5. Il tema della fortuna e della virtù a Roma Non è certo che la visione alternativa, molto sentita nell’epoca classica specialmente sotto l’influenza dell’ellenismo, di un uomo in preda ai capricci di un destino più o meno cieco, sia stata percepita come tale nella Roma arcaica. Infatti Roma conobbe assai per tempo la Fortuna, onorata sotto diversi nomi, secondo le funzioni, le azioni e i momenti di intervento attraverso i quali si manifesta nella vita della città: fortuna virilis, muliebris, virgo, privata, publica, equestris ecc. Questa Fortuna in epoca arcaica ha una fisionomia estremamente ambigua – come lo è sempre il pensiero mitico –, ora maschile, ora femminile, talvolta dotata di bisessualità, talvolta vergine e donna, o doppia, come le «Vere Sorelle» di Anzio, una delle quali porta il casco e l’altra il diadema. A volte la Fortuna sembra avere forme di azione così concrete che ci si può domandare se si tratti realmente di una divinità. La più ambigua di queste raffigurazioni è forse la Fortuna latina onorata a Preneste prima che, durante la seconda guerra punica, il suo culto venga ufficialmente introdotto a Roma. Essa porta il nome di Fortuna Primigenia e, nelle numerose dediche nel suo tempio, si trova associata a Giove bambino, puer, lattante. Ora, stando ad altri documenti – in particolare a un’iscrizione del III secolo a.C. –, la Fortuna di Preneste appare figlia di Giove: «Io, Orsevia, sposa di Numerius, a seguito di un parto felice ho fatto questo dono a Fortuna Primigenia, figlia di Giove». Chi è dunque questa Fortuna, figlia e insieme nutrice di Giove, il cui culto pare essere stato a Preneste in rapporto con la maternità e aver assunto aspetti oracolari? È merito di G. Dumézil averci dato, mediante un’analisi comparativa, la soluzione dell’enigma1. La primordialità implicita nell’appellativo Primigenia e la funzione sovrana di Giove sono qui espresse con l’uso di termini di filiazione. Ora, si conosce l’esistenza di una dea vedica, Aditi, madre di otto dei primordiali, Aditya. Essa è dunque la madre per eccellenza, ma è anche la figlia di uno di questi dei. La sua caratteristica principale è l’indeterminazione: Aditi è ciò che non è stabile: essa è il 1 cielo, l’atmosfera, la madre, il padre, i figli, essa è tutti gli dei, ciò che è nato e ciò che deve nascere (Rg. Veda, X, 72, 4). La formula enigmatica di Preneste può dunque interpretarsi così: ciò che nell’ordine cronologico è primo, non lo è nell’ordine della sovranità, e viceversa. Gli dei primordiali non sono gli dei sovrani. Ciò che resta, nel culto di Preneste, di questa eredità mitica indiana, si riassume in due funzioni: la protezione materna e una funzione oracolare che diviene predominante. Una tale articolazione tra una dea primordiale e una personalità oracolare non ha nulla di sorprendente. Nel mondo greco infatti, funzionarono sino all’epoca classica alcuni oracoli di Gaia, la Terra Madre. Ma in ambito romano ci mancano punti di riferimento per meglio comprendere come questa funzione oracolare si sia innestata nella personalità di Fortuna. Solamente la Fortuna d’Anzio, raffigurata dalle due sorelle maestre di verità, può offrire un valido termine di confronto; ma sulla sua duplice personalità siamo male informati. In ogni caso, ci colpisce il fatto che ciò che interessa i Romani, nel culto di queste Fortunate arcaiche, non è assolutamente la loro condizione mitica, bensì la loro capacità di rendere delle sortes, degli oracoli, che, nella misura in cui tali culti sono estranei al territorio di Roma, passeranno sempre per grossolani e popolari. In realtà, il concetto di Fortuna è sempre stato inteso dai Romani in funzione di interventi molto localizzati nel tempo e nello spazio. Si parlerà della «fortuna» di un combattimento e di quella di un generale. Vale a dire che il concetto astratto di Fortuna sarà sempre specificato al livello della sua manifestazione: in ciò si riconosce l’intelligenza pragmatica e prudente dell’uomo romano, che vive prima di tutto nel presente dell’azione. La Fortuna di un giorno non è quindi un dato immutabile, fissato a priori. Non si tratta di un destino determinante, che costringe l’uomo ad agire in un solo modo. È caratteristico della mentalità romana il fatto che questa ambiguità di Fortuna, quale l’aveva trasmesso la mitologia vedica, non diviene positiva o negativa, favorevole o contraria, se non quando è trasformata dall’azione dell’uomo. Così, in occasione della disfatta inflitta dai Galli ai Romani sull’Allia – e il cui cocente 1 . G. Dumézil, Déesses latines et mythes védiques, coll. Latomus, 25, 1956. 2 ricordo era commemorato da un dies religiosus – la Fortuna aveva accecato gli uomini in seguito a errori commessi dai consoli: violazione dello ius belli, errori di strategia, battaglia ingaggiata senza che fossero stati presi gli auspici e compiuti i sacrifici preliminari2. Il corollario è evidente: per l’uomo l’obiettivo principale è dunque quello di conoscere questa Fortuna, grazie a un empirismo creatore che respinge l’idea di un fatum, di un destino universale al quale sarebbero soggette le sorti dell’uomo. Ritroveremo quest’arte di vivere nelle figure di capi carismatici, sia che si tratti di Servio Tullio, di Camillo, di Silla o di Pompeo. È del resto sorprendente constatare che Plutarco riconosca in un trattato dedicato alla Fortuna dei Romani che la Fortuna romana è una divinità la cui funzione essenziale è quella di promuovere le qualità personali dell’individuo. Essa interviene per salvare Roma suscitando le iniziative di uomini dotati di capacità particolari, in una congiuntura ben precisa. Fortuna ci appare dunque un concetto teologico sfaccettato, non certo a causa di una sorta di incapacità religiosa dei Romani, ma conseguentemente alla loro inclinazione a vedere nella forza divina prima di tutto i suoi momenti precisi di intervento. Cosa dobbiamo pensare dell’ipotesi secondo cui la Fortuna romana sarebbe l’erede di una Fortuna etrusca? L’epopea romana attribuisce la fondazione del culto di Fortuna a Roma a Servio Tullio, re che la critica moderna identifica con un condottiero chiamato Mastarna, che si era messo al servizio dei fratelli Vibenna a Vulci, prima di passare al servizio di Tarquinio. Ora, gli Etruschi erano maestri nell’arte della divinazione. Ci possiamo chiedere se non sia da ravvisarne qui un’eredità specifica, tanto più che è ben nota l’importanza dei legami commerciali e culturali tra Roma e l’Etruria. Ma si tratta solo di supposizioni, tanto più che la religione etrusca pare essere stata dominata, molto più della religione romana, dalla nozione di un fatum pressoché sovrano. Resta il fatto che i Romani non hanno molto creduto a un destino a lungo termine e alla sua forza vincolante e hanno preferito vedere in Fortuna una divinità il cui intervento occasionale poteva essere vantaggioso quando gli uomini che decidevano di agire avevano una virtus sufficiente a influenzare il destino in loro favore. 2 (M. Meslin, L'uomo romano, Mondadori, Milano, 1981) . Cfr. Tito Livio, V, 37-38. 3