lezioni modulo laurea specialistica 2005-2006

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Stato e società civile. L’inversione di soggetto e predicato
Dott.sa Irene Viparelli
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Introduzione.
«Per la Germania, la critica della religione nell’essenziale è compiuta, e la critica religiosa è il
presupposto di ogni critica […] E’ compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una
volta smascherata la figura sacra dell’autoestraneazione umana, smascherare l’autoestraneazione
nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della
religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica».
(K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx, F. Engels,
Opere, vol. III, tr. it. N. Merker, Roma 1976, p. 190/191).
La critica della religione, la critica del mondo trascendente, è il presupposto, la condizione di
possibilità della critica mondana, terrena, politica; è il moto necessario della filosofia, che deve
procedere dai cieli ideali fino alla realtà concreta, cui si oppone invece il rapporto inverso in cui
stanno la religione e la politica stesse: qui, nella relazione reale, il movimento è invece ascendente,
poiché soltanto nell’esistenza mondana si possono trovare i presupposti, il fondamento verace della
religione, che si rivela in ultima istanza soltanto l’ultima forma fenomenica, la “figura sacra
dell’autoestraneazione umana”, uno specchio della condizione misera, alienata della vera vita, della
vita reale, sociale. Marx, nella Questione ebraica, svela proprio quest’intima dipendenza della
religione dalla politica, mostrando come anche la soluzione di questioni che possono sembrare
esclusivamente religiose, come quella dell’emancipazione degli ebrei, si dà invece soltanto se,
trascendendo l’ambito puramente teologico, si cerca il loro fondamento nell’analisi della realtà
mondana, concreta.
Perché allora la filosofia non può andare dritto al cuore del problema, alla questione politica, e deve
invece inizialmente concentrarsi su questioni secondarie e derivate come quelle religiose? Qual è il
compito specifico della critica religiosa, che gli assegna questo ruolo assolutamente primario di
presupposto di ogni critica della realtà?
«La critica della religione è in germe la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola»
(Ivi, p. 191).
La vera critica religiosa, che per Marx è la critica feuerbachiana alla religione, si fonda sul
presupposto del primato della realtà umana e sensibile su ogni realtà spirituale e trascendente e
riduce la religione, che si fonda invece sull’assoluto dominio ontologico di Dio sull’uomo, dello
spirituale sulla realtà materiale, a espressione dell’autoestraneazione umana. La critica religiosa
definisce quindi le caratteristiche generali, la struttura logica del pensiero critico, di quel pensiero
che, fondandosi sull’unica vera realtà originaria, la realtà umana, è il solo capace di svelare e
denunciare tutte le sfere, teoretiche o pratiche, dell’autoestraneazione, cioè quegli ambiti nei quali è
negato il primato ontologico dell’uomo.
L’identificazione feuerbachiana della religione con l’alienazione è dunque proprio il presupposto
che permette a Marx, trascendendo l’ambito specificamente teologico, di estendere il concetto di
religione alla stessa realtà moderna, cioè a quel mondo fondato proprio sull’autoestraneazione
umana; religioso è il rapporto tra Stato e società civile, religiosa la relazione tra bourgeois e citoyen,
religiosa infine è la stessa relazione tra gli uomini nella società moderna.
Il passaggio da Feuerbach a Marx, dalla critica religiosa a quella politica, non è però immediato,
diretto, ma ha invece come momento intermedio la critica rivolta da entrambi alla filosofia
hegeliana: Feuerbach applica il metodo della critica religiosa alla dialettica hegeliana in generale,
ridotta ad una nuova forma di teologia, mentre Marx si concentra su di una parte specifica del
sistema hegeliano, la filosofia del diritto; analisi critica che, fondata sulle categorie logiche
feuerbachiane, è il presupposto della sua critica alla realtà moderna, della critica politica.
Feuerbach – critica alla religione.
«Io perciò non faccio altro alla religione – e anche alla filosofia o teologia speculativa – che aprirle
gli occhi o piuttosto volgerglieli all’esterno, mentre finora erano indirizzati all’interno, in altri
termini, converto solo l’oggetto della rappresentazione o dell’immaginazione nell’oggetto della
realtà».
(L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, a cura di F. Tomasoni, Roma-Bari 1997).
La teologia si fonda sui presupposti religiosi dell’esistenza di Dio, della creazione del mondo
attraverso la volontà divina, della dipendenza dell’uomo da Dio, dell’opposizione tra la vera vita
celeste e l’assoluta apparenza della vita terrena, ecc.; si fonda dunque sulla certezza del primato
della realtà spirituale e trascendente, divina, sulla realtà umana e sensibile. Dio è il creatore del
mondo, il soggetto, l’agente, mentre l’uomo è la creatura, una produzione della volontà divina,
dipendente da tale soggettività spirituale e subordinato a Dio per la sua esistenza come per la sua
essenza.
Feuerbach vuole “volgere gli occhi all’esterno”, vuole cioè avvicinarsi alla religione a partire da un
presupposto differente che è proprio questa realtà umana, terrena, materiale, sensibile, ridotta dalla
religione a mero attributo divino; solo quest’ultima è infatti la vera realtà, originaria e assoluta, il
fondamento di ogni sfera trascendente, di ogni realtà spirituale. Trasformare la religione in
antropologia, svelandone i fondamenti umani, è quindi il fine ultimo della critica feuerbachiana alla
religione.
Esistere per Feuerbach significa necessariamente “essere oggettivo”, essere un ente con determinate
qualità, specifici predicati che connotano l’essenza e la rendono reale; un soggetto senza alcuna
determinazione positiva, alcun attributo, è necessariamente un essere vuoto, un’essenza
assolutamente indeterminata, il puro nulla. Questo postulato consente a Feuerbach di dimostrare
l’intima dipendenza dell’essenza divina dalla natura umana; proprio come ogni altro ente infatti
anche Dio è reale solo in quanto è un Dio oggettivo, ricco di qualità, ma in realtà tutti i predicati di
Dio sono sempre specificamente umani: Dio è infinito pensiero, infinito amore e volontà infinita,
ma pensiero, cuore e volontà non sono altro che l’essenza stessa dell’uomo. La rappresentazione di
Dio è quindi necessariamente subordinata alla natura umana, l’esistenza di Dio dipende dall’essenza
umana, dunque l’essere oggettivo di Dio è in realtà soltanto la
rappresentazione astratta
dell’essenza infinita dell’uomo.
«La religione, almeno quella cristiana, è il rapporto dell’uomo con se stesso o, più esattamente, con
la sua essenza (e questa soggettiva), ma tale rapporto con la sua essenza è come un’essenza diversa
da lui. L’essenza divina non è altro che l’essenza umana o, meglio, l’essenza dell’uomo, purificata,
liberata dai limiti dell’individuo, obiettivata, cioè intuita e adorata come un’altra essenza, da lui
distinta, particolare – tutte le determinazioni dell’essenza divina sono perciò determinazioni
umane».
