IL PRIMO MODELLO DI DEMOCRAZIA: LA POLIS ATENIESE ORLANDI ANDREA Introduzione Con la città, la polis, nasce nella Grecia antica, fra il sesto e il quarto secolo a.C., la prima organizzazione propriamente “politica” e democratica di mediazione dei conflitti sociali. La politica, la sua cultura, la sua ideologia, spostano il livello di questi conflitti, li traducono nel proprio linguaggio, ne rimuovono e volta volta ne occultano le matrici economiche. La polis si presenta dunque come elemento strutturale della società greca, come il luogo della coesione sociale, infine come il paradigma che organizza intorno a sé l’intera produzione culturale della città. La polis è stata il primo modello di organizzazione sociale con i suoi elementi fondanti, le sue contraddizioni e le sue crisi. In particolare, al centro di tutto è il problema tra l’assetto politico della società ateniese e l’economia, cioè l’acquisizione e la distribuzione della ricchezza sociale. Voglio qui di seguito andare ad analizzare quello che per l’appunto viene definito il primo modello di democrazia della storia umana. La storia Sono individuabili tre momenti: - il primo comprende il periodo storico tra l’800 e il 580 a.C. in cui il mondo greco si trasforma lentamente passando da una realtà rurale con tanti insediamenti sparsi su tutto il territorio, specie all’interno, alla creazione di città di dimensioni considerevoli per l’epoca a vocazione prevalentemente commerciale marittima. Possiamo qui assistere a un primo approdo a un modello di civilizzazione urbana. Difatti viene scacciata l’organizzazione tribale prevalente nei piccoli villaggi sparsi sul territorio e si impongono i primi tiranni o autocrati che attraverso la mediazione del conflitto sociale in nome della proposta di una città in cui regni la legge e in cui lo scontro possa trasformarsi in confronto e armonica collaborazione fra ceti non più contrapposti. - il secondo periodo è individuabile intorno al 550 a.C.in cui il problema di un crescente da parte della città pone in modo drammatico l’esigenza di allargare il suo repertorio di risorse, dunque di sviluppare le attività marittime e commerciali; ne consegue un sovvertimento degli equilibri politici tradizionali. Infatti in questo periodo un crescente numero di cittadini indipendenti ampliò notevolmente la propria sfera di attività grazie all’espansione della schiavitù. Ed è proprio sulla formazione di un’economia schiavista che si costruisce al figura del libero cittadino ateniese. - il terzo periodo coincide con il tramonto del modello democratico ateniese intorno alla metà del quarto secolo a.C. Il modello di espansione, basato sul controllo del commercio marittimo, ormai si era inceppato e quindi era incapace di assicurare le risorse necessarie al consumo. Inoltre la nascita degli imperi, gli stati forti e i regimi militari all’esterno della Grecia furono determinanti nel declino di Atene. Infatti l’aumento dei costi di guerra rese la città più debole nel coordinamento di eserciti sempre più numerosi e complessi e minò la sua stessa struttura politica. Gli ideali politici Gli ideali e gli scopi della democrazia ateniese sono narrati in modo dettagliato nella famosa orazione funebre di Pericle composta da Tucidide: “Il nostro ordine politico non si modella sulle costruzioni straniere. Siamo noi d’esempio ad altri, piuttosto che imitatori. E il nome che gli conviene è democrazia, governo nel pugno non di pochi, ma della cerchia più ampia di cittadini: vige anzi per tutti, da una parte, di fronte alle leggi, l’assoluta equità di diritti nelle vicende dell’esistenza privata; ma dall’altra si costituisce una scala di valori fondata sulla stima che ciascuno sa suscitarsi intorno, per cui, eccellendo in un determinato campo, può conseguire un incarico pubblico, in virtù delle sue capacità reali, più che per l’appartenenza a questa o a quella fazione politica. Di contro,se si considera il caso di un cittadino povero, ma capace di operare un ufficio utile allo Stato, non gli sarà di impedimento la modestia della sua condizione. Nella nostra città, non solo le relazioni pubbliche s’intessono in libertà e scioltezza, ma anche riguardo a quel clima di guardinga, ombrosa diffidenza che di solito impronta i comuni e quotidiani rapporti, non si va in collera con il vicino, se