il primo modello di democrazia: la polis ateniese

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IL PRIMO MODELLO DI DEMOCRAZIA:
LA POLIS ATENIESE
ORLANDI ANDREA
Introduzione
Con la città, la polis, nasce nella Grecia antica, fra il sesto e il
quarto secolo a.C., la prima organizzazione propriamente
“politica” e democratica di mediazione dei conflitti sociali. La
politica, la sua cultura, la sua ideologia, spostano il livello di questi
conflitti, li traducono nel proprio linguaggio, ne rimuovono e volta
volta ne occultano le matrici economiche. La polis si presenta
dunque come elemento strutturale della società greca, come il
luogo della coesione sociale, infine come il paradigma che
organizza intorno a sé l’intera produzione culturale della città.
La polis è stata il primo modello di organizzazione sociale con i suoi elementi fondanti, le sue
contraddizioni e le sue crisi. In particolare, al centro di tutto è il problema tra l’assetto politico della
società ateniese e l’economia, cioè l’acquisizione e la distribuzione della ricchezza sociale. Voglio
qui di seguito andare ad analizzare quello che per l’appunto viene definito il primo modello di
democrazia della storia umana.
La storia
Sono individuabili tre momenti:
- il primo comprende il periodo storico tra l’800 e il 580 a.C. in cui il mondo greco si trasforma
lentamente passando da una realtà rurale con tanti insediamenti sparsi su tutto il territorio,
specie all’interno, alla creazione di città di dimensioni considerevoli per l’epoca a vocazione
prevalentemente commerciale marittima. Possiamo qui assistere a un primo approdo a un
modello di civilizzazione urbana. Difatti viene scacciata l’organizzazione tribale prevalente nei
piccoli villaggi sparsi sul territorio e si impongono i primi tiranni o autocrati che attraverso la
mediazione del conflitto sociale in nome della proposta di una città in cui regni la legge e in cui
lo scontro possa trasformarsi in confronto e armonica collaborazione fra ceti non più
contrapposti.
- il secondo periodo è individuabile intorno al 550 a.C.in cui il problema di un crescente da parte
della città pone in modo drammatico l’esigenza di allargare il suo repertorio di risorse, dunque
di sviluppare le attività marittime e commerciali; ne consegue un sovvertimento degli equilibri
politici tradizionali. Infatti in questo periodo un crescente numero di cittadini indipendenti
ampliò notevolmente la propria sfera di attività grazie all’espansione della schiavitù. Ed è
proprio sulla formazione di un’economia schiavista che si costruisce al figura del libero
cittadino ateniese.
- il terzo periodo coincide con il tramonto del modello democratico ateniese intorno alla metà del
quarto secolo a.C. Il modello di espansione, basato sul controllo del commercio marittimo,
ormai si era inceppato e quindi era incapace di assicurare le risorse necessarie al consumo.
Inoltre la nascita degli imperi, gli stati forti e i regimi militari all’esterno della Grecia furono
determinanti nel declino di Atene. Infatti l’aumento dei costi di guerra rese la città più debole
nel coordinamento di eserciti sempre più numerosi e complessi e minò la sua stessa struttura
politica.
Gli ideali politici
Gli ideali e gli scopi della democrazia ateniese sono narrati in modo dettagliato nella famosa
orazione funebre di Pericle composta da Tucidide:
“Il nostro ordine politico non si modella sulle costruzioni straniere. Siamo noi
d’esempio ad altri, piuttosto che imitatori. E il nome che gli conviene è
democrazia, governo nel pugno non di pochi, ma della cerchia più ampia di
cittadini: vige anzi per tutti, da una parte, di fronte alle leggi, l’assoluta equità di
diritti nelle vicende dell’esistenza privata; ma dall’altra si costituisce una scala
di valori fondata sulla stima che ciascuno sa suscitarsi intorno, per cui,
eccellendo in un determinato campo, può conseguire un incarico pubblico, in
virtù delle sue capacità reali, più che per l’appartenenza a questa o a quella
fazione politica. Di contro,se si considera il caso di un cittadino povero, ma
capace di operare un ufficio utile allo Stato, non gli sarà di impedimento la
modestia della sua condizione. Nella nostra città, non solo le relazioni pubbliche s’intessono in
libertà e scioltezza, ma anche riguardo a quel clima di guardinga, ombrosa diffidenza che di solito
impronta i comuni e quotidiani rapporti, non si va in collera con il vicino, se fa un gesto un po’ a
suo talento, e non lo si annoia con visi duri, sguardi lividi, che senza voler essere un castigo,
riescono pur sempre molesti. La tollerante urbanità che ispira i contatti tra persona e persona
diviene, nella sfera della vita pubblica, condotta di rigorosa aderenza alle norme civili, dettata da
un profondo, devoto rispetto: seguiamo le autorità di volta in volta al governo, ma principalmente
le leggi e più tra esse quante tutelano le vittime dell’ingiustizia e quelle che, sebbene non scritte,
sanciscono per chi le oltraggia un’indiscutibile condanna: il disonore.