(Ivi, p. 38).
La religione è l’autoestraneazione dell’uomo, l’esito della separazione dei predicati umani dal
soggetto reale, dall’uomo, e della loro trasposizione in una soggettività differente e trascendente, in
Dio. Il suo fondamento è da ricercare nell’opposizione tra la vita del genere e la vita individuale,
nello scarto tra l’essenza universale e l’esistenza immediata: come individuo l’uomo è un ente
sensibile, limitato, finito, passivo, dipendente dal mondo esterno, dalla natura e dagli altri uomini, è
un ente mortale, è amore, volontà e pensiero ma ha bisogno di un mondo esteriore che gli dia
oggetti da amare, oggetti del pensiero e del desiderio; nel genere però l’uomo supera ogni suo limite
individuale, ogni forma di dipendenza dall’esterno ed è invece un ente
universale, infinito,
onnipotente; l’essenza eterna ed assoluta.
«Certamente l’individuo umano può, anzi deve percepirsi e riconoscersi come limitato – in questo
consiste la sua differenza dall’animale; ma egli può prender coscienza dei suoi limiti, della sua
finitezza solo perché gli è oggetto la perfezione, l’infinità del genere, sia come oggetto del
sentimento, sia come oggetto della coscienza morale o pensante. Se tuttavia prende i suoi limiti per i
limiti del genere, ciò si fonda sull’equivoco di identificare immediatamente se stesso con il genere,
un equivoco connesso nel modo più stretto all’indolenza, all’inerzia, alla vanità e all’egoismo
dell’individuo».
(Ivi, p. 31).
L’oblio dell’universalità essenziale e la conseguente identificazione dell’individuo con il genere
sono il fondamento dell’autoestraneazione religiosa: mentre l’individuo estende i limiti della
propria esistenza sensibile all’intero genere, vedendo quindi nell’umanità null’altro che una
sommatoria di individualità finite e limitate, si rappresenta parallelamente la sua essenza infinita
come l’antitesi assoluta rispetto alla realtà umana, come una soggettività opposta e diversa
dall’uomo, trascendente, spirituale, libera dalla natura e dalla materia.
L’alienazione religiosa è quindi l’inversione della relazione tra il soggetto reale, l’uomo, ed i suoi
predicati essenziali: mentre il primo è ridotto a mero prodotto della volontà divina, dunque ad un
predicato di Dio, le qualità propriamente umane, i suoi predicati essenziali, diventano
parallelamente il soggetto divino, indipendente e separato dall’uomo; ma in realtà Dio è il prodotto
di un’astrazione che, sottraendo all’individuo i vincoli dati dalla sua natura sensibile e liberandolo
quindi dal suo necessario legame con il mondo, produce la rappresentazione di una soggettività
puramente spirituale, dunque infinita ed eterna.
La conseguenza di quest’inversione-astrazione, è il dualismo, cioè la duplicazione della realtà in un
mondo immanente, che è la realtà dell’apparenza e della finitezza, ed il mondo trascendente, il
regno della soggettività assoluta, libera, eterna; quest’antitesi è insuperabile, poiché è il presupposto
della religione, la condizione di possibilità della stessa esistenza di Dio che si definisce come
infinità proprio in opposizione al mondo sensibile e ai limiti della materia. Ma il fine della religione
non è però quest’opposizione, che lascia l’uomo nell’assoluta umiliazione del suo essere nullo, ma
soltanto il suo superamento, il ripristino dell’identità perduta tra Dio e l’uomo, la riappropriazione
dei predicati umani da parte dell’uomo, la redenzione dell’uomo attraverso Cristo, figura che per
Feuerbach è l’essenza della religione cristiana.
L’incarnazione è quel processo di umanizzazione di Dio attraverso il quale la divinità supera la sua
indeterminatezza originaria e, arricchendosi delle qualità e della sensibilità dell’uomo,
trasformandosi nel Dio dell’amore, diventa un Dio reale, positivo, che è sentimento, cioè amore per
l’uomo, che ha un fine determinato, vuole il bene dell’uomo, e che agisce dunque per realizzare tutti
i desideri dell’uomo: attraverso i miracoli Cristo trasforma l’acqua in vino, restituisce la vista ai
ciechi, resuscita i morti, ecc. annulla cioè, attraverso la sua pura volontà, il potere della natura
sull’uomo, nega tutte le leggi naturali che vincolano l’individuo, instaurando così l’altro movimento
centrale dell’incarnazione, il movimento inverso di divinizzazione dell’uomo: l’uomo è mortale, ma
Cristo gli dà la vita dopo la morte; è finito, ma mediante Cristo che diventa infinito, è imperfetto,
ma Cristo gli dà la perfezione; è vincolato dalla natura esterna, ma Cristo annulla il potere della
natura attraverso il miracolo; mediante Cristo quindi l’uomo si libera della sua condizione di
minorità, dei suoi limiti individuali e realizza nell’individuo la perfezione assoluta, l’infinità divina.
Dio si è abbassato fino all’uomo, l’uomo si è elevato a Dio. L’essenza della religione cristiana è
proprio questa riconciliazione attraverso l’amore:
«L’amore è il terminus medius, il legame sostanziale, il principio di mediazione fra perfetto e
imperfetto, fra l’essenza senza peccato e quella peccaminosa, fra l’universale e l’individuale, fra la
legge e il cuore, fra il divino e l’umano. L’amore rende Dio l’uomo e l’uomo Dio. L’amore rafforza
il debole e indebolisce il forte, abbassa ciò che è in alto e innalza ciò che è in basso, idealizza la
materia e materializza lo spirito. L’amore è la vera unità di uomo e Dio, natura e spirito».
(Ivi, p. 59/60).
La teologia considera Cristo come una realtà secondaria rispetto al Dio Padre, al Dio come assoluta
divinità separata dall’uomo: Cristo è soltanto il mediatore, lo strumento di Dio, ma non la vera
sostanza. Per Feuerbach è invece l’essenza stessa della religione cristiana.
«Di conseguenza tutto quello che nel senso della speculazione e religione trascendente, iperfisica ha
solo il significato del secondario, del soggettivo, del mezzo, dell’organo, ha nel senso della verità il
significato del primordiale, dell’essenza, dell’oggetto stesso».
(Ivi, p. 32/33).
