Estetica & Educazione di Olimpia Di Loreto L'educazione estetica (Kant, Schiller, Schleiermacher) di Olimpia Di Loreto Laboratorio Montessori Roma, aprile 2013 ISSN 1974-8787 L’esposizione kantiana dei principi alla base del concetto di educazione - globalmente subordinata al piano di civilizzazione morale a cui è sottoposta la società agli occhi del filosofo - prevede anzitutto una dialettica di fondo che tenga conto della duplice natura della possibilità della definizione stessa di una scienza della pedagogia. Da un lato, l’imprescindibile esigenza di dare un limite a ciò che tende al soddisfacimento dei desideri, peculiare alla natura umana e arginabile proprio attraverso l’educazione al rispetto delle leggi; dall’altro, sul medesimo piano, la consapevolezza di come una sistematizzazione del concetto di disciplina presupponga, oltre che una definizione, anche il delinearsi della possibilità dell’educazione alla conoscenza in quanto scienza. La peculiarità del campo a cui è volto l’approccio kantiano assolutizza la dinamica cosmopolita, ben oltre le necessità illuministe proprie dell’epoca, ma sempre nel rispetto della natura stessa di questa scienza. Il carattere ancipite dell’idea kantiana di approccio scientifico si chiarisce nell’esposizione latente del motivo per cui una scienza pedagogica incontri fin da subito degli impedimenti strutturali: “Dal momento che l’educazione è un ideale, non potrà mai esserci per essa un piano definitivo.” (in nota pag. 123) L’intento di ogni educazione kantiana è prettamente il progresso morale, in antitesi con la necessità personale propria del rapporto genitore-figlio. Esso domanda che si provi ad educare i figli in modo che possano dar luogo a migliori condizioni di vita future, piuttosto che all’acquietamento all’interno della propria epoca, tendenza radicata in maniera latente tra gli intenti filiali. Dal punto di vista della morale, ultimo gradino della scala dell’educazione, una possibile scienza pedagogica deve tenere sempre conto del concetto di legge morale, affiancato a quello di natura, nel senso strettamente kantiano del termine. Proprio dal concetto di legge morale scaturisce la necessità di un paradigma educativo. L’uomo è soggetto ad educazione fin all’età in cui può egli stesso essere padre, diventando educatore. Non potendo tener conto di una natura che, come sua primissima fonte di verità, limitata al periodo dell’allattamento o poco più, non è in grado di renderlo prima disciplinato, acculturato, civilizzato e infine morale, l’uomo ha bisogno di un paradigma educativo ben preciso che faccia riferimento, indiretto, ad una morale. Questo soprattutto a discapito della tendenza ad una libertà negativa, ovvero quella del soddisfacimento dei desideri, condizione propria dell’uomo allo stato naturale. Volgendosi contro una forma più umanizzata del trattamento previsto per la prima età, Kant produce un sistema di necessità e giustizia anche all’interno del discorso pedagogico. Così l’educazione orale non deve essere accessoria del predicatore, figura caratterizzante l’arte oratoria, ma requisito basilare dello stare al mondo. La virtù cioè non è solo richiesta da Dio, ma è parte di una condotta che prende corso in una società morale i cui codici di comportamento posano, ormai, in un’età liberata da necessità liturgiche, su un grado di educazione all’interno di una data cultura. Libertà personale e sottomissione all’autorità giocano un ruolo peculiare all’interno del paradigma dell’educazione kantiano. Laddove non basta un criterio di delineamento dei due parametri per porre una via preferenziale che corra al fianco di entrambi, quanto una scienza della percorrenza stessa, il singolo è subordinato all’etica attraverso un percorso di consapevolezza del proprio limite di libertà. Kant non sottolinea qui la capacità di scelta, o giudizio, tale che ad essa siano adibiti concetti di pedagogia come scienza e di paradigma scientifico, ma l’eco dell’imperativo morale persiste in ogni proposito. II All’interno di una trattazione la cui peculiarità è evidenziare l’impellente necessità di appellarsi ad una dimensione autonoma e ideale di comunanza sociale quale l’educazione, non stupisce che la derivazione storica dei successivi intenti di definizione di essa tenga conto del gusto estetico come suo fondamento. Nelle Lettere sull’educazione estetica dell’Uomo di Schiller, la tesi kantiana della dottrina del gusto - che pare essere solo latente nel discorso generale sulla possibilità stessa di una pedagogia sopra delineato da Kant - non viene solo rievocata come sfondo teorico della possibilità dell’educazione, quanto posta a fondamento della convivenza sociale, o dello stare al mondo tra i limiti di civilizzazione