In ogni cittadino non si distingue la cura degli affari politici da quella dei domestici e privati
problemi, ed è viva in tutti la capacità di adempiere egregiamente agli incarichi pubblici,
qualunque sia per natura la consueta mansione. Poiché unici al mondo non valutiamo tranquillo un
individuo in quanto si astiene da quella attività, ma superfluo. Siamo noi stessi a prendere
direttamente le decisioni o almeno a ragionare come si conviene sulle circostanze politiche: non
riteniamo nocivo il discutere all’agire, ma il non rendere alla luce, attraverso il dibattito, tutti i
particolari possibili di un’operazione, prima di intraprenderla.”
Pericle descrive una comunità in cui tutti i cittadini potrebbero e dovrebbero partecipare alla
creazione e al mantenimento di una vita comune. Formalmente i cittadini non incontravano alcun
ostacolo alla partecipazione agli affari pubblici basato sulla condizione sociale o sulla ricchezza. Il
demos (=popolo) deteneva il potere sovrano, cioè la suprema autorità di esercitare le funzioni
legislative e giudiziarie. Il concetto ateniese di cittadinanza implicava un impegno in queste
funzioni che si realizzava con la partecipazione diretta agli affari dello stato. Nella città si
istituiscono infatti organi politici e giuridici di gestione dell’intero territorio, che sottraggono per la
prima volta l’esercizio diretto del potere alle grandi famiglie aristocratiche e lo trasferiscono,
almeno in linea di principio, all’intera comunità dei cittadini. Si appartiene alla cittadinanza, dunque
si condivide il potere collettivo, se si è nati, nella condizione di liberi, sul territorio della polis, e si
appartiene a una famiglia dotata di una proprietà terriera anche minima. Gli individui potevano
soddisfarsi convenientemente e vivere onorevolmente solo come cittadini
della polis, e grazie ad essa, perché l’etica e la politica erano fuse nella
vita della comunità politica.
Liberi e cittadini, gli uomini del demos si distinguono da un lato
dall’aristocrazia perché sono costretti per l’assenza o l’insufficienza della
rendita agricola, a compiere un lavoro retribuito; dall’altro dagli schiavi
rispetto ai quali il loro livello sociale rimane incommensurabilmente
superiore. il peso politico del demos è notevole grazie ai meccanismi
democratici della polis, che riflettono il presupposto di una sua comune
proprietà da parte del corpo dei cittadini: senza il suo consenso, è impossibile ottenere una qualsiasi
maggioranza nell’assemblea popolare di Atene.
L’aristocrazia deve quindi avere l’appoggio del demos urbano al suo potere. Si stabilisce così un
patto sociale fra aristocrazia e demos, che dà luogo a un duraturo equilibrio politico. In virtù di
questo patto, l’aristocrazia si assicura il potere della polis, e con esso la sicurezza di mantenere il
possesso delle terre, resistendo a qualsiasi richiesta di riforma agraria da parte contadina; si assicura
inoltre la possibilità di partecipare vantaggiosamente alle crescenti attività commerciali della città
investendovi le eccedenze prodotte dallo sfruttamento delle campagne.
In cambio di tutto questo, l’aristocrazia deve naturalmente accogliere le richieste provenienti dal
demos. Queste richieste non vanno affatto nel senso di un’espansione delle attività produttive, di un
allargamento dei mercati o di maggiori opportunità di lavoro. Il demos tende anzi a delegare
progressivamente a schiavi e meteci sia il lavoro manuale sia le attività commerciali; i suoi membri
si sentono comproprietari della polis, quindi in diritto a partecipare alla distribuzione della ricchezza
sociale per una quota sufficiente a finanziare i loro bisogni, anzitutto in termini di consumi
alimentari. In altre parole, il demos tende a vivere di rendita della città come l’aristocrazia vive di
rendita della terra. Solo a questa condizione, il demos accetta il patto sociale istitutivo della polis, e
accetta quindi, nelle forme della politica, l’accordo istituzionale con l’aristocrazia. da produttore di
beni e servizi, il demos tende a trasformarsi in una fascia sociale di consumatori parassitari che
vivono nella città, così come la città tende a vivere parassitariamente del mondo esterno soggetto al
suo dominio.
