OLTRE L’AUTOATTUALIZZAZIONE E L’AUTOESPRESSIONE
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La persona mai come mezzo e sempre come fine
Ciò richiama alla mente un noto fenomeno osservato in casi di nevrosi sessuali. Spesso alcuni pazienti dicono di «masturbarsi su una donna», intendendo
dire che talvolta «usano» le loro partner semplicemente per ridurre la tensione
sessuale. Ciò corrisponde chiaramente a quella concezione dell’uomo che ho
chiamato «monadologistica». Non va dimenticato, comunque, che si tratta di
soggetti nevrotici e, dunque, anormali. L’approccio normale al mondo non è
mai in prima istanza quello della relazione mezzi-fine.
Piuttosto una tale concezione, centrata sulla relazione mezzi-fine, corrisponde a quanto si osserva negli animali che vengono esposti a certe condizioni
artificiali. Mi riferisco agli esperimenti di autostimolazione descritti da J. Olds e P.
Milner (1954), J.V. Brady et al. (1953; 1954) e W.P. Koella (1955; 1959). Essi
impiantarono degli elettrodi nei cervelli di alcuni topi e in determinate condizioni,
ad esempio quando l’impianto avveniva nei centri nervosi dell’ipotalamo e del
rinencefalo, la chiusura del circuito causava un comportamento che potrebbe essere spiegato solo come soddisfazione di un bisogno. Inoltre gli animali, quando si
diede loro l’opportunità di premere una levetta che chiudeva il circuito, iniziavano
ben presto a farlo di continuo. L’aspetto più impressionante dell’esperimento
rilevato dagli sperimentatori fu che gli animali trascuravano del tutto il cibo e i
partner sessuali. Ne consegue che, non appena vengono considerati come semplici mezzi al fine di soddisfare i bisogni, gli oggetti del mondo possono essere
dimenticati o addirittura omessi. Non occorre più curarsi di essi; basta chiudere
il circuito elettrico.
Come opportunamente rileva Jung, quanto detto vale solo per gli animali
che sono oggetto di sperimentazione in situazioni artificiali, non nelle circostanze
normali. Questo prova che anche un animale normalmente, o almeno non primariamente, non è interessato al ripristino di quella situazione psichica che viene
detta «soddisfazione». A fortiori, ancor meno lo è l’uomo. Secondo la prospettiva
logoterapeutica, l’uomo non è per prima cosa interessato alle sue condizioni
psichiche, ma è piuttosto orientato verso il mondo, verso il mondo dei significati
potenziali e dei valori che, per così dire, attendono di essere realizzati e attualizzati
da lui. In logoterapia parliamo di una «volontà di significato» (Frankl, 1958), e la
contrapponiamo al principio del piacere (che potremmo anche chiamare «volontà
di piacere») e alla cosiddetta «volontà di potenza».
Come è generalmente accettato, il principio del piacere include l’evitamento
del dispiacere. In tal modo, esso viene quasi a coincidere con il principio della
riduzione delle tensioni. Tuttavia, dobbiamo chiederci se esista realmente una
volontà di piacere, intesa come tendenza principale che si riscontra nell’uomo.
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LA SFIDA DEL SIGNIFICATO
A mio parere, e in accordo con certe osservazioni di Kant e di Max Scheler, il
piacere non è primariamente e normalmente una meta bensì un effetto, un effetto
collaterale, della realizzazione di un compito. In altre parole, esso si manifesta
automaticamente non appena una persona ha realizzato un significato o ha attuato
un valore. Inoltre, se qualcuno tentasse di raggiungerlo, rendendolo un obiettivo,
fallirebbe necessariamente, perché perderebbe ciò a cui aspira. Ciò può essere
facilmente dimostrato in quei casi di nevrosi sessuale in cui i nostri pazienti non
riescono a ottenere il piacere sessuale proprio perché tentano di raggiungerlo
direttamente. Più un uomo cerca di dimostrare la sua potenza o una donna la sua
abilità a raggiungere l’orgasmo, meno sarà capace di farlo. Direi che non pochi
casi di nevrosi sessuale potrebbero essere ricondotti a tale punto di partenza.