fa un gesto un po’ a suo talento, e non lo si annoia con visi duri, sguardi lividi, che senza voler essere un castigo, riescono pur sempre molesti. La tollerante urbanità che ispira i contatti tra persona e persona diviene, nella sfera della vita pubblica, condotta di rigorosa aderenza alle norme civili, dettata da un profondo, devoto rispetto: seguiamo le autorità di volta in volta al governo, ma principalmente le leggi e più tra esse quante tutelano le vittime dell’ingiustizia e quelle che, sebbene non scritte, sanciscono per chi le oltraggia un’indiscutibile condanna: il disonore. In ogni cittadino non si distingue la cura degli affari politici da quella dei domestici e privati problemi, ed è viva in tutti la capacità di adempiere egregiamente agli incarichi pubblici, qualunque sia per natura la consueta mansione. Poiché unici al mondo non valutiamo tranquillo un individuo in quanto si astiene da quella attività, ma superfluo. Siamo noi stessi a prendere direttamente le decisioni o almeno a ragionare come si conviene sulle circostanze politiche: non riteniamo nocivo il discutere all’agire, ma il non rendere alla luce, attraverso il dibattito, tutti i particolari possibili di un’operazione, prima di intraprenderla.” Pericle descrive una comunità in cui tutti i cittadini potrebbero e dovrebbero partecipare alla creazione e al mantenimento di una vita comune. Formalmente i cittadini non incontravano alcun ostacolo alla partecipazione agli affari pubblici basato sulla condizione sociale o sulla ricchezza. Il demos (=popolo) deteneva il potere sovrano, cioè la suprema autorità di esercitare le funzioni legislative e giudiziarie. Il concetto ateniese di cittadinanza implicava un impegno in queste funzioni che si realizzava con la partecipazione diretta agli affari dello stato. Nella città si istituiscono infatti organi politici e giuridici di gestione dell’intero territorio, che sottraggono per la prima volta l’esercizio diretto del potere alle grandi famiglie aristocratiche e lo trasferiscono, almeno in linea di principio, all’intera comunità dei cittadini. Si appartiene alla cittadinanza, dunque si condivide il potere collettivo, se si è nati, nella condizione di liberi, sul territorio della polis, e si appartiene a una famiglia dotata di una proprietà terriera anche minima. Gli individui potevano soddisfarsi convenientemente e vivere onorevolmente solo come cittadini della polis, e grazie ad essa, perché l’etica e la politica erano fuse nella vita della comunità politica. Liberi e cittadini, gli uomini del demos si distinguono da un lato dall’aristocrazia perché sono costretti per l’assenza o l’insufficienza della rendita agricola, a compiere un lavoro retribuito; dall’altro dagli schiavi rispetto ai quali il loro livello sociale rimane incommensurabilmente superiore. il peso politico del demos è notevole grazie ai meccanismi democratici della polis, che riflettono il presupposto di una sua comune proprietà da parte del corpo dei cittadini: senza il suo consenso, è impossibile ottenere una qualsiasi maggioranza nell’assemblea popolare di Atene. L’aristocrazia deve quindi avere l’appoggio del demos urbano al suo potere. Si stabilisce così un patto sociale fra aristocrazia e demos, che dà luogo a un duraturo equilibrio politico. In virtù di questo patto, l’aristocrazia si assicura il potere della polis, e con esso la sicurezza di mantenere il possesso delle terre, resistendo a qualsiasi richiesta di riforma agraria da parte contadina; si assicura inoltre la possibilità di partecipare vantaggiosamente alle crescenti attività commerciali della città investendovi le eccedenze prodotte dallo sfruttamento delle campagne. In cambio di tutto questo, l’aristocrazia deve naturalmente accogliere le richieste provenienti dal demos. Queste richieste non vanno affatto nel senso di un’espansione delle attività produttive, di un allargamento dei mercati o di maggiori opportunità di lavoro. Il demos tende anzi a delegare progressivamente a schiavi e meteci sia il lavoro manuale sia le attività commerciali; i suoi membri si sentono comproprietari della polis, quindi in diritto a partecipare alla distribuzione della ricchezza sociale per una quota sufficiente a finanziare i loro bisogni, anzitutto in termini di consumi alimentari. In altre parole, il demos tende