Che cos’è infatti Dio quale assoluta trascendenza, assoluta alterità rispetto all’uomo? E’ proprio
quell’essenza vuota, priva di attributi, quella pura astrazione priva di qualsiasi contenuto e di
qualsiasi realtà; soltanto attraverso la mediazione con la realtà umana, con l’incarnazione, Dio può
arricchirsi di un contenuto concreto, di attributi oggettivi, di qualità, può dunque essere un Dio vero
e reale. D’altro canto anche l’uomo, avendo estraniato da sé la sua essenza universale ed avendola
trasposta in un al di là trascendente, essendosi posto come pura passività, dipendente e subordinato
in tutto e per tutto a Dio, non è più in grado di affermare alcuna universalità, di superare la scissione
tra la sua esistenza e la sua essenza universale, se non attraverso l’intercessione della divinità, solo
mediante la posizione di Cristo. Il Dio figlio, in quanto è l’intermediario tra Dio e l’uomo, ha
dunque il potere assoluto tanto su Dio, che solo in Cristo è reale, quanto sull’uomo, che solo con
Cristo raggiunge il suo essere universale.
La figura del mediatore è l’elemento davvero centrale nel processo dell’autoestraneazione umana: è
l’immagine oggettiva, concreta, della separazione, la denuncia del dualismo dei piani, l’esigenza
della conciliazione, l’espressione dell’identità essenziale e la condizione di possibilità di tale unità
ripristinata. Ma è anche la dimostrazione del limite insuperabile di ogni realizzazione dell’essenza
umana attraverso un mediatore, di ogni affermazione soltanto indiretta dell’essere dell’uomo, che
deve necessariamente presupporre e quindi riconfermare infine il dualismo delle realtà; Cristo
infatti eleva l’uomo a Dio ripetendo in ogni uomo quell’astrazione dalla sensibilità che realizza
l’essere sostanziale in antitesi rispetto all’esistenza reale e sensibile, che resta il mondo della pura
parvenza, della finitezza, della nullità.
L’unica verace riconciliazione tra essenza ed esistenza è data soltanto dalla posizione dell’uomo
come mediatore tra la sua esistenza individuale la sua vita generica, cioè soltanto attraverso il
riconoscimento del genere come suo fondamento e fine ultimo, come l’unica vera universalità
concreta che si dà nella realtà umana e sensibile.
Feuerbach – critica alla dialettica hegeliana.
Nel marzo 1842 Feuerbach pubblica, sugli "Anekdota", la rivista filosofica di A. Ruge, le Tesi
provvisorie per una riforma della filosofia, un saggio in cui il metodo della critica religiosa viene
applicato alla filosofia idealista hegeliana; le medesime tesi costituiscono il nucleo sul quale poi
Feuerbach elaborerà, nel 1843, i Principi per la filosofia dell’avvenire.
Per Feuerbach la filosofia hegeliana è fondata sull’inversione del rapporto reale tra soggetto e
predicato, tra la materia e lo spirito; è quindi, al pari della teologia, un pensiero che non si fonda
sull’essere dell’uomo, ma soltanto sulla sua autoestraneazione. Hegel però è soltanto il punto
culminante di tutta la tradizione della filosofia speculativa moderna che, non riconoscendo alcun
valore teoretico al mondo sensibile, ridotto invece a mera materialità, a pura passività, si fonda
interamente su presupposti teologici.
Il Dio della filosofia speculativa moderna è l’essenza
puramente razionale e assolutamente opposta alla materia; quella realtà che ha in sé il proprio
principio di intelligenza e che è quindi l’unica vera realtà, il fondamento, la causa prima e il
principio ordinatore del mondo sensibile e materiale.
La filosofia speculativa moderna è la storia di questo principio razionale e trascendente che da
Cartesio, attraverso il panteismo moderno, doveva necessariamente portare all’idealismo:
«Ma si può dire che l’idealismo sia la verità del panteismo: perché Dio, o la sostanza, è soltanto
oggetto della ragione, dell’io, dell’essenza pensante; se io non credo, se io non penso a Dio, allora
non ho Dio: Dio è per me solo per opera mia, esiste per la ragione solo per opera della ragione; - lo
a-priori, la prima essenza, non è dunque la essenza pensata, ma quella pensante, non l’oggetto ma il
soggetto».
(L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in La sinistra hegeliana, a cura di K. Lowith,
tr. it. C. Cesa, Roma-Bari 1982, p. 309).
La realtà soggettiva, la “sostanza pensante” è la condizione dell’esistenza reale della “sostanza
pensata”, è dunque la sola verace realtà, il fondamento; l’idealismo innalza così l’attività del
pensiero, la soggettività razionale, a realtà assoluta, originaria. Ma proprio tale “realtà pensante” in
verità è a sua volta subordinata al soggetto pensante, all’uomo reale, sensibile; ben lungi dall’essere
una soggettività autonoma, in verità è, con il cuore e la volontà, soltanto una facoltà essenziale
dell’uomo, un suo predicato.
«La filosofia hegeliana ha fatto essenza divina ed assoluta il pensiero, cioè l’essenza soggettiva
pensata senza soggetto, rappresentata come una essenza distinta dal soggetto.
Il mistero della filosofia “assoluta” è quindi il mistero della teologia».
(Ivi, p. 318).
Hegel astrae dall’uomo la sua specifica facoltà razionale e la trasforma in un’entità separata e
indipendente dall’uomo; fonda cioè la sua logica proprio su quell’inversione tipica della religione
che stravolge la vera relazione tra il soggetto e il predicato, tra il determinante e il determinato, tra
la realtà sensibile e la realtà spirituale, attribuendo a quest’ultima il primato assoluto sulla materia.
L’idealismo hegeliano è quindi destinato a riproporre quella relazione necessariamente
contraddittoria tra realtà sensibile e essere spirituale: proprio come Dio, che separato dalle sue
qualità umane non ha alcun predicato proprio e che dunque è reale solo se si è segretamente posta la
realtà umana che l’arricchisce di attributi positivi, così anche l’astratto pensiero hegeliano deve
sempre presupporre la realtà concreta e sensibile, poiché il puro pensiero, il pensiero in sé al di là di
ogni contenuto determinato è soltanto una vuota rappresentazione, una pura astrazione priva di ogni
significato.
Hegel però, avendo posto lo spirito come assoluta realtà, non può in alcun modo riconoscere alla
realtà empirica il suo ruolo assolutamente primario e fondante e la pone invece soltanto come
“realtà pensata”, secondaria e derivata, un prodotto, un fenomeno, un attributo della realtà
spirituale. L’identità di realtà e razionalità non ha altro significato che la posizione della realtà
attraverso la mediazione con il principio razionale, con il pensiero astratto e la parallela negazione
della realtà dell’esistenza immediata ed empirica, della verità dell’essere sensibile.