Più lottiamo per la felicità e meno la raggiungiamo
Qualcosa di analogo vale anche per certi altri fenomeni umani, come quello racchiuso nel titolo del famoso bestseller Peace of Mind (Liebman, 1946).
Possiamo, anzi, fare un passo in avanti e affermare che la «ricerca della felicità»
equivale a un’autocontraddizione: più lottiamo per la felicità, meno la raggiungiamo. Anche la pace dell’animo deve accontentarsi di essere un effetto secondario,
poiché come intenzione sarebbe autodistruttiva. Possiamo illustrare ciò con quel
tipo specifico di pace dell’animo che si identifica con la buona coscienza. Un
uomo che si stia sforzando di raggiungere una condizione in cui dire con ragione:
«Possiedo una buona coscienza» rappresenterebbe già un caso di fariseismo. Una
coscienza veramente buona non può mai essere ottenuta tentando di afferrarla,
ma solo compiendo un gesto per amore di una causa, per amore di una persona
cara, per amore di Dio. Una buona coscienza è una di quelle cose che si possono
conseguire soltanto come effetti collaterali e non intenzionali e che si distruggono
nel momento in cui le si persegue direttamente.2 Si può usare in proposito una
semplice formula: gli scopi tanto della filosofia edonistica degli epicurei quanto
della filosofia quietistica degli stoici, cioè la felicità e la pace dell’animo (o, come
quest’ultima veniva chiamata dagli antichi greci, l’atarassia), non possono affatto
essere i veri scopi del comportamento umano, per la semplice ragione a priori
che essi sfuggono all’uomo nella stessa misura in cui egli si affanna per loro.
L’attuale crescente tendenza a dipendere dai tranquillanti mi sembra essere
un segno che l’uomo contemporaneo è stato ampiamente sedotto dall’illusoria
2
Si noti il tipo di uomo che si affanna per la buona salute. Nella misura in cui lo fa, egli si è già
ammalato, in preda a quel disturbo nervoso che si chiama ipocondria.
OLTRE L’AUTOATTUALIZZAZIONE E L’AUTOESPRESSIONE
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prospettiva di poter perseguire la felicità o la pace dell’animo. Neppure egli può
tendere alla «pace dell’anima», poiché questo tipo di pace, che apparentemente
significa il (ri-)stabilimento di una buona coscienza, gli si sottrae nel momento
stesso in cui diviene oggetto di intenzione, invece di rimanere un effetto.
Nella prospettiva dell’interpretazione psicodinamica della coscienza l’uomo
lotta per un comportamento morale solo per sbarazzarsi dello stimolo di una cattiva
coscienza o, per stare alla terminologia psicodinamica, dello stimolo di un Super
Io insoddisfatto. Ovviamente una tale concezione non coglie l’essenziale della
vera moralità, che inizia solo quando la persona agisce per amore di qualcosa o
di qualcuno, ma non per riguardo a se stesso, per avere una buona coscienza o
per liberarsi di una cattiva coscienza.
Per ritornare alla questione posta all’inizio, ossia se il principio dell’omeostasi
sia effettivamente quello da cui l’uomo è guidato oppure no, possiamo richiamare
un fatto semplice e ben noto che, secondo me, dimostra che l’omeostasi non può
mai essere lo scopo ultimo nella vita. Quale sarebbe il risultato se l’uomo avesse
la possibilità di soddisfare ognuno dei suoi bisogni e delle sue pulsioni? Sicuramente i risultati non consisterebbero in un’esperienza di profondo appagamento,
ma nell’esperienza di un frustrante vuoto interiore, di un disperato sentimento
di vacuità o, per usare un termine logoterapeutico, della consapevolezza del
proprio vuoto esistenziale. Questo è il risultato della frustrazione della volontà di
significato. E poiché possiamo definire esistenziale ciò che risulta connesso non
solo con l’esistenza umana ma anche con il suo senso, si può benissimo parlare
di frustrazione esistenziale.