a vivere di rendita della città come l’aristocrazia vive di rendita della terra. Solo a questa condizione, il demos accetta il patto sociale istitutivo della polis, e accetta quindi, nelle forme della politica, l’accordo istituzionale con l’aristocrazia. da produttore di beni e servizi, il demos tende a trasformarsi in una fascia sociale di consumatori parassitari che vivono nella città, così come la città tende a vivere parassitariamente del mondo esterno soggetto al suo dominio. Un’altra importante descrizione della democrazia ateniese è contenuta nella Politica di Aristotele che definisce i principi etici e gli scopi e di cui riporto un pezzo: “Il presupposto della costruzione democratica è la libertà, tanto che si dice che solo con questa costruzione è possibile godere della libertà, che si afferma essere il fine di ogni democrazia. Ed una delle caratteristiche della libertà è che le stesse persone in parte siano comandate e in parte comandino. Infatti la giustizia, nella concezione democratica, consiste nell’uguaglianza secondo il numero e non secondo il merito, con la conseguenza che la folla sarà sovrana e che fine della città e giusto sarà quello che sarà parso ai più. Poiché questa concezione sostiene che ogni cittadino deve avere quanto qualsiasi altro, nelle democrazie saranno più potenti i poveri dei ricchi, perché i primi sono in numero maggiore, e fa la legge il parere dei più. Questo è uno dei caratteri della libertà su cui concordano tutti i sostenitori della democrazia; un altro consisterebbe nel vivere come ciascuno vuole. E questo sarebbe opera della libertà, dal momento che gli schiavi non possono vivere come vogliono. Da questa seconda definizione della democrazia è derivato il rifiuto, totale o parziale, dell’autorità; il che contribuisce alla realizzazione della libertà come uguaglianza. Su questi presupposti e su questi principi si fondano queste istituzioni democratiche: l’eleggibilità indiscriminata a tutte le cariche, la sovranità esercitata da tutti su ciascuno e da ciascuno su tutti a turno, il sorteggio come sistema per scegliere tutti i magistrati, o per lo meno quelli che non devono avere particolari esperienze o competenze specifiche, l’abolizione del censo come condizione per adire alle pubbliche cariche, o la sua riduzione ai minimi termini, il divieto di essere rieletto, l’estrema brevità di tempo d’esercizio imposta a tutte o quasi le cariche. […] Nella democrazia tutti dovrebbero avere, nella realizzazione perfetta, una retribuzione, i membri dell’assemblea generale, quelli dei tribunali e i magistrati; altrimenti essa dovrebbe essere concessa ai magistrati, ai giudici,ai membri del consiglio e a quelli dell’assemblea, che intervengono nelle sedute più importanti, o almeno a quei magistrati che devono prendere pranzi in comune”. Eguaglianza e libertà sono le basi della democrazia ateniese. Gli Ateniesi avevano una spiccata sensibilità statale e disposizione al sacrificio, ma per loro non era tollerabile trascorrere la vita soggetti alla coercizione dello stato. Ad Atene la sfera privata è separata dalla sfera statale e lo stato cerca di evitare ogni ingerenza e di lasciare ad ogni cittadino la possibilità di strutturare liberamente la propria vita. Il simbolo della democrazia per gli Ateniesi era l’invito dell’araldo, che chiedeva se qualcuno volesse prendere la parola. Ogni cittadino è in grado sia di occuparsi degli affari privati sia di formulare il proprio giudizio in merito a quelli pubblici. Aristotele precisa che uguaglianza indica, nel diritto privato, l’essere tutti uguali davanti alla legge, mentre in ambito politico l’abolizione di privilegi di nascita e censo, ma non lo stesso grado di influenza sulla collettività. All’uguaglianza meccanica, che ha compimento nell’assemblea popolare, è affiancata una differenziazione che apra la via ai più abili cosicchè anche i più poveri possano avere un’influenza politica. La concezione di libertà e uguaglianza sarebbe inconcepibile per il liberalismo moderno, che però nasce da una mentalità individualistica, mentre per Aristotele l’individuo deve sì essere socialmente libero, ma sopra di lui è la polis che obbedisce a leggi proprie. Lo stato ha la priorità perché è la sola comunità di formazione naturale entro cui l’uomo può esistere e dal benessere della