L’idea deve però necessariamente mediarsi con la realtà, farsi finita, comprendere in sé il suo
opposto; solo così può superare la sua originaria indeterminatezza. Il movimento dell’estraneazione
dell’idea, che si pone come finitezza, è quindi per Feuerbach il tacito riconoscimento del primato
ontologico della materia, la confessione dell’impossibile autonomia dello spirito, che senza la
mediazione con l’altro da sé, con il determinato, con quel presupposto sensibile misconosciuto da
Hegel, è destinato a rimanere un’essenza assolutamente vuota; l’estraneazione dell’idea è dunque
l’affermazione del concreto e la negazione dell’astratto, la soppressione della teologia con la
filosofia. Ma la realtà è riconosciuta da Hegel soltanto come momento dello spirito, come sua
manifestazione fenomenica, non come realtà essenziale; così il fine dell’intero processo dialettico
non può che essere il superamento dell’estraneazione e il ripristino della spirito come unica vera
realtà. La verità in Hegel è “negazione della negazione”, cioè è riconoscimento e misconoscimento
della materia, la sua posizione e la sua negazione, la riaffermazione finale della teologia sulla
filosofia; è una verità eternamente contraddittoria, poiché lo spirito è incapace di liberarsi realmente
dalla materia, dal suo opposto, che deve essere sempre nuovamente posto accanto alla realtà
spirituale come quel presupposto che solo rende concreta l’astrazione.
«Se è solo l’idea che dà valore e contenuto alla sensibilità, quest’ultima sarebbe un puro lusso, un
puro ornamento, soltanto un’illusione che il pensiero si fa balenare davanti. Ma le cose non stanno
così. Al pensiero viene attribuita l’esigenza di realizzarsi, di diventare sensibile solo perché, senza
che se ne abbia la consapevolezza, si è data come presupposto al pensiero la realtà, la sensibilità,
che sono il vero indipendentemente dal pensiero. Il pensiero verifica se stesso mediante la
sensibilità: e come sarebbe possibile questo se, inconsciamente, essa non fosse considerate verità?
Ma dato che si è invece consapevolmente preso le mosse dalla verità del pensiero, ecco che la verità
della sensibilità viene proclamata solo come qualche cosa che segue alla prima; la sensibilità viene
ridotta ad attributo dell’idea, il che è una contraddizione; essa è considerata solo come attributo,
come un attributo però senza il quale il pensiero non ha verità: è quindi insieme centrale e
marginale, essenza ed accidente».
(Ivi, p. 332).
La mediazione ha ancora una volta un ruolo centrale: l’esigenza di legare lo spirito alla materia, sia
attraverso il movimento dell’autoestraneazione dell’idea sia attraverso la riduzione della realtà a
“realtà pensata”, rivela il carattere segretamente unitario di ciò che invece è posto dal pensiero
alienato come antitesi e parimenti porta alla luce il carattere insufficiente di questa ricongiunzione
di materia e spirito mediata dal pensiero astratto, che sottrae alla realtà proprio la sua caratteristica
immediatezza, percepita attraverso i sensi e l’intuizione, che la rende eternamente irriducibile al
pensiero, a una mera rappresentazione.
«Ci si può liberare da questa contraddizione solo facendo del reale e del sensibile il soggetto di se
stesso, solo attribuendogli un ruolo assolutamente autonomo, divino, primario, non dedotto
dall’idea»
(Ivi, p. 333).
Marx
Rapporto società civile e stato.
Nel 1842 il giovane Marx legge le Tesi provvisorie per una riforma della filosofia, si appropria
della critica feuerbachiana ad Hegel e la utilizza come strumento teorico per una critica della
sezione dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel dedicata allo Stato, di cui è rimasto un
importantissimo manoscritto incompleto, che comincia al par. n. 261 e si conclude bruscamente al
par. n. 313. La parte iniziale è andata perduta mentre la conclusione, presumibilmente, non fu mai
scritta da Marx poiché, con il trasferimento a Parigi nell’ottobre di quell’anno, l’interesse per le
problematiche sociali prese il sopravvento.
Marx riprende ogni singolo paragrafo dell’opera hegeliana, lo riporta e lo commenta denunciandone
la struttura logica, interamente fondata sull’ inversione tra soggetto e predicato, realtà e idealità; è
un’analisi che, mostrando l’intima dipendenza dell’universalità razionale dai suoi presupposti
sensibili, dal mondo concreto e determinato, vuole ripristinare il reale rapporto tra lo spirituale e il
materiale, evitando che quest’ultimo sia ridotto a mero fenomeno, a una “produzione mistica”
dell’idea astratta.
Il commento al par. 262, in cui Hegel definisce proprio il rapporto tra la realtà spirituale, lo Stato,
ed i suoi presupposti materiali, la famiglia e la società civile, è esplicativo sia della struttura logica
hegeliana, sia dei presupposti su cui si fonda la critica marxiana.
«In questo paragrafo è depositato tutto il mistero della filosofia del diritto e della filosofia hegeliana
in generale».
(K. Marx, Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, in K. Marx, F. Engels, cit., p. 9/10).
Riportiamo il paragrafo hegeliano, così come è scritto nel manoscritto marxiano:
«L’idea reale, lo spirito, che scinde se stesso nelle due sfere ideali del suo concetto, la famiglia e la
società civile, come sue finità, per scaturire dalla loro idealità come spirito reale per sé infinito,
assegna perciò a queste sfere
la materia di questa sua finita realtà. Gli individui in quanto
moltitudine, cosicché nel singolo questa assegnazione appare mediata dalle circostanze, dall’arbitri
e dalla propria scelta della sua determinazione».
(Ivi, p. 7)
Il soggetto del paragrafo è «l’idea reale, lo spirito, che scinde se stesso nelle due sfere ideali del suo
concetto, la famiglia e la società civile». Lo spirito, l’ “idea reale”; è l’unico agente, il motore
dell’intero processo, mentre famiglia e società civile sono invece le realtà poste dall’idea, i predicati
del movimento dello spirito che si estranea, si pone come realtà finita per arricchirsi di contenuto
reale, si scinde nelle due sfere ideali, ma solo per poi, alla fine dell’intero movimento, «scaturire
dalla loro idealità come spirito reale per sé infinito», per riconfermarsi cioè in ultima istanza come
assoluta spiritualità in opposizione rispetto alla realtà concreta, riconosciuta soltanto come
espressione dell’estraneazione dello spirito.
