A mio padre e a mia madre UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PERUGIA Facoltà di Medicina e Chirurgia Corso di Laurea in Fisioterapia Presidente Prof.ssa Maria Bodo Lumare ASPETTI COGNITIVI E COMPORTAMENTALI NEL TRATTAMENTO RIABILITATIVO DELLA SINDROME FRONTALE Relatore Dott. Mauro Zampolini Candidata Manuela Micanti AA “ La Creazione di Adamo” Michelangelo Buonarroti, 1511 Osservando la volta della Cappella Sistina l'occhio del medico può cogliere nella "Creazione di Adamo" insospettate somiglianze tra l'immagine di Dio che infonde lo spirito in Adamo, e l'immagine di un cervello umano. Nella "Creazione di Adamo", con enorme sorpresa, è stato infatti constatato che il gruppo di angeli attornianti la figura di Dio crea una sagoma incredibilmente simile all'immagine di una sezione sagittale del cervello. Sono ben visibili il contorno della volta del cervello, e della base; l'arco del braccio sinistro di Dio delinea il giro del cingolo, il panneggiamento verde alla base descrive il corso dell'arteria vertebrale; la schiena dell'angelo che sorregge Iddio corrisponde al ponte di Varolio, mentre le sue gambe si prolungano a costituire il midollo spinale. Perfino il dettaglio della struttura bilobata dell'ipofisi è riprodotto fedelmente nel piede apparentemente bifido di un angelo, a differenza degli ordinari piedi di Dio e degli altri cherubini, dotati delle consuete cinque dita; mentre la coscia dello stesso angelo si staglia in corrispondenza del chiasma ottico. Il dito indice di Dio, che punta verso Adamo, e lo rende umano, emerge dalla corteccia prefrontale. Nessuno sa se l’allegoria fosse stata cercata da Michelangelo, o se si tratti di una coincidenza. D’altra parte, è difficile immaginare un simbolo più potente del profondo effetto umanizzante dei lobi frontali: essi sono davvero l’ ”organo della civiltà”. Premessa Il movimento e la sua patologia possono essere analizzati facendo ricorso a ottiche diverse nei vari ambiti scientifici. In riabilitazione, dove il paradigma di base è quello dell’apprendimento o il riapprendimento di strategie, è necessario analizzare il comportamento umano nella sua globalità. Fino a pochi anni fa la riabilitazione neuromotoria era focalizzata selettivamente sui pattern motori. Più recentemente, si è sempre più delineata l’importanza delle strategie comportamentali in relazione al contesto ambientale come base per facilitare o inibire specifiche attività motorie. Argomento del presente lavoro è l’interpretazione del comportamento alla luce delle attuali conoscenze sul funzionamento del sistema nervoso e la sua ricaduta pratica nella riabilitazione neuromotoria. Le neuroscienze sono diventate una chiave di lettura generale dell’interazione dell’uomo o degli animali con l’ambiente, correlando l’attività neuronale a specifici comportamenti, in un modo che solo fino a qualche anno fa nessuno avrebbe avuto l’idea di analizzare mediante uno studio sperimentale; la stessa didattica sta sempre più assumendo un’ottica fondata sulle neuroscienze, utilizzando programmi e modalità di valutazione che fanno riferimento diretto alle teorie dell’apprendimento nei termini della relazione tra processi mentali e strutture cerebrali. La metodologia di riferimento è fornita dalla neuropsicologia, il settore delle neuroscienze che è nato come studio dei disturbi cognitivi e del comportamento conseguenti ad una patologia cerebrale ma che rapidamente, e ancor più ai nostri giorni grazie al contributo delle più recenti tecnologie, è divenuta studio del comportamento a tutto campo. Le conseguenze neuropsicologiche di una lesione cerebrale, coinvolgono sia le componenti comportamentali che quelle cognitive. I disturbi cognitivi, riflettendo i deficit organici e quelli funzionali derivanti dalla lesione cerebrale, rappresentano un grave e costante problema, interferendo con i processi di recupero, con l’equilibrio psichico e comportamentale e con le possibilità di reinserimento scolastico e lavorativo. I processi cognitivi che implicano la prontezza di risposta ad uno stimolo sensoriale, l’attenzione, la capacità di capire le informazioni, l’inizio, l’inibizione, la pianificazione e l’obiettivo dell’attività mentale, sono tutti esempi della funzione cognitiva essenziale che converte il movimento in un’azione diretta e mirata. Quindi la disfunzione del movimento può essere il risultato sia del deficit delle capacità cognitive che di quelle motorie. La scelta di sviluppare un tema complesso come quello della sindrome frontale, così come l’impostazione generale del lavoro, è stata fortemente influenzata dalla professionalità e competenza dimostrata da coloro che si occupano di rieducazione presso quegli Istituti di Riabilitazione in cui ho fatto le mie prime esperienze, dove la neuropsicologia viene considerata una scienza eminentemente interdisciplinare per la gestione di queste problematiche. All’interno di queste strutture ho potuto osservare direttamente gli effetti devastanti di questa patologia sul comportamento dei soggetti colpiti; da questo ho maturato la consapevolezza che la rieducazione fisica dei pazienti con lesioni frontali richiede un’approfondita conoscenza non soltanto delle funzioni motorie, ma anche di tutte le altre funzioni corticali superiori. Per queste ragioni, questo lavoro affronta il tema della riabilitazione neuromotoria da una prospettiva più ampia, che è quella neuropsicologica. Ringraziamenti Questa tesi è il risultato di un percorso di studi ma, soprattutto, di un percorso interiore che mi ha portato a scegliere questo argomento per due ragioni: la prima, che è più facile da esprimere, è stato un interesse personale nei confronti di una patologia che, per la sua complessità, risulta spesso difficile da interpretare ed altrettanto difficile da trattare in riabilitazione; la seconda ragione, che è più significativa, è stata la crescente consapevolezza che a volte, per dare un significato alla riabilitazione, è necessario guardare oltre le conoscenze didattiche che può fornire un Corso di Laurea in Fisioterapia. Sono riconoscente a tutte le persone che hanno contribuito a trasmettermi questo genere d’interesse: a tutti i Coordinatori del Corso di Laurea in Fisioterapia, per essersi resi sempre disponibili nel venire incontro alle esigenze di tutti noi studenti; a tutti i tutor e ai docenti, per avermi insegnato, non solo gli aspetti metodologici, ma soprattutto quelli propriamente umani della professione e grazie ai quali ho avuto modo di mettere alla prova le mie capacità; a tutti i pazienti, per avermi dato l’opportunità di apprendere dalle loro condizioni patologiche. Desidero ringraziare coloro che, operando presso l’Unità Operativa di Riabilitazione Intensiva Neuromotoria (U.O.R.I.N.) di Trevi, hanno collaborato all’elaborazione di questo lavoro: il Dott. Mauro Zampolini, per la sua disponibilità e per aver suscitato in me una profonda inclinazione nei confronti della riabilitazione neuromotoria; Rita Moretti, logopedista del Servizio di Neuropsicologia, che ha ispirato il mio lavoro e messo a disposizione la sua professionalità dedicandomi il suo tempo; ancora, la Dott.ssa Elisabetta Todeschini, Responsabile dell’U.O.R.I.N., presso il quale ho seguito l’iter riabilitativo del paziente; infine, ringrazio il paziente e la sua famiglia, per avermi consentito di descrivere la sua storia. A tutte queste persone, grazie… Indice Introduzione _________________________________________________________ 1 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale___________________________________ 3 1.1 Lobo frontale e sviluppo cognitivo ________________________________________3 1.2 Organizzazione del movimento e pianificazione dell’azione____________________5 1.3 Richiami anatomici_____________________________________________________6 1.3.1 Corteccia motoria _________________________________________________________7 1.3.2 Corteccia premotoria _______________________________________________________8 1.3.3 Corteccia prefrontale _______________________________________________________9 1.3.4 Corteccia prefrontale dorsolaterale____________________________________________11 1.3.5 Area frontale oculocefalogira ________________________________________________12 1.3.6 Corteccia cingolare anteriore ________________________________________________12 1.3.7 Corteccia orbitofrontale ____________________________________________________13 2. La sindrome frontale _______________________________________________ 15 2.1 Patogenesi __________________________________________________________16 2.2 Sindrome frontale e trauma cranico ______________________________________17 2.3 Strategie comportamentali e sindrome disesecutiva _________________________18 2.4 Disturbi del comportamento e della personalità_____________________________22 2.5 Disturbi dell’attenzione ________________________________________________26 2.6 Disturbi di memoria ___________________________________________________28 2.7 Disturbi dell’apprendimento ____________________________________________30 2.8 Disturbi del linguaggio _________________________________________________31 2.9 Anosognosia __________________________________________________________32 2.10 Confabulazione ______________________________________________________32 2.11 Disinibizione / Disforia ________________________________________________33 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi________________ 35 3.1 Plasticità neuronale ___________________________________________________36 3.2 La riabilitazione come apprendimento ____________________________________39 3.2.1 Comportamentismo ________________________________________________________40 3.2.2 Cognitivismo _____________________________________________________________43 3.2.3 Conclusioni ______________________________________________________________46 3.3 La riabilitazione neuropsicologica ________________________________________47 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale ________________ 49 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali ________________ 61 5.1 Riabilitazione dei disturbi delle funzioni