Un’altra importante descrizione della democrazia ateniese è contenuta nella Politica di Aristotele
che definisce i principi etici e gli scopi e di cui riporto un pezzo:
“Il presupposto della costruzione democratica è la libertà, tanto che si
dice che solo con questa costruzione è possibile godere della libertà,
che si afferma essere il fine di ogni democrazia. Ed una delle
caratteristiche della libertà è che le stesse persone in parte siano
comandate e in parte comandino. Infatti la giustizia, nella concezione
democratica, consiste nell’uguaglianza secondo il numero e non
secondo il merito, con la conseguenza che la folla sarà sovrana e che
fine della città e giusto sarà quello che sarà parso ai più. Poiché questa
concezione sostiene che ogni cittadino deve avere quanto qualsiasi altro, nelle democrazie saranno
più potenti i poveri dei ricchi, perché i primi sono in numero maggiore, e fa la legge il parere dei
più. Questo è uno dei caratteri della libertà su cui concordano tutti i sostenitori della democrazia;
un altro consisterebbe nel vivere come ciascuno vuole. E questo sarebbe opera della libertà, dal
momento che gli schiavi non possono vivere come vogliono. Da questa seconda definizione della
democrazia è derivato il rifiuto, totale o parziale, dell’autorità; il che contribuisce alla
realizzazione della libertà come uguaglianza. Su questi presupposti e su questi principi si fondano
queste istituzioni democratiche: l’eleggibilità indiscriminata a tutte le cariche, la sovranità
esercitata da tutti su ciascuno e da ciascuno su tutti a turno, il sorteggio come sistema per scegliere
tutti i magistrati, o per lo meno quelli che non devono avere particolari esperienze o competenze
specifiche, l’abolizione del censo come condizione per adire alle pubbliche cariche, o la sua
riduzione ai minimi termini, il divieto di essere rieletto, l’estrema brevità di tempo d’esercizio
imposta a tutte o quasi le cariche. […] Nella democrazia tutti dovrebbero avere, nella realizzazione
perfetta, una retribuzione, i membri dell’assemblea generale, quelli dei tribunali e i magistrati;
altrimenti essa dovrebbe essere concessa ai magistrati, ai giudici,ai membri del consiglio e a quelli
dell’assemblea, che intervengono nelle sedute più importanti, o almeno a quei magistrati che
devono prendere pranzi in comune”.
Eguaglianza e libertà sono le basi della democrazia ateniese. Gli Ateniesi avevano una spiccata
sensibilità statale e disposizione al sacrificio, ma per loro non era tollerabile trascorrere la vita
soggetti alla coercizione dello stato.
Ad Atene la sfera privata è separata dalla sfera statale e lo stato cerca di evitare ogni ingerenza e di
lasciare ad ogni cittadino la possibilità di strutturare liberamente la propria vita. Il simbolo della
democrazia per gli Ateniesi era l’invito dell’araldo, che chiedeva se qualcuno volesse prendere la
parola. Ogni cittadino è in grado sia di occuparsi degli affari privati sia di formulare il proprio
giudizio in merito a quelli pubblici.
Aristotele precisa che uguaglianza indica, nel diritto privato, l’essere tutti uguali davanti alla legge,
mentre in ambito politico l’abolizione di privilegi di nascita e censo, ma non lo stesso grado di
influenza sulla collettività. All’uguaglianza meccanica, che ha compimento nell’assemblea
popolare, è affiancata una differenziazione che apra la via ai più abili cosicchè anche i più poveri
possano avere un’influenza politica.
La concezione di libertà e uguaglianza sarebbe inconcepibile per il liberalismo moderno, che però
nasce da una mentalità individualistica, mentre per Aristotele l’individuo deve sì essere socialmente
libero, ma sopra di lui è la polis che obbedisce a leggi proprie. Lo stato ha la priorità perché è la
sola comunità di formazione naturale entro cui l’uomo può esistere e dal benessere della quale
dipende quello del singolo. Di conseguenza l’individuo poteva usufruire della sua libertà
subordinatamente agli interessi della società. La valutazione della persona, comunque, andava oltre
al semplice concetto di democrazia e aprì un nuovo momento nel pensiero politico greco.