«L’idea è ridotta a soggetto. E il reale rapporto della famiglia e della società civile con lo Stato è
inteso come interna, immaginaria, attività dello Stato. Famiglia e società civile sono i presupposti
dello Stato, essi sono propriamente gli attivi. Ma nella speculazione diventa il contrario: mentre
l’idea è trasformata in soggetto, quivi i soggetti reali, la società civile, la famiglia, “le circostanze,
l’arbitrio” ecc., diventano dei momenti obiettivi dell’idea, irreali, allegorici. […] Lo scopo della
loro esistenza non è questa esistenza stessa, ma l’idea separa da sé questi presupposti, “per scaturire
dallo loro idealità come spirito reale, per sé infinito”, cioè lo stato politico non può essere senza la
base naturale della famiglia e la base artificiale della società civile, che sono la sua conditio sine qua
non. Ma la condizione viene posta come il condizionato, il determinante come determinato, il
producente come prodotto del suo prodotto; l’idea reale si umilia nella “finità” della famiglia e della
società civile soltanto per produrre e godere – dal superamento di essa finità – la sua infinità».
(Ivi, p. 8/9).
«Ciò che è reale diventa fenomeno, ma l’idea non ha per contenuto altro che questo fenomeno!».
(Ivi, p. 10).
Lo Stato è “negazione della negazione”, il prodotto del movimento di estraniazione dell’idea, che
riconosce l’esigenza di mediazione con la realtà e dunque riconosce il ruolo centrale della famiglia
e della società civile, ma solo come momento che deve essere superato; lo spirito confessa per un
attimo la propria dipendenza dalla realtà sensibile, ma solo come condizione necessaria per la sua
realizzazione assoluta.
La relazione contraddittoria che Feuerbach aveva denunciato tra Dio e l’uomo e tra il pensiero
astratto e realtà sensibile, diventa ora lo specifico rapporto tra lo Stato e i suoi presupposti materiali,
la famiglia e la società civile che, non riconosciuti quali fondamenti dello Stato, sono allo stesso
tempo “centrali e marginali, essenza ed accidente”. E’ solo dalla società che lo Stato può attingere
un proprio contenuto determinato, diventando così uno Stato reale ma, poiché in Hegel l’unica
realtà è quella spirituale, i contenuti concreti della società sono riconosciuti soltanto attraverso la
“mediazione dello spirito”, cioè attraverso
quel processo di astrazione che gli sottrae ogni
determinatezza: come il riconoscimento dell’uomo attraverso Cristo, come la posizione della realtà
sensibile mediante il pensiero astratto, così anche l’elevazione del contenuto sociale ad “affare
statale” implica il misconoscimento del suo carattere determinato e particolare, l’oblio del suo
carattere originario che ne fa la base materiale di ogni reale spiritualità, ogni vera universalità.
Il fine della critica marxiana è quindi il ripristino del ruolo fondamentale della realtà umana e
sensibile attraverso la denuncia della logica dell’inversione: non lo Stato, ma soltanto la società
civile può essere il fondamento di una razionalità che non sia meramente astratta, di un’universalità
statale che, non più realizzata in opposizione rispetto alle particolarità finite della società civile,
nasca invece proprio da tale realtà materiale, ne esprima l’intrinseca essenza razionale, sia la verace
espressione oggettiva dell’essenza generica dell’uomo.
Lo stato democratico come verità di ogni altra forma statale.
L’unica forma statale che per Marx è la reale espressione dell’essenza generica dell’uomo è Stato
democratico, l’unico fondato sul popolo, la sola realtà che è allo stesso tempo vera, cioè concreta e
sensibile, e universale, espressione cioè dell’essenza dell’uomo. Lo Stato democratico è la
manifestazione compiuta dell’elevazione della società civile, del presupposto materiale e
particolaristico, dalla sua esistenza immediata alla sua realtà essenziale; è il prodotto di quel
movimento che è la verace spiritualizzazione della materia e che quindi realizza l’universale non
più come antitesi rispetto alla società civile,
ma invece come oggettivazione dell’essenza
dell’uomo, come espressione della volontà razionale del popolo. Solo tale Stato, che supera ogni
scissione, ogni dualismo, ogni relazione contraddittoria tra spiritualità e realtà materiale è il vero
stato etico, mentre ogni altra è soltanto una rappresentazione storica di Stato non corrispondente
alla sua essenza. Tale è anche il presunto Stato etico di Hegel, la monarchia costituzionale, che non
fondata sul popolo, riduce invece quest’ultimo a mero predicato, ad un prodotto della struttura
razionale dello Stato. La distinzione fatta da Hegel tra il “popolo” e l’ “incolta rappresentazione del
popolo” vuole proprio indicare la differenza fondamentale tra la rappresentazione empirica,
immediata del popolo, che non ha in sé alcuna razionalità ma è invece una mera composizione
irrazionale di molteplici particolarità, e la sua esistenza razionale, che è tale soltanto all’interno
della struttura razionale dello Stato, in virtù quindi della mediazione con la realtà spirituale. Per
Hegel non è dunque il popolo a fondare lo Stato, ma solo quest’ultimo fonda il popolo come totalità
razionale. Ancora una volta alla realtà materiale è negata ogni intrinseca razionalità; ancora una
volta lo spirituale, lo Stato, si costituisce soltanto in opposizione rispetto alla società civile, che
continua a rimanere il luogo del puro particolarismo, incapace di qualsiasi elevazione
all’universalità poiché in sé priva di spiritualità.
«La proprietà ecc., in breve tutto il contenuto del diritto e dello Stato, è con poche modificazioni, il
medesimo nell’America del Nord che in Prussia».
(Ivi, p. 35).
La critica di Marx si amplia: dalla critica alla filosofia hegeliana del diritto e alla monarchia
costituzionale così come descritta da Hegel, Marx estende la sua analisi alla realtà moderna, allo
Stato politico in general; quest’operazione è legittimata e resa possibile dalla stessa filosofia
hegeliana del diritto che, avendo colto l’essenza del diritto nella scissione tra società civile e Stato,
ha in realtà svelato il fondamento stesso dello Stato politico moderno, del quale dunque fornisce una
vera e propria “fenomenologia”.
Attraverso Hegel, questo teorico dello Stato moderno, la critica marxiana è così infine giunta alle
“figure profane dell’autoestraneazione umana”; alla realtà moderna stessa, che ha in sé tutte le
caratteristiche delle “forme sacre” dell’alienazione; un mondo esso stesso fondato sulla scissione di
spirituale e materiale, una realtà in perenne contraddizione con i suoi presupposti, una società
fondata sull’alienazione umana.
Il vero, reale dualismo religioso è soltanto l’opposizione tra lo Stato politico, la sfera
dell’universalità astratta, e una società civile incapace di elevarsi al di là del particolarismo.