Vuoto esistenziale e nevrosi noogena
Oggi il vuoto esistenziale è di primaria e crescente importanza. Lo si comprende quando si considera la duplice perdita che l’uomo ha subito da quando
è diventato un vero essere umano. Mi riferisco al fatto che all’inizio della storia
dell’umanità l’uomo è stato privato di quegli istinti di base che fissano e assicurano il comportamento animale. Tale sicurezza gli è per ora, come il Paradiso,
preclusa. L’uomo, poi, ha subìto un’altra perdita, ben più recente: le tradizioni
che supportavano il suo comportamento stanno rapidamente declinando, almeno
in rapporto alla loro qualità moralmente obbligante, ed egli raramente percepisce
una qualche obbligazione nei loro confronti.
Un’indagine trasversale è stata condotta dal mio staff presso il Policlinico di
Vienna fra i pazienti del reparto neurologico e quelli dell’ambulatorio di psicoterapia, oltre che fra il personale medico e infermieristico. I risultati hanno rivelato
50
LA SFIDA DEL SIGNIFICATO
che il 55% delle persone intervistate mostrava un livello più o meno marcato di
frustrazione e/o di vuoto esistenziale. Più della metà di essi sperimentava una
perdita del sentimento di senso nella vita.
La logoterapia insegna che questo vuoto esistenziale, accanto ad altre
cause, può dare origine anche a una patologia nevrotica che, diversamente
dalle nevrosi psicogene (cioè le nevrosi nel senso più stretto della parola), viene
denominata nevrosi noogena. Le nevrosi noogene hanno un’eziologia differente
rispetto alle nevrosi psicogene, poiché affondano le radici in una diversa dimensione della personalità. Esse nascono nella dimensione noetica, piuttosto che in
quella psichica. In altre parole, nei casi di nevrosi noogena abbiamo a che fare
con patologie psicologiche che non sono, come le nevrosi psicogene, radicate
in conflitti tra opposte pulsioni o in contrasti tra istanze psichiche quali l’Es, l’Io
e il Super Io. Piuttosto, esse sono radicate in collisioni tra valori diversi, o nella
ricerca affannosa e insoddisfatta del valore gerarchicamente più elevato — quello
di un senso ultimo della propria esistenza. Per dirla semplicemente, abbiamo a
che fare con la frustrazione della lotta dell’uomo per un senso della sua esistenza
— una frustrazione della sua volontà di significato. È superfluo aggiungere che,
in tutti quei casi in cui i sintomi nevrotici possono essere ricondotti alla frustrazione esistenziale, la logoterapia è indicata come il metodo più appropriato di
trattamento psicoterapeutico.
Va notato che, quando si parla del senso dell’esistenza, ci si riferisce in maniera specifica al senso concreto dell’esistenza personale. Per lo stesso motivo si
può parlare di una missione nella vita, volendo indicare che ogni uomo ha nella
vita una missione da compiere. Ogni essere umano è unico sia nella sua essenza
(Sosein) che nella sua esistenza (Dasein) e, quindi, non è né strumentalizzabile
né sostituibile. In altre parole, è un individuo particolare con le sue peculiarità
personali uniche, che fa esperienza di un contesto storico unico in un mondo
che ha specifiche opportunità ed esigenze riservate a lui solo.
Naturalmente non è compito del terapeuta dare un senso alla vita del paziente. Spetta esclusivamente a lui trovare il senso concreto della sua esistenza.
Il terapeuta lo assiste soltanto in questa sua ricerca. E il fatto che sia lui a doverlo
trovare implica che il senso vada scoperto e non inventato, implica che il senso
della vita sia per ciascuno, in un certo senso, oggettivo.
