, il superamento dello spaesamento o del nichilismo o della tecnica, non offre un contributo notevole alla questione cruciale del marxismo. Un dialogo ‘produttivo’ con il marxismo, [che parte da una questione metafisica, ma ha i suoi risvolti politici] può avvenire solo rispetto al modo di concepire 137 Si veda: M. Heidegger, L’abbandono, trad. it. di A. Fabris, con un’introduzione di C. Angelino, Genova 1989. 144 l’azione. Un’indicazione in questo senso ci viene sia da alcune indicazioni tratte dai Seminari, sia dall’intervista televisiva con Richard Wisser. «Una volta ammesso che è l’uomo a produrre tutto ciò, sorge la domanda: il dominio di queste coercizioni potrà essere spezzato dall’uomo stesso?» (Seminari, p. 166) «Ma l’uomo inteso come esserci, e-statica insistenza nella radura dell’essere, si contrappone a ciò che asserisce la proposizione marxiana. Si può dire che per Heidegger l’esserci sarebbe la radice dell’uomo? No. Il concetto di radice rende impossibile portare al linguaggio il riferimento dell’uomo all’essere». (Ivi., p. 166). «… l’uomo di quest’epoca, l’uomo che si comprende come produttore di tutta la realtà e agisce di conseguenza, l’uomo che oggi si vede impigliato nella rete che si stringe sempre più strettamente delle “coercizioni” socioeconomiche (sulle quali viste dalla prospettiva della storia dell’essere si riverbera l’impianto), può questo stesso uomo produrre i mezzi per uscire dall’oppressione delle “coercizioni”? come potrebbe riuscirci senza rinunciare alla propria determinazione di produttore? È possibile una tale rinuncia nell’ambito della realtà attuale?» (Ivi, p. 166). Nell’ottica di Heidegger, l’uomo non può produrre i mezzi per uscire dalle coercizioni socio economiche, ma può soltanto esercitarsi in un nuovo tipo di pensiero. «Il raccoglimento nella sfera [dell’essere] non è provocato dal pensiero, così come intrapreso da Heidegger. Vorrebbe dire anzi che si continua a rappresentare il pensiero secondo il modello della produzione, se lo si ritiene in grado di cambiare il luogo dell’uomo» (Ivi, p. 167). Il pensiero comincia a preparare le condizioni di tale raccoglimento. * Intervista con Wisser e Seminario di Le Thor (1969). 145 1) Intervista con Wisser Domanda: vede un compito sociale per la filosofia? Heidegger: «No! non si può parlare di un compito sociale in questo senso. Se si vuole dare una risposta a questa domanda ci si deve chiedere: „che cosa è la società?“, e si deve riflettere sul fatto che l’attuale società è solo l’assolutizzazione della moderna soggettività e che una filosofia che ha superato il punto di partenza della soggettività non può più immischiarsi in queste questioni. Un’altra questione è in che misura si può parlare di un cambiamento della società. La questione della pretesa di una cambiamento del mondo riporta ad frase di Marx molto citata: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modo differente; ora si tratta di modificarlo». Citando e seguendo questa frase, si perde di vista che un cambiamento del mondo presuppone un mutamento della rappresentazione del mondo e che una rappresentazione del mondo si ottiene attraverso una sufficiente interpretazione del mondo. Questo significa: Marx si fonda su una determinata interpretazione del mondo per richiedere il suo “cambiamento” e con ciò questa frase diviene evidente come una frase infondata. Si ha l’impressione che qui si parli in modo decisivo contro la filosofia, mentre nella seconda parte della frase è implicito un invito alla filosofia.» (Intervista conR. Wisser, 69). Se si assume il punto di vista di Heidegger, in un pensare, che superi la separazione fra teoria e prassi, intesa come una contemplazione, da cui deriva una successiva applicazione, e che sia in se stesso pratico, l’interpretazione, nel momento in cui interpreta, modifica la realtà. Nell’interpretazione dell’Undicesima tesi su Feurbach Heidegger mette in evidenza come l’affermazione “i filosofi hanno interpretato diversamente il mondo; ora si tratta di trasformarlo”, se da un lato è frutto di una precisa rappresentazione del mondo, all’interno della quale una trasformazione del mondo succede la sua interpretazione, dall’altra non esclude che una trasformazione del mondo possa avvenire attraverso una interpretazione, che, interpretando, modifica. 2) Le Thor 1969 146 «Che cosa può fare il pensatore? Il presente seminario rappresenta già una risposta “e per questo sono qui” dice Heidegger. L’importante è che alcuni, al di fuori di ogni ambito pubblico, lavorino instancabilmente per mantenere vivo un pensiero attento all’essere, ben sapendo che questo lavoro deve mirare a fondare, per un lontano futuro, una possibilità di tradizione – poiché o ovvio che non si può vedere estinguersi un’eredità bimillenaria in dieci o vent’anni». (Seminari, p. 121) «Invece la “filosofia” odierna si accontenta di correre dietro alla scienza, misconoscendo le due sole realtà dell’epoca attuale: lo sviluppo economico e l’armamento che esso richiede. Il marxismo è consapevole di queste realtà. Ma esso propone anche altri compiti: “i filosofi hanno solo interpretato diversamente il mondo; si tratta di trasformarlo”». (Ivi, p. 121) «Per un esame critico di questa tesi: c’è una vera e propria antitesi tra interpretazione e trasformazione del mondo? Non è forse ogni interpretazione già una trasformazione del mondo – posta che questa interpretazione sia il risultato di un pensiero genuino? E d’altra parte, ogni trasformazione del mondo non presuppone forse, come strumento, una preliminare visione teoretica?» (ibidem). Heidegger contrappone ad una concezione in cui c’è separazione fra teoria e prassi e in cui una visione teoretica è preliminare ad ogni trasformazione ad una concezione del comprendere e del pensare che viene prima di tale scissione, partendo però dalla convinzione che ogni interpretazione è già trasformazione! «Di quale trasformazione si tratta allora in Marx? Di una trasformazione nei rapporti di produzione. Ma quale è il posto della produzione? La prassi. E da che cosa è determinata la prassi? Da una certa teoria che conia il concetto di produzione in quanto produzione dell’uomo mediante se stesso. Marx possiede quindi una nozione teoretica dell’uomo, - una nozione assai precisa, alla cui base sta la filosofia hegeliana (senza Hegel Marx non avrebbe potuto trasformare il mondo)» (Seminari, 147 p. 122). [La trasformazione è determinata dal tipo di teoria che vi è alla base, in questo caso la filosofia hegeliana e la sua concezione dell’uomo – capovolta!] «Per Marx l’essere è processo di produzione. Questa è l’idea che egli riceve dalla metafisica, dall’interpretazione hegeliana della vita come processo. Il concetto pratico di produzione può sussistere solo sul fondamento di un concetto d’essere di derivazione metafisica». (Ibid.) In questo modo ci si imbatte nello stretto legame che si instaura fra teoria e prassi. Heidegger contrappone alla concezione moderna della teoria, intesa come “una delle variabili della ricerca”, essenzialmente modificabile, la concezione aristotelica, secondo la quale la prassi sarebbe la forma più elevata di prassi. «Che cosa si intende oggi con teoria? Si intende forse una programmazione? […] Teoria è il greco theoria, essa nomina il soffermarsi a guardare l’essere. Nell’Etica Nicomachea essa rappresenta la specie più elevata di attività dell’uomo; conseguentemente è la più elevata prassi umana». (ivi, p. 123). La questione della tecnica: sguardo in ciò che è Nel ciclo di conferenze Sguardo in ciò che è Heidegger si confronta per la prima volta con l’essenza dell’epoca contemporanea, individuandola nella tecnica. Come Heidegger stesso ha dichiarato nella comprensione dell’essenza della tecnica, è evidente l’influsso dell’Operaio di Jünger. [Molte delle cose che le sue descrizioni hanno visto e detto per la prima volta, oggi le vede e le dice chiunque. Inoltre, La questione della tecnica deve alle descrizioni contenute nell’Operaio un impulso notevole. (Oltre la linea, p. 118)]. 148 Questo impulso è evidente nell’impostazione generale di carattere metafisico della questione e in alcune analisi più specifiche, per esempio quelle riguardanti l’intercambiabilità e la sostituibilità degli enti ridotti dalla tecnica a pezzi di fondo o di risorsa. 1) Il primo punto affondato nella tematizzazione della tecnica, riguarda la definizione dell’essenza della tecnica a partire dal termine Stellen. 2) Il secondo aspetto analizzato è quello della circolarità del processo attraverso cui la tecnica si dispiega. Da cui deriva l’analisi di due momenti fondamentali: a) quello della coappartenenza di tecnica e macchina; b) quello del rapporto fra parti e tutto e della sostituibilità e intercambiabilità dei pezzi di fondo, nella riduzione attraverso la tecnica di tutta la realtà a fondo o risorsa. - L’essenza della tecnica viene individuata nel Ge-stell, → struttura (Ge sta per cum e stell si riferisce a stellen) esprime la riunione dei modi del porre. - L’ente che è disvelato attraverso la tecnica : Bestand, il fondo, la risorsa. → Il termine ‘Bestand’ indica il modo di darsi dell’ente nell’epoca della tecnica. Tale ente è caratterizzato da disponibilità e da calcolabilità. - Il Bestand deve essere compreso a partire da una serie di variazioni riguardanti il termine Stellen, porre. - Il Bestand sussiste mediante un porre, Stellen, di tipo particolare. → Questo porre è il Be-stellen, l'ordinare/impiegare, imp-porre. Esso è un modo del porre (stellen). E deve essere spiegato a partire dai significati fondamentali del porre. 