«La costituzione politica fu sino ad ora la sfera religiosa, la religione della vita del popolo, il cielo
della sua universalità rispetto all’esistenza terrestre della sua realtà. La sfera politica fu la sola sfera
politica dello Stato, l’unica sfera in cui il contenuto fu generico come la forma, fu il vero universale,
ma al contempo in tal modo che, con l’opporsi di questa sfera alle altre, il suo contenuto divenne
anch’esso un contenuto formale e particolare».
(Ivi, p. 35).
Come Dio, come il pensiero astratto, anche lo Stato vive necessariamente nell’insolubile
contraddizione di porsi come la realtà assolutamente originaria, separata e antitetica rispetto alla
realtà materiale, ma parimenti incapace di sussistere per sé: il suo essere positivo e reale è
subordinato ancora una volta alla mediazione con la società, che dunque è nello stesso tempo mera
parvenza e presupposto necessario.
«Ne consegue inoltre che l’uomo, liberandosi politicamente, si libera indirettamente, attraverso un
mezzo, anche se un mezzo necessario. Ne consegue infine che l’uomo, anche se per mezzo dello
Stato si proclama ateo, cioè se proclama ateo lo Stato, rimane ancor sempre legato alla religione,
appunto perché riconosce se stesso solo per via indiretta, solo attraverso un mezzo. La religione è
appunto il riconoscersi dell’uomo in modo indiretto, attraverso un mediatore. Lo Stato è il
mediatore tra l’uomo e la libertà dell’uomo. Come Cristo è il mediatore cui l’uomo attribuisce tutta
la sua propria divinità, tutto il proprio pregiudizio religioso, così lo Stato è il mediatore nel quale
egli trasferisce tutta la sua non-divinità, tutta la sua assenza umana di pregiudizi ».
(B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tromba, Roma 2004, p. 182).
Feuerbach, nell’Essenza del cristianesimo, aveva già definito la religione proprio come:
«La religione è la prima e, per giunta, indiretta conoscenza che l’uomo ha di sé».
(L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, cit, p. 37).
Come Dio è reale soltanto come Cristo, così anche l’essenza dell’ Stato, la sua vera realtà, è solo la
sua funzione mediatrice con la società civile, il suo porsi come intermediario tra l’uomo e la sua
essenza, tra l’uomo e la libertà dell’uomo: nella società civile l’uomo non è altro che individuo
particolare, bourgeois, ma attraverso lo Stato, nello Stato, perviene alla sua esistenza universale di
citoyen, ma ovviamente soltanto in una forma soltanto indiretta, illusoria, astratta.
«Nella monarchia, ad es., o nella repubblica come forma semplicemente particolare di Stato, l’uomo
politico ha la sua peculiare esistenza accanto all’uomo non politico, all’uomo privato. La proprietà,
il contratto, il matrimonio, la società civile appaiono qui (secondo l’esattissima spiegazione
hegeliana di queste astratte forme politiche, salvo che Hegel crede di spiegare l’idea dello Stato)
come modi di esistenza particolari accanto allo Stato politico, come il contenuto, nei cui confronti
lo Stato politico si comporta come la forma organizzatrice, e propriamente solo come intelletto
senza contenuto in se stesso, determinante e limitante, ce che ora afferma e ora nega».
(K. Marx, Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, in K. Marx, F. Engels, Opere, cit. , p.
33/34)
Lo Stato, come Cristo, come lo spirito hegeliano, è la realizzazione dell’universale mediante
l’astrazione e la formalizzazione del contenuto della società civile, che è il presupposto che è negato
ma sempre anche riconfermato accanto allo Stato: per poter negare il valore politico delle differenze
religiose, per dichiarare cioè ateo lo Stato, è necessario che le medesime differenze continuino a
sussistere al di là della politica, nella società civile; per dichiarare annullato il valore politico della
proprietà privata, attraverso la soppressione del censo come criterio elettorale, è necessario
presupporre l’esistenza della proprietà privata al di là della politica, come fondamento della società.
L’abolizione reale della religione, della proprietà, ecc. cioè il reale superamento dei particolarismi
della società civile, priverebbe di ogni senso la loro abolizione politica; l’affermazione
dell’universale reale negherebbe necessariamente qualsiasi universalità soltanto ideale, fondata
sull’astrazione e non sulla verace abolizione dei particolarismi sociali.
«Il più difficile era di formare lo Stato politico, la costituzione, dai diversi momenti della vita del
popolo. La costituzione si sviluppò come la ragione universale di fronte alle altre sfere, come
un’aldilà delle medesime. Il compito storico consistette poi nella sua rivendicazione; ma le sfere
particolari non hanno in ciò la coscienza che il loro essere privato cade con la trascendenza della
costituzione ossia dello Stato politico, e che l’esistenza trascendente dello Stato non è nient’altro
che l’affermazione della loro propria alienazione».
(Ivi. p. 35).
La società moderna come superamento della realtà medievale.
La critica ha compiuto il suo percorso, è pervenuta all’alienazione reale e ha svelato parallelamente
il carattere derivato delle sue figure teoretiche; ora le si impone necessariamente un compito
ulteriore: indicare la strada per il superamento della realtà alienata e per la riconquista di una realtà
veramente umana, espressione della sua universalità essenziale.
Feuerbach ha descritto la “forma sacra”, fenomenica di questo processo di emancipazione umana: è
quel movimento che dalle religioni antiche porta al cristianesimo e da quest’ultimo fino all’ateismo.
Le religioni precristiane si fondavano infatti sulla totale alienazione dell’uomo, ponevano cioè
l’essenza umana universale in una sfera assolutamente trascendente, in un’aldilà che era l’antitesi
assoluta rispetto al mondo terreno, al mondo del finito e della mera parvenza di realtà. La religione
cristiana supera questa condizione di assoluta alterità delle due sfere attraverso la posizione del
mediatore, del Cristo che, elevando l’uomo a Dio e umanizzando parallelamente Dio, svela la
essenziale identità del divino e dell’umano. Tale identità, realizzata però in modo soltanto indiretto,
astratto, mediato dall’intercessione del Cristo, è un riconoscimento dell’identità che non può
superare il dualismo dei piani, ma che anzi lo presuppone. Soltanto l’ateismo, la positiva
affermazione dell’essenza umana, è la compiuta realizzazione dell’uomo, il reale superamento di
ogni relazione contraddittoria tra l’elemento materiale e spirituale, tra realtà e idealità.
Il medesimo movimento di emancipazione diventa per Marx quel movimento storico che dal
medioevo, il periodo della suprema alienazione dell’uomo, deve portare all’emancipazione umana;
tra i due momenti c’è la realtà moderna che, al pari del cristianesimo, è la prima e incompiuta forma
di realizzazione dell’uomo.
