La fortuna del successo
Robert Frank, economista e docente alla Cornell University, è convinto che per
«farcela», nella vita, serva anche la fortuna. Impegno, talento e duro lavoro sono
necessari, ma non bastano. Una tesi criticata da più parti
/ 24.10.2016
di Stefania Prandi
Il duro lavoro, l’impegno, il talento, non bastano per riuscire ad avere successo nella vita: a contare
(a parità di sforzi e bravura) è anche la fortuna. A sostenere quest’idea, criticata da chi crede che la
buona sorte rappresenti un fattore secondario «per farcela», è Robert Frank, economista, docente
della Cornell University, nello Stato di New York, editorialista e scrittore bestseller. Al tema, che
studia da anni, ha appena dedicato un libro: Successo e fortuna: la buona sorte e il mito della
meritocrazia (Success and Luck: Good Fortune and the Myth of Meritocracy). Il testo, per ora solo in
inglese, pubblicato dalla Princeton University Press (tra gli atenei più prestigiosi al mondo), ha fatto
storcere il naso a più di una persona «di successo», che non ha apprezzato di vedere accostato il
proprio status a un elemento così imponderabile – e immeritato – come la buona sorte.
Ad attaccare la tesi di Frank anche alcuni lettori degli articoli apparsi nelle scorse settimane sui
principali giornali americani, contrariati dalla messa in discussione del sogno fondatore della società
americana del self made man, del chi si è fatto da sé. Frank si è difeso spiegando che la sua tesi non
deve essere fraintesa: certamente la fortuna da sola non basta, il talento è indispensabile, ma a
parità di competenze, fatica, disciplina, la buona sorte di trovarsi nel posto giusto al momento giusto
e di vedere i propri sforzi valutati da chi è disposto ad apprezzarli, risulta decisiva.
Ci sono diversi esempi famosi al riguardo: Al Pacino, attore indiscutibilmente dotato, è stato lanciato
grazie al Padrino, nonostante la Warner Brothers non lo volesse scritturare. Soltanto grazie
all’insistenza del regista Francis Coppola, all’epoca giovane e incurante delle dinamiche dello star
system, che si impuntò minacciando di abbandonare l’incarico, gli fece ottenere la parte da
protagonista di Michael Corleone. È quindi nato sotto una buona stella, perché «ci sono altre
migliaia di attori con grande talento che non hanno mai avuto la giusta opportunità per dimostrare le
loro capacità».
Una sorte simile è toccata a Bryan Cranston: è stato scritturato per la parte del protagonista in
Breaking Bad, una delle serie televisive di maggior successo di sempre, nonostante le resistenze dei
dirigenti. La sua fortuna? Il rifiuto di John Cusack e Matthew Broderick. Se non ci fosse stata questa
congiuntura, probabilmente Cranston non sarebbe diventato così celebre e non avrebbe vinto
quattro Emmy Award e un Golden Globe. Esempi simili si possono trovare in tutti gli ambiti: dalla
letteratura alla musica, dall’economia alla politica.
Secondo Frank, riconoscere di avere avuto fortuna è importante, perché permette di avere un
atteggiamento più costruttivo e realista rispetto alla realtà e al contesto in cui si vive. Come spiega
ad «Azione»: «riuscire a conquistare il successo significa spesso competere con altre migliaia di
persone. Per essere tra i pochi in grado di farcela bisogna che tutto vada bene».
Proprio perché la fortuna ha un’influenza, anche se piccola, sulla performance complessiva, di fatto
è determinante. Chi ce la fa, però, raramente se ne rende conto, un’inconsapevolezza che rinforza il
senso di essersi meritati i riconoscimenti, anche finanziari, e che rende meno inclini a contribuire al
bene comune. «Le conversazioni che ho avuto con le persone di successo dimostrano che un buon
modo per stimolarle, a questo proposito, è farle riflettere sul ruolo che avuto la fortuna nelle loro
vite chiedendo se possono fare degli esempi delle opportunità che li hanno aiutati a raggiungere il
top. Anche se ci possono essere delle reazioni negative, raramente sono di rabbia o difensive. Molti
apprezzano l’idea di elencare i nodi di svolta della propria vita. Esperimenti di laboratorio
dimostrano che quando le persone riflettono sul percorso che li ha portati al successo, diventano più
generose di quelle che invece non lo fanno. Inoltre ammettere di avere avuto la sorte dalla propria
parte contribuisce ad aumentare la stima e la considerazione da parte degli altri».
Addirittura riconoscendo quanto si è fortunati, si riesce a esserlo ancora di più. Gli scienziati sociali
hanno studiato la gratitudine in modo intensivo per vent’anni e hanno scoperto che produce una
varietà di cambi fisici, psicologici, e anche sociali. Robert Emmons dell’Università della California di
Davis e Michael McCullough dell’Università di Miami hanno fatto un esperimento che ha dimostrato
che tenere un diario dove elencare tutto quello che nella propria vita funziona aumenta la
sensazione di benessere e la lucidità, fa diventare più socievoli, fa sentire meno isolati e soli, riduce
l’ansia e diminuisce l’aggressività.
Da sottolineare, come ricorda Frank nel suo libro, che essere fortunati non vuol dire soltanto riuscire
a ottenere posizioni di successo che, in termini percentuali, sono riservate a pochi, ai winner-takeall. La buona sorte riguarda anche chi nasce e cresce in un Paese occidentale, con un sistema
legislativo sviluppato, con solide istituzioni educative, con infrastrutture, dove le possibilità di
ritagliarsi un proprio spazio sono diffuse. Si tratta di società che sono costate un lavoro collettivo
durato anni e che chi ha successo dovrebbe sostenere, attraverso donazioni e interventi a favore del
bene pubblico. È anche grazie all’ambiente favorevole, infatti, che i più fortunati ce l’hanno fatta. In
gran parte delle aree povere del pianeta, dove oltre all’assenza delle istituzioni ci sono guerre e
regimi autoritari, anche chi è pieno di talento non riesce ad emergere, magari non può nemmeno
andare a scuola.
«Come disse una volta Napoleone Bonaparte, l’abilità non è nulla senza l’opportunità».