e di convivenza, addirittura posta alla base stessa della natura dell’esistenza. Il concetto di libertà viene subordinato fin da subito a quello di bellezza, potere “esoterico” alla base del quale si ergono non una trascendente verità che valga per ciascuno, ma dei principi assodati. “[…] Che io resista a questa attraente prospettiva e che anteponga la bellezza alla libertà, credo non solo di poterlo giustificare con la mia inclinazione, ma di poterlo motivare in base a principi.” (Schiller, Lettera Seconda) Il carattere utopico dell’istituzione della dottrina dell’educazione estetica si fonda magistralmente su una comunanza d’osservazione di un valore la cui esperienza è derivata, come nella Critica della Facoltà di giudizio, attraverso una particolare forma di percezione, (ovvero appannaggio di una sensibilità che tenga conto di un’elaborazione intellettuale, e non dunque di mera sensazione) questa in assenza di una definizione che sia allo stesso tempo aprioristica, in quanto basata su sé stessa, o esperienziale, ovvero basata su concetti. L’educazione sarebbe dunque un derivato di questo stato “di ebbrezza dionisiaca” senza un dato fondamento, ovvero il risveglio dei sensi all’interno della percezione. All’interno di esso prenderebbero forma ogni tipo di conoscenza e di scienza. “E’ attraverso la bellezza che ci si incammina alla libertà…” (ibidem) …ed è attraverso di essa che si compie un parziale parricidio schilleriano nei confronti di un’etica kantiana a tutto tondo. Se è vero come scriveva J. Riviére ad Artaud, che, Romanticismo a parte, non vi è altra via d’uscita per il pensiero puro eccetto la morte - parlando della possibilità di un’educazione basata sull’estetica, si riconquista l’evenienza di una naturalità che, posando sulla bellezza e derivando da una cecità estetica solo infantile, porti con sé una presunta necessità di adeguamento estetico alla condotta di vita, ed un’esigenza di porre un’istanza di contemplazione come fondamento del percorso educativo. L’atto della contemplazione - che, alla luce dell’estetica come fondata su principi ed antecedente alla libertà, dovrebbe a rigor di logica essere considerato anch’esso un oggetto di insegnamento - diventa invece il paradigma della percezione dell’uomo. Non stupisce che le arti si facciano in tale circostanza i capostipiti dell’esistenza. In uno dei primi capoversi delle Lettere schilleriane, è l’appello all’impossibilità di una ripetizione dell’età greca a far luce sulla fattibilità di una concezione solo contemplativa che possa dispiegare un valore educativo. I paralleli s’interrompono con il limite dell’idea di arte propria degli Elleni, che per dirla con Brelich, non prevedono alcun tipo di estetizzazione kierkaardianamente romantica, fondamento almeno apparentemente dato nella concezione schilleriana. La dottrina romantica delle arti e dell’amore per la natura sublime diventa allora il fondamento primo di una società perfetta, in cui, dirà Goethe attraversando col pensiero la Provincia Pedagogica, le inclinazioni e l’arte si intrecciano nell’educazione dei fanciulli ad uno stare al mondo che persegua una libertà subordinata all’arte ed al sentimento del piacere e del dispiacere. Laddove Kant traccia un percorso unico che attraversa ragione ed intelletto producendo un’innata quanto particolare - non essendo fondata su concetti - capacità di discernimento del bene e del male (pur vertendo nel mare della sublimità naturale che solo si coglie in un’intuizione d’interezza), gli Esteti assolutizzano l’imperativo dell’arte per l’arte, volgendo l’interesse per la bellezza al di là della storicità e della contingenza in esso contenuti, e questo anche all’interno del discorso pedagogico, come se la bellezza si comportasse da innesto dal quale estrapolare i fondamenti per un’educazione alla contemplazione. Un passaggio che può apparire oscuro alla luce del senso comune a digiuno di romanticismo è quello di estetizzazione della politica, pur ancora ben lontana da Benjamin e dagli orrori tedeschi, ma delineata senza contraddizione nella Lettera Quarta di Schiller, che assolutizza la necessità di umanità come sentimento legato alla valenza sociale della bella parvenza. “Poiché lo stato serve da rappresentante della pura e oggettiva umanità che sta nel cuore dei suoi cittadini, esso dovrà osservare verso i suoi cittadini il medesimo rapporto che questi hanno con loro stessi e potrà onorar la loro umanità soggettiva solo in quella misura in cui essa si è nobilitata a umanità oggettiva.” (Schiller, Lettera Quarta.) Dove Kant sospende il giudizio, Schiller mette in luce l’umanità, intesa come sentimento morale dell’essere uomo, ovvero prerogativa dell’individuo libero, la cui educazione non