Stato e società civile. L’inversione di soggetto e predicato Dott.sa Irene Viparelli e-mail: enrica46 [[email protected]] Introduzione. «Per la Germania, la critica della religione nell’essenziale è compiuta, e la critica religiosa è il presupposto di ogni critica […] E’ compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell’autoestraneazione umana, smascherare l’autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica». (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. III, tr. it. N. Merker, Roma 1976, p. 190/191). La critica della religione, la critica del mondo trascendente, è il presupposto, la condizione di possibilità della critica mondana, terrena, politica; è il moto necessario della filosofia, che deve procedere dai cieli ideali fino alla realtà concreta, cui si oppone invece il rapporto inverso in cui stanno la religione e la politica stesse: qui, nella relazione reale, il movimento è invece ascendente, poiché soltanto nell’esistenza mondana si possono trovare i presupposti, il fondamento verace della religione, che si rivela in ultima istanza soltanto l’ultima forma fenomenica, la “figura sacra dell’autoestraneazione umana”, uno specchio della condizione misera, alienata della vera vita, della vita reale, sociale. Marx, nella Questione ebraica, svela proprio quest’intima dipendenza della religione dalla politica, mostrando come anche la soluzione di questioni che possono sembrare esclusivamente religiose, come quella dell’emancipazione degli ebrei, si dà invece soltanto se, trascendendo l’ambito puramente teologico, si cerca il loro fondamento nell’analisi della realtà mondana, concreta. Perché allora la filosofia non può andare dritto al cuore del problema, alla questione politica, e deve invece inizialmente concentrarsi su questioni secondarie e derivate come quelle religiose? Qual è il compito specifico della critica religiosa, che gli assegna questo ruolo assolutamente primario di presupposto di ogni critica della realtà? «La critica della religione è in germe la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola» (Ivi, p. 191). La vera critica religiosa, che per Marx è la critica feuerbachiana alla religione, si fonda sul presupposto del primato della realtà umana e sensibile su ogni realtà spirituale e trascendente e riduce la religione, che si fonda invece sull’assoluto dominio ontologico di Dio sull’uomo, dello spirituale sulla realtà materiale, a espressione dell’autoestraneazione umana. La critica religiosa definisce quindi le caratteristiche generali, la struttura logica del pensiero critico, di quel pensiero che, fondandosi sull’unica vera realtà originaria, la realtà umana, è il solo capace di svelare e denunciare tutte le sfere, teoretiche o pratiche, dell’autoestraneazione, cioè quegli ambiti nei quali è negato il primato ontologico dell’uomo. L’identificazione feuerbachiana della religione con l’alienazione è dunque proprio il presupposto che permette a Marx, trascendendo l’ambito specificamente teologico, di estendere il concetto di religione alla stessa realtà moderna, cioè a quel mondo fondato proprio sull’autoestraneazione umana; religioso è il rapporto tra Stato e società civile, religiosa la relazione tra bourgeois e citoyen, religiosa infine è la stessa relazione tra gli uomini nella società moderna. Il passaggio da Feuerbach a Marx, dalla critica religiosa a quella politica, non è però immediato, diretto, ma ha invece come momento intermedio la critica rivolta da entrambi alla filosofia hegeliana: Feuerbach applica il metodo della critica religiosa alla dialettica hegeliana in generale, ridotta ad una nuova forma di teologia, mentre Marx si concentra su di una parte specifica del sistema hegeliano, la filosofia del diritto; analisi critica che, fondata sulle categorie logiche feuerbachiane, è il presupposto della sua critica alla realtà moderna, della critica politica. Feuerbach – critica alla religione. «Io perciò non faccio altro alla religione – e anche alla filosofia o teologia speculativa – che aprirle gli occhi o piuttosto volgerglieli all’esterno, mentre finora erano indirizzati all’interno, in altri termini, converto solo l’oggetto della rappresentazione o dell’immaginazione nell’oggetto della realtà». (L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, a cura di F. Tomasoni, Roma-Bari 1997). La teologia si fonda sui presupposti religiosi dell’esistenza di Dio, della creazione del mondo attraverso la volontà divina, della dipendenza dell’uomo da Dio, dell’opposizione tra la vera vita celeste e l’assoluta apparenza della vita terrena, ecc.; si fonda dunque sulla certezza del primato della realtà spirituale e trascendente, divina, sulla realtà umana e sensibile. Dio è il creatore del mondo, il soggetto, l’agente, mentre l’uomo è la creatura, una produzione della volontà divina, dipendente da tale soggettività spirituale e subordinato a Dio per la sua esistenza come per la sua essenza. Feuerbach vuole “volgere gli occhi all’esterno”, vuole cioè avvicinarsi alla religione a partire da un presupposto differente che è proprio questa realtà umana, terrena, materiale, sensibile, ridotta dalla religione a mero attributo divino; solo quest’ultima è infatti la vera realtà, originaria e assoluta, il fondamento di ogni sfera trascendente, di ogni realtà spirituale. Trasformare la religione in antropologia, svelandone i fondamenti umani, è quindi il fine ultimo della critica feuerbachiana alla religione. Esistere per Feuerbach significa necessariamente “essere oggettivo”, essere un ente con determinate qualità, specifici predicati che connotano l’essenza e la rendono reale; un soggetto senza alcuna determinazione positiva, alcun attributo, è necessariamente un essere vuoto, un’essenza assolutamente indeterminata, il puro nulla. Questo postulato consente a Feuerbach di dimostrare l’intima dipendenza dell’essenza divina dalla natura umana; proprio come ogni altro ente infatti anche Dio è reale solo in quanto è un Dio oggettivo, ricco di qualità, ma in realtà tutti i predicati di Dio sono sempre specificamente umani: Dio è infinito pensiero, infinito amore e volontà infinita, ma pensiero, cuore e volontà non sono altro che l’essenza stessa dell’uomo. La rappresentazione di Dio è quindi necessariamente subordinata alla natura umana, l’esistenza di Dio dipende dall’essenza umana, dunque l’essere oggettivo di Dio è in realtà soltanto la rappresentazione astratta dell’essenza infinita dell’uomo. «La religione, almeno quella cristiana, è il rapporto dell’uomo con se stesso o, più esattamente, con la sua essenza (e questa soggettiva), ma tale rapporto con la