esecutive __________________________62 5.2 Trattamento dei disturbi comportamentali_________________________________67 5.2.1 Trattamento dei comportamenti inadeguati “in difetto” ____________________________69 5.2.2 Trattamento dei comportamenti inadeguati “per eccesso” __________________________70 5.2.3 Trattamento dei comportamenti inadeguati per condizioni, tempi e modalità____________72 5.2.3.1 Trattamento dei disturbi della consapevolezza ____________________________ 72 5.2.3.2 Trattamento della disinibizione________________________________________ 73 5.2.3.3 Trattamento della confabulazione______________________________________ 74 5.3 Conclusioni ___________________________________________________________74 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso _______________________________________________________ 76 6.1 Problem solving _______________________________________________________76 6.1.1 I “passi” del processo di problem solving_______________________________________77 6.2 Descrizione di un caso clinico ____________________________________________79 6.2.1 Materiali e metodi dello studio _______________________________________________82 6.2.2 Risultati _________________________________________________________________86 6.2.3 Discussione dei risultati ____________________________________________________97 Conclusioni ________________________________________________________ 100 Bibliografia ________________________________________________________ 103 Introduzione Introduzione Il comportamento di un individuo con lesione cerebrale è direttamente collegato all’integrità della funzione cognitiva: i disturbi comportamentali sono le manifestazioni esterne osservabili quando l’individuo, privato di questa facoltà, reagisce o risponde all’ambiente circostante. I test neuropsicologici , le valutazioni del linguaggio e della parola, gli esami visivi e percettivi e le analisi comportamentali e sociali sono esempi di strumenti clinici utilizzati per determinare il livello del disturbo cognitivo e comportamentale. Il terapista deve saper interpretare il deficit sia delle lesioni fisiche e cognitive, sia del modo in cui queste interagiscono, per disporre di un quadro clinico completo che rispecchi il vero livello di disabilità del paziente. Esprimere il livello di capacità fisica di un soggetto, senza far riferimento ai deficit cognitivi, può portare ad una errata valutazione del livello di indipendenza funzionale. Questo implica anche il fatto che il terapista deve allargare le proprie prospettive ed aspettative ai risultati funzionali e al ruolo della sua attività nella rieducazione funzionale: un individuo che può muoversi da solo in casa, ad esempio, ma non è capace di chiamare aiuto in caso di emergenza, è tanto dipendente dall’assistenza, quanto un individuo che sa chiamare aiuto, ma non può muoversi. Mentre il terapista non è il membro dell’equipe principalmente responsabile della valutazione delle lesioni cognitive e comportamentali, è invece responsabile della possibilità di espandere le abilità fisiche nel contesto di un comportamento determinato, che porti a risultati funzionali, rilevanti e di successo. Questo approccio, che enfatizza gli aspetti più specificatamente cognitivi del comportamento, è particolarmente adatto per affrontare i problemi della riabilitazione dei disordini neuropsicologici, e permette di definire i limiti che la struttura stessa del sistema cognitivo e l’organizzazione delle aree corticali che sottendono tali processi impongono sulle possibilità di recupero funzionale. Per evitare che la riabilitazione si basi su criteri puramente empirici, che rischierebbero di produrre comportamenti riabilitativi non replicabili o generalizzabili, è necessario che la diagnosi clinica del danno si accompagni alla conoscenza dei modelli neurocognitivi delle funzioni interessate, affinché possano 1 Introduzione essere sollecitati e messi in atto i meccanismi risparmiati dalla lesione in modo da poter sfruttare tutto il potenziale cognitivo del paziente in funzione del recupero. La complessa sintomatologia neuropsicologica conseguente a lesioni dei lobi frontali (soprattutto delle loro porzioni anteriori) va conosciuta da coloro che si occupano di rieducazione per almeno due importanti ragioni: 1) molto spesso questi pazienti sono apatici, hanno scarsa iniziativa, mancano di senso critico e autocritico, sono indifferenti alla propria malattia: al contrario, talora possono presentarsi inappropriatamente euforici e quindi essere poco collaboranti con il rieducatore. Questo comportamento non va erroneamente interpretato come disturbo psichiatrico o altro, ma va riconosciuto come sintomo caratteristico della sindrome; 2) i difetti perseveratori (motori e verbali), i deficit attentivi e il disturbo di memoria possono gravemente ostacolare il compito del rieducatore. Alla luce di queste considerazioni l’intervento riabilitativo deve tener conto di tutti i parametri del comportamento ritenuti soggettivi ( intenzionalità, attenzione, motivazione, spazialità, ecc…) poiché la lesione altera la capacità di elaborare significativamente le informazioni esterne, che a loro volta influenzano il movimento, espressione di un gesto motorio evoluto che deve essere significativo, ossia avere una precisa relazione con il contesto. In questo lavoro viene presentata una revisione critica sull’argomento, accompagnata da uno studio su un caso clinico di sindrome frontale. Il taglio complessivo è neuropsicologico clinico, al fine di fornire gli elementi semeiotici fondamentali per poter riconoscere una sindrome frontale e per guidare lo sviluppo di interventi terapeutici che facilitino l’apprendimento di comportamenti sempre più complessi in condizioni patologiche. Nella parte finale verrà esposto l’iter riabilitativo di un paziente, focalizzato sull’apprendimento e l’attuazione del problem-solving. Questa descrizione intende da un lato favorire la comprensione della patologia frontale e dall’altro permette di osservare “sul campo” l’impatto di una strategia di intervento, con uno sguardo particolare al profilo globale del paziente, con le sue peculiarità e problematiche sia cliniche che umane. 2 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale Capire il ruolo dei lobi frontali nella cognizione umana rimane una sfida per i neurologi ed i neuroscenziati. Tuttavia, i dati ottenuti da studi recenti di neurofisiologia dimostrano che il comportamento finalizzato dipende criticamente dalla funzione dei lobi frontali e, in modo specifico, dalla corteccia prefrontale. In questo capitolo viene avanzata l’ipotesi che una conoscenza approfondita dei meccanismi neuronali che stanno alla base della funzione della corteccia prefrontale, può aiutarci a capire i deficit derivanti da una sindrome frontale e, cosa più importante, può potenzialmente guidare lo sviluppo di interventi terapeutici efficaci. 1.1 Lobo frontale e sviluppo cognitivo I lobi frontali, che nell’uomo costituiscono da soli circa 1/3 della corteccia cerebrale, sono l’ultima conquista nell’evoluzione del sistema nervoso e raggiungono uno sviluppo significativo solo negli esseri umani. Un’ipotesi molto seguita, anche se non universalmente accettata, associa ai lobi frontali, ed in modo particolare alle loro aree prefrontali, le funzioni intellettive superiori. Esistono molte ragioni per attribuire alla corteccia prefontale tali funzioni: nell’uomo è una delle regioni corticali a subire la maggiore espansione sia nel corso dell’evoluzione che nella maturazione individuale, è una delle strutture cerebrali filogeneticamente più recenti e tra quelle che maturano più lentamente nel corso dell’ontogenesi, inoltre essa è molto più sviluppata rispetto alle altre aree corticali, tanto da farla sembrare la parte della corteccia tipicamente umana. Il prolungato sviluppo, relativamente ampio, della corteccia prefrontale, è evidente sia nella morfologia che nella struttura: essa è estremamente ricca di connessioni efferenti ed afferenti che la collegano a tutti i sistemi funzionali del cervello. Durante lo sviluppo individuale, la tarda maturazione è associata alla tarda mielinizzazione delle sue connessioni assonali. Questo ed altri segni di sviluppo morfologico sono correlati con lo sviluppo delle funzioni cognitive, attribuite a questa corteccia dai più recenti studi neuropsicologici sugli animali e sull’uomo. Legati all’intenzionalità, alla determinazione e all’attività decisionale complessa, i lobi frontali sono coinvolti in tutti gli aspetti del comportamento adattivo 3 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale all’ambiente e sono fondamentali ai fini di tutti i comportamenti di ordine superiore diretti ad uno scopo: l’identificazione dell’obbiettivo, la progettazione e l’ideazione di piani per raggiungerlo, l’organizzazione dei mezzi con i quali tali piani possono essere eseguiti, il monitoraggio e la valutazione delle conseguenze per la verifica del risultato. Essi sono essenziali per la coscienza superiore, il giudizio, l’immaginazione, l’empatia; guidano l’essere umano nelle novità, nelle innovazioni e nelle avventure della vita, sono fondamentali per la motivazione, l’attenzione, l’impulso, la capacità di previsione e la chiara visione dei propri obiettivi, elementi essenziali affinché qualsiasi processo di apprendimento vada a buon fine e per conseguire il successo in molte attività. In altre parole i lobi frontali rappresentano quell’unica parte del cervello che fa di un individuo ciò che è, definisce la sua identità e ne racchiude pulsioni, ambizioni, personalità ed essenza. La cognizione umana guarda avanti, prende attivamente l’iniziativa piuttosto che limitarsi a reagire, è mossa da obiettivi, piani, aspirazioni, ambizioni e sogni, tutte cose che hanno a che fare con il futuro e non con il passato. Queste facoltà cognitive dipendono dai lobi frontali ed evolvono con essi. In senso lato, i lobi frontali sono il meccanismo per liberarsi dal passato e proiettarsi nel futuro, conferiscono all’organismo l’abilità di crearsi i modelli neurali delle cose, quale prerequisito per far si che quelle cose accadano, modelli di ciò che non esiste ancora ma che noi vogliamo portare in essere. La civiltà non avrebbe mai potuto sorgere senza il grande sviluppo, nel cervello umano, dei lobi frontali. D’altra parte, uno scarso sviluppo, o una lesione che li abbia danneggiati, possono produrre un comportamento privo di vincoli sociali e di senso di responsabilità. Poiché essi non sono legati ad una singola funzione facilmente definibile, le prime teorie sull’organizzazione del cervello negarono loro qualsiasi ruolo importante ed essi furono anzi indicati come “lobi silenti”, zone del cervello cioè la cui lesione non dava origine a manifestazioni clinicamente evidenti. Questa considerazione aveva implicazioni cliniche dirette, basta pensare al successo della pratica della lobotomia frontale; tuttavia il paradosso risultava evidente e costituiva il cosiddetto “enigma dei lobi frontali”. Sulla scorta dello sviluppo storico delle conoscenze e di quanto è attualmente noto, le difficoltà incontrate nella comprensione del ruolo dei lobi frontali appaiono giustificate. Il fatto è che la sintomatologia frontale non si 4 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale manifesta attraverso deficit specifici di senso o di moto ma con una disorganizzazione generale del comportamento. 