149 1) Il significato principale del termine ‘Stellen’ può essere preliminarmente compreso nella espressione: produrre qualcosa (her-stellen). → Il prodotto, das Her-gestellte, non è innanzitutto e necessariamente il prodotto industriale. Heidegger infatti distingue: a) das Her-gestellte che è «ciò che è semplicemente fabbricato (das bloß Angefertige)», e b) das her Gestellte, ciò che è posto qui, nell'«ambito di ciò che ci riguarda». → Heidegger chiarisce questa differenza con un esempio. La realizzazione di un sarcofago da parte di un falegname di un villaggio di montagna è altra cosa rispetto all'«industria della sepoltura di una grande città». Lo Stellen mediante cui sussiste il Bestand, (il fondo o la risorsa), il Be-stellen, l’ordinare/impiegare, pur essendo imparentato con il porre nell’aperto her stellen, deve essere pensato a partire dal secondo modo dello herstellen: il produrre, nel senso della produzione industriale standardizzata e decontestualizzata. → ma questo herstellen non esaurisce il significato del Be-stellen. 2) Lo Stellen, attraverso cui sussiste il Bestand, il Be-stellen, non è soltanto in questo senso produrre, ma è pro-durre, spingere innanzi. Questo spingere innanzi avviene nei termini di un ‘herausfordern’, di un provocare, nel senso di un richiedere con forza, quasi di un pretendere, un esigere [Diese Arbeit fordert viel Zeit, questo lavoro richiede/esige molto tempo. Diese Arbeit ist eine Herausforderung,questo lavoro è una sfida, una provocazione, nel senso di qualcosa che richiede tutte le mie energie, che mobilita tutte le mie forze, le richiede, le esige, le pretende! ]. - Il fine dell’herausfordern è l’accumulo, l’incrementare, la pro-mozione, Herausförderung. [Il termine ‘fördern’ è utilizzato nell’ambito della ricerca per 150 indicare il finanziamento e la promozione di un progetto: il ministero della ricerca ‘fördert’ promuove un progetto, lo finanzia, lo ‘fa progredire’, lo spinge innanzi]. - la differenza fra ciò che è posto lì e ciò che è prodotto attraverso il processo tecnico non consiste soltanto nel processo produttivo, quanto nella sua finalità. Attraverso l’imposizione tecnica la realtà ridotta a fondo/risorsa non risponde ad un'immediata esigenza, ma è sfrutata e richiesta per l'accumulo e lo stoccaggio. Essa diviene fondo di magazzino fino alla sua successiva utilizzazione, tutte le sue energie sono mobilitate perché essa divenga un risorsa utilizzabile in ogni momento. → L’imposizione della tecnica avviene nella forma del comando. Tale comando avviene nella modalità della Gestellung, l’obbligo a presentarsi, la presentazione obbligatoria: principali destinatari di questa Gestellung sono gli uomini e le donne impiegati (bestellt) nel lavoro. L’obbligo a presentarsi non riguarda solo l’uomo, ma il tutto dell’essente presente. Sintetizzando: primo aspetto: la tecnica è espressione di un modo particolare di porre. Questo porre è l’impiegare o l’ordinare (Be-stellen) che si manifesta come provocazione ed è finalizzato all’incremento e all’accumulazione. In quanto tale essa non riguarda solo gli uomini, ma il tutto dell’essente-presente. L’impiegare avviene nella forma del comando attraverso la Gestellung che è l’ordine a presentarsi alla leva. 151 2) La circolarità del processo di imposizione della tecnica Finalizzato all’accumulazione, quindi, lo Stellen, attraverso cui sussiste il Bestand, si caratterizza come un processo circolare. Tale processo non ha altra meta se non nella perpetuazione di se stesso. In quanto ordinato, bestellt, l'ente è un momento dell'ingranaggio, in cui ogni ente prodotto è subito nuovamente ordinato per l'ottenimento di un nuovo risultato. L'ente, così prodotto, non è un risultato definitivo e in sé concluso, ma è soltanto un tassello per un nuovo processo di produzione. Esso è posto in un ordinare il cui risultato è successivamente ordinato in un ulteriore adoperare: → «Un porre provoca l’altro, lo assale con l’obbligo a presentarsi, che non avviene in una mera successione di azioni del porre, giacchè esso mediante la sua essenza, accade piuttosto in anticipo e in segreto. Solo per questo l’obbligo a presentarsi rende possibili una pianificazione e disposizione, da esso utilizzabili, dei singoli intenti del porre particolare. E tuttavia, dove sbocca da ultimo la concatenazione dell’ordinare?» (50). → Per sottolineare la mancanza di meta della concatenazione dell’ordinare proprio della tecnica moderna, Heidegger descrive un particolare circolo in cui ogni prodotto è la conseguenza, Folge, di un risultato, Erfolg, già ottenuto, e a sua volta inserito in un nuovo processo di produzione. «La risorsa sussiste e sussiste in quanto è posta in vista di un ordinare. Convertita nell’ordinare, essa è posta nell’impiegare. L’impiegare pone in anticipo ogni cosa in modo tale che ciò che è posto insegua ciò che consegue (dem folgt, was erfolgt). Posto in questo modo tutto è “in conseguenza di” (im Folge von). La conseguenza 152 (Folge) però è ordinata in anticipo come risultato (Erfolg). Il risultato è quella specie di conseguenza che rimane a sua volta rinviata all’esito di conseguenze ulteriori» (p. 48/26). → spiegazione: [l’ente impiegato e ordinato dalla tecnica non ha una sua autonomia come qualcosa che è stata effettuata e ha un suo statuto e una sua utilità, ma ogni prodotto è pensato come conseguenza di ciò che è stato già effettuato, che a sua volta è un effetto di un effettuato. C’è una sorta di anticipazione dell’effettuazione: ogni ente è pensato come effettuato e come conseguenza di un’effettuazione. È annullato il nesso causa-effetto, nel senso che la causa non sussiste più come un ente a se stante, ma è immediatamente effetto: il risultato di qualcosa che è già conseguenza e risultato di un’altra che non ha un’esistenza autonoma, se non come effetto e risultato]. → In questo processo tutto avviene in conseguenza di qualcosa già realizzata, come sua ulteriore manipolazione. Ogni prodotto è la conseguenza di un effetto già ottenuto, ed è a sua volta inserito in un processo di ulteriore trasformazione. Questo processo è una «concatenazione dell'ordinare», finalizzata soltanto ad un nuovo ordine. Così avviene nella produzione industriale: → «Come il suolo è sfruttato per produrre il carbone, il carbone da parte sua è sfruttato, cioè provocato, per produrre calore; questo è già ordinato per fornire vapore, la cui pressione aziona il meccanismo che mantiene in funzione una fabbrica, che è, a sua volta, ordinata per costruire macchine e produrre attrezzi, con i quali vengono messe e mantenute in azione altre macchine». → ciò avviene anche rispetto alla natura: «La centrale idroelettrica è posta nella corrente del fiume. Essa pone quest’ultima in vista della sua pressione idraulica, che pone in rotazione le turbine, rotazione che a sua volta aziona il macchinario il cui meccanismo pone la corrente elettrica mediante la quale la centrale elettrica interurbana e la sua rete elettrica sono poste in vista della fornitura di corrente. La 153 centrale elettrica posta nella corrente del Reno, l’impianto di sbarramento, le turbine, i generatori di elettricità, l’impianto di distribuzione, la rete di diffusionetutto questo e ancora altro, nella misura in cui è immediatamente sul posto è esclusivamente non per essere presente, bensì per essere posto allo scopo di porre qualcos’altro» (p. 50). In questo modo Heidegger introduce un altro elemento per spiegare la circolarità della catena dell’impiegare o dell’imporre o dell’ordinare: tutto ciò che è posto dalla tecnica, è posto allo scopo di porre qualcos’altro: lo Stand del Bestand, il luogo, il posto della riserva, dell’ente impiegato dalla tecnica consiste nell’essere ‘immediatamente’ sul posto, pronto per l’impiego. In questo processo circolare ogni prodotto non ha un'esistenza autonoma. Per indicare questo ‘status’ del ente impiegato dalla tecnica Heidegger utilizza l’espressione: 'auf der Stelle zur Stelle'. Questa espressione è stata tradotta da Vattimo con ‘essere al posto al suo posto’, qui con ‘immediatamente a posto’ a) auf der Stelle è un’indiacazione spaziale e temporale: essa significa "in un posto ben preciso" – ed indica anche un momento nel tempo, "l'istante". Nella terminologia militare indica lo stare sull’attenti: sul posto, istantaneamente. b) zur Stelle, indica l’essere a disposizione, a portata di mano, Il prodotto tecnico è: a) auf der Stelle, in un punto ben preciso, istantaneamente, b) zur Stelle, a disposizione, a portata di mano, e cioè è in un posto a portata di mano e immediatamente a disposizione. → pronto «per essere posto (gestellt) e cioè semplicemente per porre un altro (anders zu stellen)». → Ciò che è così impiegato per essere «immediatamente a disposizione», «sussiste come fondo ed è stabile nel senso del fondo». 