sua essenza è come un’essenza diversa da lui. L’essenza divina non è altro che l’essenza umana o, meglio, l’essenza dell’uomo, purificata, liberata dai limiti dell’individuo, obiettivata, cioè intuita e adorata come un’altra essenza, da lui distinta, particolare – tutte le determinazioni dell’essenza divina sono perciò determinazioni umane». (Ivi, p. 38). La religione è l’autoestraneazione dell’uomo, l’esito della separazione dei predicati umani dal soggetto reale, dall’uomo, e della loro trasposizione in una soggettività differente e trascendente, in Dio. Il suo fondamento è da ricercare nell’opposizione tra la vita del genere e la vita individuale, nello scarto tra l’essenza universale e l’esistenza immediata: come individuo l’uomo è un ente sensibile, limitato, finito, passivo, dipendente dal mondo esterno, dalla natura e dagli altri uomini, è un ente mortale, è amore, volontà e pensiero ma ha bisogno di un mondo esteriore che gli dia oggetti da amare, oggetti del pensiero e del desiderio; nel genere però l’uomo supera ogni suo limite individuale, ogni forma di dipendenza dall’esterno ed è invece un ente universale, infinito, onnipotente; l’essenza eterna ed assoluta. «Certamente l’individuo umano può, anzi deve percepirsi e riconoscersi come limitato – in questo consiste la sua differenza dall’animale; ma egli può prender coscienza dei suoi limiti, della sua finitezza solo perché gli è oggetto la perfezione, l’infinità del genere, sia come oggetto del sentimento, sia come oggetto della coscienza morale o pensante. Se tuttavia prende i suoi limiti per i limiti del genere, ciò si fonda sull’equivoco di identificare immediatamente se stesso con il genere, un equivoco connesso nel modo più stretto all’indolenza, all’inerzia, alla vanità e all’egoismo dell’individuo». (Ivi, p. 31). L’oblio dell’universalità essenziale e la conseguente identificazione dell’individuo con il genere sono il fondamento dell’autoestraneazione religiosa: mentre l’individuo estende i limiti della propria esistenza sensibile all’intero genere, vedendo quindi nell’umanità null’altro che una sommatoria di individualità finite e limitate, si rappresenta parallelamente la sua essenza infinita come l’antitesi assoluta rispetto alla realtà umana, come una soggettività opposta e diversa dall’uomo, trascendente, spirituale, libera dalla natura e dalla materia. L’alienazione religiosa è quindi l’inversione della relazione tra il soggetto reale, l’uomo, ed i suoi predicati essenziali: mentre il primo è ridotto a mero prodotto della volontà divina, dunque ad un predicato di Dio, le qualità propriamente umane, i suoi predicati essenziali, diventano parallelamente il soggetto divino, indipendente e separato dall’uomo; ma in realtà Dio è il prodotto di un’astrazione che, sottraendo all’individuo i vincoli dati dalla sua natura sensibile e liberandolo quindi dal suo necessario legame con il mondo, produce la rappresentazione di una soggettività puramente spirituale, dunque infinita ed eterna. La conseguenza di quest’inversione-astrazione, è il dualismo, cioè la duplicazione della realtà in un mondo immanente, che è la realtà dell’apparenza e della finitezza, ed il mondo trascendente, il regno della soggettività assoluta, libera, eterna; quest’antitesi è insuperabile, poiché è il presupposto della religione, la condizione di possibilità della stessa esistenza di Dio che si definisce come infinità proprio in opposizione al mondo sensibile e ai limiti della materia. Ma il fine della religione non è però quest’opposizione, che lascia l’uomo nell’assoluta umiliazione del suo essere nullo, ma soltanto il suo superamento, il ripristino dell’identità perduta tra Dio e l’uomo, la riappropriazione dei predicati umani da parte dell’uomo, la redenzione dell’uomo attraverso Cristo, figura che per Feuerbach è l’essenza della religione cristiana. L’incarnazione è quel processo di umanizzazione di Dio attraverso il quale la divinità supera la sua indeterminatezza originaria e, arricchendosi delle qualità e della sensibilità dell’uomo, trasformandosi nel Dio dell’amore, diventa un Dio reale, positivo, che è sentimento, cioè amore per l’uomo, che ha un fine determinato, vuole il bene dell’uomo, e che agisce dunque per realizzare tutti i desideri dell’uomo: attraverso i miracoli Cristo trasforma l’acqua in vino, restituisce la vista ai ciechi, resuscita i morti, ecc. annulla cioè, attraverso la sua pura volontà, il potere della natura sull’uomo, nega tutte le leggi naturali che vincolano l’individuo, instaurando così l’altro movimento centrale dell’incarnazione, il movimento inverso di divinizzazione dell’uomo: l’uomo è mortale, ma Cristo gli dà la vita dopo la morte; è finito, ma mediante Cristo che diventa infinito, è imperfetto, ma Cristo gli dà la perfezione; è vincolato dalla natura esterna, ma Cristo annulla il potere della natura attraverso il miracolo; mediante Cristo quindi l’uomo si libera della sua condizione di minorità, dei suoi limiti individuali e realizza nell’individuo la perfezione assoluta, l’infinità divina. Dio si è abbassato fino all’uomo, l’uomo si è elevato a Dio. L’essenza della religione cristiana è proprio questa riconciliazione attraverso l’amore: «L’amore è il terminus medius, il legame sostanziale, il principio di mediazione fra perfetto e imperfetto, fra l’essenza senza peccato e quella peccaminosa, fra l’universale e l’individuale, fra la legge e il cuore, fra il divino e l’umano. L’amore rende Dio l’uomo e l’uomo Dio. L’amore rafforza il debole e indebolisce il forte, abbassa ciò che è in alto e innalza ciò che è in basso, idealizza la materia e materializza lo spirito. L’amore è la vera unità di uomo e Dio, natura e spirito». (Ivi, p. 59/60). La teologia considera Cristo come una realtà secondaria rispetto al Dio Padre, al Dio come assoluta divinità separata dall’uomo: Cristo è soltanto il mediatore, lo strumento di Dio, ma non la vera sostanza. Per Feuerbach è invece l’essenza stessa della religione cristiana. «Di conseguenza tutto quello che nel senso della speculazione e religione trascendente, iperfisica ha solo il significato del secondario, del soggettivo, del mezzo, dell’organo, ha nel senso della verità il significato del primordiale, dell’essenza, dell’oggetto stesso». (Ivi, p. 32/33). Che cos’è infatti Dio quale assoluta trascendenza, assoluta alterità rispetto all’uomo? E’ proprio quell’essenza vuota, priva di attributi, quella pura astrazione priva di qualsiasi contenuto e di qualsiasi realtà; soltanto attraverso la mediazione con la realtà umana, con l’incarnazione, Dio può arricchirsi di un contenuto concreto, di