Progetto Latino III Millennio a.s. 2016/2017 - Prof.ssa Daria Ferrari: “La Fortuna nell’antica Roma”.
La Fortuna nell’antica Roma:
raffigurazioni, proverbi e miti sulla dea più capricciosa dell’antichità.
Sviluppo e moltiplicazione dei culti.
Fortuna era oggetto di un culto molto radicato a livello popolare e, per questo,
frammentato nei vari aspetti della vita quotidiana che si annoveravano tra gli ambiti
di pertinenza della dea. Per questo motivo esistevano tanti edifici sacri e cerimonie
quante erano le attività su cui si riteneva che essa esercitasse la propria influenza.
Emblematico è il brano delle Quaestiones Romanae di Plutarco in cui l'autore
attribuisce a Servio Tullio la fondazione di numerosi culti. Di queste è fuor di dubbio
che la più famosa ed importante fosse la Fortuna Primigenia. Che cosa sappiamo di
questa dea? E che cosa la differenzia da quella cui era devoto Servio Tullio?
Fortuna Primigenia.
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Sebbene siano numerosi a Roma i culti dedicati alla dea Fortuna, quello destinato a
diventare il più noto non nasce tra le mura dell'Urbe, ma è originario di un'altra città:
esso fu importato a Roma da Preneste, secondo l'uso consueto di inglobare all'interno
delle proprie (eccetto i casi in cui si decideva di distruggerle) le pratiche religiose delle
città italiche che venivano sottomesse. Questo si verificò, d'altronde, anche perché
Preneste possedeva una potente attrattiva dal punto di vista religioso, essendo una
meta di pellegrinaggio per tutti coloro che volessero consultare il famoso oracolo
della sua divinità poliade: di conseguenza accogliere la dea all'interno del proprio
pantheon significava acquisirne anche l'alone di prestigio che essa irradiava sulla
propria sede di appartenenza (prestigio di cui, nel contempo, la città sottomessa
veniva
privata).
Le
sortes
praenestinae, tavolette lignee che,
Il Santuario della Fortuna Primigenia a Preneste
estratte una volta all'anno, recavano i
responsi oracolari della dea, erano
infatti talmente note da dar vita ad una leggenda a proposito della loro fondazione,
come leggiamo in Cicerone:
Gli Annali di Preneste raccontano che Numerio Suffustio, uomo onesto e bennato,
ricevé in frequenti sogni, all'ultimo anche minacciosi, l'ordine di spaccare una
roccia in una determinata località. […] Dalla roccia infranta caddero giù delle sorti
incise in legno di quercia, con segni di scrittura antica. […] [86] E dicono che in
quel medesimo tempo, là dove ora si trova il tempio della Fortuna, fluì miele da un
olivo, e gli arùspici dissero che quelle sorti avrebbero goduto grande fama, e per
loro ordine col legno di quell'olivo fu fabbricata un'urna, e lì furono riposte le sorti,
le quali oggidì vengono estratte, si dice, per ispirazione della dea Fortuna.
(I sec. a.C., Cicerone, De divinatione II 41, 85-87, trad. it. di S. Timpanaro).
Un'altra fondamentale testimonianza sulla Fortuna Prenestina ci è fornita
dall'epitome di Giulio Paride all'opera di Valerio Massimo, i Facta et dicta
memorabilia:
Lutazio Cercone, che pose fine alla prima guerra punica, ricevette dal senato il
divieto di chiedere responsi alla dea Fortuna di Preneste: credevano che lo stato
dovesse esser amministrato con auspici indigeni, non stranieri.
(I sec. a.C., Valerio Massimo, Facta et dicta memorabilia 1.3.2, trad. it. a cura di R. Faranda).