154 → ciò sottolinea ancora una volta l’autonomia del processo dell’ordinare: → L’ordinare non sbocca da nessuna parte, perché esso non produce nulla che abbia una presenza al di fuori del porre: «Ciò che è ordinato è sempre e solo posto allo scopo di porre un altro nel risultato come sua conseguenza. La catena dell’ordinare non sbocca in nulla, anzi essa entra soltanto nel suo corso circolare. Solo al suo interno l’ordinabile ha la sua sussistenza. La corrente del Reno, ad esempio, è solo come ciò che è ordinato nel suddetto ordinare. Non è la centrale idroelettrica ad essere costituita nella corrente del Reno, bensì è la corrente del fiume ad essere incanalata all’interno della centrale elettrica, e ciò che essa è in tal caso lo è in base all’essenza di quest’ultima. » (p.51). [→ Questo processo riguarda tutto l’ente presente: L'impiegare attraverso cui sussiste il fondo ha il carattere del provocare (herausfordern) e dell'accumulare (herausfördern), ed accade «con il carbone, con il bronzo, con il petrolio grezzo, con le correnti e con il lago, con l'aria». Questo ordinare è «in sé universale» e riguarda «das Eine Ganze des Anwesenden», «la totalità di tutti gli essenti presenti». → Emerge il legame dell’impiegare con l’essere. - Questa violenza dell’impiegare, rivolta a tutto l’ente, alla natura come l’uomo, mette in evidenza, secondo Heidegger come esso non sia semplicemente «una macchinazione (Machenschaft) un’attività umana compiuta nel modo dello sfruttamento», anche se l’uomo non ne è completamente estraneo. Gli uomini possono tale ordinare, solo nella misura in cui sono ordinati in esso, «l'uomo è l'impiegato dell'ordinare (der Angestellte des Bestellens)»: «Gli uomini nel loro rapportarsi agli essenti presenti, sono già provocati a rappresentarsi l’essente presente, innanzitutto dappertutto e costantemente, come ciò che è ordinabile in un ordinare. Nella misura in cui il rappresentare umano ha già ordinato l’ente presente come l’ordinabile nel calcolo dell’ordinare, l’uomo secondo la sua 155 essenza rimane, lo sappia o meno, ordinato nell’ordinare per l’ordinare dell’ordinabile (für das Bestellen des Bestllbaren in das Bestellen bestellt)» (p. 53). Il rapporto fra l'uomo e l'ordinare, però, potrà essere chiarito in tutte le sue implicazioni, quando sarà emerso il legame dell'ordinare con l'essenza della tecnica e di quest'ultima con l'essere.] Prima di passare al rapporto fra tecnica e essere, bisogna mettere in evidenza ancora due aspetti della sua essenza: Il processo in circolo è espressione dell’essenza della tecnica come ‘Ge-Stell’ - Il Ge-Stell viene definito da Heidegger come «la riunione del porre, in cui l’ordinabile si dispiega in quanto fondo». Tale termine, che nell’uso comune indica lo scaffale o il telaio ed è spesso utilizzato in parole composte come Büchergestell, (scaffale per libri), viene utilizzato da Heidegger perché nella sua struttura (Ge sta per cum e stell si riferisce a stellen) esprime la riunione dei modi del porre. Il Ge-Stell, secondo Heidegger, indica l’ordinare universale, che travolge tutto il reale nell’ordinabilità (Bestellbarkeit). In esso tutto l'essente presente diviene Bestand. Il Ge-Stell infatti, trascina costantemente (ständig) l'ordinabile (das Bestellbare), cioè tutto l’ente-presente nel funzionamento in circolo dell'ordinare (der Kreisgang des Bestellens). - per spiegare tale operazione Heidegger utilizza il termine Feststellen, nella sua duplicità di significato: Feststellen vuol dire, infatti, bloccare, fermare, assicurare, ma anche, constare e verificare. Il Ge-Stell blocca, stellt fest, il tutto dell’ente-presente nel funzionamento in circolo dell'ordinare, nella misura in cui lo verifica, fest stellt. 156 La doppia sfumatura di questo termine lascia emergere un aspetto dell'essenza della tecnica, che fonda la sua affidabilità sulla verificabilità dell'ente, cioè sulla possibilità di bloccarlo e mantenerlo fermo per ogni controllo e verifica. L'ente bloccato nel funzionamento in circolo dell'ordinare è riposto (abgestellt), come ciò che costantemente così sussiste, nel fondo. Heidegger esprime un altro un momento essenziale della tecnica, attraverso i due significati del termine 'raffen'. In quanto travolge tutto nell'ordinabilità il Ge-stell è per Heidegger, Ge-raff, la riunione dell'«arraffare», 'raffen'. ACCUMULO. Il verbo 'raffen', 'arraffare', mette in evidenza la violenza dell’ordinare, sempre finalizzato all’accumulazione di scorte, ulteriormente ordinate, e, contemporaneamente, si usa nella lingua parlata per indicare il momento del comprendere, nel senso dell' 'afferrare', laddove è evidente il riferimento allo strappare violento dal buio di ciò che non è compreso. Con questi due significati del termine 'raffen' Heidegger esprime ancora una volta un momento essenziale della tecnica, che può accumulare e arraffare materialmente fondi di magazzino, solo in quanto si basa su una pianificazione del reale, 'afferrato', gerafft, nella sua calcolabilità. L'arraffare non accumula semplicemente l'ente reale in fondi di magazzino, ma strappa costantemente ciò che è ordinato nel funzionamento in circolo dell'ordinare, all'interno del quale ogni ente ordina l'altro, mettendolo in funzione (treiben). Così rappresentato il Ge-Stell è anche Getriebe des Betriebes, meccanismo del funzionamento. A partire da quest’ultima definizione si può comprendere anche: a) la coappartenenza di tecnica e macchina e b) la riduzione del tutto dell'ente a pezzo di fondo 157 a) La tecnica moderna viene normalmente identificata con «la tecnica delle macchine motrici» (56). Questa definizione, seppur esatta, secondo Heidegger, non coglie l'essenza della tecnica: «La tecnica moderna non è ciò che è attraverso la macchina» ma al contrario «la macchina è solo ciò che è e come è, a partire dall’essenza della tecnica». Fra la tecnica e la macchina, infatti, secondo Heidegger, vi è una rapporto di coappartenenza, cioè non è la tecnica a derivare dalla macchina, né la macchina a derivare dalla tecnica, ma a) il Ge-Stell esegue, riproduce l’essenza della macchina e il suo funzionamento autonomo. Esso infatti 1) si impone attraverso un processo circolare in ci muoviamo in una catena di effettuazioni, 2) e riproduce l’essenza dell’ingranaggio, in cui ogni ente sussiste solo in quanto è al suo posto pronto e disponibile all’impiego. e, dice Heidegger, in quanto è «la circolazione dell’impiegare, esegue in sé stessa l’essenza della macchina». b) Non solo la tecnica esegue la circolarità del meccanismo di funzionamento della macchina, ma anche la macchina deve essere pensata a partire dall’essenza della tecnica. Solo in base all’essenza della tecnica la macchina è ciò che è: 158 1) «La macchina non è qualcosa che esiste separatamente. Essa non è assolutamente un tipo più complicato di strumento o apparecchiatura, solo un ingranaggio (Räderwerk) che si aziona da solo a differenza dell’arcolaio della contadina». 2) La macchina non è nemmeno un oggetto, cioè qualcosa che è posta lì di fronte a noi e ha una sua autonomia: essa è solo «nella misura in cui funziona» e funziona «nel meccanismo del funzionamento», che a sua volta si aziona come il marchingegno dell’ordinare dell’ordinabile (der Umtried des Bestellens des Bestellbaren). Le macchine funzionano «all’interno di un macchinismo», (Maschinerie), determinato, a sua volta, dal circolo dell'ordinare attraverso il quale il Ge-Stell ordina il reale come fondo. La macchina, quindi, è solo un piccolo ingranaggio del meccanismo di funzionamento del Ge-Stell, che ordina ogni aspetto del reale come fondo, imponendogli di stare sempre al suo posto a disposizione per un ulteriore ordine. Il modo in cui la tecnica attraverso macchina produce qualcosa, secondo Heidegger, è essenzialmente diverso rispetto al fare artigianale. Il prodotto della macchina, infatti, non ha un suo status e una sua autonomia. Esso è prodotto solo «per uscire di scena», per essere ulteriormente ordinato in un processo di trasformazione. b) Ciò che la macchina produce è solo un «pezzo di fondo» (Bestandstück). Heidegger intende il termine ‘Stück’ in modo specifico. Esso non è usato come sinonimo di parte, ma in contrapposizione ad essa. «Il pezzo è qualcosa di diverso dalla parte. La parte si spartisce con altre parti nell’intero, prende parte all’intero e gli appartiene. Invece il pezzo è separato, e lo in quanto pezzo che addirittura è segregato dagli altri pezzi. Esso non si 159 spartisce mai con questi in un intero. In pezzo di fondo non si spartisce nemmeno con il suo simile nel fondo, anzi questa è ciò che è spezzettata (zerstückelt) nell’ordinabile. Lo spezzettamento non frantuma, bensì crea la riserva di pezzi di riserva. Ciascuno di essi è incastrato, ingabbiato in un corso circolare dell’impiegabilità. La segregazione di un pazzo dall’altro corrisponde all’ingabbiamento di ciascun segregato nella fabbrica dell’impiegare» (59). Il pezzo, infatti, non appartiene ad un tutto, ma è