1.2 Organizzazione del movimento e pianificazione dell’azione Mentre l’esecuzione di un movimento riflesso o automatico richiede un montaggio relativamente semplice in quanto biologicamente determinato e strettamente dipendente dalla maturazione neurologica e fisiologica, la realizzazione di un movimento intenzionale è molto sofisticata. Atto finale di una serie di tappe computazionali, esso dipende dalla combinazione di maturazione, motivazione, pratica e possibilità di apprendimento: si parla pertanto di pianificazione dell’azione. E’ importante notare che mentre alcune funzioni incluse in questa “concatenazione” rinviano a strutture primarie sensomotorie (corteccia motoria e somestesica) altre si basano su processi cognitivo-comportamentali (corteccia premotoria, corteccia prefrontale, corteccia parietale) ( Figura 1). In più, questo insieme funziona essenzialmente in modalità ad “anello chiuso”. Le afferenze somestesiche informano di ritorno sia le aree primarie che quelle associative. La scelta del o dei programmi è legata intimamente al lavoro centrale compiuto dalle strutture associative (corteccia prefrontale, corteccia cingolare anteriore, corteccia parietale posteriore) in un contesto motivazionale. Il programma scelto corrisponde a una classe generale di risposte motorie adatta allo scopo motivato. La pianificazione dell’azione è in generale fondata su una concezione gerarchizzata: Hughlings Jackson l’ha modellata mescolando localizzazionismo e filogenesi. Così, ogni settore corticale o sottocorticale sottende una funzione. In seguito le archeostrutture si vedono infeudate nelle paleostrutture e infine le paleostrutture nelle neostrutture. Questo modo di pensare domina lo studio del funzionamento neuronale in rapporto con il movimento fin negli anni 1980. La concezione gerarchizzata o diacronica ha visto attenuato il suo peso da lavori più recenti in anatomia, elettrofisiologia e indagini per immagini funzionali. In particolare il lavoro di Godman-Rakic ha rivelato che diverse aree associative, tra cui la corteccia parietale posteriore, sono formate da sottoinsiemi che si attivano simultaneamente durante la pianificazione dell’azione (Godman-Rakic, 1988). Infine gli studi, soprattutto nell’uomo, con 5 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale immagini funzionali (RMNf, PET, MEG), fanno emergere chiaramente la nozione di reti attive in modalità parallela in numerosi compiti cognitivo-motori. In altri termini, il concatenamento in reti distribuite in parallelo tende a instaurare un funzionamento sincrono delle strutture che partecipano alla pianificazione e all’esecuzione dell’azione. 1.3 Richiami anatomici La corteccia frontale, sita anteriormente alla circonvoluzione post-centrale, può essere suddivisa in tre regioni principali: la circonvoluzione precentrale, la regione premotoria e la regione prefrontale. Nei mammiferi inferiori esiste un’unica regione senso-motoria che incorpora sia l’area motoria che l’area premotoria. Queste due aree si differenziano nei carnivori, nei quali cominciano a comparire elementi cellulari caratteristici della corteccia prefrontale, la quale giunge a pieno sviluppo solo nei primati ed in particolare nell’uomo. Il processo di ontogenesi è parallelo alla filogenesi: prima si differenzia l’area motoria, poi quella premotoria ed infine quella prefrontale. Quest’ultima giunge a pieno sviluppo solo tra i 7 e i 12 anni di età: infatti, il processo di mielinizzazione delle fibre nervose termina nelle aree prefrontali. Questo dato ontogenetico va di pari passo con l’osservazione di comportamenti perseverativi in risposta ad ordini verbali complessi (sintomo, questo, presente in pazienti adulti affetti da lesioni frontali) in bambini di 3-4 anni di età. Lo sviluppo importante del lobo frontale è dunque caratteristico delle specie più evolute, in particolare di quella umana. Questo fatto, insieme alla particolare sintomatologia neuropsicologica osservata a seguito di lesioni dei lobi frontali, ha indotto molti Autori ad attribuirgli un ruolo cruciale nella regolazione dei comportamenti più complessi ed “intelligenti”, cioè del comportamento tipicamente “umano”. 6 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale Figura 1. Aree corticali primarie e associative implicate nella pianificazione dell’azione. La numerazione corrisponde alla classificazione di Brodmann. Corteccia motoria area 4; corteccia somestesica aree 3, 1, 2: corteccia premotoria area 6 (faccia laterale); area motoria supplementare area 6 (faccia mesiale); area frontale oculocefalogira area 8. Settore prefrontale: corteccia dorsolaterale prefrontale area 46, 45, 9 e 10, corteccia orbitofrontale 47, 25, 11 e 10. L’area 10, iscritta nei punteggiati, è comune ai due territori. Corteccia cingolare anteriore area 24 c, 32 (faccia mesiale). Settore parietale posteriore: aree 5 e 7 (7a e 7b) allargate alle aree 39 e 40 (da Gazzaniga et al., modificata). 1.3.1 Corteccia motoria La corteccia motoria si trova nella regione pre-centrale (area 4 di Brodmann) (figura 1), anteriormente al solco centrale ed occupa all’incirca il terzo posteriore dei lobi frontali. Dall’area 4 partono i comandi motori per i motoneuroni del tronco dell’encefalo e del midollo. Si caratterizza per la presenza di cellule piramidali giganti del Betz nel 4° strato e per la completa assenza dello strato granulare. La funzione motoria di quest’area e la rappresentazione corticale con ordinamento somatotopico sono note dalla seconda metà dell’800: zone diverse del corpo sono rappresentate in zone diverse della corteccia. I muscoli del volto sono rappresentati nella parte inferiore del giro 7 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale precentrale, sulla superficie laterale dell’emisfero, mentre braccio, tronco e gamba sono rappresentati più medialmente. I gruppi muscolari deputati ai movimenti fini hanno una rappresentazione più ampia rispetto ai gruppi muscolari deputati ai movimenti grossolani. Secondo la visione tradizionale, basata sulle interpretazioni di Jackson e di Sharrington, la corteccia motoria sarebbe organizzata in termini di movimenti, cioè coordinerebbe e comanderebbe la contrazione di interi gruppi muscolari. Questa visione si basava sul fatto che stimolazioni elettriche sulla superficie corticale provocavano la contrazione di molti muscoli contemporaneamente, mantenendo la relazione attesa tra agonisti e antagonisti. Per stimolare le cellule motrici dell’area 4 della superficie corticale è necessaria una corrente che penetri in profondità fino al 5° strato dove sono localizzati i motoneuroni. Gli esperimenti di Asanuma e colleghi invece hanno dimostrato, stimolando la corteccia con microelettrodi profondi, l’esistenza di zone discrete di neuroni efferenti che controllano la contrazione di singoli muscoli. Gli sudi di Asanuma hanno anche dimostrato che questi neuroni ricevono degli impulsi afferenti dagli stessi muscoli a cui proiettano. Inoltre le cellule che proiettano ad un particolare pool di motoneuroni spinali si raggruppano in colonne radiali del diametro di circa 1 mm. Altri studi hanno mostrato che i neuroni corticali, oltre a far contrarre singoli muscoli, codificano la forza con cui il muscolo si deve contrarre, sia la velocità di variazione della forza che il livello di forza in condizioni statiche. 1.3.2 Corteccia premotoria Le cortecce premotorie comprendono la parte posteriore delle tre circonvoluzioni frontali. Situate davanti alla corteccia motoria primaria si differenziano da questa per l’assenza delle cellule giganti e per la presenza di grosse cellule piramidali nel 3° strato. Hanno un ruolo importante nella pianificazione dell’azione, integrando delle informazioni sensoriali necessarie alla realizzazione del gesto e controllando l’attività dei neuroni della corteccia motoria primaria. La realizzazione di un movimento armonioso richiede la combinazione di numerosi muscoli la cui contrazione obbedisce ad una programmazione spazio-temporale precisa. 8 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale Le cortecce premotorie sono implicate nella coordinazione e nel concatenamento nel tempo delle contrazioni muscolari sinergiche necessarie per la realizzazione dell’atto motorio, in funzione del contesto motivazionale e ambientale. Diverse regioni corticali intervengono in questa funzione; ognuna di esse realizza un trattamento parallelo dell’informazione. Si distinguono due tipi principali di corteccia premotoria, situati rispettivamente in regione dorsolaterale (area 6 laterale) e mediana (area 6 mediana o area motoria supplementare) (figura 1). Sono a loro volta suddivise in diverse aree che hanno delle specificità funzionali e delle connessioni anatomiche proprie. Un elemento importante che determina il funzionamento delle regioni premotorie è la loro connessione con il lobo parietale. Esistono in effetti delle proiezioni precise tra ogni regione della corteccia parietale e ogni regione della corteccia premotoria. Questi circuiti prefrontali rappresentano altrettanti moduli di trattamento dell’informazione in seno ai quali si elaborano gli schemi motori fondamentali o rappresentazioni centrali dell’attività gestuale (coordinazione vasomotoria, prensione, manipolazione, pianificazione sequenziale). D’altra parte, l’attività in seno a queste cortecce premotorie viene modulata da altre cortecce associative prefrontali situate più a monte nel processo decisionale. Queste prendono in carico gli aspetti motivazionali (corteccia orbitofrontale e cingolare) e computazionali (corteccia prefrontale dorsolaterale) del comportamento. 