attributi oggettivi, di qualità, può dunque essere un Dio vero e reale. D’altro canto anche l’uomo, avendo estraniato da sé la sua essenza universale ed avendola trasposta in un al di là trascendente, essendosi posto come pura passività, dipendente e subordinato in tutto e per tutto a Dio, non è più in grado di affermare alcuna universalità, di superare la scissione tra la sua esistenza e la sua essenza universale, se non attraverso l’intercessione della divinità, solo mediante la posizione di Cristo. Il Dio figlio, in quanto è l’intermediario tra Dio e l’uomo, ha dunque il potere assoluto tanto su Dio, che solo in Cristo è reale, quanto sull’uomo, che solo con Cristo raggiunge il suo essere universale. La figura del mediatore è l’elemento davvero centrale nel processo dell’autoestraneazione umana: è l’immagine oggettiva, concreta, della separazione, la denuncia del dualismo dei piani, l’esigenza della conciliazione, l’espressione dell’identità essenziale e la condizione di possibilità di tale unità ripristinata. Ma è anche la dimostrazione del limite insuperabile di ogni realizzazione dell’essenza umana attraverso un mediatore, di ogni affermazione soltanto indiretta dell’essere dell’uomo, che deve necessariamente presupporre e quindi riconfermare infine il dualismo delle realtà; Cristo infatti eleva l’uomo a Dio ripetendo in ogni uomo quell’astrazione dalla sensibilità che realizza l’essere sostanziale in antitesi rispetto all’esistenza reale e sensibile, che resta il mondo della pura parvenza, della finitezza, della nullità. L’unica verace riconciliazione tra essenza ed esistenza è data soltanto dalla posizione dell’uomo come mediatore tra la sua esistenza individuale la sua vita generica, cioè soltanto attraverso il riconoscimento del genere come suo fondamento e fine ultimo, come l’unica vera universalità concreta che si dà nella realtà umana e sensibile. Feuerbach – critica alla dialettica hegeliana. Nel marzo 1842 Feuerbach pubblica, sugli "Anekdota", la rivista filosofica di A. Ruge, le Tesi provvisorie per una riforma della filosofia, un saggio in cui il metodo della critica religiosa viene applicato alla filosofia idealista hegeliana; le medesime tesi costituiscono il nucleo sul quale poi Feuerbach elaborerà, nel 1843, i Principi per la filosofia dell’avvenire. Per Feuerbach la filosofia hegeliana è fondata sull’inversione del rapporto reale tra soggetto e predicato, tra la materia e lo spirito; è quindi, al pari della teologia, un pensiero che non si fonda sull’essere dell’uomo, ma soltanto sulla sua autoestraneazione. Hegel però è soltanto il punto culminante di tutta la tradizione della filosofia speculativa moderna che, non riconoscendo alcun valore teoretico al mondo sensibile, ridotto invece a mera materialità, a pura passività, si fonda interamente su presupposti teologici. Il Dio della filosofia speculativa moderna è l’essenza puramente razionale e assolutamente opposta alla materia; quella realtà che ha in sé il proprio principio di intelligenza e che è quindi l’unica vera realtà, il fondamento, la causa prima e il principio ordinatore del mondo sensibile e materiale. La filosofia speculativa moderna è la storia di questo principio razionale e trascendente che da Cartesio, attraverso il panteismo moderno, doveva necessariamente portare all’idealismo: «Ma si può dire che l’idealismo sia la verità del panteismo: perché Dio, o la sostanza, è soltanto oggetto della ragione, dell’io, dell’essenza pensante; se io non credo, se io non penso a Dio, allora non ho Dio: Dio è per me solo per opera mia, esiste per la ragione solo per opera della ragione; - lo a-priori, la prima essenza, non è dunque la essenza pensata, ma quella pensante, non l’oggetto ma il soggetto». (L. Feuerbach, Principi della filosofia dell’avvenire, in La sinistra hegeliana, a cura di K. Lowith, tr. it. C. Cesa, Roma-Bari 1982, p. 309). La realtà soggettiva, la “sostanza pensante” è la condizione dell’esistenza reale della “sostanza pensata”, è dunque la sola verace realtà, il fondamento; l’idealismo innalza così l’attività del pensiero, la soggettività razionale, a realtà assoluta, originaria. Ma proprio tale “realtà pensante” in verità è a sua volta subordinata al soggetto pensante, all’uomo reale, sensibile; ben lungi dall’essere una soggettività autonoma, in verità è, con il cuore e la volontà, soltanto una facoltà essenziale dell’uomo, un suo predicato. «La filosofia hegeliana ha fatto essenza divina ed assoluta il pensiero, cioè l’essenza soggettiva pensata senza soggetto, rappresentata come una essenza distinta dal soggetto. Il mistero della filosofia “assoluta” è quindi il mistero della teologia». (Ivi, p. 318). Hegel astrae dall’uomo la sua specifica facoltà razionale e la trasforma in un’entità separata e indipendente dall’uomo; fonda cioè la sua logica proprio su quell’inversione tipica della religione che stravolge la vera relazione tra il soggetto e il predicato, tra il determinante e il determinato, tra la realtà sensibile e la realtà spirituale, attribuendo a quest’ultima il primato assoluto sulla materia. L’idealismo hegeliano è quindi destinato a riproporre quella relazione necessariamente contraddittoria tra realtà sensibile e essere spirituale: proprio come Dio, che separato dalle sue qualità umane non ha alcun predicato proprio e che dunque è reale solo se si è segretamente posta la realtà umana che l’arricchisce di attributi positivi, così anche l’astratto pensiero hegeliano deve sempre presupporre la realtà concreta e sensibile, poiché il puro pensiero, il pensiero in sé al di là di ogni contenuto determinato è soltanto una vuota rappresentazione, una pura astrazione priva di ogni significato. Hegel però, avendo posto lo spirito come assoluta realtà, non può in alcun modo riconoscere alla realtà empirica il suo ruolo assolutamente primario e fondante e la pone invece soltanto come “realtà pensata”, secondaria e derivata, un prodotto, un fenomeno, un attributo della realtà spirituale. L’identità di realtà e razionalità non ha altro significato che la posizione della realtà attraverso la mediazione con il principio razionale, con il pensiero astratto e la parallela negazione della realtà dell’esistenza immediata ed empirica, della verità dell’essere sensibile. L’idea deve però necessariamente mediarsi con la realtà, farsi finita, comprendere in sé il suo opposto; solo così può superare la sua originaria indeterminatezza. Il movimento dell’estraneazione dell’idea, che si pone come finitezza, è quindi per Feuerbach il tacito riconoscimento del primato ontologico della materia, la confessione dell’impossibile