solo un momento isolato dell'ingranaggio. Esso ha una sua funzione solo se è ordinato nel processo di produzione, nel quale può essere in ogni momento sostituito. La sua essenza consiste proprio in questa sostituibilità. La parte invece costituisce il tutto, ed è essenziale al funzionamento di esso. «I pezzi di fondo sono pezzo per pezzo gli stessi. Il loro carattere di pezzo esige tale uniformità. In quanto uguali i pezzi si trovano nella massima segregazione l’uno rispetto all’altro e proprio in tal modo accrescono e assicurano il loro carattere di pezzo. L’uniformità dei pezzi consente che un pezzo possa essere senz’altro, cioè immediatamente rimpiazzato con l’altro e quindi essere presente sul posto. Un pezzo di fondo è sostituibile con l’altro. In quanto pezzo il pezzo è già posto in vista della sostituibilità. ‘pezzo di fondo’ significa ciò che è segregato in quanto pezzo e ingabbiato in modo rimpiazzabile in un impiegare. Pensato in modo rigoroso anche ciò che chiamiamo parte meccanica non è mai parte. È vero che esso è inserito nel meccanismo, ma lo è come pezzo rimpiazzabile. Invece la mia mano non è un pezzo di me. Io stesso sono totalmente me stesso in ogni gesto della mia mano, sempre ogni singola volta» (60). Il termine ‘pezzo’ si riferisce a qualcosa privo di vita, ciò nonostante esso deve essere utilizzato, secondo Heidegger, anche in riferimento all’uomo. «Sia in 160 quanto manovra le macchine, sia in quanto all’interno dell’impiegare del macchinario, le costruisce e le fabbrica […]. L’uomo è un pezzo di fondo nel senso rigoroso delle parole pezzo e fondo». Anche l’uomo, infatti, viene utilizzato come un sostituibile pezzo dell'ingranaggio all’interno del processo dell’ordinare, che provoca alla presentazione ogni singolo prodotto, perché esso sia costantemente a disposizione per un ulteriore ordine. Citazione a pagina 61. Come pezzo di fondo l'uomo è, secondo Heidegger, uno strumento nelle mani della tecnica. Attraverso l’uomo il Ge-Stell ordina la totalità degli essenti presenti, in un processo circolare, che coinvolge tutto, senza eccezioni. Anche la natura, che sembra porre un confine decisivo alla tecnica, in realtà appartiene essenzialmente al suo ambito. L’interpretazione secondo la quale infatti, la tecnica rimarrebbe assegnata alla natura, che, fornendo i materiali, le porrebbe un confine decisivo, non tiene conto che la natura, nella misura in cui fornisce le forze che vengono ordinate nella trasformazione tecnica, è già originariamente provocata nella sua essenza. La natura non è contrapposta al Ge-Stell come qualcosa di oggettivo, che viene sfruttato e provocato dall’esterno all’accumulo, ma è posta nell’ambito stesso del provocare ordinante. «Nell’epoca della tecnica la natura non è un confine della tecnica. Essa è solo il pezzo fondamentale di fondo del fondo tecnico e nient’altro al di fuori di esso» (43-44). Essa stessa, a partire da questa appartenenza, è fondo, e, precisamente fondo fondamentale (Grundbestand). * 161 La questione della tecnica come questione dell’essere. Macchine e macchinismo in Heidegger (e Marx ) dott. Paolo Primi per contatti: [email protected] «11. I tecnici trasformano il mondo solo in modi differenti, nell’indifferenza generalizzata; ciò che conta è pensare il mondo e interpretare le trasformazioni nell’inaccessibilità del loro fondamento, di comprendere e esperire la differenza che lega l’essere al nulla»138. L’aspetto forse più singolare del pensiero di Heidegger consiste nell’insistente affermazione del primato che un problema filosofico-accademico, il significato della parola “essere”, detiene nel determinare il destino (Geschick) dell’umanità, il nucleo più intimo della sua capacità di futuro. La paradossalità dell’opera filosofica di Heidegger risulta dall’oscillazione fra la complicata elaborazione di temi e problemi teoreticamente rarefatti e una critica dell’età moderna forse la più radicale dell’epoca. In realtà, dietro al problema ontologico, all’apparenza così anodino, si nasconde un confronto di estrema intensità teoretica con i “fenomeni” più laceranti del mondo contemporaneo – come la svalutazione dei valori e la crisi delle identità tradizionali, in una parola il dissesto latente e infrastrutturale della modernità – ricapitolabili nell’espressione un po’ sovraccarica di mal-essere. Appoggiandoci per un istante su quest’espressione linguistica, ambiguamente pregiudicata dal suo alone psicologistico, e tuttavia non del tutto estranea al lessico filosofico heideggeriano (se si lascia collidere l’istanza esistenziale con l’emergenza ontologica dello Unwesen), vediamo come tutto giri intorno alla soluzione di quello che lo stesso Heidegger ha chiamato negli anni Sessanta il suo “rompicapo” ontologico139: la questione dell’essere. Lo stesso problema aveva ricevuto una formulazione molto più enfatica rispetto a quest’idea un po’ dimessa di sciarada nel § 1 di Essere e tempo, proprio nelle parole d’attacco dell’opera: «Benché la rinascita della “metafisica” sia un vanto del nostro tempo, il problema dell’essere è oggi dimenticato. Si crede infatti di potersi sottrarre a una rinnovata gigantomachía perí tês ousías»140. È tale dimenticanza dell’essere, mascherata nell’effetto di signoria sull’ente, il movente metafisico del mal-essere moderno, che trova in espressioni come nichilismo e tecnica una codificazione ampiamente condivisa nell’ambito della cultura tedesca tra fine 800 e anni Trenta del 900 in quel filone di ricerche noto col titolo di “filosofia della tecnica”141. Nella negligenza dell’essere, l’uomo può concentrarsi sull’ente per dominarlo e padroneggiarlo, innescando una guerra devastante per la sovranità, segretamente dipendente dal suo “rimosso” ontologico142. Qui l’orizzonte problematico heideggeriano si configura come un intenso confronto col fenomeno nichilistico a partire dall’identificazione della questione dell’essere con la questione della tecnica moderna, ovvero a partire dall’individuazione e dalla ristrutturazione del campo ontologico della gigantomachia. La tesi che intendo articolare è che l’intenzionalità segreta della lettura heideggeriana di Marx si collochi al centro del tentativo di rinnovare la battaglia intorno all’essere, ripensando a fondo le K. AXELOS, “Su Marx e Heidegger. Tesi su Marx”, in ID., Marx e Heidegger, trad. it., intr. e note di E. Mazzarella, Napoli 1977, p. 149. 139 Cfr. Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, Napoli, p. 56. 140 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, p. 17. 141 Cfr. M. CACCIARI, Excursus storico-politico sulla questione della Tecnica, in ID., Salvezza che cade… 142 Qui sarebbe il caso di indagare su una certa ricezione del tema freudiano della Verdrängung (e della Zänsur come fenomeno della coscienza derivato dal Trieb) in Sein und Zeit, soprattutto a margine delle riflessioni sulla struttura del Gewissen e sulla funzione esistenziale della Uneigentlichkeit. 138 162 strutture e le modalità d’esecuzione di quella battaglia di titani, quella machía, quella macchinazione [ontologico-politica], verificandone gli esiti attraverso il confronto (scontro) con una posizione filosofica, forse la sola della tarda modernità, consapevolmente ingaggiata in quella lotta per l’assunzione e la ristrutturazione della totalità del quadro ontologico, nella figura della trasformazione del mondo (qui “mondo” Heidegger l’intenderebbe nel significato metafisico di totalità dell’ente, omnitudo realitatis). La gigantomachía perí tês ousías, rispetto a cui «le guerre mondiali restano qualcosa di superficiale»143 (come si esprimerà Heidegger nel 1955), costituisce l’alveo di senso dentro il quale si disloca un’analisi della modernità effettuata in “contrappunto” rispetto alle tesi del marxismo, espressione di una posizione filosofica collocata esplicitamente agli antipodi rispetto a quella heideggeriana: dove, dico in anticipo, all’alienazione viene contrapposto l’oblio dell’essere, e al dominio di classe la tecnica144. I filosofemi principali dell’itinerario heideggeriano sembrano, inoltre, rovesciare e disinnescare i risultati più solidi della critica marxiana dell’ideologia, attribuendo alla filosofia il rango di “base” o struttura, e relegando tutto ciò che resta nell’inferno della “sovrastruttura”. Leggo, in ordine sparso, alcune affermazioni di Heidegger in proposito: «Ogni epoca della storia occidentale si fonda sulla propria metafisica»145; oppure: «La storia della metafisica è il fondamento essenziale di ogni storia»146; o anche: «Poiché la metafisica determina la storia del periodo occidentale del mondo, l’umanità occidentale, in tutti i suoi rapporti con l’ente, e quindi anche con se stessa, è in ogni senso portata e guidata dalla metafisica»147. Heidegger concepisce la storia della metafisica secondo un modulo congenere a quello kantiano (e poi fichtiano) come Kampfplatz, come teatro dello scontro epocale fra posizioni irriducibili, per lo piò connotate geopoliticamente (Critica della ragion pura, A VII)148. La migrazione interna rispetto a tale paradigma, in grado di riattivare la struttura polemologica della metafisica