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Il brano, che fa riferimento al 241 a. C., ci permette di comprendere da una parte la
vasta notorietà posseduta dalle sortes praenestinae, dall'altra la viva e costante
preoccupazione dei Romani di conservare la propria identità culturale rispetto a
questo elemento che caratterizzava fortemente un'altra cultura: per questa ragione
il culto di Fortuna Primigenia sarà, sì, importato a Roma, ma la dea assumerà il nome
di Fortuna publica populi Romani Quiritium (Fortuna pubblica del popolo romano dei
Quiriti), in modo da essere differenziata dalla divinità rivale. Inoltre si deciderà di non
trasferire a Roma l'elemento che più distingueva la dea prenestina, ovvero proprio il
suo oracolo. Dell'accoglienza del nuovo culto nell'Urbe ci parla lo storico Livio:
All'inizio della battaglia il console fece promessa solenne di un tempio alla Fortuna
Primigenia se in quel giorno fosse riuscito a sconfiggere i nemici e vide esaudite
le sue preghiere.
(I sec. a.C.-I sec. d.C., T. Livio, Ab urbe condita XXIX 36, 8, trad. it. di M. Bonfanti).
[3] Quell'anno furono consacrati alcuni templi, uno a Giunone Matuta nel foro
olitorio, offerto in voto e appaltato quattro anni prima dal console Gaio Cornelio
durante la guerra con i Galli (egli stesso lo consacrò da censore); [4] un secondo a
Fauno […] [5] Quinto Marcio Ralla, eletto duumviro proprio per questo scopo,
consacrò sul colle Quirinale il tempio della Fortuna Primigenia. [6] Lo aveva
promesso in voto dieci anni prima, durante la seconda guerra punica, il console
Publio Sempronio Sofo, che poi lo aveva appaltato da censore.
(I sec. a.C.-I sec. d.C., T. Livio, Ab urbe condita XXXIV, 53, 3-6, trad. it. di M. Bonfanti).
Come è ben visibile dai brani citati, la Fortuna di Preneste possedeva l'epiteto di
Primigenia. Allo stato attuale degli studi resta ancora molto incerto il significato di
questo appellativo: sebbene il Dictionnaire etymologique de la langue latine ErnoutMeillet riporti per l'aggettivo la traduzione di “né le premier” (cioè “nato per primo”),
non è affatto chiaro se il termine non significhi, piuttosto, “primordiale”, “che fa
nascere ogni cosa”.
La supposta genealogia della dea non ci aiuta a chiarire la questione, anzi: secondo
Cicerone essa sarebbe madre o nutrice di Giove e di Giunone, ipotesi che sarebbe
confermata da alcune iscrizioni; tuttavia altre fonti epigrafiche riportano che Fortuna
ne sarebbe invece figlia e allo stesso tempo Plutarco fornisce per il latino Primigenia
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la traduzione greca di protoghèneia, vale a dire “primogenita”; questa confusione è
probabilmente dovuta al fatto che, con il passare del tempo, già per gli antichi il senso
del termine aveva cessato di essere chiaro e la titolatura era di conseguenza divenuta
incoerente. Fuori da Roma non era solamente Preneste ad essere dotata di una
Fortuna come divinità poliade: erano altrettanto note, infatti, le cosiddette Fortunae
Antiates. La terminologia plurale è dovuta al fatto che nella città volsca di Anzio la dea
appariva scissa in due figure antitetiche e complementari, l'una legata alla fecondità,
l'altra all'ambito bellico. L'influsso che questa duplice divinità esercitò sulla religione
romana fu, comunque, nettamente inferiore a quello della Fortuna Primigenia.
Restando a Roma, invece, tra le altre Fortune presenti nell'elenco stilato da Plutarco
abbiamo altre fonti che ci confermano l'effettiva esistenza di:
- Fortuna Virilis, oggetto di un culto riservato alle donne, dove essa è affiancata
a Venus Verticordia: secondo la credenza, in occasione della festa dei Veneralia,
il primo aprile, Venere faceva nascere nelle donne il desiderio ardente, mentre
Fortuna nascondeva agli occhi degli uomini i difetti dei loro corpi.