La politeia, come stato democratico, era per i Greci non una costituzione scritta, ma la forma di vita
creata da un popolo in base alla sua natura e alla sua indole. Gli
avversatori di questa forma attaccavano in modo violento la parole
uguaglianza e libertà: all’uguaglianza "aritmetica" veniva
contrapposta un’uguaglianza "geometrica", che non concedesse
uguali diritti a uomini non uguali ma che li graduasse in base ai
meriti, e la libertà democratica diveniva sinonimo di sfrenatezza e
arroganza. In effetti sull’ideale democratico di libertà – per
sfuggire al servilismo nei confronti di un despota – ricadeva il
rischio della sfrenatezza assoluta. Se nella vita privata ognuno è
totalmente libero di compiere ciò che più gli piace, in quella
pubblica evita, per timore, di tenere una condotta illegale. Il timore
di cui si parla è un timore etico, è paura di violare i limiti che i
doveri verso la società impongono alla libertà individuale.
Aristotele sostiene che è necessaria l’ubbidienza volontaria, ma più
che altro la intende come esigenza ideale.
Il modello istituzionale
La teoria costituzionale della democrazia ateniese è molto semplice: il popolo è sovrano. Siede
nell’Assemblea o nei tribunali, è il sovrano assoluto di tutto ciò che concerne la città e i cittadini
sono liberi e uguali sotto l’egida della legge.
Partecipazione all’Assemblea o Ecclesia
Per far parte dell’Ecclesia erano necessari due requisiti:
1. essere cittadino ateniese
2. essere maggiorenne. La maggiore età si acquisiva a 20 anni, per via dell’iscrizione sui registri del
demo (i demi erano le unità territoriali più piccole dotate di autonomia dal punto di vista
amministrativo. Questa frammentazione del territorio statale di Atene era dovuta alla sua estensione
-più di 2400 kmq, all’incirca come l’attuale Granducato di Lussemburgo). Non sempre questi
registri erano sicuri: infatti molti meteci (che erano gli stranieri che si stabilivano ad Atene ma
erano privi dei diritti politici) riuscivano a farsi iscrivere e quindi a partecipare ai lavori
dell’Assemblea
Riunioni e funzionamento dell’Assemblea
In origine, l’Ecclesia si riuniva dieci volte all’anno; ma, col passare del tempo, vennero aggiunte
altre sedute supplementari. Ogni assemblea aveva il proprio ordine del giorno, tuttavia, nel caso di
una sventura pubblica o di un evento imprevisto che esigessero un provvedimento urgente,
potevano essere indette assemblee straordinarie. La seduta incominciava di buon mattino quando un
segnale era dato da una bandiera sventolante. Così la polizia sbarrava le strade che conducevano
all’Agorà e spingeva i cittadini verso la collinetta della Pnice, cui si accedeva per una ripida
scalinata e che poteva raccogliere fino a 6000 persone. Il presidente dell’Assemblea era designato a
sorte estraendolo ogni giorno e, dopo una cerimonia religiosa in onore di Zeus, dava inizio alla
seduta. Si incominciava con la discussione delle proposte di legge: ogni cittadino poteva prendere la
parola e proporne emendamenti, salendo su una tribuna e mettendosi sul capo una corona di mirto,
simbolo d’inviolabilità. Dopo la discussione, si indicevano le votazioni per alzata di mano e il
presidente, proclamatone il risultato, poteva togliere la seduta.
Poteri dell’Assemblea
All’Ecclesia competevano svariate funzioni:
1. le relazioni estere,
2. il potere legislativo,
3. il potere giudiziario e il controllo del potere esecutivo, con la
nomina di tutti i magistrati.
In materia di politica estera l’Assemblea , sotto la direzione della
Bulè, decideva della pace, della guerra e delle alleanze e nominava
gli ambasciatori. Per quanto riguarda invece il potere legislativo,
l’Ecclesia non si arrogava il diritto di abolire formalmente le leggi e
votarne di nuove, ma trovava le forme necessarie per legiferare
attraverso decreti. Il popolo era anche supremo giudice, ma delegava
il potere giudiziario ai tribunali, intervenendo direttamente solo nelle
questioni più delicate e importanti.