quale dipende quello del singolo. Di conseguenza l’individuo poteva usufruire della sua libertà subordinatamente agli interessi della società. La valutazione della persona, comunque, andava oltre al semplice concetto di democrazia e aprì un nuovo momento nel pensiero politico greco. La politeia, come stato democratico, era per i Greci non una costituzione scritta, ma la forma di vita creata da un popolo in base alla sua natura e alla sua indole. Gli avversatori di questa forma attaccavano in modo violento la parole uguaglianza e libertà: all’uguaglianza "aritmetica" veniva contrapposta un’uguaglianza "geometrica", che non concedesse uguali diritti a uomini non uguali ma che li graduasse in base ai meriti, e la libertà democratica diveniva sinonimo di sfrenatezza e arroganza. In effetti sull’ideale democratico di libertà – per sfuggire al servilismo nei confronti di un despota – ricadeva il rischio della sfrenatezza assoluta. Se nella vita privata ognuno è totalmente libero di compiere ciò che più gli piace, in quella pubblica evita, per timore, di tenere una condotta illegale. Il timore di cui si parla è un timore etico, è paura di violare i limiti che i doveri verso la società impongono alla libertà individuale. Aristotele sostiene che è necessaria l’ubbidienza volontaria, ma più che altro la intende come esigenza ideale. Il modello istituzionale La teoria costituzionale della democrazia ateniese è molto semplice: il popolo è sovrano. Siede nell’Assemblea o nei tribunali, è il sovrano assoluto di tutto ciò che concerne la città e i cittadini sono liberi e uguali sotto l’egida della legge. Partecipazione all’Assemblea o Ecclesia Per far parte dell’Ecclesia erano necessari due requisiti: 1. essere cittadino ateniese 2. essere maggiorenne. La maggiore età si acquisiva a 20 anni, per via dell’iscrizione sui registri del demo (i demi erano le unità territoriali più piccole dotate di autonomia dal punto di vista amministrativo. Questa frammentazione del territorio statale di Atene era dovuta alla sua estensione -più di 2400 kmq, all’incirca come l’attuale Granducato di Lussemburgo). Non sempre questi registri erano sicuri: infatti molti meteci (che erano gli stranieri che si stabilivano ad Atene ma erano privi dei diritti politici) riuscivano a farsi iscrivere e quindi a partecipare ai lavori dell’Assemblea Riunioni e funzionamento dell’Assemblea In origine, l’Ecclesia si riuniva dieci volte all’anno; ma, col passare del tempo, vennero aggiunte altre sedute supplementari. Ogni assemblea aveva il proprio ordine del giorno, tuttavia, nel caso di una sventura pubblica o di un evento imprevisto che esigessero un provvedimento urgente, potevano essere indette assemblee straordinarie. La seduta incominciava di buon mattino quando un segnale era dato da una bandiera sventolante. Così la polizia sbarrava le strade che conducevano all’Agorà e spingeva i cittadini verso la collinetta della Pnice, cui si accedeva per una ripida scalinata e che poteva raccogliere fino a 6000 persone. Il presidente dell’Assemblea era designato a sorte estraendolo ogni giorno e, dopo una cerimonia religiosa in onore di Zeus, dava inizio alla seduta. Si incominciava con la discussione delle proposte di legge: ogni cittadino poteva prendere la parola e proporne emendamenti, salendo su una tribuna e mettendosi sul capo una corona di mirto, simbolo d’inviolabilità. Dopo la discussione, si indicevano le votazioni per alzata di mano e il presidente, proclamatone il risultato, poteva togliere la seduta. Poteri dell’Assemblea All’Ecclesia competevano svariate funzioni: 1. le relazioni estere, 2. il potere legislativo, 3. il potere giudiziario e il controllo del potere esecutivo, con la nomina di tutti i magistrati. In materia di politica estera l’Assemblea , sotto la direzione della Bulè, decideva della pace, della guerra e delle alleanze e nominava gli ambasciatori. Per quanto riguarda invece il potere legislativo, l’Ecclesia non si arrogava il diritto di abolire formalmente le leggi e votarne di nuove, ma trovava le forme necessarie per legiferare attraverso decreti. Il popolo era anche supremo giudice, ma delegava il potere giudiziario ai tribunali, intervenendo direttamente solo nelle questioni più delicate e importanti. Riunioni straordinarie dell’Assemblea Nel V secolo, in circostanze