dopo l’urto con la critica marxiana dell’ideologia e di restituirle così peso ontologico, è inscritta nella definizione del fenomeno dell’oblio dell’essere. Ossia in un dispositivo teorico capace di mostrare come ogni fase storica della metafisica celi una determinata interpretazione dell’ente in quanto ente, dove l’essere stesso “è assente” o “si nasconde”, o “si ritrae”. La modalità secondo cui l’ente in quanto tale viene compreso condiziona globalmente il mondo storico dell’uomo. L’interpretazione della natura come res extensa da parte di Descartes, ad esempio, determina uno stato di cose in cui diventa metafisicamente possibile il macchinismo dell’età moderna, e da ciò un nuovo rapporto col mondo e una nuova umanità ad essa corrispondente. In un simile contesto, una critica della società orientata su Marx, quindi sulla decostruzione dei “rapporti di produzione” come fondamento dell’estraneazione dell’uomo, è radicalmente invalidata. La stessa determinazione della sfera produttiva sarà situtata nel contesto di un’analisi dell’essenza della razionalità moderna, della logica che si nasconde nella rappresentazione del mondo come un che di “tecnologico”. La trasformazione del mondo intenzionata da Marx, per attuarsi, implicherebbe, restando per il momento solo alla superficie del discorso heideggeriano, non il mutamento dei rapporti di produzione, ma del rapporto dell’uomo con l’essenza della produzione, ossia del mondo in quanto tecnica. D’altra parte non si tratta nemmeno di sostituire una rappresentazione del mondo con un’altra, mettiamo con una rappresentazione non-tecnologica, ma di comprendere come il mondo nella modernità sia anzitutto compreso a partire dal rappresentare e dall’attività rappresentativa (attività che riduce tutti gli enti a oggetti disponibili per la dominazione dell’uomo), ad esempio, e come ciò sia un implicito invisibile stato di cose, un’ovvietà mai tematizzata in base a cui viene compresa quella totalità di rapporti, o interezza di rimandi (Verweisunsganzheit) che per Essere e tempo coincide con la definizione ontologica del “mondo”. Non è una classe, allora, ossia un raggruppamento sociale che M. HEIDEGGER, La questione dell’essere, in: JÜNGER/HEIDEGGER, Oltre la linea, Milano, p. 165. P. ROHS, Martin Heidegger, in E. NORDHOFEN (a c. di), Filosofi del novecento, Torino 1988, p. 73 (Physiognomien. Philosophen des 20. Jahrhunderts in Portraits, Königstein/Ts. 1980, tr. it. di A. M. Marietti). 145 M. HEIDEGGER, Nietzsche, 2 voll., 1961, I, p. 479. 146 Ibid, II, p. 202. 147 Ibid., p. 343. 148 Cfr. su quest’ultimo connotato dell’idea kantiana della metafisica: G. DELEUZE/F. GUATTARI, Che cos’è la filosofia?, Torino 1995. 143 144 163 organizza e impone la propria dominazione politica e ideologica, ma la tecnica come modo peculiare in cui si configura il mondo come un intero, nella figura del dominio, ciò che oggi dispone dell’uomo149. Questa, in estrema sintesi, la tesi di Heidegger. Si tratta qui della radicalizzazione di un programma filosofico consistente, secondo un’espressione di Essere e tempo, in un’«ontologia fondamentale» – sulla base di cui Heidegger credeva di poter avviare una fase ultra-metafisica della storia, con tutta l’ambiguità del prefisso, una nuova fase, un nuovo stadio della storia dell’essere in cui sarebbe trasformato il rapporto dell’uomo con la tecnica. Peraltro sulla base di una vischiosa dichiarazione dello stesso Heidegger sulla «verità e grandezza» del nazionalsocialismo in un corso del 1935, Introduzione alla metafisica (che non è resa meno ambigua dalla parentesi esplicativa aggiunta nell’edizione a stampa del 1953, dove il nazionalsocialismo viene presentato come una modalità inedita e dirompente di «incontro della tecnica planetaria con l’uomo moderno»; dotata evidentemente di un ineffabile privilegio rispetto alle modalità del comunismo e dell’americanismo150), tutta l’ambiguità del prefisso ultra- è stata rilevata, con estrema durezza da critici marxisti come Adorno il quale, in Dialettica negativa (Torino 1970, p. 53), afferma: «In Germania continuano ad avere influenza le ontologie, specialmente quella heideggeriana, senza che atterriscano le tracce del passato politico. Tacitamente l’ontologia viene intesa come la disponibilità a sanzionare un ordine eteronomo, sottratto alla giustificazione di fronte alla coscienza. Il fatto che simili interpretazioni vengano smentite da fonti autorevoli come malinteso, uno scivolare nell’ontico, una mancanza di radicalismo del problema, non fa che rafforzare la dignità del richiamo: l’ontologia sembra essere tanto più numinosa, quanto meno si lascia fissare a contenuti determinati. L’inafferrabilità diventa inattaccabilità… Ma la sua influenza non sarebbe comprensibile se essa non andasse incontro ad un bisogno sentito, indice di un’omissione, la nostalgia di non doversi accontentare del verdetto kantiano sul sapere assoluto»151. Mantenendo sullo sfondo questa oscillante determinazione critica della questione dell’essere, presa tra la maliconia del “bisogno ontologico” kantiano e la sanzione in termini di teologia negativa di un ordinamento eteronomo dell’ente, l’intenzione di questa breve esposizione delle direttrici principali della lettura heideggeriana di Marx consiste nel retrodatare il confronto con il “marxismo” rispetto agli anni Quaranta, quando il tema emerge esplicitamente in una lettera indirizzata al francese Jean Beaufret (1946), innestandolo fin dentro alla prima formulazione del problema dell’essere, con l’effetto di sottrarre gli esordi filosofici di Heidegger al loro carattere impolitico, poco più che accademico. Tale approccio ha due ordini di legittimazione: uno, marcatamente storiografico, coinvolge essenzialmente una problematica comune d’inizio secolo (Novecento) e che possiamo articolare nella doppia ricezione della genealogia nietzscheana del nichilismo (come decostruzione del cristianesimo) e nella critica marxiana dell’alienazione (come decostruzione dell’umanismo); l’altro di ordine quasi filologico, ricavato dalla trama concettuale e argomentativa di un ciclo di seminari organizzati tra la Francia e la Germania e che si tennero fra il 1968 e il 1973, in anni quindi di intensa propulsione teoretica e politica del marxismo. Seminari – è il titolo del volume che raccoglie i protocolli di quelle sedute di lavoro – sarà il testo di riferimento per esaminare questo nodo di problemi. Questo testo costituisce, inoltre, anche l’ultimo ciclo di contributi filosofici heideggeriani, ed è dedicato prevalentemente ad una retrospettiva sul proprio pensiero, ovvero sulla «questione dell’essere», a partire da tre punti di accesso: Hegel, Kant e Husserl. Tuttavia, secondo le parole dello stesso Heidegger, che ribadiscono quella paradossalità di cui s’è detto al principio: «Questo seminario, con il suo punto di partenza apparentemente così specialistico, si vede posto in verità di fronte alle decisioni ultime che questa realtà ci costringe ad assumere»152. 149 P. ROHS, cit., pp. 95-97. Su questo punto, cfr. M. HEIDEGGER, Ormai solo un dio ci può salvare. Inervista con lo Spiegel, (13 maggio 1976), tr. it. di A. Marini, Parma 1987, pp. 129-131. 151 Cit. in G. Vattimo, Introduzione a M. Heidegger, Saggi e discorsi, p. V. 152 M. HEIDEGGER, Seminari, p. 169. 150 164 1. La scena filosofica e la questione – Partiamo dagli esordi filosofici, con lo scopo di sagomare velocemente e con “tendenziosità” il profilo storiografico di Heidegger per come si costruisce, facendo blocco con il Novecento, tra la prima e la seconda guerra mondiale, con tutti i limiti e le insufficienze di uno schema. Ciò servirà a complicare la circostanza che all’inizio ci sia «un problema puramente accademico, situato nel contesto dell’interpretazione di Aristotele, e inteso all’elucidazione del significato di un’espressione linguistica»153, emerso essenzialmente dalla lettura della dissertazione di Franz Brentano, Del molteplice senso dell’ente secondo Aristotele (1862) e del trattato del teologo Carl Braig, Dell’essere. Compendio di ontologia (1896). Se il primo ci tornerebbe utile nella definizione del metodo filosofico che Heidegger opporrà al discorso del metodo marxiano, il secondo invece c’installa immediatamente nel fitto del dibattito teologicopolitico a cavallo del Novecento. Anzitutto la cronologia: nel 1896, anno d’edizione del trattato di Braig, si svolgono ad Atene i primi giochi olimpici moderni e Strauß scrive Also sprach Zarathustra – ciò avviene appena sette anni dopo la nascita di Heidegger a Meßkirch, nel 1889, anno del crollo psichico di Nietzsche e della nascita di Charlie Chaplin, Ludwig Wittgenstein e Adolf Hitler. Il cattolico Braig si muoveva nel contesto di una peculiare corrente culturale dell’epoca chiamata «antimodernismo»154, e sanzionata teologicamente nel 1907 con l’enciclica Pascendi dominici gregis («De falsiis doctrinis modernistarum»). Se l’impianto teorico dell’enciclica e delle argomentazioni provenienti dalle schiere di chierici antimodernisti si attradava su tematiche già resistenziali come la difesa dei dogmi ecclesiastici (come l’‘immacolata