1.3.3 Corteccia prefrontale La regione prefrontale comprende la parte anteriore delle tre circonvoluzioni frontali, il giro frontale mesiale e il giro orbitale,corrispondente alle aree 9, 10, 11, 12, 46, 47 secondo la classificazione di Brodmann (fig. 1). Tali aree si distinguono dalle regioni attigue (aree 4, 6 e 8) per l’assenza di cellule piramidali giganti, per il considerevole sviluppo dello strato granulare e per le connessioni talamiche. La regione prefrontale è collegata con le aree corticali di elaborazione delle informazioni visive, acustiche e somestesiche (lobi occipitale, temporale e parietale), con le restanti aree frontali (motorie), con il sistema limbico, principalmente tramite il nucleo dorso mediale del talamo, e con l’ipotalamo. 9 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale Le aree prefrontali occupano una posizione unica nell’economia cerebrale, perché non esiste funzione cognitiva cui esse siano estranee, e che quindi non risenta della loro sofferenza, e non esiste nemmeno funzione che esse assolvano in modo esclusivo, e quindi venga meno in loro assenza. La loro peculiarità sembra consistere nel provvedere l’intera attività cognitiva e comportamentale di regole e modalità che sono indispensabili perché l’orizzonte del soggetto sia abbastanza ampio da consentirgli scelte coerenti e decisioni proficue, evitando invece quelle in prospettiva dannose o inutili. Esse appaiono in tal modo al centro dell’attività nervosa cui sono connesse le qualità intellettive e caratteriali che connotano la personalità dell’individuo e ne determinano lo stile di vita. La pianificazione dei comportamenti si basa su un’analisi cognitiva delle informazioni che porta a delle risposte comportamentali adeguate alle condizioni dell’ambiente. Qualsiasi attività finalizzata presuppone tuttavia uno stato motivazionale sufficiente, così come una capacità da parte del soggetto di focalizzare la sua attenzione su alcuni aspetti del trattamento dell’informazione. Questi due elementi fondamentali, motivazione e attenzione, sono intimamente legati e rappresentano la base stessa dell’intenzionalità dell’azione, che sottende qualsiasi processo decisionale. Il ruolo della corteccia prefrontale è fondamentale nella formazione di scopi e obbiettivi e nell’ideazione dei piani d’azione necessari per raggiungerli, selezionando le abilità cognitive necessarie per realizzare i piani, coordinando quelle abilità e applicandole nel giusto ordine. La corteccia prefrontale è responsabile della valutazione delle nostre azioni, classificandole come successi o fallimenti in base alle nostre intenzioni. Diverse regioni associative della corteccia prefrontale, organizzate in circuiti funzionali con le strutture sottocorticali, sono implicate nella regolazione di questi fenomeni. La loro conoscenza nell’uomo si basa soprattutto sulle tecniche di imaging funzionale (RMNf, PET, MEG) che danno una visualizzazione globale del funzionamento del cervello in situazione comportamentale. Hanno permesso di descrivere, in maniera più o meno esaustiva, le reti implicate nell’una o nell’altra funzione cognitiva, senza autorizzare, tuttavia, la comprensione dei meccanismi neuronali che sottendono queste funzioni. 10 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale 1.3.4 Corteccia prefrontale dorsolaterale La corteccia frontale dorsolaterale, che ingloba le aree 9, 46, 45 e una parte dell’area 10, è sede delle funzioni cognitive più alte nell’uomo. La sua lesione perturba l’analisi, il trattamento sequenziale, il mantenimento cosciente di informazioni pertinenti e l’elaborazione di piani d’azione adeguati ai vincoli ambientali. Queste funzioni sono assicurate grazie alle numerose afferenze che riceve dalle altre cortecce associative. Una migliore conoscenza delle proprietà cognitive fondamentali che sottendono le funzioni della corteccia prefrontale è stata ottenuta grazie agli studi di elettrofisiologia nel primate non umano. I primi sono stati centrati soprattutto sulla memoria a breve termine, detta memoria di lavoro, mostrano che quando si introduce un intervallo tra uno stimolo visivo e una risposta, numerosi neuroni di questa area presentano un’attività sostenuta. Goldman-Rakic riferisce come i neuroni dell’area 46 scatenino, in un compito ritardato, una cascata di eventi che produce delle cascate oculari molto finalizzate (Goldman-Rakic, 1988 ). Questo tipo di attività è fondamentale per numerose attività cognitive. Questi dati sono stati in seguito confermati nell’uomo grazie alle tecniche di imaging funzionale. I comportamenti complessi non si basano tuttavia solo su una memorizzazione. Le informazioni debbono essere selezionate e integrate con altri messaggi pertinenti. Un’altra funzione essenziale è quella di permettere la focalizzazione volontaria dell’attenzione su certi stimoli, pensieri o atti. Questo processo di selezione è indispensabile perché le capacità di lavoro delle funzioni cognitive sono limitate. La possibilità di ignorare dei distrattori e di selezionare una informazione pertinente è pertanto un processo critico nella pianificazione dell’azione. Per beneficiare delle esperienze passate, dobbiamo essere capaci di selezionare delle conoscenze acquisite, anche le azioni più semplici obbediscono a molteplici vincoli, per esempio, quando si cerca un oggetto ci si ricorda della sua forma, del posto dove potrebbe essere, della sua ultima utilizzazione. Numerosi neuroni della corteccia prefrontale modificano così la loro attività quando la scimmia deve ricordarsi nello stesso tempo della forma e della localizzazione spaziale di un oggetto. Gli studi di neuroimaging mostrano che la corteccia prefrontale dorsolaterale ha un ruolo importante nell’integrazione di sorgenti di informazione multiple e nel processo di presa di decisione. 11 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale La complessità del comportamento nei primati è legata anche al fatto che questi possono fissarsi su dei nuovi obiettivi e dei nuovi metodi per raggiungerli. Il ruolo esecutivo risulta all’acquisizione e dalla rappresentazione di regole che guidano i comportamenti finalizzati. Stabilire delle regole consiste nel fare l’associazione arbitraria tra informazioni di natura differente. Si tratta di costruire un «modello interno», per esempio, apprendiamo che il rosso al semaforo significa «stop». Gli studi elettrofisiologici effettuati sulla scimmia rivelano che l’attività di neuroni della corteccia prefrontale dorsolaterale riflette queste associazioni. Alcuni autori hanno infine suggerito che questi ultimi potrebbero rappresentare il contesto dell’azione. Si tratta di informazioni a carattere multimodale che debbono inglobare i differenti aspetti in rapporto con le istruzioni, gli aspetti motivazionali e le conseguenze prevedibili dell’azione (Miller EK., 1999). 1.3.5 Area frontale oculocefalogira L’area frontale oculocefalogira è posta al davanti della corteccia premotoria e corrisponde all’area 8 nella classificazione di Brodmann. A lungo considerata come una corteccia premotoria implicata nel controllo dei movimenti oculari (frontal eye field), è sempre più riconnessa, sul piano funzionale, alla corteccia dorsolaterale. Gli studi di imaging hanno in effetti dimostrato la sua attivazione in numerosi compiti cognitivi, in particolare quando questi richiedono una mobilizzazione dell’orientamento dello sguardo e pertanto dell’attenzione visiva. 1.3.6 Corteccia cingolare anteriore Le connessioni anatomiche della corteccia cingolare anteriore (area 24c) con la corteccia prefrontale dorsolaterale sono strette e la loro coattivazione nel corso di numerosi compiti cognitivi suggerisce ad un tempo una dualità funzionale e una sinergia di azione di queste due regioni. Si ammette di solito che la corteccia prefrontale dorsolaterale tratti e mantenga on line l’informazione necessaria alla scelta di una risposta mentre la corteccia cingolare anteriore facilita e controlla la realizzazione dell’azione. Quest’ultima riceve anche delle afferenze dai nuclei libici, 12 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale dal talamo e dal tronco encefalico, il che ne fa naturalmente un luogo di integrazione per gli aspetti emozionali e motivazionali del comportamento. Invia a sua volta delle proiezioni verso le cortecce premotorie, motorie e il midollo spinale. È così in grado di avere un ruolo diretto nella attuazione di una posizione strategica che le consente di integrare delle informazioni di ordine emozionale nel quadro di processi decisionali e di avere di ritorno una parte importante nella pianificazione dell’azione. La funzione esatta della corteccia cingolare anteriore e dei meccanismi cellulari che la sottendono resta tuttavia poco nota. Negli anni novanta gli studi d’imaging funzionale hanno mostrato che era implicata in numerosi aspetti della cognizione, in particolare quando si tratta di gestire una situazione di scelta tra le informazioni di natura contraddittoria. I dati della sperimentazione nel primate subumano restano molto frammentari. Hanno soprattutto consentito di dimostrare il legame tra processo di ricompensa, e quindi di motivazione, e la pianificazione dell’azione. L’annuncio della quantità di ricompensa attesa modifica l’attività dei neuroni della corteccia cingolare anteriore nello stesso tempo del comportamento dell’animale. D’altra parte, i neuroni delle stesse regioni rispondono in modo diverso se le prove hanno successo o falliscono in un compito sequenziale memorizzato. 