Riunioni straordinarie dell’Assemblea
Nel V secolo, in circostanze di particolare importanza, si riuniva anche l’Assemblea plenaria,
convocata nell’agorà, divisa per tribù e considerata come rappresentante l’intera città. Il minimo di
unanimità era un voto espresso da seimila suffragi. L’Assemblea plenaria era convocata per
designare chi dovesse essere bandito per ostracismo, per conferire l’impunità o la grazia, o nel caso
il diritto di cittadinanza. Il bando per ostracismo venne decretato per la prima volta nel 487 e, con
gli anni più frequentemente, nelle circostanze gravi e nelle guerre perché non vi fossero continui
dissensi in merito alla difesa nazionale e nella politica interna, e servì così alle fazioni opposte a
decapitarsi a vicenda. Il voto veniva espresso per mezzo di pezzi di coccio e il condannato doveva
lasciare l’Attica entro dieci giorni e per dieci anni, salvo eventuali amnistie.
Composizione del Consiglio dei Cinquecento o Bulè
La Bulè, organizzata dalla riforma di
Clistene (508 a. C.), era un organo
composto da cinquecento membri
detti buleuti, sorteggiati "per mezzo
della fava" tra i demoti aventi più di
trent’anni che si presentassero come
candidati. Questi solitamente non
erano in grande numero dal momento
che, nonostante venissero retribuiti,
dovevano comunque sacrificare
un’intera annata agli affari pubblici.
Prima di entrare in carica i buleuti
dovevano prestare giuramento e cingevano la corona di mirto, segno della loro inviolabilità, mentre,
al termine dell’annata, il Consiglio intero doveva rendere conto al popolo del proprio operato. La
Bulè era convocata dai pritani e si riuniva nel Buleuterio, situato a sud dell'agorà. Ma come
l’Ecclesia, non poteva sedere in permanenza per un’intera annata; per il disbrigo degli affari
ordinari aveva bisogno di una giunta direttiva controllata a turno da una delle dieci tribù per una
decima parte dell’anno : essa era costituita da cinquanta pritani (ovvero 1/10 dei buleuti) e
presieduta da un epistate (sorteggiato ogni giorno tra i pritani) che teneva per ventiquattro ore le
chiavi dei templi dove si trovavano i tesori, gli archivi e i sigilli dello Stato. Questa giunta aveva il
compito di mettersi in relazione con l’Ecclesia , con i magistrati, gli ambasciatori e gli araldi
stranieri; convocava in caso di urgenza il Consiglio, l’Assemblea, gli strateghi e aveva a
disposizione le forze di polizia. Nell’esercitare le sue molteplici funzioni la Bulè nominava poi
diverse commissioni speciali: per controllare le entrate all’Assemblea, per sorvegliare
l’amministrazione marittima o per la consacrazione e le celebrazioni dei misteri.
Poteri della Bulè
A un tempo organo preparatorio-esecutivo e magistratura suprema, aveva tre mezzi per esercitare i
suoi diversi poteri:
1. presentava all’Assemblea le proposte di legge che servivano di base ai decreti del popolo;
2. promulgava decreti per far eseguire le decisioni prese dall'Assemblea;
3. collaborava direttamente, col consiglio o con l’opera, con le altre magistrature.
La Bulè aveva attribuzioni importanti anche in campo finanziario, poiché sorvegliava l’impiego del
denaro pubblico e si occupava degli appalti delle imposte, delle concessioni minerarie, delle
locazioni dei terreni sacri, della costruzione e conservazione delle opere pubbliche (come si deduce
dai conti sui lavori dell’Acropoli nell’età di Pericle). Infine, fra le sue molte funzioni giudiziarie, si
occupava della procedura rapida per punire i reati contro la sicurezza dello Stato. Un tempo chi
giudicava questi reati era l’Areopago ma, dopo una riforma, la competenza in materia di questi
crimini passò al Consiglio, che divenne così un organo centrale della democrazia ateniese.
I magistrati
I magistrati prima di entrare in carica dovevano prestare
giuramento e sottoporsi a un primo esame davanti al Consiglio.
Superata questa prova, essi erano persone inviolabili che
godevano di molte prerogative e di una speciale protezione. Ma
la loro responsabilità era duplice; anzitutto finanziaria, e poi
morale e politica: ogni funzionario doveva presentare un
rendiconto dei fondi pubblici di cui aveva avuto la gestione,
verificato da un altro collegio di magistrati. Otre alla resa dei
conti in senso stretto e preciso della parola, c’era nel diritto
pubblico ateniese un rendimento dei conti in senso largo. I
magistrati erano pertanto sottoposti a una sorveglianza incessante
e minuziosa e se commettevano atti illeciti potevano essere
deposti dall’Assemblea, attraverso una votazione per alzata di
mano, e rinviati davanti al tribunale. Era lo stesso principio
democratico a esigere questo rigido controllo sul potere
esecutivo e a portare il popolo ateniese a una profonda diffidenza
che non risparmiò nessuno.