LOGOS, PARADOSSO E RICERCA DI SENSO
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Il legame con il senso della vita
Poiché le due capacità umane, l’autodistanziamento e l’autotrascendenza,
derivano dalla concezione logoterapeutica dell’uomo, l’intenzione paradossa e
la ricerca del significato della vita si appartengono vicendevolmente. È vero che
l’intenzione paradossa non è «specificamente correlata al senso della vita» (Yalom,
1980). Tuttavia non posso essere d’accordo con l’affermazione di Weisskopf-Joelson (1978), secondo la quale «l’intenzione paradossa non è legata alla logoterapia
se non per il fatto che deve le sue origini a Frankl». Penso piuttosto che l’efficacia
della tecnica, in ultima analisi, sia dovuta a una certa fiducia fondamentale nell’esistenza, a un qualche tipo di fede che viene riabilitata e riaffermata da questa
tecnica. Nella misura in cui, comunque, abbiamo a che fare con la paura, la fede
si dimostra l’autentica antagonista. Infatti, c’è un vecchio detto che recita: «La
paura bussò alla porta. La fede andò ad aprire, ma non c’era nessuno».
Né Yalom (1980) può convincersi «che l’intenzione paradossa è specificamente correlata al senso della vita». Finché «abilita ad assumersi la responsabilità dei
propri sintomi, essa può essere considerata nell’ambito della terapia esistenziale».
A proposito della logoterapia, però, Lukas (1982) afferma:
Nei miei dodici anni di pratica logoterapeutica non ho mai dubitato che
l’intenzione paradossa sia veramente figlia della logoterapia, anche se viene
frequentemente adottata, sotto diverse denominazioni, da altre scuole di psicoterapia. La sua origine logoterapeutica, comunque, può essere facilmente
riconosciuta. Il concetto di autodistanziamento legittima l’intenzione paradossa
come figlia della logoterapia perché questo metodo costituisce il novanta per
cento di un dialogo terapeutico con il Sé. Questa legittimità non viene invalidata
dai molti «figli illegittimi», da pratiche usate da altre scuole che non ammettono
la paternità per metodi sorprendentemente simili all’intenzione paradossa.
La capacità dell’autotrascendenza
Ma passiamo alla seconda capacità umana, quella dell’autotrascendenza.
Essa denota il fatto che l’essere umano sempre punta ed è diretto verso qualcosa
di altro da sé, ovvero a significati da realizzare o ad altri esseri umani da incontrare per appagare il suo bisogno di amore. E solo nella misura in cui un essere
umano vive questa sua autotrascendenza diventa veramente umano e realizza se
stesso. Ciò mi ricorda il fatto che la capacità dell’occhio di percepire visivamente
il mondo circostante dipende dalla sua incapacità a percepire se stesso, a vedere
alcunché di sé. Allorché l’occhio vede qualcosa di se stesso, la sua funzione è
116
LA SFIDA DEL SIGNIFICATO
danneggiata. E quando l’occhio vede qualcosa di sé? Se sono affetto da cataratta,
vedo qualcosa di simile a una nebbia. Se sono affetto da un glaucoma, vedo degli
aloni iridescenti attorno alla luce, perché il mio occhio percepisce, per così dire,
l’accresciuta tensione che causa il glaucoma. L’occhio che funziona normalmente
non vede se stesso, ma trascura se stesso. Analogamente, l’uomo è veramente
tale nella misura in cui trascura se stesso e si dimentica, donandosi a una causa
da servire o a un’altra persona da amare. Immergendoci nel lavoro o nell’amore,
trascendiamo noi stessi e così ci realizziamo.