solo deve mostrare la naturale inclinazione a fare di ogni esistenza un’opera d’arte, ma anche come tutelarne il fondamento. Dal fatto che la bellezza non sia veicolo di conoscenza se non in modo non logico, e che da sola non possa smuovere la capacità di agire, Schiller trae il principio per cui il paradigma si sposta verso la ricezione sensibile dell’uomo. Una tal disposizione all’orizzonte estetico è ciò che prepara all’educazione. L’immagine contemplativa dunque è vista come transito per un’apertura generale ai principi, mentre la libertà non viene pensata che come una derivazione di una predisposizione educata in precedenza. “Educa nella pura quiete del tuo animo la verità vittoriosa, estrinsecala nella bellezza, così che non solo il pensiero la onori, ma anche il senso ne accolga amorevolmente l’apparire.” (Schiller, Lettera Nona) La natura pone la base per un’evoluzione culturale postasi tramite una disposizione sensibile dell’uomo, e tale è il paradigma educativo che s’intravede filtrato dallo sguardo attento di Wilhelm Meister, mentre attraversa la scuola d’arte. In questi passi emergono chiaramente quelli che saranno i limiti della possibilità dell’educazione, che già in Kant mostravano un difetto nell’assenza di un sistema che inglobasse anche una disciplina fondante, e che invece era necessario apprendere sin da subito, addirittura prima di un’eventuale educazione: “La mancanza di disciplina è un danno più grave della mancanza di istruzione, che può essere acquisita anche in seguito, mentre l’assenza della disciplina è un danno irreparabile se vogliamo porre rimedio alla selvatichezza.” (Kant, pag. 107) Se la disciplina è la base e la necessità di ogni tipo di indottrinamento, ciò che preme mettere in luce agli educatori della Provincia Pedagogica è che prima di ogni educazione sia necessario apprendere la capacità di venerazione, termine che mostra chiaramente quanto un’ammirazione venga prevista come fondamento interno di ogni scienza dell’animo umano: “[…] Ma c’è una cosa che nessuno porta con sé al mondo, ed essa è tuttavia tale che dipende da lei che un uomo diventi tale compiutamente […] La venerazione.” (Goethe, pag. 42) La venerazione, dunque, ricapitola la necessità di aver interiorizzato una dimensione estetica. L’incrocio di teologia e filosofia che deriva dai tre tipi di saluto messi in atto dagli allievi della scuola richiama i tre capisaldi della tradizione culturale occidentale. Una venerazione in primo luogo “etnica”, di ciò che sta sopra, ovvero quella per un Dio che oscuri la paura della morte; una venerazione per chi media la natura dell’orrore per la morte con l’idea, ossia quella che è legata alla filosofia, al conoscere; e da ultima, una venerazione per la bassezza redenta dello spirito cristiano, per il dolore che si incontra nella via per la bellezza. A queste tre forme di disposizione estetica verso la conoscenza corrispondono tre tipi di saluti: il percorso che aprono passerà attraverso l’indottrinamento, che in Schiller mantiene un orizzonte compiuto di senso basato sulla comunicabilità dell’esperienza estetica, e che in Kant è il primo gradino verso l’acquisizione di una morale alta. Il corridoio delle raffigurazioni storiche della scuola però lascia incompiuti i capitoli, ed anzi fa riferimento a un episodio in particolare: l’assenza di raffigurazione di Dio negli Israeliti. Tramite questa l’educatore può fornire una libertà d’interpretazione creativa del concetto di Dio, trasposto quanto in beatitudine che in miseria. Il pellegrinare di Gesù diventa più significativo della sua morte sulla croce, ed egli diviene in questo modo veicolo di valori: valori per cui chi tenta di elevarsi al di sopra della mediocrità avrà un destino di natura divina, o meglio e più chiaramente, di natura sublime. III Grande spazio nell’educazione dei fanciulli è lasciato all’inclinazione personale, mostrando come l’autodefinirsi di una pedagogia possa tener conto della disposizione naturale, ovvero dell’intima quanto romantica capacità artistica innata di ogni uomo. L’ambiente in cui avviene l’istruzione dei bambini della Provincia Pedagogica non è dunque un sistema chiuso di leggi necessarie a stampo dogmatico seguite con rigore progressivo, quanto piuttosto una serie di schemi circolari di riferimento che fanno sì che non “resti molto altro da desiderare”, all’infuori degli insegnamenti della scuola: “Situazione familiare fondata sulla dedizione, vivificata e mantenuta con diligenza e ordine, non troppo stretta né troppo ampia, nel più facile equilibrio tra doveri e capacità e forze.” (Goethe, pag. 57) Tra doveri, capacità, e forze, anche l’attenzione diventa una necessità prima alla base di una pedagogia come scienza. Per Kant la