«Nel Medioevo c’erano servi della gleba, beni feudali, corporazioni di mestiere, corporazioni
scientifiche ecc.; cioè nel Medioevo la proprietà , il commercio, la società, l’uomo sono politici, il
contenuto materiale dello Stato è posto dalla sua forma, ogni sfera privata ha una carattere politico o
è una sfera politica, e la politica è anche il carattere delle sfere private. Nel Medioevo la
costituzione politica è la costituzione della proprietà privata, ma solo perché la costituzione della
proprietà privata è una costituzione politica. Nel Medioevo vita del popolo e vita dello Stato sono
identiche. L’uomo è il reale principio dello Stato, ma l’uomo non-libero. E’ dunque la democrazia
della non-libertà. La compiuta alienazione. L’opposizione astratta, riflessa, appartiene solo al
mondo moderno».
(Ivi. p. 36/37).
La società medievale è dominata dal principio della particolarità: esistono una pluralità di cerchie
sociali, i differenti ceti, che tutelano i propri particolaristici interessi in opposizione agli interessi
delle altre sfere sociali, degli altri ceti, anch’essi a loro volta concentrati sui propri interessi privati.
L’uomo nel medioevo non ha quindi valore per sé, né come individuo né come ente generico, ma il
suo essere è determinato sempre dalla sua appartenenza al ceto, alla corporazione, ecc. cioè dalla
propria specifica posizione all’interno della società, che rimane la medesima dalla nascita fino alla
morte. Il principio sociale ed essenziale è quindi oggettivato nel vincolo corporativo, dunque in un
legame particolaristico, egoistico, fondato sull’esclusione e sull’opposizione tra i ceti, che nega ogni
affermazione della socialità nella sua forma universale. La sfera politica quindi non può che
limitarsi a confermare questa struttura sociale attraverso un sistema dei privilegi che riconosce
mediante statuti specifici l’essere particolare ed esclusivo di ogni cerchia sociale.
«La rivoluzione politica che rovesciò questo potere sovrano e innalzò gli affari dello Stato ad affari
del popolo, che costituì lo Stato politico come affare universale, cioè come Stato reale, fece
necessariamente a pezzi tutti i ceti, le corporazioni, le gilde, i privilegi, tutte espressioni della
separazione tra il popolo e la sua comunità»
(B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, cit., p. 197)
La società moderna distrugge le sfere particolari su cui si strutturava la società medievale, negando
quel vincolo che legava in modo immediato e sostanziale l’essere dell’uomo alla sua sfera sociale di
appartenenza. L’essere sociale dell’uomo moderno è privato di ogni necessità e diviene qualcosa di
assolutamente esteriore ed arbitrario; la rottura dei ceti ha infatti come effetto l’individualizzazione
del principio particolaristico e la liberazione da ogni legame stabile tra altri uomini; ogni singolo si
afferma per sé, vive per realizzare i propri interessi ed il proprio essere privato, utilizza la società
come mero mezzo per la propria realizzazione personale ed egoistica.
«L’attuale società civile è il principio realizzato dell’individualismo; l’esistenza individuale è lo
scopo ultimo: attività, lavoro, contenuto ecc. sono soltanto dei mezzi».
(K. Marx, Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, in K. Marx, F. Engels, Opere, cit., p.
91).
«La costituzione dello Stato politico e la dissoluzione della società civile in individui indipendenti –
il cui rapporto è il diritto, così come il rapporto tra gli uomini appartenenti ai ceti e alle corporazioni
era il privilegio – si compie in un unico e medesimo atto».
(B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, cit., p. 198)
L’essenza umana non può essere più definita in base alla posizione sociale, divenuta ormai
assolutamente casuale, ma si può invece determinare soltanto al di là della società, soltanto
attraverso l’astrazione dalla società. Il risvolto politico dell’individualismo moderno è proprio la
parallela distruzione del sistema dei privilegi e l’affermazione del diritto, cioè la liberazione del
principio sociale da ogni vincolo corporativo, da ogni determinazione particolare, e la sua
conseguente affermazione universale in una sfera indipendente ed opposta alla società civile. Si
realizza così il dualismo tipicamente moderno tra la società civile che, liberata da ogni vincolo
politico, porta a compimento il principio egoistico medievale e lo Stato che libera parallelamente
dalla società civile il principio di socialità, trasformandolo da principio di coesione dei ceti
particolari nel concetto universale dell’essere sociale, generico dell’uomo.
«La rivoluzione politica soppresse con ciò il carattere politico della società civile. Essa spezzò la
società civile nelle sue parti costitutive elementari, da un lato gli individui, dall’altro gli elementi
materiali e spirituali che costituiscono il contenuto vitale, la situazione civile di questi individui.
[…] Solo che il compimento dell’idealismo dello Stato fu contemporaneamente il compimento del
materialismo della società civile. La soppressione del giogo politico fu al tempo stesso la
soppressione dei legami che tenevano vincolato lo spirito egoista della società civile.
L’emancipazione politica fu al tempo stesso, l’emancipazione della società civile dalla politica,
dalla parvenza stessa di un contenuto universale.
La società feudale fu risolta nel suo fondamento, nell’uomo. Ma nell’uomo che realmente costituiva
il suo fondamento, nell’uomo egoista».
(Ivi, p. 197/198).
La realtà moderna afferma per la prima volta il principio dell’universalità dell’essenza umana, è
quindi un momento di emancipazione rispetto al medioevo, ma parimenti è ancora una realtà
dualistica e contraddittoria, incompiuta; l’’ulteriore evoluzione della storia dovrà per forza essere il
superamento di questa scissione e l’affermazione dell’universalità mediante il reale superamento del
particolarismo e dell’egoismo sociale. L’affermazione dell’universale nell’unica vera realtà umana,
nella società, è la compiuta emancipazione dell’uomo, l’emancipazione veramente umana.
L’alienazione sociale e il dominio del denaro.
L’uomo, in virtù del suo essere essenzialmente sociale, non può realizzare la propria vita, i propri
bisogni, se non mediando la propria produzione con le produzioni degli altri uomini; il che vuol dire
che tanto la produzione quanto il bisogno umano sono per loro essenza sociali. La più originaria
affermazione dell’essenza generica dell’uomo è proprio quest’esigenza della mediazione sociale per
la vita individuale, che mostra come la socialità sia il fondamento e il fine ultimo della vita umana.
La società borghese è però il mondo del compiuto individualismo, del dominio dell’egoismo
privato, in cui l’uomo, pienamente concentrato su di sé, ha estraniato da sé e reso esteriore ogni
legame sociale, riducendo ogni rapporto con gli altri uomini a semplice strumento, mero mezzo per
la realizzazione dei propri bisogni e desideri privati.