di particolare importanza, si riuniva anche l’Assemblea plenaria, convocata nell’agorà, divisa per tribù e considerata come rappresentante l’intera città. Il minimo di unanimità era un voto espresso da seimila suffragi. L’Assemblea plenaria era convocata per designare chi dovesse essere bandito per ostracismo, per conferire l’impunità o la grazia, o nel caso il diritto di cittadinanza. Il bando per ostracismo venne decretato per la prima volta nel 487 e, con gli anni più frequentemente, nelle circostanze gravi e nelle guerre perché non vi fossero continui dissensi in merito alla difesa nazionale e nella politica interna, e servì così alle fazioni opposte a decapitarsi a vicenda. Il voto veniva espresso per mezzo di pezzi di coccio e il condannato doveva lasciare l’Attica entro dieci giorni e per dieci anni, salvo eventuali amnistie. Composizione del Consiglio dei Cinquecento o Bulè La Bulè, organizzata dalla riforma di Clistene (508 a. C.), era un organo composto da cinquecento membri detti buleuti, sorteggiati "per mezzo della fava" tra i demoti aventi più di trent’anni che si presentassero come candidati. Questi solitamente non erano in grande numero dal momento che, nonostante venissero retribuiti, dovevano comunque sacrificare un’intera annata agli affari pubblici. Prima di entrare in carica i buleuti dovevano prestare giuramento e cingevano la corona di mirto, segno della loro inviolabilità, mentre, al termine dell’annata, il Consiglio intero doveva rendere conto al popolo del proprio operato. La Bulè era convocata dai pritani e si riuniva nel Buleuterio, situato a sud dell'agorà. Ma come l’Ecclesia, non poteva sedere in permanenza per un’intera annata; per il disbrigo degli affari ordinari aveva bisogno di una giunta direttiva controllata a turno da una delle dieci tribù per una decima parte dell’anno : essa era costituita da cinquanta pritani (ovvero 1/10 dei buleuti) e presieduta da un epistate (sorteggiato ogni giorno tra i pritani) che teneva per ventiquattro ore le chiavi dei templi dove si trovavano i tesori, gli archivi e i sigilli dello Stato. Questa giunta aveva il compito di mettersi in relazione con l’Ecclesia , con i magistrati, gli ambasciatori e gli araldi stranieri; convocava in caso di urgenza il Consiglio, l’Assemblea, gli strateghi e aveva a disposizione le forze di polizia. Nell’esercitare le sue molteplici funzioni la Bulè nominava poi diverse commissioni speciali: per controllare le entrate all’Assemblea, per sorvegliare l’amministrazione marittima o per la consacrazione e le celebrazioni dei misteri. Poteri della Bulè A un tempo organo preparatorio-esecutivo e magistratura suprema, aveva tre mezzi per esercitare i suoi diversi poteri: 1. presentava all’Assemblea le proposte di legge che servivano di base ai decreti del popolo; 2. promulgava decreti per far eseguire le decisioni prese dall'Assemblea; 3. collaborava direttamente, col consiglio o con l’opera, con le altre magistrature. La Bulè aveva attribuzioni importanti anche in campo finanziario, poiché sorvegliava l’impiego del denaro pubblico e si occupava degli appalti delle imposte, delle concessioni minerarie, delle locazioni dei terreni sacri, della costruzione e conservazione delle opere pubbliche (come si deduce dai conti sui lavori dell’Acropoli nell’età di Pericle). Infine, fra le sue molte funzioni giudiziarie, si occupava della procedura rapida per punire i reati contro la sicurezza dello Stato. Un tempo chi giudicava questi reati era l’Areopago ma, dopo una riforma, la competenza in materia di questi crimini passò al Consiglio, che divenne così un organo centrale della democrazia ateniese. I magistrati I magistrati prima di entrare in carica dovevano prestare giuramento e sottoporsi a un primo esame davanti al Consiglio. Superata questa prova, essi erano persone inviolabili che godevano di molte prerogative e di una speciale protezione. Ma la loro responsabilità era duplice; anzitutto finanziaria, e poi morale e politica: ogni funzionario doveva presentare un rendiconto dei fondi pubblici di cui aveva avuto la gestione, verificato da un altro collegio di magistrati. Otre alla resa dei conti in senso stretto e preciso della parola, c’era nel diritto pubblico ateniese un rendimento dei conti in senso largo. I magistrati erano pertanto sottoposti a