Perché la qualità autotrascendente dell’esistenza umana è stata così completamente ignorata e trascurata dalla psicologia? Secondo me, ciò ha a che fare con
la legge di Heisenberg, ammesso che io possa riformularla un po’ liberamente
come segue: l’osservazione di un processo inevitabilmente e automaticamente influenza il processo stesso. Qualcosa di simile avviene nell’osservazione
orientata in senso strettamente scientifico (piuttosto che fenomenologico) del
comportamento umano, in quanto essa non può evitare di mutare il soggetto in
un oggetto. Ma, ahimé, è inalienabile proprietà di un soggetto, direi, l’avere degli
oggetti (secondo la terminologia fenomenologica di Brentano, Husserl e Scheler,
essi sono chiamati oggetti intenzionali o referenti intenzionali).1 Comprensibilmente, nel momento in cui il soggetto viene trasformato in un oggetto, i suoi
oggetti scompaiono. E siccome i referenti intenzionali costituiscono il mondo
in cui un essere umano è come «essere-nel-mondo», per usare l’espressione
per lo più abusata di Heidegger, il mondo viene precluso non appena l’uomo è
concepito non più come un essere che agisce nel mondo, ma come un essere
che reagisce agli stimoli (secondo il modello comportamentistico) o abreagisce a
istinti e pulsioni (secondo il modello psicodinamico). In ogni caso, l’essere umano
è trattato come una monade priva di mondo o come un sistema chiuso, e ciò ci
rimanda a quanto detto all’inizio, cioè che l’apertura di un recipiente scompare
quando viene proiettato in una dimensione inferiore.
Motivati dal mondo
Riassumendo, il comportamento umano è davvero umano nella misura in cui
agisce nel mondo. Questo a sua volta implica essere motivati dal mondo. Infatti, il
mondo verso il quale un essere umano trascende se stesso è un mondo pieno di
significati che costituiscono le ragioni dell’azione, ed è altresì pieno di altri esseri
umani da amare. Non appena proiettiamo gli esseri umani nella prospettiva di
una psicologia concepita in termini strettamente scientifici, li tagliamo fuori dal
mondo delle possibili ragioni. Anziché ragioni, ci sono solo cause. La differenza?
1
L’intenzionalità si può concepire come l’aspetto cognitivo dell’autotrascendenza.
LOGOS, PARADOSSO E RICERCA DI SENSO
117
Le ragioni mi motivano ad agire nel modo che scelgo. Le cause determinano il
mio comportamento involontariamente e inconsciamente, che io lo sappia o no.
Quando taglio le cipolle piango. Le mie lacrime hanno una causa, ma io non
ho nessuna ragione per piangere. Quando un mio caro muore ho una ragione
per piangere.
E quali sono le cause che rimangono allo psicologo che non vede l’autotrascendenza e, conseguentemente, non vede i significati e le ragioni? Se egli è uno
psicoanalista, sostituirà i motivi con le pulsioni e gli istinti e li considererà causa
del comportamento umano. Se è un comportamentista, vedrà nel comportamento
umano il mero effetto di processi di condizionamento e di apprendimento. Se
non ci sono significati, ragioni, scelte, si devono ipotizzare delle determinanti,
in un modo o nell’altro, per rimpiazzarli. Certo, l’umanità del comportamento
umano, in queste circostanze, è abolita. E se la psicologia o, nella fattispecie, la
psicoterapia dev’essere riumanizzata, deve restare consapevole dell’autotrascendenza, piuttosto che cancellarla.
La volontà di significato
Uno degli aspetti dell’autotrascendenza è quello che viene chiamato in logoterapia volontà di significato. Se l’uomo può trovare e realizzare un significato
nella vita, diventa felice ma anche capace di affrontare la sofferenza. Se può
scorgere un significato, è sempre pronto a dare la sua vita. D’altra parte, se non
può vedere alcun significato, è incline a togliersi la vita, nonostante il benessere e
l’opulenza che lo circondano. Considerate gli indici di suicidio in aumento in Paesi
ricchi come la Svezia e l’Austria. Per citare deliberatamente il comportamentista
L. Bachelis (1976), direttore del Behavioral Therapy Center di New York, «molti
di coloro che si sottopongono a terapia nel Centro riferiscono di avere un buon
lavoro, di avere successo, ma vogliono ammazzarsi, poiché trovano la vita priva
di senso». Non intendo dire che la maggior parte dei suicidi sia dovuta a un sentimento di mancanza di senso, ma sono convinto che quelle persone avrebbero
vinto l’impulso a uccidersi se avessero visto un senso nella loro vita. Cioè, la gente
ha i mezzi per vivere ma non i significati per cui vivere. Ciò dice chiaramente che,
per citare Wirth (1980), la logoterapia affronta fermamente la nostra situazione
«in una società postpetrolifera» e ha «una speciale rilevanza in questa fase critica
di transizione».