autonomia dello spirito, che senza la mediazione con l’altro da sé, con il determinato, con quel presupposto sensibile misconosciuto da Hegel, è destinato a rimanere un’essenza assolutamente vuota; l’estraneazione dell’idea è dunque l’affermazione del concreto e la negazione dell’astratto, la soppressione della teologia con la filosofia. Ma la realtà è riconosciuta da Hegel soltanto come momento dello spirito, come sua manifestazione fenomenica, non come realtà essenziale; così il fine dell’intero processo dialettico non può che essere il superamento dell’estraneazione e il ripristino della spirito come unica vera realtà. La verità in Hegel è “negazione della negazione”, cioè è riconoscimento e misconoscimento della materia, la sua posizione e la sua negazione, la riaffermazione finale della teologia sulla filosofia; è una verità eternamente contraddittoria, poiché lo spirito è incapace di liberarsi realmente dalla materia, dal suo opposto, che deve essere sempre nuovamente posto accanto alla realtà spirituale come quel presupposto che solo rende concreta l’astrazione. «Se è solo l’idea che dà valore e contenuto alla sensibilità, quest’ultima sarebbe un puro lusso, un puro ornamento, soltanto un’illusione che il pensiero si fa balenare davanti. Ma le cose non stanno così. Al pensiero viene attribuita l’esigenza di realizzarsi, di diventare sensibile solo perché, senza che se ne abbia la consapevolezza, si è data come presupposto al pensiero la realtà, la sensibilità, che sono il vero indipendentemente dal pensiero. Il pensiero verifica se stesso mediante la sensibilità: e come sarebbe possibile questo se, inconsciamente, essa non fosse considerate verità? Ma dato che si è invece consapevolmente preso le mosse dalla verità del pensiero, ecco che la verità della sensibilità viene proclamata solo come qualche cosa che segue alla prima; la sensibilità viene ridotta ad attributo dell’idea, il che è una contraddizione; essa è considerata solo come attributo, come un attributo però senza il quale il pensiero non ha verità: è quindi insieme centrale e marginale, essenza ed accidente». (Ivi, p. 332). La mediazione ha ancora una volta un ruolo centrale: l’esigenza di legare lo spirito alla materia, sia attraverso il movimento dell’autoestraneazione dell’idea sia attraverso la riduzione della realtà a “realtà pensata”, rivela il carattere segretamente unitario di ciò che invece è posto dal pensiero alienato come antitesi e parimenti porta alla luce il carattere insufficiente di questa ricongiunzione di materia e spirito mediata dal pensiero astratto, che sottrae alla realtà proprio la sua caratteristica immediatezza, percepita attraverso i sensi e l’intuizione, che la rende eternamente irriducibile al pensiero, a una mera rappresentazione. «Ci si può liberare da questa contraddizione solo facendo del reale e del sensibile il soggetto di se stesso, solo attribuendogli un ruolo assolutamente autonomo, divino, primario, non dedotto dall’idea» (Ivi, p. 333). Marx Rapporto società civile e stato. Nel 1842 il giovane Marx legge le Tesi provvisorie per una riforma della filosofia, si appropria della critica feuerbachiana ad Hegel e la utilizza come strumento teorico per una critica della sezione dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel dedicata allo Stato, di cui è rimasto un importantissimo manoscritto incompleto, che comincia al par. n. 261 e si conclude bruscamente al par. n. 313. La parte iniziale è andata perduta mentre la conclusione, presumibilmente, non fu mai scritta da Marx poiché, con il trasferimento a Parigi nell’ottobre di quell’anno, l’interesse per le problematiche sociali prese il sopravvento. Marx riprende ogni singolo paragrafo dell’opera hegeliana, lo riporta e lo commenta denunciandone la struttura logica, interamente fondata sull’ inversione tra soggetto e predicato, realtà e idealità; è un’analisi che, mostrando l’intima dipendenza dell’universalità razionale dai suoi presupposti sensibili, dal mondo concreto e determinato, vuole ripristinare il reale rapporto tra lo spirituale e il materiale, evitando che quest’ultimo sia ridotto a mero fenomeno, a una “produzione mistica” dell’idea astratta. Il commento al par. 262, in cui Hegel definisce proprio il rapporto tra la realtà spirituale, lo Stato, ed i suoi presupposti materiali, la famiglia e la società civile, è esplicativo sia della struttura logica hegeliana, sia dei presupposti su cui si fonda la critica marxiana. «In questo paragrafo è depositato tutto il mistero della filosofia del diritto e della filosofia hegeliana in generale». (K. Marx, Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, in K. Marx, F. Engels, cit., p. 9/10). Riportiamo il paragrafo hegeliano, così come è scritto nel manoscritto marxiano: «L’idea reale, lo spirito, che scinde se stesso nelle due sfere ideali del suo concetto, la famiglia e la società civile, come sue finità, per scaturire dalla loro idealità come spirito reale per sé infinito, assegna perciò a queste sfere la materia di questa sua finita realtà. Gli individui in quanto moltitudine, cosicché nel singolo questa assegnazione appare mediata dalle circostanze, dall’arbitri e dalla propria scelta della sua determinazione». (Ivi, p. 7) Il soggetto del paragrafo è «l’idea reale, lo spirito, che scinde se stesso nelle due sfere ideali del suo concetto, la famiglia e la società civile». Lo spirito, l’ “idea reale”; è l’unico agente, il motore dell’intero processo, mentre famiglia e società civile sono invece le realtà poste dall’idea, i predicati del movimento dello spirito che si estranea, si pone come realtà finita per arricchirsi di contenuto reale, si scinde nelle due sfere ideali, ma solo per poi, alla fine dell’intero movimento, «scaturire dalla loro idealità come spirito reale per sé infinito», per riconfermarsi cioè in ultima istanza come assoluta spiritualità in opposizione rispetto alla realtà concreta, riconosciuta soltanto come espressione dell’estraneazione dello spirito. «L’idea è ridotta a soggetto. E il reale rapporto della famiglia e della società civile con lo Stato è inteso come interna, immaginaria, attività dello Stato. Famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato, essi sono propriamente gli attivi. Ma nella speculazione diventa il contrario: mentre l’idea è trasformata in soggetto, quivi i soggetti reali, la società civile, la famiglia, “le circostanze, l’arbitrio” ecc., diventano dei momenti obiettivi dell’idea, irreali, allegorici. […] Lo scopo della loro esistenza non è questa esistenza stessa, ma l’idea separa da sé questi presupposti, “per scaturire dallo loro