concezione’) e dei principi della gerarchia (come l’‘infallibilità del papa’), Carl Braig, nel suo Was soll der Gebildete vom Modernismus wissen?, scopriva «presupposti fideistici irriflessi» nelle varianti della scientificità moderna e sollecitava un nuovo risveglio dal “sonno dogmatico” in cui vedeva cristallizzate le strutture della moderna civilizzazizone. Progresso, scienza, evoluzione biologica, leggi storicoeconomiche, la stessa categoria di civiltà venivano messi duramente in crisi e rappresentati nei termini di un processo di imprigionamento coincidente con l’emergere irriflesso, sotto la vernice sociologica dell’individualismo, dell’atomizzazione sociale e della contemporanea massificazione, di un fenomeno ben più lacerante. Nell’ottica antimodernista di Braig, si trattava di portare alla luce il nucleo filosofico della modernità, identificato nell’«autonomia del soggetto», il cui assolutismo sarebbe informato da una nozione di libertà fattizia, ricavata da un rapporto pragmatico-utilitaristico con la verità, intesa a sua volta come «ciò che procura risultati» – in un gusto estremo e impoverito del disprezzo per il mistero, nei confronti del quale è ormai impossibile provare quel timore e tremore, concepibile solo con un ritorno ad una forma di realismo pre-kantiano e un assetto sociale pre-illuministico fondato su un nuovo ordine teologico. Tali tematiche rispecchiano un’inquietudine decisamente metafisica di cui il clima culturale coevo era impregnato, e rappresentano una sorta di schema abbreviato riesposto con estrema intensificazione teoretica nelle analisi heideggeriane del Moderno. Per una maggiore enfasi documentaria su questa convergenza con una serie di atteggiamenti interpretativi, di approcci caratteristici nei confronti del mondo moderno e della civiltà industriale, si tenga presente l’adesione del giovane Heidegger al Gralbund, gruppo di stretta osservanza antimodernista facente capo al ‘movimento giovanile cattolico’, la cui guida spirituale, il viennese Richard von Kralik, era un fanatico della ricostruzione della fede cattolica e dell’impero cattolico-romano della nazione tedesca avente per centro gli Asburgo (l’Austria), in quanto alternativa al progetto militare-industriale protestante della Prussia (ma su questa divaricazione di modelli si veda la prospettiva di Musil in L’uomo senza qualità). Figura guida degli antimodernisti contro la corrente liberale del cattolicesimo: Abraham a Sancta Clara (1644-1709), simbolo di cristianesimo sociale e antisemitismo, due marche teorico-politiche dotate di non poche analogie con quell’altro filone della cultura tedesca fin de siècle, il neo-romanticismo di Paul de Lagarde, Julius Langbehn e Möller van den Bruck, da inscrivere nella più ampia crisi della cultura tedesca post-hegeliana e che fornirà al III Reich le sue irriferibili radici culturali. Tale critica della modernità, analoga per molti aspetti a quella dell’antimodernismo cattolico, in effetti, si produceva 153 P. ROHS, cit., p. 75. A tale proposito, cfr. la ricostruzione di R. SAFRANSKI, Ein Meister aus Deutschland, München/Wien 1994 (tr. it. di N. Curcio: Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, Milano 1996). 154 165 sul livello più basso del progetto di distruzione della ragione attraverso le figure del déracinement o della perdita di patria (Heimatlosigkeit) – questione sociologicamente affrontata senza l’ambiguo misticismo di queste posizioni attraverso la concettualizzazione della crisi delle comunità organiche rurali, in concomitanza con lo sviluppo della metropoli contemporanea come sito della società capitalistica e industriale, incarnata da una figura sociologica dotata di un massimo potenziale di sradicamento: l’ebreo, istanza di finanziarizzazione, fluidificazione monetaria del reale che, attraverso l’eco-nomia, desostanzializza e sovverte il senso dell’oikos ancestrale e comunitario155. Questa locuzione, Heimatlosigkeit, affetta dalle ripugnanti, e tuttavia irreversibili, semantiche patriottiche proprie dell’ideologia del Volk (terra e sangue), viene originariamente proposta come categoria cruciale di quell’alternativa politica e filosofica alla teoria dell’alienazione e della “lotta di classe” costituita dalla strategia del “radicamento” del polpolo nel suolo natío, in una sinergia cosmico-irrazionalistica in grado di rivitalizzare il Volksgeist e così sottrarre la nazione tedesca al destino dell’isterilimento nichilistico della meccanizzazione. Tale movimento, detto völkisch, e le sue assisi culturali sono descritte e ricostruite nel libro di George L. Mosse, The Crisis of German Ideology, 1964 (tr. it. di F. Saba-Sardi: Le origini culturali del Terzo Reich, Milano 1968)156. Si trattava di quella che è stata definita la “rivoluzione conservatrice”157: una critica ‘da destra’ della società borghese impegnata in un attacco corrosivo nei confronti delle conquiste della rivoluzione francese e codificata in un programma politico alternativo sia rispetto alla soluzione individualistica liberale che a quella del collettivismo comunista, entrambe riportate al progetto razionalistico-illuministico inteso come origine controfattuale dello stato nichilistico dei rapporti umani, il quale partito da un ideale di liberazione dell’umanità l’aveva poi esposta alla violenza demoniaca e negatrice del binomio materialismo-mercantilismo. Un esempio tipico di tale atteggiamento lo si ritrova nel poeta Stefan George il cui circolo, il Geroge-Kreis, attrasse nel periodo anteguerra numerosi intellettuali, affascinati dal conservatorismo spiritualistico e dalle idee esoteriche e mistiche propugnate dallo stesso George. Secondo tali teorie le popolazioni contemporanee che si ritiene si siano liberate dai vincoli delle relazioni gerarchiche sussistenti all’interno della originaria comunità (Gemeinschaft), sarebbero in realtà cadute vittime delle relazioni economiche impersonali dell’astratta società del commercio e del libero scambio (Gesellschaft). George sosteneva che denaro e affari, costituenti della società moderna, avessero deformato il mondo, fatto della vita una quantità calcolabile, assorbendo il sostrato vitale del popolo in un amorfo dispositivo di negazione: Dopo cinquant’anni di ininterrotto progresso, persino gli ultimi resti di ogni sostanza saranno scomparsi, se non viene al mondo null’altro che la macchia (Makel) del progresso, se attraverso commercio, giornali, scuole, fabbriche e baracche la contaminazione del progresso urbano si è spinta negli angoli più remoti del mondo, e il mondo è stato diabolicamente capovolto, il mondo dell’America, l’antimondo si sarà alla fine imposto158. Paradossalmente, nonostante l’avversione congenita nei confronti della civiltà industriale e della tecnica propria di tale milieu, molti intellettuali reazionari – in particolare in seguito alla sconfitta 155 Ciò avviene secondo le molteplici declinazioni del tema della oikía: dalla dimestichezza (etim.: domestichezza: domus) dell’abitare alla domesticazione politica del gregge umano attraverso la definizione teologico-politica di un potere pastorale, dall’eco-nomia all’eco-logia, passando per le odiose semantiche patriottiche e nazionalistiche, quelle dello sradicamento (/alienazione) nichilistico dal tessuto comunitario e dall’apparteneza ad un mondo (-della-vita) di tradizioni (cfr. S. WEIL, L’enracinement), e quelle sociologiche dell’anomia e dell’insensibilizzazione etica (cfr. E. DURKHEIM, La divisione del lavoro sociale) – fino naturalmente alla questione dell’«abitare» e, secondo l’immagine della casa hölderliniana, alla “casa dell’essere” (contemporaneamente: mondo, essere, patria, casa, suolo natale), con la corrispondente tematica ontologico-epocale della Heimatlosigkeit in Heidegger («l’assenza di patria» che «diviene un destino mondiale»). 156 Cfr. anche Rodney STACKELBERG, Idealism Debased: from Völkisch Ideology to National Socialism, Kent 1981. 157 Cfr. K. SONTHEIMER, Der Tatkreis, in «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», 7, 1959, pp. 229-260; S. BREUER, Anatomie der konservativen Revolution, Darmstadt 1993. 