La felicità non è soltanto il risultato del compimento di un significato, ma più
in generale è l’effetto collaterale non intenzionale dell’autotrascendenza. Essa non
può essere perseguita ma deve risultare. Più si mira a essa, più si manca il ber-
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LA SFIDA DEL SIGNIFICATO
saglio. Ciò vale specialmente per il piacere sessuale ed è la caratteristica del terzo
modello che dobbiamo discutere — il nevrotico sessuale — che le persone lottino
direttamente per l’esperienza o la performance sessuale, tentando di dimostrare i
pazienti maschi la loro potenza e le femmine la loro capacità di orgasmo.
L’iperintenzione
In questo contesto in logoterapia siamo abituati a parlare di iperintenzione
e poiché l’iperintenzione è spesso accompagnata da quella che chiamiamo iperriflessione, cioè una eccessiva autoosservazione, entrambe, l’iperintenzione e
l’iperriflessione, contribuiscono a determinare una terza formazione circolare, per
interrompere la quale si devono mettere in gioco forze centrifughe (figura 8.7).
L’iperriflessione può essere contrastata mediante la tecnica logoterapeutica
chiamata dereflessione, secondo la quale i pazienti, invece di guardare se stessi,
dovrebbero dimenticarsi. Ma essi non possono dimenticarsi se non si donano.
Ripetutamente si verifica che l’iperintenzione della performance e dell’esperienza
sessuale è dovuta alla tendenza e all’orientamento del paziente a conferire al rapporto
sessuale una «qualità di richiesta». Eliminare questa tendenza è il vero proposito
di una strategia logoterapeutica che, insieme alla tecnica della dereflessione, ho
descritto per la prima volta nel 1952 e più dettagliatamente in The unheard cry for
meaning (1978). Sahakian e Sahakian (1972) furono i primi a notare ciò che più
tardi fu confermato sia da Ascher (1980b) che da Bulka (1979), il quale vede nella
dereflessione «una chiara anticipazione dell’approccio di Master e Johnson».
Nevrosi noogena
Il sentimento di mancanza di senso non solo sta alla base dell’odierna triade della nevrosi di massa, cioè depressione, tossicodipendenza e aggressività,
ma può anche avere un ruolo in ciò che noi logoterapeuti chiamiamo «nevrosi
noogena». Finora, è stato stimato che circa il 20% delle nevrosi sono noogene
(Klinger, 1977). In questi casi, la logoterapia interviene come procedura specifica per assistere il paziente nella ricerca di senso. Come tale, essa è basata su
una logoteoria che, a sua volta, è fondata empiricamente. Il logoterapeuta non
prescrive mai il senso, ma può ben descrivere come il processo della percezione
di senso è messo in atto dall’uomo o dalla donna della strada, in virtù della loro
«autocomprensione ontologica preriflessiva», come sono solito chiamarla. In altre
parole, i logoterapeuti non prescrivono il senso né lo insegnano ma lo imparano
LOGOS, PARADOSSO E RICERCA DI SENSO
119
dare se stessi
iperintenzione
iperriflessione
dimenticare se stessi
Fig. 8.7 La terza formazione circolare: disfunzioni sessuali.
dalle persone che da sole lo hanno scoperto e realizzato.2
E un’analisi fenomenologica rivela che ci sono tre vie principali attraverso le
quali si arriva al significato della vita. La prima è insita nella creazione di un’opera
o nella realizzazione di un’impresa. Una seconda via si esplica nel fare esperienza
di qualcosa o nell’incontrare qualcuno; in altri termini, si può trovare il senso
non solo nel lavoro, ma anche nell’amore. Weisskopf-Joelson (1980) osserva
a questo proposito che la nozione logoterapeutica «che l’esperienza può essere
valida quanto il portare a termine un compito è terapeutica, perché compensa
l’enfasi unilaterale posta sul mondo esterno del successo a scapito del mondo
interno dell’esperienza».