- Fortuna Muliebris: il culto, celebrato il sei luglio, era riservato alle univirae, cioè
alle donne sposate una sola volta non vedove (forse per motivi apotropaici, in
quanto la perdita del marito o l'aver contratto più matrimoni erano considerati
eventi sfortunati); la sua origine sarebbe legata, secondo la tradizione, alla
vicenda di Coriolano, che costituirebbe il primo intervento diretto da parte
della dea nelle faccende di guerra.
- Fortuna Equestris: secondo le testimonianze degli storici nel 180 a.C. le fu
promesso in voto un tempio che venne successivamente eretto in Campo
Marzio nel 173 a.C. per volere di Fulvio Flacco censore; tale culto, in contrasto
con quanto il suo nome potrebbe indurre a pensare, in origine non era affatto
riservato all'ordine equestre, bensì doveva la sua fondazione alla celebrazione
della vittoria della cavalleria romana contro i Celtiberi.
- Fortuna Huiusce Diei: il tempio di questa Fortuna, letteralmente “di questo
giorno”, celebrata il 30 luglio, fu eretto da Lutazio Catulo nel 101 a.C.; forse un
secondo edificio le fu dedicato da Lucio Emilio Paolo dopo la battaglia di Pidna
del 168 a.C., ma pare più verosimile che vi fosse un solo grande tempio, ossia
quello eretto da Lutazio Catulo. Secondo l'interpretazione fornita da Cicerone,
si tratterebbe teoricamente di una Fortuna protettrice di ogni giorno; tuttavia
essa viene in pratica celebrata in occasione di eventi – e quindi in giorni –
particolari, come i trionfi.
- Fortuna Redux: secondo la testimonianza delle Res Gestae di Augusto I, 11 un
altare in onore della Fortuna “che fa ritorno” fu eretto nel 19 a. C. in seguito al
rientro del princeps Augusto dall'Oriente.
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- Fortuna Viscata, alla lettera “vischiosa” e quindi “dotata della verga intrisa nel
vischio”, intinta cioè nella pania, strumento utilizzato dagli uccellatori per
attirare e catturare le loro prede; o la dea aveva a che fare con la protezione di
chi svolgeva questa attività, o si tratta di un'immagine metaforica della dea che
ghermisce gli uomini. Il vischio, tra l'altro, era caratterizzato dall'inattaccabilità
dal fuoco e dall'acqua, oltre ad essere molto usato in medicina.
Contatti con il mondo greco.
Sebbene questo culto risulti di origine italica, la figura di Fortuna subisce presto delle
trasformazioni, andandosi a sovrapporre fino a confondersi con quella della greca
Tyche. In età ellenistica, infatti, quello che era un concetto astratto, vale a dire il
“caso”, subisce un processo di progressiva personificazione e finisce per assumere via
via i caratteri di una divinità a tutti gli effetti; per questo la troviamo addirittura
destinataria di inni e spesso protagonista di rappresentazioni plastiche. Abbiamo
visto, infatti, come la dea sia in origine una divinità benigna, posta a protezione di vari
ambiti e categorie che potremmo definire sociali (assimilabile, in questo, al Genius,
sebbene questo abbia invece un carattere assolutamente personale), priva delle
qualità che ci aspetteremmo di scorgere in lei e che sono ancora oggi a noi familiari,
vale a dire l'instabilità, l'inaffidabilità, l'agire senza criterio: questi sono invece i tratti
che la dea mutuerà dalla Tyche ellenistica. L'influsso esercitato dalla dea greca appare
evidente in maniera particolare nel momento in cui prendiamo in considerazione la
sua iconografia: se abbiamo poche informazioni riguardo alle rappresentazioni
risalenti alla fase più antica del culto romano, tuttavia si notano facilmente i punti di
contatto con le raffigurazioni della divinità greca e che corrispondono, poi, alla
modalità di ritrarla che è rimasta viva ancora oggi nel nostro immaginario, ovvero
come una donna recante nella mano sinistra la cornucopia, simbolo di prosperità, e
nella destra – elemento a noi meno familiare – il timone, emblema del governo del
mondo.
Le differenze con l'iconografia più antica sono evidenti a prima vista:
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nella prima immagine, risalente al IV-II secolo a.