1.3.7 Corteccia orbitofrontale La corteccia orbitofrontale rappresenta la parte anteriore della corteccia prefrontale (figura 1, 26). Raggruppa delle aree rostrali localizzate a livello della convessità corticale (aree 10 e 47/12), così come delle aree situate in regione ventromediale (aree 11, 12, 13, 14). La corteccia orbitofrontale riceve delle afferenze multiple provenienti dalle cortecce associative temporali ma anche dall’amigdala. Sembra essere implicata in situazioni nel corso delle quali il soggetto deve adattare il suo comportamento per ottenere un rinforzo positivo. Questa regione interviene negli aspetti emotivi della presa di decisione. In effetti, alcuni pazienti che soffrono di lesioni orbitarie presentano delle grandi difficoltà nel prendere delle decisioni perché diventano incapaci di anticipare le conseguenze della loro azione. Questi deficit sono particolarmente netti nei comportamenti sociali. 13 1. I sistemi di controllo e il lobo frontale I risultati elettrofisiologici contenuti nel primate indicano che i neuroni della corteccia orbitofrontale sono implicati nel trattamento di informazioni quando queste sono associate con dei processi di rinforzo. Queste cellule diventano particolarmente attive quando il soggetto è posto in una situazione nella quale si spera di ricevere una ricompensa. La corteccia orbitofrontale ha un ruolo importante nel controllo motivazionale del comportamento. In più, si è potuto dimostrare che quando l’animale non riceve la ricompensa attesa, l’attività dei neuroni viene modificata. Questo settore corticale partecipa, con la corteccia cingolare anteriore, al processo di rilevazione degli errori. 14 2. La sindrome frontale 2. La sindrome frontale Le lesioni che interessano il lobo frontale sono da tempo riconosciute responsabili di gravi conseguenze sullo stato emotivo-comportamentale e, più in generale, sulla personalità del soggetto, per la funzione egemone di queste strutture sulla modulazione e regolazione delle condotte sociali e sulla qualità delle reazioni emotive. Le relazioni tra danno frontale e disturbi comportamentali sono ormai ampiamente accertate ed altrettanto ampiamente accertate sono le correlazioni tra le sequele comportamentali successive a danno frontale e la scarsa integrazione sociale del paziente. Nell’insieme comportamento e funzioni neuropsicologiche che sono sotto il controllo frontale vengono anche definiti rispettivamente come comportamento adattivo e funzioni esecutive, in quanto portano l’uomo a prendere delle decisioni in modo motivato, appropriato e modificabile in base alle variabili del contesto sociale in cui opera, libero da interferenze di imitazioni di comportamenti stereotipati o da risposte automatiche a impulsi primitivi. Le cause eziopatogenetiche possono essere numerose: dagli insulti cerebrovascolari focali sia ischemici che emorragici, alle patologie di tipo degenerativo, ai traumi cranio-encefalici, alle resezioni chirurgiche in caso di deafferentazione funzionale a partire dalle strutture sottocorticali con sostanza grigia o gangli della base. Una patologia come questa risulta particolarmente efficace nell’evidenziare l’importanza di affrontare questi deficit in una prospettiva come quella neuropsicologica, che integra diversi livelli di spiegazione. Nella sindrome frontale abbiamo, infatti, implicate componenti biologiche che causano la lesione e che possono essere le più svariate. Vi sono deficit cognitivi ma anche le componenti di personalità e quelle emotive vengono chiamate in causa. In questo capitolo vengono presi in esame gli aspetti critici fondamentali per poter diagnosticare una sindrome frontale, confermati dai risultati di recenti studi sperimentali. 15 2. La sindrome frontale Ovviamente, come presupposto deve esserci la certezza o quantomeno il fondato sospetto che il paziente abbia avuto un danno nella zona anteriore dell’encefalo, substrato biologico per questa patologia. 2.1 Patogenesi Gli studi neurofisiologici e neuropsicologici volti a chiarire la funzione delle aree prefrontali iniziarono in modo sistematico verso la fine del secolo scorso. I dati clinici indicarono che le lesioni massicce dei lobi frontali determinano gravi alterazioni della personalità e costituirono uno stimolo alla ricerca di una verifica sperimentale negli animali: i primi risultati furono però deludenti, soprattutto se rapportati alle brillanti acquisizioni parallelamente conseguite sulla corteccia motoria e sui centri visivi corticali. Ciò condusse all’opinione che le aree prefrontali fossero prive di funzione specifica; inoltre, poiché la stimolazione e l’ablazione di queste aree non determinavano alterazioni nella sfera sensoriale né in quella motoria, tali aree vennero definite “mute”. Successivamente alcuni ricercatori, quali Bianchi (1895) e Franz (1907), osservarono che negli animali con lesioni prefrontali si producevano profonde modificazioni comportamentali, confermando, in tal modo, l’ipotesi formulata in precedenza da Jackson (1869) secondo cui le aree anteriori del lobo frontale rappresentano “il sistema di centri più complesso dell’encefalo”. Da allora sono stai raccolti numerosi dati sulle conseguenze comportamentali derivanti da lesioni dei lobi frontali. Una delle caratteristiche più evidenti, e pertanto meglio studiata, dell’animale “frontale”, è la perdita della capacità di eseguire compiti di risposta ritardata (Jacobsen, 1936): l’animale non è in grado di riprodurre un comportamento appena appreso (ad esempio, scegliere correttamente fra più contenitori quello con il cibo) se viene distratto dal compito anche solo per pochi secondi. In altre parole, per effetto della lesione frontale, l’animale diviene più distraibile, maggiormente sensibile all’interferenza prodotta da stimoli concomitanti (Malmo, 1942), si dimostra incapace di inibire le risposte comportamentali a stimoli irrilevanti ed è, in definitiva, dipendente dagli stimoli esterni (Pribram, 1973). Inoltre, l’animale con lesioni frontali mostra comportamenti perseveratori: una volta messa in atto una risposta l’animale tende a riprodurla anche se l’azione ha perso la propria funzione di adattarlo alla situazione ambientale che l’ha provocata (Fulton, 1935). Infine, in conseguenza delle lesioni, gli animali divengono impenetrabili a 16 2. La sindrome frontale qualsiasi effetto frustrante degli errori commessi (Jacobsen, 1936) e non sono in grado di rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni (Pribram, 1960). Nell’insieme, il comportamento dell’animale “frontale” appare espressione dell’impossibilità di formulare un corretto programma d’azione; ciò sembra essere in relazione alla dipendenza dagli stimoli esterni, all’incapacità di analizzare i risultati delle proprie risposte motorie e di correggere le reazioni inadeguate. La maggior parte dei dati sperimentali (e di quelli clinici) oggi disponibili può essere interpretata alla luce delle connessioni esistenti fra la regione prefrontale e le strutture corticali e sottocorticali. Le aree prefrontali, infatti, funzionerebbero come un “comparatore” interposto fra le aree posteriori di elaborazione dei messaggi sensoriali, le aree precentrali motorie, il sistema limbico (che interviene nella modulazione della vita emotivo-affettiva) e l’ipotalamo (che regola le funzioni neurovegetative). La regione prefrontale opererebbe, dunque, la sintesi fra le informazioni relative al mondo esterno e quelle relative agli stati interni dell’organismo rendendo in tal modo possibile la formulazione di previsioni (attese) rispetto alle variazioni dell’ambiente, la regolazione dell’emotività e l’attuazione di un comportamento finalizzato (intelligente). 2.2 Sindrome frontale e trauma cranico Risulta piuttosto comune, in letteratura, considerare la sindrome frontale (sindrome conseguente a lesione del lobo frontale) come conseguenza “naturale” di un trauma cranico. Ciò è dovuto al fatto che, per motivi anatomici, i traumi cranici (ferite traumatiche chiuse) tendono a danneggiare soprattutto le aree orbitofrontali del cervello. I danni a seguito di trauma cranico raramente sono circoscritti. Le lesioni più grossolane possono essere diagnosticate attraverso l’uso di bioimmagini, ma altri tipi di lesioni, quali il danno assonale diffuso, edema o danni conseguenti ad ipossia sono difficilmente visualizzabili. La sintomatologia frontale non è, di per se, prova di danno frontale, in quanto potrebbe essere conseguente ad una disconnessione delle proiezioni prefrontali del nucleo talamico dorsomediale o delle fibre ascendenti del sistema reticolare mesencefalico. Nel trauma cranico, indipendentemente dalla sua tipologia, le lesioni coinvolgono sempre i lobi frontali e temporali. Esse si associano al danno assonale diffuso che 17 2. La sindrome frontale determina l’insorgenza di una sindrome da disconnessione, compromettendo le aree cerebrali deputate alle attività integrative e le loro vie associative. Tutto ciò comporta il decadimento dei processi attentivi, elaborativi e mnesici che stanno alla base dello sviluppo cognitivo, di qualsiasi apprendimento e di ogni azione finalizzata. Non stupisce, quindi, che i dati disponibili in letteratura abbiano evidenziato che in età evolutiva il quadro neuropsicologico e l’outcome non sono migliori rispetto all’adulto, soprattutto se l’età al momento del trauma è inferiore ai quattro anni. Il gran numero di variabili in gioco rende difficile fornire orientamenti generali sull’evoluzione dei disturbi cognitivi, poiché ogni quadro clinico è specifico e dinamicamente mutevole, in rapporto ad una vasta gamma di circostanze interne ed esterne. I ricercatori sono concordi nell'affermare che il trauma cranico determina una disfunzionalità globale, all'interno della quale si inscrivono disturbi cognitivi, comportamentali, emotivi e motori. I disturbi cognitivi conseguenti a trauma cranico dipendono in larga misura dalla gravità del trauma stesso e dalla dinamica della lesione. Un’altra variabile importante è l’età del soggetto: in età evolutiva, infatti, le conseguenze neuropsicologiche si manifestano con una loro peculiare tipologia, poiché il bambino sta sviluppando le diverse funzioni cognitive. A questa età, i disturbi neuropsicologici si discostano dalle classiche sindromi riportate per l’adulto tanto minore è l’età del paziente. La lesione cerebrale conseguente al trauma, essendo multifocale e diffusa, difficilmente determina deficit isolati, anche se è possibile individuare alcuni disturbi neuropsicologici derivanti dalla maggiore compromissione di un’area cerebrale. 