idealità come spirito reale, per sé infinito”, cioè lo stato politico non può essere senza la base naturale della famiglia e la base artificiale della società civile, che sono la sua conditio sine qua non. Ma la condizione viene posta come il condizionato, il determinante come determinato, il producente come prodotto del suo prodotto; l’idea reale si umilia nella “finità” della famiglia e della società civile soltanto per produrre e godere – dal superamento di essa finità – la sua infinità». (Ivi, p. 8/9). «Ciò che è reale diventa fenomeno, ma l’idea non ha per contenuto altro che questo fenomeno!». (Ivi, p. 10). Lo Stato è “negazione della negazione”, il prodotto del movimento di estraniazione dell’idea, che riconosce l’esigenza di mediazione con la realtà e dunque riconosce il ruolo centrale della famiglia e della società civile, ma solo come momento che deve essere superato; lo spirito confessa per un attimo la propria dipendenza dalla realtà sensibile, ma solo come condizione necessaria per la sua realizzazione assoluta. La relazione contraddittoria che Feuerbach aveva denunciato tra Dio e l’uomo e tra il pensiero astratto e realtà sensibile, diventa ora lo specifico rapporto tra lo Stato e i suoi presupposti materiali, la famiglia e la società civile che, non riconosciuti quali fondamenti dello Stato, sono allo stesso tempo “centrali e marginali, essenza ed accidente”. E’ solo dalla società che lo Stato può attingere un proprio contenuto determinato, diventando così uno Stato reale ma, poiché in Hegel l’unica realtà è quella spirituale, i contenuti concreti della società sono riconosciuti soltanto attraverso la “mediazione dello spirito”, cioè attraverso quel processo di astrazione che gli sottrae ogni determinatezza: come il riconoscimento dell’uomo attraverso Cristo, come la posizione della realtà sensibile mediante il pensiero astratto, così anche l’elevazione del contenuto sociale ad “affare statale” implica il misconoscimento del suo carattere determinato e particolare, l’oblio del suo carattere originario che ne fa la base materiale di ogni reale spiritualità, ogni vera universalità. Il fine della critica marxiana è quindi il ripristino del ruolo fondamentale della realtà umana e sensibile attraverso la denuncia della logica dell’inversione: non lo Stato, ma soltanto la società civile può essere il fondamento di una razionalità che non sia meramente astratta, di un’universalità statale che, non più realizzata in opposizione rispetto alle particolarità finite della società civile, nasca invece proprio da tale realtà materiale, ne esprima l’intrinseca essenza razionale, sia la verace espressione oggettiva dell’essenza generica dell’uomo. Lo stato democratico come verità di ogni altra forma statale. L’unica forma statale che per Marx è la reale espressione dell’essenza generica dell’uomo è Stato democratico, l’unico fondato sul popolo, la sola realtà che è allo stesso tempo vera, cioè concreta e sensibile, e universale, espressione cioè dell’essenza dell’uomo. Lo Stato democratico è la manifestazione compiuta dell’elevazione della società civile, del presupposto materiale e particolaristico, dalla sua esistenza immediata alla sua realtà essenziale; è il prodotto di quel movimento che è la verace spiritualizzazione della materia e che quindi realizza l’universale non più come antitesi rispetto alla società civile, ma invece come oggettivazione dell’essenza dell’uomo, come espressione della volontà razionale del popolo. Solo tale Stato, che supera ogni scissione, ogni dualismo, ogni relazione contraddittoria tra spiritualità e realtà materiale è il vero stato etico, mentre ogni altra è soltanto una rappresentazione storica di Stato non corrispondente alla sua essenza. Tale è anche il presunto Stato etico di Hegel, la monarchia costituzionale, che non fondata sul popolo, riduce invece quest’ultimo a mero predicato, ad un prodotto della struttura razionale dello Stato. La distinzione fatta da Hegel tra il “popolo” e l’ “incolta rappresentazione del popolo” vuole proprio indicare la differenza fondamentale tra la rappresentazione empirica, immediata del popolo, che non ha in sé alcuna razionalità ma è invece una mera composizione irrazionale di molteplici particolarità, e la sua esistenza razionale, che è tale soltanto all’interno della struttura razionale dello Stato, in virtù quindi della mediazione con la realtà spirituale. Per Hegel non è dunque il popolo a fondare lo Stato, ma solo quest’ultimo fonda il popolo come totalità razionale. Ancora una volta alla realtà materiale è negata ogni intrinseca razionalità; ancora una volta lo spirituale, lo Stato, si costituisce soltanto in opposizione rispetto alla società civile, che continua a rimanere il luogo del puro particolarismo, incapace di qualsiasi elevazione all’universalità poiché in sé priva di spiritualità. «La proprietà ecc., in breve tutto il contenuto del diritto e dello Stato, è con poche modificazioni, il medesimo nell’America del Nord che in Prussia». (Ivi, p. 35). La critica di Marx si amplia: dalla critica alla filosofia hegeliana del diritto e alla monarchia costituzionale così come descritta da Hegel, Marx estende la sua analisi alla realtà moderna, allo Stato politico in general; quest’operazione è legittimata e resa possibile dalla stessa filosofia hegeliana del diritto che, avendo colto l’essenza del diritto nella scissione tra società civile e Stato, ha in realtà svelato il fondamento stesso dello Stato politico moderno, del quale dunque fornisce una vera e propria “fenomenologia”. Attraverso Hegel, questo teorico dello Stato moderno, la critica marxiana è così infine giunta alle “figure profane dell’autoestraneazione umana”; alla realtà moderna stessa, che ha in sé tutte le caratteristiche delle “forme sacre” dell’alienazione; un mondo esso stesso fondato sulla scissione di spirituale e materiale, una realtà in perenne contraddizione con i suoi presupposti, una società fondata sull’alienazione umana. Il vero, reale dualismo religioso è soltanto l’opposizione tra lo Stato politico, la sfera dell’universalità astratta, e una società civile incapace di elevarsi al di là del particolarismo. «La costituzione politica fu sino ad ora la sfera religiosa, la religione della vita del popolo, il cielo della sua universalità rispetto all’esistenza terrestre della sua realtà. La sfera politica fu la sola sfera politica dello Stato, l’unica sfera in cui il contenuto fu generico come la forma, fu il vero universale, ma al contempo in tal modo che, con l’opporsi di questa sfera alle altre, il suo contenuto divenne anch’esso un contenuto formale