C. la Fortuna appare – per noi inaspettatamente
– mentre allatta un bambino e priva degli
attributi nominati sopra; essa era, infatti,
originariamente connessa con la sfera della
fecondità, come conferma infatti la sua
presenza all'interno dei Veneralia e dei
Matralia, festa in onore di Mater Matuta, antica
dea italica dotata di un tempio nel Foro Boario
adiacente a quello di Fors Fortuna.
Nelle due immagini seguenti, invece, la dea
assume sembianze a noi più familiari. La
statuetta in terracotta proveniente da Capua
databile al I secolo a. C. è una variante del
tipo iconografico tradizionale: essa è infatti
corredata, oltre che degli attributi
tradizionali (vale a dire la cornucopia nella
mano sinistra, il timone nella destra), di un
diadema posto intorno al capo.
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Quella a lato, risalente alla seconda metà del
II secolo d. C., è invece una raffigurazione
meno diffusa di Fortuna: la dea, con i
medesimi attributi della precedente, indossa
un copricapo orientale, elemento che è
indice dei forti contatti con l'ambiente
ellenistico.
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La Fortuna secondo gli antichi.
Passiamo ora in rassegna alcuni brani di storici, oratori, filosofi che, con i loro tentativi di
fornire una spiegazione al senso dell’operare della Fortuna nella vita di ciascuno,
costituiscono per noi una preziosa fonte per poter comprendere più a fondo il ruolo di
questa divinità nell’immaginario degli antichi Romani.
1) Pseudo-Sallustio, Epistula secunda ad Caesarem (I secolo a.C.)
Il brano che segue contrappone due modi diametralmente opposti di considerare la
Fortuna: alla tradizionale attribuzione alla volontà della dea dei beni di cui alcuni uomini
godono immeritatamente, l'autore controbatte con la famosa massima dell'oratore
Appio Claudio Cieco, secondo il quale ciascuno può modificare attivamente la propria
sorte, a prescindere da ciò che la Fortuna ha in serbo per lui.
[1] Pro vero antea obtinebat, regna, atque imperia fortunam dono dare, item alia,
quae per mortalis avide cupiuntur: quia et apud indignos saepe erant, quasi per
lubidinem data; neque cuiquam incorrupta permanserant. [2] Sed res docuit, id
verum esse, quod in carminibus Appius ait, “Fabrum esse suae quemque
fortunae”: atque in te maxume, qui tantum alios praetergressus es, uti prius defessi
sint homines laudando facta tua, quam tu laude digna faciundo.
Prima era considerata verità certa che la fortuna desse in dono regni e imperi ed
anche altre cose che sono desiderate avidamente dai mortali; poiché sia si
trovavano spesso presso uomini indegni, come se fossero stati dati per merito della
mancanza di moderazione; sia [questi beni] non erano rimasti integri a nessuno.
Ma l’esperienza ha insegnato che è vero ciò che Appio [Claudio Cieco] dice nei
suoi versi, che “ciascuno è artefice del proprio destino”: e soprattutto a proposito
di te, che stai per superare gli altri a tal punto che gli uomini si sono stancati di
lodare le tue azioni, prima che tu ti sia stancato di compiere gesta degne di lode.
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2) Publilio Siro, Sententiae (I secolo a.C.)
Publilio Siro è autore di una raccolta di massime e proverbi dell’antichità: vediamone
alcuni sul tema della Fortuna.
Ex hominum questu facta Fortuna est dea.
La Fortuna fu resa una dea dalle lamentele degli uomini.
Fortuna nimium quem fovet, stultum facit.
La Fortuna rende stolto chi favorisce troppo.
Fortuna hominibus plus quam consilium valet.
La Fortuna per gli uomini ha più valore della prudenza.
Levis est Fortuna: cito reposcit, quod dedit.
La Fortuna è incostante: presto richiede ciò che ha dato.
Legem nocens veretur, fortunam innocens.
Chi è colpevole teme la legge, chi è innocente la sorte.