«Ciascuno di noi vede nel suo prodotto nient’altro che il proprio egoismo oggettivato, e dunque, nel
prodotto dell’altro, un altro egoismo oggettuale estraneo e indipendente dal proprio.
Tu hai certamente, in quanto uomo, una relazione umana con il mio prodotto; tu hai il bisogno del
mio prodotto. Esso esiste quindi per te come oggetto del tuo desiderio, del tuo volere. Ma il tuo
bisogno, il tuo desiderio, la tua volontà sono bisogno, desiderio, volontà impotenti per il mio
prodotto».
(K. Marx, Estratti dal libro di J. Mill, «E’lémens d’économie politique», in K. Marx, F. Engels,
Opere, cit., p. 245).
La socialità nel mondo borghese si configura come relazione tra proprietari privati che agiscono
esclusivamente per il loro utile individuale, come una sommatoria di volontà singole e asociali
concentrate soltanto sulla propria immediata affermazione egoistica, incapaci di cogliere il carattere
sociale dei bisogni, dei desideri e delle produzioni dell’uomo. Prima ancora che nello Stato o nella
religione, già nella società civile stessa si impone l’esigenza di un mediatore che possa stabilire
rapporti sociali, superando la reciproca indifferenza delle produzioni e dei bisogni. Tale mediatore
estraneo all’uomo è il denaro, la prima e fondamentale espressione dell’estraneazione dell’essenza
generica.
«L’essenza del denaro non consiste nel fatto che in esso viene alienata la proprietà, ma nel fatto che
viene estraniata l’attività o il movimento che media, viene alienato l’atto umano, sociale, attraverso
cui i prodotti dell’uomo si integrano scambievolmente, e la qualità di una cosa materiale esterna
all’uomo diviene una qualità del denaro. In quanto è l’uomo stesso che aliena questa attività
mediatrice, in esso egli è attivo soltanto come uomo che ha perduto se stesso, come uomo
disumanizzato; la stessa relazione delle cose, l’operazione dell’uomo su di esse diviene l’operazione
di un ente che sta al di fuori ed al di sopra dell’uomo. Attraverso questo intermediario estraneo –
mentre è l’uomo stesso che dovrebbe essere l’intermediario per l’uomo – l’uomo vede la sua
volontà, la sua attività ed il suo rapporto con altri come una potenza indipendente da lui e dagli
altri. La sua schiavitù giunge dunque al culmine. Che adesso questo intermediario divenga il Dio
reale è chiaro, infatti l’intermediario è il potere reale su ciò con cui esso mi media. Il suo culti
diventa fine a se stesso. Separati da questo intermediario gli oggetti perdono di valore. Dunque
soltanto nella misura in cui lo rappresentano essi hanno valore, mentre in origine sembrava che esso
avesse valore soltanto in quanto li rappresentava. Questa inversione del rapporto originario è
necessaria. Questo intermediario è quindi l’essenza che ha perduto se stessa, l’essenza estraniata
della proprietà privata, è la proprietà privata alienata, divenuta esterna a se stessa, così come è la
mediazione alienata della produzione umana con la produzione umana, l’attività generica alienata
dell’uomo. […] Ma Cristo è il Dio alienato e l’uomo alienato. Dio ha ormai valore soltanto in
quanto rappresenta Cristo, e l ‘uomo ha valore soltanto in quanto rappresenta Cristo. La stessa cosa
vale per il denaro.
(Ivi, p. 231).
Il denaro non ha, proprio come Dio, proprio come lo Stato, alcun valore per sé, ma il suo contenuto
specifico, il suo valore e la sua esistenza reale sono dati dal suo rappresentare astrattamente quel
contenuto concreto che sono i bisogni umani; il suo ruolo di mediatore però lo rende il “Dio reale”,
il compiuto potere sugli uomini, il legame esclusivo tra l’uomo e la sua essenza: al di là del danaro
l’uomo non può essere uomo, non può soddisfare in alcun modo i propri bisogni e desideri, ogni sua
volontà è negata; lontano dal mediatore è privato della stessa possibilità materiale di essere uomo,
mentre il denaro si arricchisce di tutte la qualità, degli attributi propriamente umani sottraendoli
all’uomo. L’essere dell’uomo diventa così assolutamente dipendente e subordinato al denaro.
«Ciò che è mio mediante il denaro, ciò che il posso, cioè può il denaro, comprare, ciò sono il, il
possessore del denaro stesso. Tanto grande la mia forza quanto grande la forza del denaro. Le
proprietà del denaro son proprietà e forze essenziali mie, del suo possessore. Ciò ch’io sono e posso
non è , dunque, affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi le
più belle donne. Dunque non sono brutto, che l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è
annullato dal denaro. Io sono, come individuo, storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono
dunque storpio. Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza senza ingegno, ma il denaro è
onorato, dunque lo è anche il suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo
possessore è buono; il denaro mi dispensa dalla pena di esser disonesto, io sono, dunque, presunto
onesto; io sono senza spirito, ma il denaro è lo spirito reale di ogni cosa: come dovrebbe essere
senza spirito il suo possessore? Inoltre questi può comprarsi la gente ricca di spirito, e chi ha potere
sulla gente ricca di spirito non è egli più ricco di spirito dell’uomo ricco di spirito? Io, che mediante
il denaro posso tutto ciò che il cuore umano desidera, non possiedo io tutti i poteri umani? Il mio
denaro non tramuta tutte le mie impotenze nel loro contrario? […] Poiché il denaro, in quanto
concetto esistente e attivo del valore, confonde e scambia tutte le cose, esso è così la generale
confusione e inversione di ogni cosa, dunque il mondo sovvertito, la conversione e inversione di
tutte le qualità naturali e umane».
(K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx, F. Engels, Opere, cit., p. 351/352)
Il denaro dunque è l’oggettivazione reale del mondo estraniato, invertito, capovolto; un mondo in
cui la vita individuale non è funzionale al genere, bensì il genere diventa lo strumento necessario
per l’affermazione dell’individuo particolare; un mondo fatto di individualità indifferenti, ostili,
nemiche che, costrette ad interagire, sfruttano i bisogni degli altri uomini come strumenti di potere.
La realtà materiale è il presupposto di ogni realtà spirituale. Questo postulato della filosofia
feuerbachiana doveva necessariamente portare infine a cercare proprio in questa originaria ed
immediata realtà esistente i presupposti della religione, dello Stato e di ogni altra realtà spirituale.
L’uomo alienato nella società civile, l’uomo che, incapace di mediare con l’altro uomo, ha invertito
il rapporto verace tra essenza ed esistenza, l’uomo borghese e la società borghese dovevano infine
essere svelate come presupposto materiale, fondamento reale di qualsiasi forma fenomenica
dell’autoestraneazione umana nella società moderna.
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