e particolare». (Ivi, p. 35). Come Dio, come il pensiero astratto, anche lo Stato vive necessariamente nell’insolubile contraddizione di porsi come la realtà assolutamente originaria, separata e antitetica rispetto alla realtà materiale, ma parimenti incapace di sussistere per sé: il suo essere positivo e reale è subordinato ancora una volta alla mediazione con la società, che dunque è nello stesso tempo mera parvenza e presupposto necessario. «Ne consegue inoltre che l’uomo, liberandosi politicamente, si libera indirettamente, attraverso un mezzo, anche se un mezzo necessario. Ne consegue infine che l’uomo, anche se per mezzo dello Stato si proclama ateo, cioè se proclama ateo lo Stato, rimane ancor sempre legato alla religione, appunto perché riconosce se stesso solo per via indiretta, solo attraverso un mezzo. La religione è appunto il riconoscersi dell’uomo in modo indiretto, attraverso un mediatore. Lo Stato è il mediatore tra l’uomo e la libertà dell’uomo. Come Cristo è il mediatore cui l’uomo attribuisce tutta la sua propria divinità, tutto il proprio pregiudizio religioso, così lo Stato è il mediatore nel quale egli trasferisce tutta la sua non-divinità, tutta la sua assenza umana di pregiudizi ». (B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tromba, Roma 2004, p. 182). Feuerbach, nell’Essenza del cristianesimo, aveva già definito la religione proprio come: «La religione è la prima e, per giunta, indiretta conoscenza che l’uomo ha di sé». (L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, cit, p. 37). Come Dio è reale soltanto come Cristo, così anche l’essenza dell’ Stato, la sua vera realtà, è solo la sua funzione mediatrice con la società civile, il suo porsi come intermediario tra l’uomo e la sua essenza, tra l’uomo e la libertà dell’uomo: nella società civile l’uomo non è altro che individuo particolare, bourgeois, ma attraverso lo Stato, nello Stato, perviene alla sua esistenza universale di citoyen, ma ovviamente soltanto in una forma soltanto indiretta, illusoria, astratta. «Nella monarchia, ad es., o nella repubblica come forma semplicemente particolare di Stato, l’uomo politico ha la sua peculiare esistenza accanto all’uomo non politico, all’uomo privato. La proprietà, il contratto, il matrimonio, la società civile appaiono qui (secondo l’esattissima spiegazione hegeliana di queste astratte forme politiche, salvo che Hegel crede di spiegare l’idea dello Stato) come modi di esistenza particolari accanto allo Stato politico, come il contenuto, nei cui confronti lo Stato politico si comporta come la forma organizzatrice, e propriamente solo come intelletto senza contenuto in se stesso, determinante e limitante, ce che ora afferma e ora nega». (K. Marx, Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, in K. Marx, F. Engels, Opere, cit. , p. 33/34) Lo Stato, come Cristo, come lo spirito hegeliano, è la realizzazione dell’universale mediante l’astrazione e la formalizzazione del contenuto della società civile, che è il presupposto che è negato ma sempre anche riconfermato accanto allo Stato: per poter negare il valore politico delle differenze religiose, per dichiarare cioè ateo lo Stato, è necessario che le medesime differenze continuino a sussistere al di là della politica, nella società civile; per dichiarare annullato il valore politico della proprietà privata, attraverso la soppressione del censo come criterio elettorale, è necessario presupporre l’esistenza della proprietà privata al di là della politica, come fondamento della società. L’abolizione reale della religione, della proprietà, ecc. cioè il reale superamento dei particolarismi della società civile, priverebbe di ogni senso la loro abolizione politica; l’affermazione dell’universale reale negherebbe necessariamente qualsiasi universalità soltanto ideale, fondata sull’astrazione e non sulla verace abolizione dei particolarismi sociali. «Il più difficile era di formare lo Stato politico, la costituzione, dai diversi momenti della vita del popolo. La costituzione si sviluppò come la ragione universale di fronte alle altre sfere, come un’aldilà delle medesime. Il compito storico consistette poi nella sua rivendicazione; ma le sfere particolari non hanno in ciò la coscienza che il loro essere privato cade con la trascendenza della costituzione ossia dello Stato politico, e che l’esistenza trascendente dello Stato non è nient’altro che l’affermazione della loro propria alienazione». (Ivi. p. 35). La società moderna come superamento della realtà medievale. La critica ha compiuto il suo percorso, è pervenuta all’alienazione reale e ha svelato parallelamente il carattere derivato delle sue figure teoretiche; ora le si impone necessariamente un compito ulteriore: indicare la strada per il superamento della realtà alienata e per la riconquista di una realtà veramente umana, espressione della sua universalità essenziale. Feuerbach ha descritto la “forma sacra”, fenomenica di questo processo di emancipazione umana: è quel movimento che dalle religioni antiche porta al cristianesimo e da quest’ultimo fino all’ateismo. Le religioni precristiane si fondavano infatti sulla totale alienazione dell’uomo, ponevano cioè l’essenza umana universale in una sfera assolutamente trascendente, in un’aldilà che era l’antitesi assoluta rispetto al mondo terreno, al mondo del finito e della mera parvenza di realtà. La religione cristiana supera questa condizione di assoluta alterità delle due sfere attraverso la posizione del mediatore, del Cristo che, elevando l’uomo a Dio e umanizzando parallelamente Dio, svela la essenziale identità del divino e dell’umano. Tale identità, realizzata però in modo soltanto indiretto, astratto, mediato dall’intercessione del Cristo, è un riconoscimento dell’identità che non può superare il dualismo dei piani, ma che anzi lo presuppone. Soltanto l’ateismo, la positiva affermazione dell’essenza umana, è la compiuta realizzazione dell’uomo, il reale superamento di ogni relazione contraddittoria tra l’elemento materiale e spirituale, tra realtà e idealità. Il medesimo movimento di emancipazione diventa per Marx quel movimento storico che dal medioevo, il periodo della suprema alienazione dell’uomo, deve portare all’emancipazione umana; tra i due momenti c’è la realtà moderna che, al pari del cristianesimo, è la prima e incompiuta forma di realizzazione dell’uomo. «Nel Medioevo c’erano servi della gleba, beni feudali, corporazioni di mestiere, corporazioni scientifiche ecc.; cioè nel Medioevo la proprietà , il commercio, la società, l’uomo sono politici, il contenuto materiale dello Stato è posto dalla sua