una sorveglianza incessante e minuziosa e se commettevano atti illeciti potevano essere deposti dall’Assemblea, attraverso una votazione per alzata di mano, e rinviati davanti al tribunale. Era lo stesso principio democratico a esigere questo rigido controllo sul potere esecutivo e a portare il popolo ateniese a una profonda diffidenza che non risparmiò nessuno. Caratteristiche del sistema Il sistema è caratterizzato da una forte responsabilità dei funzionari e dei cittadini davanti all’Assemblea, il controllo popolare degli ufficiali comandanti, l’esistenza di un ampio e aperto dibattito, le decisioni prese in riunioni di massa, e molte altre caratteristiche della città-stato ateniese. Esso illustra anche come questa ricca partecipazione fosse strutturata dai seguenti fattori: la dipendenza della piena partecipazione dalle abilità oratorie; i conflitti tra i gruppi rivali di leader; reti informali di comunicazione e di complotto; l’emergenza di fazioni molto ostili che erano pronte a esigere provvedimenti rapidi e fermi; la vulnerabilità dell’Assemblea rispetto alle passioni del momento; la base instabile di certe decisioni popolari; il rischio potenziale di instabilità politica generale dovuto all’assenza di un sistema di controlli sul comportamento impulsivo. In epoca posteriore furono instaurati nella struttura della democrazia ateniese alcuni controlli costituzionali al fine di salvaguardarla proprio dalle decisioni affrettate e irreversibili. Con questi cambiamenti si cercava di bilanciare la sovranità popolare con una struttura costituzionale capace di proteggere le procedure e le leggi emanate, anche se è dubbio che questi cambiamenti siano stati sufficienti a questo scopo. La politica in Atene sembra sia stata straordinariamente intensa e competitiva. Inoltre quelli che dominavano l’Assemblea e il Consiglio avevano in genere un’elevata condizione di provenienza. Poiché il potere non era strutturato da un solido sistema governativo e costituzionale, le lotte politiche assumevano spesso una forma personale e molte si concludevano con l’eliminazione fisica degli avversari. Nondimeno la spiegazione della stabilità politica di Atene deve essere ricercata non solo nei meccanismi interni di funzionamento del sistema politico ma soprattutto nella sua storia di stato conquistatore vittorioso. lo sviluppo di Atene è andato di pari passo con vittoriose campagne militari: pochi furono gli anni senza una guerra o un conflitto militare. Il successo militare portò benefici a quasi tutti i gruppi della cittadinanza ateniese e ciò senza dubbio contribuì alla formazione di una base comune tra essi, che probabilmente è stata molto solida, almeno finchè durarono queste vittorie. Declino democrazia ateniese Alla metà del IV secolo, un duplice ordine di fenomeni, sia interni sia esterni, rendono impossibile la sopravvivenza della polis come organizzazione politica della società greca. All’interno c’è la crescita di un demos sempre più parassitario, all’esterno lo sfruttamento degli alleati; questo rende via via più intollerabile all’aristocrazia il rispetto di quel patto sociale su cui si fondava la polis. Negli ultimi decenni del IV secolo, le polis, nonostante la tenace opposizione del demos al loro interno, si sottomettono ai re macedoni, cedendo loro la propria autonomia politica e ottenendone in cambio la forza militare sufficiente a ristabilire gli equilibri interni a vantaggio dell’aristocrazia. Nel caso di Atene, una parte ingente del demos, comprendente tutti i cittadini più poveri, viene privata del diritto alla cittadinanza, quindi del diritto al mantenimento pubblico. L’espulsione di questi cittadini, costretti a vivere ai margini della città oppure a emigrare, compensa largamente l’aristocrazia ateniese della perdita di sudditi esterni, e le consente di tornare rapidamente ad accumulare notevoli ricchezze. L’organizzazione sociale dominante nel mondo antico rimane quella della polis, una polis in cui il dominio aristocratico si è ormai assicurato una base di forza sufficiente a rescindere il vecchio patto soloniano con il demos; una polis che può vivere dello sfruttamento delle campagne, dei meteci, degli schiavi, e ora anche delle grandi popolazioni barbariche via via soggiogate dall’espansione degli imperi ellenistici e poi di quello romano.