facoltà di mantenere uno stato mentale attento garantisce l’acquisizione positiva di un qualsiasi discorso, mettendo in luce una ragionevole esigenza di ridimensionamento di un’eventuale gioco di immaginazione ed intelletto prettamente estetico, voluto invece dagli altri due. Ancora una volta il discorso di Kant non prevede l’annessione di un vero e proprio concetto di gusto, come in Schiller e Goethe, ma si mantiene nell’ambito che fa da preambolo all’introduzione della morale. “Un’ossessiva fissità del nostro pensiero su un solo oggetto non è un pregio, ma il più delle volte una debolezza della nostra mente che, in questo caso, è ribelle e non si lascia guidare dalla nostra volontà. La distrazione è la nemica di ogni educazione, giacché la memoria si basa sull’attenzione.” (Kant, pag. 171) Sulla differente ricezione degli insegnamenti da parte dei ragazzi si ha un’esposizione chiara all’interno del territorio della Provincia Pedagogica, giacché si assiste sin da subito ad una differenziazione degli insegnamenti artistici che tenga conto dell’inclinazione personale degli allievi. Deprecabili dal punto di vista della venerazione risultano le arti volgari come la recitazione, in cui l’inoperosità è imperativo categorico: “Nella nostra provincia, non si incontra nulla del genere, poiché il dramma presuppone una moltitudine inoperosa, forse perfino una plebe […] Chi tra i nostri allievi si potrebbe facilmente decidere, con dissimulata ilarità, ovvero con falso dolore, a suscitare nella massa sentimenti falsi non adeguati al momento per poter portare fuori per il suo tramite, alternativamente, un piacere sempre falso?” (Goethe pag. 97) E’ interessante analizzare come una mimesi truffata venga contrapposta alla serenità delle arti pittoriche. Il fantasma dell’impuro legato storicamente alla rappresentazione teatrale non sembra qui riallacciarsi al discorso riguardo l’antica saggezza silenica - base di ogni educazione umana - di cui faceva mostra Nietzsche, enunciando il ruolo patetico e mistico del coro in una rappresentazione tragica. Qui le arti sublimi, le arti della mimesi non contraffatta dal momento, dall’ipocrisia dell’immedesimazione senza verità, non sono altro che un pericolo: “Un artifizio di tal fatta lo abbiamo sempre ritenuto del tutto pericoloso e tale da non potersi conciliare con le nostre serie finalità.” (ibidem) L’ostacolo del poter concepire una comunanza di arti che non preveda una rappresentazione teatrale come veicolo di verità si spiega con l’intento puramente provocatorio che l’autore probabilmente deve avere in mente citando il negativo del teatro, forse legato alle sue esperienze personali. La dimensione mitica della rappresentazione teatrale tragica greca sembra venire totalmente ignorata dagli educatori della Provincia Pedagogica, che vi attribuiscono un carattere menzognero da prodotto culinario tipico delle corti reali - come direbbe Adorno, seppur non in riferimento all’arte greca - discorso che però trova una limpida giustificazione alla luce dell’etica natural-sublime insita nel contesto estetico dell’educatore. IV Venerazione in Goethe e disciplina in Kant hanno un comune denominatore; la sottomissione ad un ideale etico che, ancora prima che categoria particolare della critica della facoltà di Giudizio, è veicolo di significato estetico. L’ideale romantizzato della giusta via del gusto non investe completamente la riflessione della pedagogia kantiana a causa del carattere di stampo scientifico della disciplina stessa. Infatti: “L’educazione è il problema più grande e più difficile che possa esser dato all’uomo. Infatti la conoscenza dipende dall’educazione, e l’educazione, a sua volta, dipende dalla conoscenza.” (Kant, pagg. 112-113) D’altro canto, il concetto di venerazione prevede una dimensione di etica naturale ben prima del vincolo morale a cui soggiace il fine ultimo dell’educazione. La tesi schilleriana del risveglio tramite una percezione che vada oltre il rigore illuminista è del tutto fondata nell’ambito di un’educazione che tenda verso il sommo bene. Più difficile, forse, l’educazione all’amore che non abbia all’interno del percorso una manifestazione della sua antitesi; difficile un’educazione a cui venga estirpato il potere tragico della saggezza silenica, per cui alla base di ogni arte c’è la necessità di manifestare un Olimpo che esorcizzi l’orrore della morte, e con esso l’estinguersi di ogni contemplazione. Cristo si presta meglio in questo senso, ma all’interno della scuola pedagogica di Goethe la sua morte sulla croce viene oscurata. Bibliografia Kant I., La pedagogia, Anicia, Roma 2008 Goethe J. W., La provincia pedagogica, Armando, Roma 1974 Schiller F., L'educazione estetica, Aesthetica, Palermo 2009