2.3 Strategie comportamentali e sindrome disesecutiva L’evidenza della ricerca neuropsicologica, elettrofisiologica e funzionale di neuroimmagini attribuisce un ruolo critico ai lobi frontali (specialmente la corteccia prefrontale) nel controllo esecutivo del comportamento finalizzato. Le estese connessioni dei lobi frontali con tutta la corteccia e con le strutture sottocorticali, pone i lobi frontali in una posizione neuroanatomica unica nel monitorare e manipolare vari processi cognitivi: essi sono deputati alle condotte più elaborate dell’essere umano; non svolgono, come le altre aree, un compito definito, 18 2. La sindrome frontale ma soprassiedono all’organizzazione generale del comportamento finalizzato, coordinando tutte le modalità operative (sensoriali, motorie, percettive, attentive, mnesiche, motivazionali e così via). Finché le funzioni esecutive sono integre un individuo riesce a sopportare perdite cognitive considerevoli mantenendo un notevole grado di autonomia; quando sono danneggiate non è più capace di una cura sufficiente di sé e di mantenere normali relazioni sociali indipendentemente dal grado di anomalia delle restanti funzioni cognitive. Ne deriva che la disfunzione frontale compromette tutto il comportamento e che il deficit risulta evidente soprattutto nella vita quotidiana. “L’essere umano non si limita a reagire in modo passivo all’informazione che riceve ma ha intenzioni, elabora piani e fa un programma delle proprie azioni di cui poi valuta la riuscita; egli controlla e dirige in ogni movimento il suo comportamento affinché sia conforme alla programmazione e alla pianificazione e verifica la sua attività cosciente comparando gli effetti delle proprie azioni con le intenzioni originali e correggendo gli errori compiuti” (Lurija) . Il neuropsicologo sovietico Alexandr Romanovic Lurija utilizzava questi termini per definire il concetto di strategia comportamentale: il comportamento rappresenta sempre un atto finalizzato a raggiungere un obbiettivo. Il raggiungimento di uno scopo implica adottare una strategia, ossia attivare una procedura che prevede di passare in modo ordinato attraverso una serie di fasi; finalizzare una modalità comportamentale, indipendentemente dal problema che bisogna affrontare, richiede la capacità di coordinare almeno quattro stadi funzionali: analisi, pianificazione, esecuzione e verifica. Una volta identificato il problema, è necessario raccogliere tutti i dati disponibili per la corretta valutazione della situazione. Le informazioni provengono sia dall’ambiente esterno, attraverso i canali sensoriali, che dall’ambiente interno dell’organismo, includendovi anche i dati depositati in memoria. In questa fase le informazioni non vengono considerate singolarmente, ma nei loro reciproci rapporti in modo da giungere ad una “sintesi afferente”: le informazioni sono vagliate cioè nel loro complesso in relazione alla rilevanza che assumono per la soluzione del problema. Il risultato della sintesi afferente viene utilizzato per la pianificazione del comportamento: la formulazione del piano d’azione prevede la 19 2. La sindrome frontale definizione dettagliata dell’obbiettivo da raggiungere e il reclutamento sequenziale delle abilità e delle strutture corrispondenti necessarie allo svolgimento dell’attività. Infine, una volta messo in atto il comportamento programmato, è necessario un confronto tra l’esito e l’obbiettivo. Se il risultato è stato raggiunto, il problema ha trovato la sua soluzione ed il processo si arresta. In caso contrario la verifica porta da una parte al riconoscimento dell’errore e dall’altra al suo aggiustamento; tutte le fasi precedenti vengono riesaminate in modo ricorsivo: l’errore infatti potrebbe aver avuto luogo sia durante l’esecuzione che nel corso della pianificazione o nel momento dell’analisi. Il processo inizia di nuovo ma con una importante differenza: nel frattempo sono state acquisite nuove informazioni derivanti dal tentativo fallito precedentemente e la strategia viene modificata in relazione all’analisi del tipo di errore effettuato. Il meccanismo che porta alla soluzione del problema quindi non riprende dallo stesso punto di partenza iniziale, in modo circolare, piuttosto procede secondo un percorso a spirale in cui ogni nuovo tentativo fa tesoro dell’esperienza precedente: così si impara dagli errori effettuati. Nell’essere umano esiste quindi un meccanismo che consente di adattare il comportamento allo scopo da raggiungere. Di fatto in ogni momento della vita l’ambiente pone una richiesta all’organismo, richiesta che l’organismo deve affrontare e cercare di risolvere. Il comportamento equivale dunque ad un processo di soluzione dei problemi; quando l’ambiente cambia, il comportamento viene modificato di conseguenza. La programmazione di una sequenza comportamentale è accompagnata dalla anticipazione e dalla previsione del risultato; ogni comportamento è associato quindi con la conoscenza delle sue possibili conseguenze. Un simile sistema di aggiustamento alle condizioni ambientali risulta tanto più indispensabile per un organismo quanto più possieda ricche e molteplici modalità comportamentali. Se le risposte ai problemi posti dall’ambiente fossero definite una volta per sempre, in modo precostituito, come avviene per i comportamenti geneticamente determinati, un meccanismo preposto alla scelta della strategia sarebbe poco utile. Il segreto dell’incredibile flessibilità dell’essere umano è invece proprio rappresentato dal fatto che l’evoluzione ha barattato la sicurezza di una condotta predeterminata con l’insicurezza di una condotta che deve essere continuamene appresa. Il vantaggio è significativo. Il neonato umano è incapace di sopravvivere, 20 2. La sindrome frontale non è pronto ad affrontare le condizioni ambientali ed a questo deve provvedere un adulto, ma in cambio il contatto con l’ambiente lo rende sempre pronto ad apprenderne le caratteristiche, per quanto mutevoli. Quando ciò che è stato ormai fortemente consolidato dall’evoluzione non è più sufficiente e quando anche le modalità comportamentali apprese con l’esperienza diretta non risultano adeguate, è necessario avere a disposizione un sistema in grado di trovare soluzioni nuove. A questo compito sono preposti i lobi frontali. Probabilmente lo sviluppo dei lobi frontali è stato necessario quando l’aumento dei gradi di libertà comportamentale, reso possibile dall’organizzazione cerebrale, impose un ordine volto ad evitare il potenziale caos derivante dall’emergenza casuale di numerose possibilità di scelta in condizioni di ambiguità. Da una modalità reattiva di comportamento l’essere umano passa ad una modalità attiva soltanto quando la soluzione non è univoca ma sono possibili scelte alternative; in un certo senso la libertà di scegliere è possibile solo in presenza dell’ambiguità; i lobi frontali intervengono proprio nel momento in cui le soluzioni possibili sono molteplici. È importante sottolineare che scegliere tra più alternative implica l’esistenza di un meccanismo di inibizione: è cioè necessario essere capaci di non rispondere in modo immediato allo stimolo. Maggiore la capacità di ritardare la risposta ed eventualmente sopprimerla, minore la dipendenza dallo stimolo, migliore la possibilità di scelta nell’ambito del repertorio comportamentale. Il livelli gerarchicamente più elevato di inibizione è rappresentato dai lobi frontali: per questo in caso di lesione i fenomeni di disinibizione riguardano in modo indiscriminato tutti gli aspetti del comportamento. Se si osservano pazienti con patologia frontale, la disfunzione esecutiva è quella che emerge in modo predominante. La lesione comporta una disorganizzazione generale del comportamento in cui vengono a mancare quelle funzioni di controllo delle strategie comportamentali: tutte le condotte sono caratterizzate dall’impossibilità di portare a termine una serie di atti adattati ad un fine; “il paziente è incapace di svincolarsi dal presente e pianificare il futuro, di far tesoro dell’esperienza e acquisire nuovi apprendimenti, di adattarsi alle esigenze della vita quotidiana; di conseguenza perde l’autonomia e la competenza sociale.” (Lurija). I disturbi delle procedure esecutive possono essere così schematizzati: • Difficoltà di corretta formulazione dei problemi da affrontare; 21 2. La sindrome frontale • Incapacità di stabilire preliminarmente gli obiettivi da raggiungere; • Errori di pianificazione e di mantenimento della sequenza dell’azione; • Errata scelta di strategie con cui condurre la sequenza operativa; • Incapacità di automonitorarsi e, quindi, ad apportare eventuali e necessarie modifiche; • Perseverazione su una precedente strategia divenuta non più idonea. I disturbi cognitivi sopradescritti vanno spesso di pari passo con la tendenza ad adottare comportamenti abituali e stereotipati, quali di volta in volta gli aspetti più superficiali delle situazioni suggeriscono, senza considerare della loro eventuale inutilità o della loro difformità rispetto allo scopo che in quel momento il paziente si prefigge. Questo riflette la scarsa capacità di giudizio, le carenti competenze sociali e il difetto nell’utilizzo delle proprie capacità intellettive per modulare le risposte secondo gli schemi più adeguati al contesto. 