forma, ogni sfera privata ha una carattere politico o è una sfera politica, e la politica è anche il carattere delle sfere private. Nel Medioevo la costituzione politica è la costituzione della proprietà privata, ma solo perché la costituzione della proprietà privata è una costituzione politica. Nel Medioevo vita del popolo e vita dello Stato sono identiche. L’uomo è il reale principio dello Stato, ma l’uomo non-libero. E’ dunque la democrazia della non-libertà. La compiuta alienazione. L’opposizione astratta, riflessa, appartiene solo al mondo moderno». (Ivi. p. 36/37). La società medievale è dominata dal principio della particolarità: esistono una pluralità di cerchie sociali, i differenti ceti, che tutelano i propri particolaristici interessi in opposizione agli interessi delle altre sfere sociali, degli altri ceti, anch’essi a loro volta concentrati sui propri interessi privati. L’uomo nel medioevo non ha quindi valore per sé, né come individuo né come ente generico, ma il suo essere è determinato sempre dalla sua appartenenza al ceto, alla corporazione, ecc. cioè dalla propria specifica posizione all’interno della società, che rimane la medesima dalla nascita fino alla morte. Il principio sociale ed essenziale è quindi oggettivato nel vincolo corporativo, dunque in un legame particolaristico, egoistico, fondato sull’esclusione e sull’opposizione tra i ceti, che nega ogni affermazione della socialità nella sua forma universale. La sfera politica quindi non può che limitarsi a confermare questa struttura sociale attraverso un sistema dei privilegi che riconosce mediante statuti specifici l’essere particolare ed esclusivo di ogni cerchia sociale. «La rivoluzione politica che rovesciò questo potere sovrano e innalzò gli affari dello Stato ad affari del popolo, che costituì lo Stato politico come affare universale, cioè come Stato reale, fece necessariamente a pezzi tutti i ceti, le corporazioni, le gilde, i privilegi, tutte espressioni della separazione tra il popolo e la sua comunità» (B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, cit., p. 197) La società moderna distrugge le sfere particolari su cui si strutturava la società medievale, negando quel vincolo che legava in modo immediato e sostanziale l’essere dell’uomo alla sua sfera sociale di appartenenza. L’essere sociale dell’uomo moderno è privato di ogni necessità e diviene qualcosa di assolutamente esteriore ed arbitrario; la rottura dei ceti ha infatti come effetto l’individualizzazione del principio particolaristico e la liberazione da ogni legame stabile tra altri uomini; ogni singolo si afferma per sé, vive per realizzare i propri interessi ed il proprio essere privato, utilizza la società come mero mezzo per la propria realizzazione personale ed egoistica. «L’attuale società civile è il principio realizzato dell’individualismo; l’esistenza individuale è lo scopo ultimo: attività, lavoro, contenuto ecc. sono soltanto dei mezzi». (K. Marx, Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, in K. Marx, F. Engels, Opere, cit., p. 91). «La costituzione dello Stato politico e la dissoluzione della società civile in individui indipendenti – il cui rapporto è il diritto, così come il rapporto tra gli uomini appartenenti ai ceti e alle corporazioni era il privilegio – si compie in un unico e medesimo atto». (B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, cit., p. 198) L’essenza umana non può essere più definita in base alla posizione sociale, divenuta ormai assolutamente casuale, ma si può invece determinare soltanto al di là della società, soltanto attraverso l’astrazione dalla società. Il risvolto politico dell’individualismo moderno è proprio la parallela distruzione del sistema dei privilegi e l’affermazione del diritto, cioè la liberazione del principio sociale da ogni vincolo corporativo, da ogni determinazione particolare, e la sua conseguente affermazione universale in una sfera indipendente ed opposta alla società civile. Si realizza così il dualismo tipicamente moderno tra la società civile che, liberata da ogni vincolo politico, porta a compimento il principio egoistico medievale e lo Stato che libera parallelamente dalla società civile il principio di socialità, trasformandolo da principio di coesione dei ceti particolari nel concetto universale dell’essere sociale, generico dell’uomo. «La rivoluzione politica soppresse con ciò il carattere politico della società civile. Essa spezzò la società civile nelle sue parti costitutive elementari, da un lato gli individui, dall’altro gli elementi materiali e spirituali che costituiscono il contenuto vitale, la situazione civile di questi individui. […] Solo che il compimento dell’idealismo dello Stato fu contemporaneamente il compimento del materialismo della società civile. La soppressione del giogo politico fu al tempo stesso la soppressione dei legami che tenevano vincolato lo spirito egoista della società civile. L’emancipazione politica fu al tempo stesso, l’emancipazione della società civile dalla politica, dalla parvenza stessa di un contenuto universale. La società feudale fu risolta nel suo fondamento, nell’uomo. Ma nell’uomo che realmente costituiva il suo fondamento, nell’uomo egoista». (Ivi, p. 197/198). La realtà moderna afferma per la prima volta il principio dell’universalità dell’essenza umana, è quindi un momento di emancipazione rispetto al medioevo, ma parimenti è ancora una realtà dualistica e contraddittoria, incompiuta; l’’ulteriore evoluzione della storia dovrà per forza essere il superamento di questa scissione e l’affermazione dell’universalità mediante il reale superamento del particolarismo e dell’egoismo sociale. L’affermazione dell’universale nell’unica vera realtà umana, nella società, è la compiuta emancipazione dell’uomo, l’emancipazione veramente umana. L’alienazione sociale e il dominio del denaro. L’uomo, in virtù del suo essere essenzialmente sociale, non può realizzare la propria vita, i propri bisogni, se non mediando la propria produzione con le produzioni degli altri uomini; il che vuol dire che tanto la produzione quanto il bisogno umano sono per loro essenza sociali. La più originaria affermazione dell’essenza generica dell’uomo è proprio quest’esigenza della mediazione sociale per la vita individuale, che mostra come la socialità sia il fondamento e il fine ultimo della vita umana. La società borghese è però il mondo del compiuto individualismo, del dominio dell’egoismo privato, in cui l’uomo, pienamente concentrato su di sé, ha estraniato da sé e reso esteriore ogni legame sociale, riducendo ogni rapporto con gli altri uomini a semplice