158 Cit. in Christian Graf von KROCKOW, Die Entscheidung: Eine Unter-suchung über Ernst Jünger, Carl Schmitt, Martin Heidegger, Stoccarda 1958, pagg. 37-38 166 della Germania nella prima guerra mondiale – si persuasero del fatto che solo con adeguate, moderne strutture industriali e nuovi, aggiornati armamenti fosse possibile difendere la Germania dall’ostilità delle nazioni confinanti e adempiere alla missione cui era chiamata la nazione tedesca di dominio mondiale (es.: il titanismo della produzione totale in Jünger)159. A tale proposito, Heidegger dirà nei Seminari: «Si dovrebbe meditare, in proposito, sulla comparsa di una nuova forma di nazionalismo fondata sulla potenza tecnica, e non più (per fare un esempio) sui peculiari caratteri etnici»160. La medesima inquietudine metafisica è documentabile anche attraverso una letteratura di diverso rango scientifico. Con la dissoluzione dell’idealismo tedesco, e del suo tentativo di mettere in forma teologia e politica, lo stesso problema era stato filtrato e codificato dalla cultura borghese attraverso la ripresa di un tema filosofico maledetto della modernità: il materialismo. Tenendo conto solo dell’ambito tedesco, ma qui tedesco vuol dire Mitteleuropa, tutta una letteratura, a partire dalla fine degli anni quaranta del diciannovesimo secolo, si deposita a strati su questo segmento del discorso filosofico moderno al quale aderisce lo stesso Marx, ovviamente non solo nella scelta dell’argomento della dissertazione dottorale: Karl Vogt, Lettere psicologiche (1845), e Fede cieca e scienza (1854); Jacob Moleschott, La circolazione della vita (1852); Ludwig Büchner, Energia e materia (1855) [letto in quegli anni come manifesto epistemologico-politico dell’illuminismo insieme a Il messaggero dell'Assia (1834), un pamphlet socio-rivoluzionario redatto dal fratello, lo scrittore e drammaturgo Georg Büchner, in collaborazione con il teologo protestante Friedrich Ludwig Weidig e rappresentante del punto più alto della pubblicistica rivoluzionaria nel Vormärz tedesco]; Heinrich Crolbe, Nuova esposizione del sensualismo (1855). Solo nel 1866 le tensioni latenti in questo dibattito raggiungono una massa critica, esplodendo nella fondamentale Storia del materialismo di Friedrich Albert Lange161, destinata ad avere notevoli influssi sia su Nietzsche sia sulle scuole neokantiane162, sia sulle filosfie della vita. In breve, si tratta di una ricostruzione della distinzione kantiana fra un «mondo dei fenomeni» analizzabile secondo le leggi della fisica newtoniana e un mondo della libertà (o Spirito o cosa in sé), evidentemente sottratto allo schema di comprensione epistemologica dei fenomeni naturali. Secondo Lange non c’è distacco di livelli dell’essere; l’esperienza scientifica, la materia e lo spirito si dispongono su di un piano di coesistenza, in cui la distinzione fra verità (epistemologica) e valore (culturale-spirituale) è ricondotta ad un dualismo prospettico più che ontologico, dove spirito e materia sono in equilibrio, in un rapporto di compensazione degli squilibri causati dal complesso tecno-scientifico. Proprio questa politica ontologica dell’equilibrio sarà aggredita da Nietzsche il quale «metterà poi la parola fine a questa coesistenza pacifica di verità e valore concepita da Lange»163, liquidando radicalmente la duplicazione delle sfere dell’ente (persistente in Lange nella figura della «organizzazione psicofisica dell’uomo»164) attraverso la costruzione, solo “sperimentale”, di un paradigma in cui sia i fenomeni spirituali sia quelli naturali siano comprensibili nel quadro di una medesima struttura ontologica, quello della “vita” come potenza e lotta non-armonizzabile per la potenza fondata sulla dis-misura, intesa come “differenza” di grado. (Potenza e trascendenza: oltre-uomo). Tale malessere metafisico viene registrato nei percorsi della cultura borghese d’inizio Novecento, la quale non fa che prolungare e intensificare quell’esperienza di crisi, religiosa economica sociale, che caratterizza la seconda metà del diciannovesimo secolo in stretta relazione con l’annunciarsi di una società pianificata e con l’imporsi sempre più massiccio di una logica dell’apparato tecnicoscientifico che esploderà con la Grande Guerra. La Kulturkritik tedesca dei primi decenni del Novecento, in cui culmina la riflessione su quest’opprimente stato di cose, è una riflessione che si 159 Cfr. J. HERF, Il modernismo reazionario, M. HEIDEGGER, Seminari, Milano, p. 129. 161 F. A. LANGE, Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in der Gegenwart (1866), Frankfurt/M. 1974. 162 Cfr. K. Ch. KÖHNKE, Entstehung und Aufstieg des Kantianismus. Die deutsche Universitätsphilosophie zwischen Idealismus und Positivismus, Frankfurt/M. 1986, pp. 233-257; J. SALAQUARDA, Nietzsche und Lange, in «Nietzsche Studien», 7, 1978, pp. 236-253. 163 R. SAFRANSKI, cit., p. 47. 164 Cfr. F. A. LANGE, cit., p. 481. 160 167 sviluppa a ridosso della crisi più generale della Repubblica di Weimar e che raggiungerà il suo apice con la Grande Crisi del 1929. Qui si registra il senso diffuso di un declino della civiltà occidentale, espresso con grande successo editoriale da libri come Il tramonto dell'Occidente di Oswald Spengler, il quale sintetizza con molta efficacia lo stato delle cose, secondo i moduli di reazione della cultura borghese dell’epoca: il contrasto fra vita e scienza, impostato su una rivendicazione dell’esistenza come vita vivente, irriducubile agli schemi predittivi e operativi della scienza posti a fondamento di una società polarizzata fra la burocrazia statale e la grande industria capitalistica165. Inserita in questo contesto, il senso dell’operazione filosofica di Heidegger si riassume nella ricostruzione della “dinamica” della civiltà occidentale e delle sue “declinazioni”, effettuata sullo sfondo teorico della sociologia tedesca dell’età gugliemina (Sombart, Simmel e soprattutto Weber). Il tema centrale di queste riflessioni potrebbe essere ricapitolato nel confronto con il problema marxiano dell’alienazione. Questa problematica torna al centro del dibattito, come abbiamo visto in negativo attraverso il breve excursus nel “pensiero reazionario”, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. L’industrializzazione con le sue discontinuità antropologiche, sociologiche e politiche induce sociologi e filosofi come Georg Simmel (1858-1918), Werner Sombart (18631941) e Max Weber (1864-1918) a indagare le caratteristiche essenziali della società moderna, cercando di definire un modello esplicativo del fenomeno della disumanizzazione in diretto, seppur critico, confronto con l’analisi marxista della società capitalistica. Max Weber, estraneo a quelle tonalità nostalgiche nei confronti del mondo premoderno che abbiamo osservato nei movimenti neoromantici e antimodernisti, mette a fuoco la drammaticità della condizione umana nel mondo moderno. L’elemento teorico di divaricazione nei confronti di Marx deriva per Weber dall’insufficienza del modello marxiano della divisione delle classi, al quale egli oppone l’idea di un crescente livello di “razionalizzazione” della società responsabile del progressivo e inesorabile distacco da ogni sottofondo magico-religioso nell’esperienza del mondo166, del “disincanto del mondo”, ossia della sua desacralizzazione e riduzione a oggetto calcolabile e scientificamente dominabile. L’uomo moderno vive nella salda convinzione che «ogni cosa, in linea di principio, può essere dominata dalla ragione... Che non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarci gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze. A ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici» (La scienza come professione). Nel mondo moderno e capitalistico, si tratta per Weber di una razionalità meramente “strumentale” basata sullo schema dell’efficienza del rapporto mezzi/fini, e sulla tendenza ad inficiare le tipologie tradizionali di razionalità, espressione di un diverso riferimento all’emotività e ai valori. L’esito della moderna società capitalistica, pertanto, consiste nella formazione di una «gabbia d’acciaio» da cui è impossibile evadere – qui si può solo imparare a vivere senza nostalgie regressive o illusioni progressiste, accettando l’apparato burocratico come “destino” dell’Occidente nella figura della politica tecnico-amministrativa, e recuperando la dimensione emotiva e valorativa nella sfera della personalità e della condotta individuale (politeismo dei valori come assunzione radicale del carattere prospettico della verità)167. Analoga a quella di Weber risulta l’analisi della modernità condotta da Simmel, in particolare, nella Filosofia del denaro (1900), in cui l’analisi dell’economia monetaria sfocia in una raffigurazione dell’intera epoca moderna in quanto caratterizzata da una crescente intermediazione universale che 165 G. VATTIMO, Introduzione alla trad. it. (1976) di M. HEIDEGGER, Saggi e discorsi, Milano 1997, p. IX. Vattimo prosegue – e questo è l’orizzonte ermeneutico della sua lettura di Heidegger – sostenendo che, «ponendolo come problema del senso dell’essere, Heidegger opera già una prima radicalizzazione, nel senso che in tal modo propone già implicitamente quella che sarà una delle tesi essenziali di tutto il suo itinerario di pensatore: il problema di una riappropriazione del mondo dei significati da parte del singolo esistente concreto si pone non solo, o anzitutto, perché nella società della pianificazione massificata il singolo diventa una rotella in un ingranaggio il cui funzionamento inevitabilmente gli sfugge; ma anzitutto perché è accaduto un obnubilamento, appunto, del senso dell’essere, e ciò da molto tempo prima che la tecnica moderna avanzasse le sue pretese di dominio sulla vita dei singoli e della società» (ibid.). 166 Cfr. l’analisi delle conseguenze nefaste del positivismo in cui l’esperienza (Erfahrung) oggettivante della scienza devitalizza (ent-lebt) l’esperienza vissuta (Erlebnis) delle persone (Per la determinazione della filosofia, 1919). 167 Devitalizzazione/demondificazione (disincanto del mondo); Scienza e specializzazione disciplinare. 