2.4 Disturbi del comportamento e della personalità Il risultato di un danno della corteccia frontale consiste sempre in un cambiamento del comportamento con alterazione della condotta sociale. Le alterazioni della personalità sono un dato di immediata evidenza clinica e sono state osservate fin dai primi Autori che hanno descritto questi pazienti; oggi costituiscono una componente saldamente acquisita della sindrome. Un caso clinico famoso nella storia della medicina è quello di Phineas P. Gage, descritto dal dr. John Harlow alla fine del 1800 per la sua eccezionalità e di cui solo molti anni più tardi è stato compreso il significato. Nel 1848 a Cavendish, nel Vermont, Gage stava lavorando alla costruzione della linea ferroviaria e doveva far saltare la parete rocciosa che ostacolava il tracciato; in conseguenza dell’esplosione di una mina, una barra metallica, penetrando nella guancia sinistra, gli attraversò la scatola cranica danneggiando le porzioni anteriori del cervello. 22 2. La sindrome frontale Caso Gage Vermont, 1848 Accorrendo immediatamente sul luogo dell’incidente, gli altri operai si accorsero che Gage non solo era sopravvissuto, ma incredibilmente era in grado di parlare (tanto da raccontare dettagliatamente l’accaduto) così come di muoversi e camminare. Egli fu dichiarato guarito in meno di due mesi ma dopo l’accaduto la sua vita cambiò radicalmente. Come dicevano i suoi amici “Gage non era più Gage”, sembrava cioè non essere più la stessa persona: ben noto per la sua serietà e la sua efficienza sul lavoro, per la sua disponibilità e cortesia, era divenuto “incostante, capriccioso, volubile, irriverente, incline alle più pesanti oscenità, intollerante delle costrizioni o dei consigli, ostinato”; se in precedenza era stato del tutto alieno da insolenze e imprecazioni, il suo linguaggio era divenuto “talmente osceno che alle donne si consigliava di non rimanere a lungo in sua presenza per non restarne turbate”. Nella sua relazione il dr. Harlow riferisce che egli camminava con passo fermo, usava le mani con destrezza, non mostrava impaccio nel parlare, ma l’equilibrio, per così dire, tra la sua facoltà intellettiva e le sue disposizioni animali era venuto a mancare. Inoltre, mentre era sempre stato considerato da quanti lo conoscevano come un uomo “abile e avveduto”, “energico e tenace nel perseguire i suoi obiettivi”, ora era “sempre pronto a elaborare molti programmi di attività future che abbandonava non appena li aveva iniziati”. Il caso descrive bene la caratteristica principale dei pazienti con lesione frontale: la perdita delle strategie che consentono di modificare il comportamento in relazione alle esigenze ambientali. 23 2. La sindrome frontale La mancanza delle strategie comportamentali può manifestarsi in modi variabili e il paziente può essere incapace di: individuare gli elementi significativi della situazione, di conseguenza può essere in balia di elementi irrilevanti per lo scopo da raggiungere e non sa inibire la risposta immediata né le associazioni secondarie, associazioni che si formano continuamente in modo spontaneo ma che normalmente, se non sono utili sul momento, vengono soppresse proprio grazie all’attività inibitoria del sistema frontale; utilizzare le informazioni disponibili per prevedere le conseguenze del proprio operato; controllare lo svolgimento delle proprie azioni e impedire il perpetuarsi dello schema d’azione in corso anche quando non è più opportuno; valutare il risultato ottenuto e apprendere dagli errori. Ognuno dei meccanismi suddetti può alterare la capacità di organizzare gli eventi nel tempo; di conseguenza il soggetto non è più in grado di formulare progetti e di portare a termine una sequenza comportamentale adeguata al raggiungimento dello scopo prestabilito: gli è impossibile svincolarsi dal presente, pianificare l’avvenire e apprendere dall’esperienza. Un carattere distintivo della sintomatologia è l’estrema variabilità, sia da paziente a paziente che, anche da un giorno all’altro, nello stesso soggetto. Sono state comunque evidenziate, ferma restando l’estrema mutevolezza del quadro, due varianti fondamentali della sindrome: la presenza dell’una o dell’altra, spesso presenti contemporaneamente nello stesso paziente in relazione al cambiamento del contesto ambientale, può essere correlata alla sede della patologia, rispettivamente dorsolaterale e orbitomesiale. 1) La sindrome “pseudodepressiva” (o acinetica), indica mancanza di iniziativa, abulia, apatia, acinesia, perdita della fluenza verbale fino al mutismo, perdita degli interessi abituali, indifferenza emotiva, tono dell’umore depresso, disturbi dell’attenzione e della memoria, disorientamento temporo-spaziale, nei casi più gravi confusione. La sintomatologia è state definita pseudodepressiva da Blumer e Benson, in quanto il paziente ha l’aspetto di un depresso ma non ne mostra gli aspetti affettivo-emotivi caratteristici, anzi appare “triste senza tristezza interiore”. 2) La sindrome “pseudomaniacale”, definita anche sindrome moriatica, è la conseguenza della perdita dei meccanismi inibitori, caratterizzata da euforia 24 2. La sindrome frontale inappropriata e immotivata, disinibizione verbale e motoria, tendenza alla giocosità in situazioni inappropriate, iperattività inconcludente fino all’agitazione psicomotoria. Il quadro clinico può accompagnarsi a bulimia, ipersessualità (o, per meglio dire, manifestazioni incongrue di sessualità) e comportamenti socialmente inappropriati. Tali condizioni appaiono in realtà collegate ad una dipendenza dallo stimolo ambientale che non può essere soppresso; la bulimia è più spesso una necessità di mangiare ciò che si ha davanti, indipendentemente dal senso di fame; l’ipersessualità è strettamente dipendente dalla presenza dello stimolo; l’incontinenza è la risposta non inibita allo stimolo di urinare che va soddisfatto immediatamente e indipendentemente dall’ambiente in cui il soggetto si trova. Un altro tipo di disturbo è rappresentato dalla irritabilità e aggressività (discontrollo degli impulsi), che ancora trovano la loro giustificazione in una dipendenza dagli stimoli ambientali cui viene fornita una risposta impulsiva, non sottoposta a critica né alla valutazione delle possibili conseguenze. In ogni sua manifestazione la sindrome frontale comporta una trasformazione delle caratteristiche di personalità del soggetto che induce i familiari a dire che si trovano davanti una persona diversa che non riconoscono più e che non riesco più a capire; le conseguenze sono solitamente catastrofiche: perdita del lavoro, degli averi, delle amicizie, degli affetti. Apparentemente tutto avviene senza una giustificazione plausibile, dato che gli aspetti comunemente associati di malattia non sono affatto visibili e non vengono percepiti. I disturbi sopradescritti compaiono a seguito di lesioni massicce e si manifestano in pieno quando sono interessati entrambi i lobi frontali. A questo proposito è importante sottolineare che il quadro clinico della sindrome non include necessariamente tutte le manifestazioni comportamentali descritte precedentemente; al contrario solitamente ogni specifico soggetto presenta risposte patologiche soltanto ad alcune delle prove proposte in laboratorio. Questi deficit trovano una loro spiegazione nelle numerose connessioni della corteccia prefrontale, in particolare appunto delle sue parti mediali e orbitarie, con le strutture sottocorticali (amigdala e ippocampo) responsabili dell’attivazione di una risposta emotiva. In questo caso il lobo frontale avrebbe una funzione di controllo 25 2. La sindrome frontale rispetto all’attività di queste strutture sottocorticali, ed una sua lesione ne impedirebbe l’attività di modulazione e di controllo. 2.5 Disturbi dell’attenzione Fra le caratteristiche più appariscenti, anche se difficilmente quantificabili, del paziente frontale sono la distraibilità, che costringe il terapista a ricordargli continuamente il compito, la tendenza a divagare da un argomento all’altro nel corso della conversazione, l’inconcludenza nel portare a termine qualunque operazione prima di intraprenderne altre suggeritegli dal minimo richiamo dell’ambiente. La prima impressione di chi frequenta il malato è che il difetto riguardi la capacità a fissare l’attenzione. Il termine attenzione, tuttavia, così come è usato nel linguaggio corrente, è ambiguo e copre realtà che dal punto di vista psicologico, neurofisiologico, ed anche clinico appaiono distinte. L’attenzione corrisponde alla facoltà, introspettivamente sperimentale, di avvertire gli eventi che accadono nell’ambiente esterno e interno a se stessi o i propri bisogni. Sul piano neurofisiologico è interpretabile come eccitabilità del sistema nervoso di fronte alle variazioni energetiche, e sul piano comportamentale come capacità di reagire agli stimoli cui il soggetto è sottoposto. In questo senso l’attenzione è designata come diffusa (Benson e Geshwind, 1975), per significare che essa è rivolta a qualunque possibile tipo di evento in qualunque parte dello spazio percepibile e a qualunque tipo di possibile risposta motoria. Così intesa l’attenzione è sinonimo di vigilanza, ad ogni diminuzione di attenzione corrisponde una diminuzione di vigilanza, come si realizza fisiologicamente nel sonno, o, in condizioni patologiche, nel sopore, stupore e coma. Nell’uso più comune il termine attenzione si riferisce però ad un fenomeno diverso dalla vigilanza, consistente nell’avvertire solo alcuni generi di eventi, trascurando, anzi attivamente ignorando, gli altri. Il processo di elaborazione delle informazioni è estremamente flessibile, cioè sceglie di volta in volta quale informazione elaborare e come elaborarla, e questa possibilità di elaborare il materiale informativo avviene proprio in base a meccanismi di tipo attentivo. Sul piano comportamentale ciò si traduce nella capacità di reagire selettivamente solo ad alcuni stimoli. In questo senso, l’attenzione è designata come selettiva (Benson e Geshwind, 1975), per indicare che essa è rivolta a specifici 26 2. La sindrome frontale eventi, preferenzialmente rispetto ad altri. Diminuzione di attenzione selettiva corrisponde ad aumentata distraibilità. Non sono pochi i dati sperimentali che dimostrano un intervento del lobo frontale