strumento, mero mezzo per la realizzazione dei propri bisogni e desideri privati. «Ciascuno di noi vede nel suo prodotto nient’altro che il proprio egoismo oggettivato, e dunque, nel prodotto dell’altro, un altro egoismo oggettuale estraneo e indipendente dal proprio. Tu hai certamente, in quanto uomo, una relazione umana con il mio prodotto; tu hai il bisogno del mio prodotto. Esso esiste quindi per te come oggetto del tuo desiderio, del tuo volere. Ma il tuo bisogno, il tuo desiderio, la tua volontà sono bisogno, desiderio, volontà impotenti per il mio prodotto». (K. Marx, Estratti dal libro di J. Mill, «E’lémens d’économie politique», in K. Marx, F. Engels, Opere, cit., p. 245). La socialità nel mondo borghese si configura come relazione tra proprietari privati che agiscono esclusivamente per il loro utile individuale, come una sommatoria di volontà singole e asociali concentrate soltanto sulla propria immediata affermazione egoistica, incapaci di cogliere il carattere sociale dei bisogni, dei desideri e delle produzioni dell’uomo. Prima ancora che nello Stato o nella religione, già nella società civile stessa si impone l’esigenza di un mediatore che possa stabilire rapporti sociali, superando la reciproca indifferenza delle produzioni e dei bisogni. Tale mediatore estraneo all’uomo è il denaro, la prima e fondamentale espressione dell’estraneazione dell’essenza generica. «L’essenza del denaro non consiste nel fatto che in esso viene alienata la proprietà, ma nel fatto che viene estraniata l’attività o il movimento che media, viene alienato l’atto umano, sociale, attraverso cui i prodotti dell’uomo si integrano scambievolmente, e la qualità di una cosa materiale esterna all’uomo diviene una qualità del denaro. In quanto è l’uomo stesso che aliena questa attività mediatrice, in esso egli è attivo soltanto come uomo che ha perduto se stesso, come uomo disumanizzato; la stessa relazione delle cose, l’operazione dell’uomo su di esse diviene l’operazione di un ente che sta al di fuori ed al di sopra dell’uomo. Attraverso questo intermediario estraneo – mentre è l’uomo stesso che dovrebbe essere l’intermediario per l’uomo – l’uomo vede la sua volontà, la sua attività ed il suo rapporto con altri come una potenza indipendente da lui e dagli altri. La sua schiavitù giunge dunque al culmine. Che adesso questo intermediario divenga il Dio reale è chiaro, infatti l’intermediario è il potere reale su ciò con cui esso mi media. Il suo culti diventa fine a se stesso. Separati da questo intermediario gli oggetti perdono di valore. Dunque soltanto nella misura in cui lo rappresentano essi hanno valore, mentre in origine sembrava che esso avesse valore soltanto in quanto li rappresentava. Questa inversione del rapporto originario è necessaria. Questo intermediario è quindi l’essenza che ha perduto se stessa, l’essenza estraniata della proprietà privata, è la proprietà privata alienata, divenuta esterna a se stessa, così come è la mediazione alienata della produzione umana con la produzione umana, l’attività generica alienata dell’uomo. […] Ma Cristo è il Dio alienato e l’uomo alienato. Dio ha ormai valore soltanto in quanto rappresenta Cristo, e l ‘uomo ha valore soltanto in quanto rappresenta Cristo. La stessa cosa vale per il denaro. (Ivi, p. 231). Il denaro non ha, proprio come Dio, proprio come lo Stato, alcun valore per sé, ma il suo contenuto specifico, il suo valore e la sua esistenza reale sono dati dal suo rappresentare astrattamente quel contenuto concreto che sono i bisogni umani; il suo ruolo di mediatore però lo rende il “Dio reale”, il compiuto potere sugli uomini, il legame esclusivo tra l’uomo e la sua essenza: al di là del danaro l’uomo non può essere uomo, non può soddisfare in alcun modo i propri bisogni e desideri, ogni sua volontà è negata; lontano dal mediatore è privato della stessa possibilità materiale di essere uomo, mentre il denaro si arricchisce di tutte la qualità, degli attributi propriamente umani sottraendoli all’uomo. L’essere dell’uomo diventa così assolutamente dipendente e subordinato al denaro. «Ciò che è mio mediante il denaro, ciò che il posso, cioè può il denaro, comprare, ciò sono il, il possessore del denaro stesso. Tanto grande la mia forza quanto grande la forza del denaro. Le proprietà del denaro son proprietà e forze essenziali mie, del suo possessore. Ciò ch’io sono e posso non è , dunque, affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi le più belle donne. Dunque non sono brutto, che l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo, storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio. Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono; il denaro mi dispensa dalla pena di esser disonesto, io sono, dunque, presunto onesto; io sono senza spirito, ma il denaro è lo spirito reale di ogni cosa: come dovrebbe essere senza spirito il suo possessore? Inoltre questi può comprarsi la gente ricca di spirito, e chi ha potere sulla gente ricca di spirito non è egli più ricco di spirito dell’uomo ricco di spirito? Io, che mediante il denaro posso tutto ciò che il cuore umano desidera, non possiedo io tutti i poteri umani? Il mio denaro non tramuta tutte le mie impotenze nel loro contrario? […] Poiché il denaro, in quanto concetto esistente e attivo del valore, confonde e scambia tutte le cose, esso è così la generale confusione e inversione di ogni cosa, dunque il mondo sovvertito, la conversione e inversione di tutte le qualità naturali e umane». (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx, F. Engels, Opere, cit., p. 351/352) Il denaro dunque è l’oggettivazione reale del mondo estraniato, invertito, capovolto; un mondo in cui la vita individuale non è funzionale al genere, bensì il genere diventa lo strumento necessario per l’affermazione dell’individuo particolare; un mondo fatto di individualità indifferenti, ostili, nemiche che, costrette ad interagire, sfruttano i bisogni degli altri uomini come strumenti di potere. La realtà materiale è il presupposto di ogni realtà spirituale. Questo postulato della filosofia feuerbachiana doveva necessariamente portare infine a cercare proprio in questa originaria ed immediata realtà esistente i presupposti della religione, dello Stato e di ogni altra realtà spirituale. L’uomo alienato nella società civile, l’uomo che, incapace di mediare con l’altro uomo, ha invertito il rapporto verace tra essenza ed esistenza, l’uomo borghese e la società borghese dovevano infine essere svelate come presupposto materiale, fondamento reale di qualsiasi forma fenomenica dell’autoestraneazione umana nella società moderna.