Minimum eripit Fortuna, cui minimum dedit.
La Fortuna sottrae il minimo a colui al quale ha dato il minimo.
Nec vita nec fortuna hominibus perpes est.
Né la vita né la fortuna sono perpetue per gli uomini.
Stulti timent fortunam, sapientes ferunt.
Gli sciocchi temono la sorte, i saggi la sopportano.
Fortuna vitrea est; tum cum splendet, frangitur.
La fortuna è di vetro; come può splendere, così può infrangersi.
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3) Cicerone, Laelius de amicitia 54, 6 (I secolo a.C.)
A proposito della solitudine della vita dei tiranni, Cicerone valuta negativamente
l’operato della Fortuna: egli afferma infatti che, oltre ad essere tradizionalmente
raffigurata come cieca, la dea priva della vista anche chi è da lei favorito; per questo
motivo chi, nel momento in cui versa in una condizione di prosperità, manifesta un
atteggiamento arrogante non può che ritrovarsi ad essere solo e privo di veri amici.
Quamquam miror, illa superbia et importunitate si quemquam amicum habere
potuit. Atque ut huius, quem dixi, mores veros amicos parare non potuerunt, sic
multorum opes praepotentium excludunt amicitias fideles. Non enim solum ipsa
Fortuna caeca est, sed eos etiam plerumque efficit caecos, quos complexa est;
itaque efferuntur fere fastidio et contumacia, nec quicquam insipiente fortunato
intolerabilius fieri potest.
Del resto mi meraviglio che con quella superbia e odiosità sia riuscito ad avere
amico qualcuno. E come i comportamenti di questo che ho detto non poterono
procurargli veri amici, così i mezzi di parecchi strapotenti escludono amicizie
fedeli. Infatti non solo è cieca la Fortuna in sé, ma per lo più rende ciechi anche
quelli che ha abbracciato; e così sono quasi trasportati dall'alterigia e dalla fierezza
e niente può diventare più insopportabile di uno privo di senno favorito dalla
Fortuna.
4) Cicerone, Topica, 63 (I secolo a.C.)
In questo brano Cicerone si occupa del concetto di causa: cercando di darne una chiara
definizione l'autore descrive la fortuna come causa nascosta e incostante, tipica degli
avvenimenti dei quali non si riesce a dare una spiegazione razionale.
Omnium autem causarum in aliis inest constantia, in aliis non inest. In natura et
in arte constantia est, in ceteris nulla. Sed tamen earum causarum quae non sunt
constantes aliae sunt perspicuae, aliae latent. Perspicuae sunt quae appetitionem
animi iudiciumque tangunt; latent quae subiectae sunt fortunae. Cum enim nihil
sine causa fiat, hoc ipsum est fortuna, qui eventus obscura causa et latenter
efficitur. Etiam ea quae fiunt partim sunt ignorata partim voluntaria; ignorata,
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Progetto Latino III Millennio a.s. 2016/2017 - Prof.ssa Daria Ferrari: “La Fortuna nell’antica Roma”.
quae necessitate effecta sunt; voluntaria, quae consilio. Nam iacere telum
voluntatis est, ferire quem nolueris fortunae.
Tuttavia in alcune di tutte le cause vi è una costanza, in altre non vi è. Nella natura
e nell'arte c'è costanza, in tutte le altre cose non ve n'è alcuna. Ma tuttavia di quelle
cause che non sono costanti alcune sono evidenti, altre sono celate. Sono visibili
quelle che toccano il desiderio e il giudizio della mente; sono celate quelle che
sono sottomesse alla fortuna. Dal momento che, infatti, nulla accade senza una
causa, la fortuna è proprio questo, un evento che è prodotto da una causa oscura e
di nascosto. Inoltre le cose che accadono sono in parte involontarie, in parte
intenzionali. Sono involontarie quelle che sono prodotte dalla necessità;
intenzionali quelle che sono prodotte da una decisione. Infatti scagliare un dardo
è un atto di volontà, colpire qualcuno che non avresti voluto è determinato dalla
fortuna.
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