Caratteristiche del sistema
Il sistema è caratterizzato da una forte responsabilità dei funzionari e dei cittadini davanti
all’Assemblea, il controllo popolare degli ufficiali comandanti, l’esistenza di un ampio e aperto
dibattito, le decisioni prese in riunioni di massa, e molte altre caratteristiche della città-stato
ateniese. Esso illustra anche come questa ricca partecipazione fosse strutturata dai seguenti fattori:
la dipendenza della piena partecipazione dalle abilità oratorie; i conflitti tra i gruppi rivali di leader;
reti informali di comunicazione e di complotto;
l’emergenza di fazioni molto ostili che erano
pronte a esigere provvedimenti rapidi e fermi;
la vulnerabilità dell’Assemblea rispetto alle
passioni del momento; la base instabile di certe
decisioni popolari; il rischio potenziale di
instabilità politica generale dovuto all’assenza
di un sistema di controlli sul comportamento
impulsivo. In epoca posteriore furono instaurati
nella struttura della democrazia ateniese alcuni
controlli costituzionali al fine di salvaguardarla
proprio dalle decisioni affrettate e irreversibili.
Con questi cambiamenti si cercava di
bilanciare la sovranità popolare con una
struttura costituzionale capace di proteggere le procedure e le leggi emanate, anche se è dubbio che
questi cambiamenti siano stati sufficienti a questo scopo.
La politica in Atene sembra sia stata straordinariamente intensa e competitiva. Inoltre quelli che
dominavano l’Assemblea e il Consiglio avevano in genere un’elevata condizione di provenienza.
Poiché il potere non era strutturato da un solido sistema governativo e costituzionale, le lotte
politiche assumevano spesso una forma personale e molte si concludevano con l’eliminazione fisica
degli avversari. Nondimeno la spiegazione della stabilità politica di Atene deve essere ricercata non
solo nei meccanismi interni di funzionamento del sistema politico ma soprattutto nella sua storia di
stato conquistatore vittorioso. lo sviluppo di Atene è andato di pari passo con vittoriose campagne
militari: pochi furono gli anni senza una guerra o un conflitto militare. Il successo militare portò
benefici a quasi tutti i gruppi della cittadinanza ateniese e ciò senza dubbio contribuì alla
formazione di una base comune tra essi, che probabilmente è stata molto solida, almeno finchè
durarono queste vittorie.
Declino democrazia ateniese
Alla metà del IV secolo, un duplice ordine di fenomeni, sia interni sia esterni, rendono impossibile
la sopravvivenza della polis come organizzazione politica della società greca. All’interno c’è la
crescita di un demos sempre più parassitario, all’esterno lo sfruttamento degli alleati; questo rende
via via più intollerabile all’aristocrazia il rispetto di quel patto sociale su cui si fondava la polis.
Negli ultimi decenni del IV secolo, le polis, nonostante la tenace opposizione del demos al loro
interno, si sottomettono ai re macedoni, cedendo loro la propria autonomia politica e ottenendone in
cambio la forza militare sufficiente a ristabilire gli equilibri interni a
vantaggio dell’aristocrazia. Nel caso di Atene, una parte ingente del
demos, comprendente tutti i cittadini più poveri, viene privata del
diritto alla cittadinanza, quindi del diritto al mantenimento pubblico.
L’espulsione di questi cittadini, costretti a vivere ai margini della
città oppure a emigrare, compensa largamente l’aristocrazia ateniese
della perdita di sudditi esterni, e le consente di tornare rapidamente
ad accumulare notevoli ricchezze.
L’organizzazione sociale dominante nel mondo antico rimane quella
della polis, una polis in cui il dominio aristocratico si è ormai
assicurato una base di forza sufficiente a rescindere il vecchio patto
soloniano con il demos; una polis che può vivere dello sfruttamento
delle campagne, dei meteci, degli schiavi, e ora anche delle grandi
popolazioni barbariche via via soggiogate dall’espansione degli
imperi ellenistici e poi di quello romano.
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