Da tragedia a trionfo
Più importante, però, è la terza via al senso nella vita: essa dimostra che
persino la vittima indifesa di una situazione senza speranza, al cospetto di
un destino immutabile, può innalzarsi al di sopra di sé, può crescere oltre se
stessa e, così facendo, cambiare. Essa può mutare una tragedia personale in
un trionfo. Un esempio è contenuto nella «Texarkana Gazette» del 15 aprile
1980:
Jerry Long è paralizzato dal collo in giù da quando un incidente d’auto tre
anni fa lo rese tetraplegico. Aveva 17 anni. Oggi Long può usare una bacchetta
2
Per citare Ch. Bühler (1971): «Tutto ciò che possiamo fare è studiare la vita delle persone che
sembrano aver trovato le loro risposte alle domande che in ultima analisi la vita implica».
120
LA SFIDA DEL SIGNIFICATO
per scrivere con la bocca e «frequenta» due corsi al Texarkana Community
College attraverso uno speciale telefono. Il sistema di comunicazione permette
a Long di ascoltare e di partecipare alle discussioni di classe. Egli passa il tempo
leggendo, guardando la televisione e scrivendo.
In una lettera che mi ha inviato scrive:
Vedo la mia vita piena di significati e di obiettivi. L’atteggiamento che ho
adottato da quel fatidico giorno è diventato il mio credo personale per la vita:
mi sono rotto il collo, non me stesso. Sono attualmente impegnato nel mio
primo corso di psicologia al College. Credo che la mia disabilità non farà
che aumentare la mia capacità di aiutare gli altri. So che senza la sofferenza
sarebbe stata impossibile la maturità che ho raggiunto.
Per un quarto di secolo ho diretto il reparto neurologico di un policlinico e
rendo testimonianza alla capacità dei miei pazienti di trasformare le loro difficoltà
in successi umani. Chi racconta la storia dei giovani che ieri sciavano sulle Alpi
austriache o cavalcavano una Yamaha e oggi sono paralizzati dal collo in giù? O
delle ragazze che ieri danzavano in una discoteca e oggi devono affrontare una
diagnosi di tumore al cervello?
Weisskopf-Joelson (1958) ha espresso la seguente speranza in riferimento
alla logoterapia:
[...] mi auguro che possa aiutare a contrastare certe tendenze negative nell’attuale cultura degli Stati Uniti, dove a colui che soffre di un male incurabile
è data davvero poca possibilità di essere orgoglioso della sua sofferenza e di
considerarla nobilitante anziché degradante, cosicché non sia infelice, ma
abbia persino vergogna di esserlo.
Sofferenza, un senso fino all’ultimo istante
Ma esiste la dimostrazione empirica della possibilità di trovare un senso
anche nella sofferenza.
I ricercatori della Yale University School of Medicine sono rimasti impressionati dal numero (61%) di ex prigionieri della guerra del Vietnam che esplicitamente affermavano che, sebbene la loro prigionia fosse stata estremamente
dura — piena di torture, malattie, denutrizione e isolamento —, nondimeno
ne ebbero un beneficio considerandola come un’esperienza di crescita. Essi
credevano di essere divenuti più saggi di prima, più forti e più maturi (Sledge,
Boydstun e Rabe, 1980, p. 731).
In virtù del fatto che il senso può essere colto e vissuto anche dalla sofferenza, la vita si dimostra potenzialmente significativa letteralmente fino all’ultimo
istante, fino all’ultimo respiro.