168 lega uomini e cose in rapporti sempre più oggettivi e impersonali, attraverso l’immissione dell’individuo in un reticolo complesso di interdipendenze che lo assoggettano a forze oggettive e anonime sovrastanti la sua capacità d’azione. L’apporto sociologico maggiore di Simmel consiste nell’elaborazione di una vera e propria fenomenologia dell’alienazione dell’uomo moderno nel contesto di una realtà dominata dal calcolo e dalla riduzione di ogni aspetto qualitativo a parametri rigorosamente quantitativi, insediata topograficamente nella grande città, oggetto di una pionieristica trattazione nell’opera La metropoli e la vita mentale (1903). Il tratto fondamentale della civiltà moderna viene rappresentato da Simmel in un’antinomia lacerante fra soggetto e oggetto, nella forma del prevalere dello spirito oggettivo (lavoro e istituzioni) sullo spirito soggettivo, delle forme sulla vita (divenire e creatività), innescata dall’intensificazione moderna del processo di astrazione che caratterizza i fenomeni dell’alienazione e dell’espropriazione moderna, e inibisce quella sintesi di soggettività e oggettività che è la cultura. L’individuo non riesce a controllare e dominare il sapere oggettivato nella società attraverso la dimensione della riappropriazione cultrale. Nel quadro di questa dicotomia tra spirito oggettivo e soggettivo, Simmel colloca la sua analisi della divisione del lavoro, inquadrata nel processo lavorativo capitalistico e riconosciuta come una delle cause fondamentali del moderno predominio dell’oggettività, ossia dell’irrigidimento o reificazione dell’attività creativa dell’uomo e dei suoi contenuti spirituali in costrutti impersonali e cosalizzazioni estraneate. L’esito speculativo di Simmel consiste in una ripresa di alcuni motivi schopenhaueriani e nietzscheani della metafisica dell’arte, con la scelta aristocratica individualistica dell’atteggiamento estetico come accesso privilegiato o forse unico all’identità di soggetto e oggetto. Rispetto a questo esito ambiguamente impolitico (cfr. adesione alla grande guerra 1914)168 di adeguamento all’esistente, Bloch e Lukacs, che si erano conosciuti nel 1910 frequentando le lezioni berlinesi di Simmel, e che ne avevano recepito la problematica dell’alienazione nei termini del principio della calcolabilità che informa di sé il fenomeno della reificazione (cfr. Storia e coscienza di classe), si distanzieranno presto dalle posizioni del maestro attraverso l’adesione al marxismo e la valorizzazione del problema della fuoriuscita dal sistema nella forma della prassi storica collettiva disalienata. È su questo crinale scosceso fra alienazione e transizione che si concentrerà con una rilevante torsione ontologica il dibattito fra Jünger e Heidegger sul superamento del nichilismo, e sull’oltre la linea. Lukacs, in Storia e coscienza di classe, attiva un’originale sintesi fra la teoria marxiana del “feticismo” e quella weberiana della “razionalizzazione”, mostrando come la vita moderna sia influenzata dallo spirito capitalista del calcolo razionale169. C’è da dire ancora, che tale sintesi di concetti di Weber e di elementi della teoria di Marx appare quasi esplicitamente come posta in gioco nell’ultimo § (83) di Essere e tempo: «Ciò che appare così evidente come la differenza dell’essere dell’esserci esistente rispetto all’essere dell’ente non commisurato all’esserci (per es. la semplice-presenza), è tuttavia solo il punto di partenza della problematica ontologica, ma niente in cui la filosofia possa acquietarsi. È noto già da tempo che l’ontologia antica lavora con “concetti cosali” e che sussiste il pericolo di “reificare la coscienza”. Ma cosa significa reificazione? Da dove proviene? Perché l’essere viene “compreso” “innanzitutto” proprio a partire dall’ente semplicemente presente e non dall’ente utilizzabile? Perché questa reificazione arriva sempre di nuovo a dominare? Come è strutturato positivamente l’essere della “coscienza” in modo tale che la reificazione le resti inadeguata? Basta la “differenza” fra “coscienza” e “cosa” per uno svolgimento originario della problematica ontologica?»170 - Se facciamo poi caso alle parole con cui il § inizia, non possiamo sottrarci all’impressione retrospettiva che tutta l’opera sia concepita con l’intento di tradurre in un dispositivo più radicale la questione dell’alienazione dell’uomo nel transito dalla società borghese alla società industriale (la soglia sociologica del mondo tecnico)171: «Il compito delle precedenti 168 Cfr. G. SIMMEL, Sulla guerra, tr. it. di S. Giacometti, Napoli 2003. M. LOWY, Figures of Weberian Marxism, pp.431-45: Lukacs, i teorici francofortesi, Merleau-Ponty. 170 Cfr. N. TERTULIAN, Le concept d’aliénation chez Heidegger et Lukács, in «Archive de Philosophie», 56, 1993, pp. 431-443. 171 Su questa soglia, in cui il nuovo regime di accumulazione del capitale esibisce in modo straniante i suoi influssi sulla società civile liberale-borghese attraverso una potente trasformazione delle forme di socializzazione mediate nella 169 169 riflessioni era quello d’interpretare in chiave esistenziale-ontologica a partire dal suo fondamento (Grund) la totalità originaria (Ganze) dell’esserci fattivo in riferimento alle possibilità dell’esistenza propria o impropria». Più di vent’anni dopo, nella prima edizione della Lettera sull’umanismo, nel 1949, Heidegger scrive in una nota: «autenticità (Eigentlichkeit) è da pensare partendo dall’appropriare (Eignen) dell’evento-appropriazione (Er-eignen)». Il programma filosofico che ispira queste analisi, concentrate sul tema della riappropriazione (il sé, autós), consiste in una torsione ontologica della questione dell’alienazione, articolata sul concetto di vita come prassi, ovvero come motilità orientata all’agire, dove si tratta di mostrare come la metafisica non sia un evento casuale, ma una dinamica insita in quel movimento peculiare che è la vita stessa dell’uomo in quanto movimento orientato, intenzionato, trascendente – e che Heidegger denomina senza alcuna considerazione etico-morale decadenza (Verfallen). [movimento, dinamica, proprietà: potentia aristotelica: essenza-eide precalcolata nella produzione, articolazione di momento ideativo ed esecuzione dell’atto/produzione/opera/ergon: irrigidimento nella coppia principio-causa come fondamento del reale: sequenzialità secondo la regola del “prima-poi”]. (Cfr. Essere e tempo, § 9: essenza/esistenza; esser-sempre-mio: ovvero il Dasein come paradigma di de-soggettivazione, soglia esistenziale di alterazione-alienazione). Materialismo, alienazione e trascendenza – alla luce di questo complesso categoriale, la cui presenza articolata è visibile nelle ossessioni filosofiche mitteleuropee dei primi anni Venti (si veda l’atteggiamento prototipico di Ernst Bloch rispetto a tale triade problematica nello Spirito dell’utopia) e formulabile col titolo di un noto studio del 1919, La materializzazione dello spirito172, sembra possibile avviare una ricognizione che, consapevole della filiazione di una certa metaforica filosofica, possa sottrarre l’operazione heideggeriana alla piatta questione della compatibilità filosofica con la concezione völkisch, e quindi coi prodromi della “filosofia dell’hitlerismo”. Il campo di tensione teoretica formato da Uneigentlichkeit e Entfremdung173, nonostante le adiacenze reazionarie della formazione intelletuale heideggeriana e l’abietta acquiescenza politica nei confronti del nazionalsocialismo, in definitiva, non è ricoducibile ad una versione sublimata della posizione del fascismo nei confronti dell’imminente configurazione fordista dei rapporti sociali 174. produzione industriale e nella sfera riproduttiva della vita quotidiana, è imprescindibile il riferimento allo scritto del 1934 di A. GRAMSCI, Americanismo e fordismo, in Quaderni del carcere, Torino 1975, vol. III, pp. 2137- 2181. 172 Theodor L. HAERING, Die Materialisierung des Geistes. Ein Beitrag zur zur Kritik des Geistes der Zeit, Tübingen 1919. 173 Cfr. B. W. BALLARD, Marxist challenges to Heidegger on alienation and authenticity, in «Man and World», 23, 1990, pp. 121-141. 174 Cfr. il libro di Thomas HEINRICHS, Zeit der Uneigentlichkeit. Heidegger als Philosoph des Fordismus, Münster 1999; il quale si apre con una programmatica citazione di Rainer Marten: «Es kommt vorrangig auf ein genaues Studium der Heideggerschen Philosophie an und auf die Offenheit, gerade in ihr eine tief verankerte und weitreichende Solidarität mit der Ideologie des Nationalsozialismus zu entdecken» (p. 15). Il merito della ricerca di Heinrichs sta nello sforzo descrittivo degli elementi sociologici impegnati nell’operazione di trasposizione analitica heideggeriana, ovvero tutta la fenomenologia fordista dei processi lavorativi, della sfera del consumo e della struttura della vita quotidiana alla luce del tema della temporalità (per l’essenziale, tuttavia, ci sembra che si tratti di capire, dopo l’antinomia moderna “tempo della chiesa e tempo del mercante”, il nuovo binomio tardomoderno “tempo del capitale e temporalità esistenziale” nel cono di proiezione dello scarto marxiano fra “tempo di lavoro e tempo-di-vita”).