nei fenomeni di attenzione selettiva sia motoria che sensoriale soprattutto se in forma intenzionale. I risultati di alcune ricerche (Ladavas et al. 1991), mettono in luce nei pazienti frontali una dissociazione tra attenzione selettiva volontaria e automatica. Questi pazienti, infatti, avrebbero un’attenzione volontaria deficitaria e un’attenzione automatica patologicamente intensificata. L’attenzione selettiva volontaria è un meccanismo che entra in gioco quando bisogna affrontare situazioni nuove e richiede l’impiego volontario di risorse di processamento. L’attenzione automatica, invece, è guidata dall’ambiente e non dalle intenzioni e dagli scopi dell’individuo. In presenza o assenza di movimenti oculari, l’attenzione automatica è orientata senza che il soggetto abbia preso una decisione, semplicemente perché sono cambiate alcune caratteristiche degli stimoli esterni o perché se ne sono presentati di nuovi. I pazienti con lesioni frontali presenterebbero appunto una intensificazione di queste forme automatiche di risposta, che potrebbero essere la causa della loro forte distraibilità. È possibile ipotizzare che questi pazienti spesso non possano completare i loro compiti, o non si possano impegnare a fondo nella loro esecuzione perché l’attenzione viene continuamente distolta da stimoli irrilevanti, come un rumore, una voce, o altro. Queste osservazioni sul coinvolgimento del lobo frontale nei processi attentivi hanno trovato recentemente una conferma sperimentale in studi in cui sono stati applicati dei paradigmi dalla psicologia sperimentale. Un esempio di intensificazione delle risposte automatiche lo si può trovare in un lavoro di Guitton, Buchtel e Douglas (1985). I risultati hanno dimostrato che, pazienti sottoposti ad uno stimolo visivo, erano incapaci di inibire il riflesso di orientamento degli occhi e di attivare movimento oculari volontari in direzione contraria alla stimolazione periferica. In altre parole il paziente frontale non sembra in grado di utilizzare l’attenzione come filtro per selezionare le informazioni rilevanti a scapito di quelle irrilevanti. 27 2. La sindrome frontale 2.6 Disturbi di memoria Contrariamente ad una opinione diffusa, il contenuto della memoria esplicita a lungo termine non è compromesso nel paziente frontale. Non vi sono prove che la corteccia frontale intervenga nemmeno nei processi di memoria a breve o medio termine. Al pari di quella esplicita, la memoria implicita appare conservata. Sono le modalità con cui il paziente frontale gestisce i ricordi, e non il contenuto della memoria, che lo differenziano dal normale. Un aspetto del difetto mnesico frontale riguarda l’esperienza temporale: questi pazienti confondono l’ordine e la frequenza con cui gli avvenimenti sono accaduti in passato, mentre per il tempo futuro mancano la previsione di ciò che verosimilmente accadrà e la consapevolezza delle operazioni ancora da compiere. La difficoltà a collocare gli avvenimenti in ordine cronologico emerge dai risultati di uno studio di Schimamura (1990), che evidenziò il fallimento dei pazienti frontali nel riprodurre la successione con cui avevano appena letto 15 parole e la successione in cui erano accaduti 15 avvenimenti famosi a loro sicuramente noti, anche se in entrambi i casi riuscirono a rievocare e a riconoscere come i soggetti normali il materiale usato. In sostanza, in tutte le prove, sia verbali che figurative o spaziali, la corteccia frontale si è dimostrata necessaria per rammentare la collocazione temporale degli eventi sperimentati, con specificità relativa del lobo frontale sinistro per il materiale verbale e del lobo frontale destro per il materiale figurativo o spaziale. L’organizzazione categoriale richiede, infatti, la capacità di astrarre l’informazione necessaria che vada oltre la costellazione delle proprietà fisiche degli stimoli e di analizzare i rapporti tra le proprietà specifiche di stimoli diversi. La possibilità di cogliere questo tipo di relazioni dipende dalla capacità di formulare dei concetti astratti. In questi pazienti verrebbe a mancare la capacità di cogliere nei multiformi elementi che compongono la realtà le caratteristiche essenziali che di volta in volta li accomunano fra loro e li differenziano dagli altri. In mancanza di concetti astratti i pazienti rimarrebbero legati alla concretezza e immediatezza della situazione, in balia di reazioni automatiche e abitudinarie. Lo studio precedentemente citato dimostra chiaramente come questi pazienti non abbiano un disturbo di memoria vero e proprio, dal momento che le tracce mnesiche sono conservate e recuperabili, bensì una difficoltà ad utilizzare strategie di accesso a 28 2. La sindrome frontale tale materiale. Il paziente frontale, non solo confonde l’ordine degli eventi accaduti, ma non riesce nemmeno a valutare la frequenza con cui li ha sperimentati. Le conseguenze di questo difetto sono ben più gravi di quanto a prima vista possa sembrare. Se, infatti, si ignorano le probabilità (frequenze relative) con cui gli eventi sono soliti accadere, non si possono nemmeno costruire previsioni realistiche su quale sarà il futuro e ci si presenterà sprovveduti di fronte ad esso. Ancora più sconcertante appare l’incapacità del paziente frontale nel distinguere il proprio tempo passato da quello futuro. Pur essendo in grado di realizzare le singole operazioni necessarie nell’espletazione di un compito complesso, è incapace di organizzarle in una sequenza produttiva, come se durante l’azione dimenticasse quali stadi sono già stati superati e quali sono ancora da affrontare. Prove ripetute effettuate su soggetti con ablazione prefrontale latero-mediale (Petrides e Milner, 1982) hanno dimostrato l’incapacità di questi pazienti di affrontare compiti con un piano generale secondo cui organizzare l’ordine delle risposte, e di riconoscere ad ogni fase della sua attuazione quali risposte sono già state date e quali devono ancora esserlo. La mancanza di un programma o l’incapacità di rispettarlo può da sola compromettere il rendimento e l’esecuzione di qualsiasi attività. La carenza di un progetto operativo, che tenga presenti, nella giusta collocazione temporale, tutti gli elementi di giudizio e le possibili risposte, sceverandoli di volta in volta durante l’esecuzione, costituisce probabilmente la ragione delle difficoltà mostrate dai pazienti frontali: il sintomo, nelle forme più gravi, risulta estremamente invalidante, in quanto il paziente può divenire incapace di organizzare la propria vita e la propria quotidianità. In questo senso la “memoria” di cui manca il paziente frontale è di tipo “operativo”. In assenza di questo ruolo critico dei lobi frontali diventa impossibile organizzare il comportamento rispetto alla dimensione temporale e controllare la sequenza appropriata in cui le varie operazioni mentali vengono messe in atto per realizzare l’obiettivo; ciò può avere conseguenze devastanti anche nella interazione sociale; il paziente non sa attenersi ad una condotta guidata da motivazioni interne: il ricordo del futuro non lo riconduce più al punto in cui era prima di essere distratto da un evento intercorrente e lo lascia in balia di un presente continuo in cui non esiste una priorità di intervento (ad esempio il paziente può iniziare tante attività senza mai portarne a termine alcuna). 29 2. La sindrome frontale Nelle condizioni più gravi vengono alterate anche le procedure necessarie per eseguire piani motori e cognitivi acquisiti; il danno non riguarda la memoria ma l’utilizzazione delle informazioni memorizzate. Ne risulta che qualsiasi attività che richieda il coordinamento di molte capacità cognitive in un processo coerente orientato ad un fine è gravemente compromessa. 2.7 Disturbi dell’apprendimento Come gli altri processi cognitivi, l’apprendimento è un processo cognitivo non direttamente osservabile, poiché è la conseguenza di funzioni e processi che avvengono all’interno del sistema nervoso. Il paziente frontale ha un disturbo dell’apprendimento che può essere riferito ad incapacità di costruirsi, di automatizzare, o di usare spontaneamente una strategia con cui operare. I dati ottenuti da uno studio su pazienti sottoposti a corticectomia (Milner, 1965) impegnati in un compito di apprendimento, dimostrano che i pazienti frontali non apprenderebbero perché incapaci di scegliere il comportamento consono alle informazioni che ricevono dall’esterno, quali sono le regole imposte dall’esaminatore e i segnali che indicano un errore. Uno dei motivi che impedisce un normale apprendimento e che in parte giustifica l’insuccesso dei pazienti frontali in prove di apprendimento consiste nelle cosiddette “perseverazioni”, che rappresentano un aspetto centrale della sindrome. Essi, cioè, mettono in atto un comportamento rigido, non flessibile, che li porta ad insistere in strategie palesemente inadeguate, a volte riconosciute come tali dai pazienti stessi. Va comunque sottolineato che le perseverazioni possono comparire anche dopo lesioni che non interessano la corteccia prefrontale, ma in questo caso si manifestano limitatamente ad una modalità sensoriale o ad un tipo di compito, mentre quando la lesione interessa la corteccia prefrontale le perseverazioni riguardano contemporaneamente tutti i processi cognitivi, indipendentemente dalla modalità o dal sistema di risposta, ad esempio la strategia cognitiva, il recupero dell’informazione dalla memoria semantica ed anche le operazioni motorie elementari. I pazienti frontali incontrano difficoltà non solo a guidare il comportamento secondo informazioni provenienti in successione temporale discontinua dall’ambiente, ma anche ad interiorizzare le regole di comportamento, così da poter poi operare pur in assenza di suggerimenti esterni. 30 2. La sindrome frontale Se l’apprendimento di abilità motorie consiste nel passaggio da una prima fase in cui il movimento è guidato da informazioni sensoriali, visive e cinestesiche, ad una seconda in cui la successione e i ritmi del movimento sono regolati da un programma interiore, le difficoltà in prove di apprendimento sequenziale sono indicative del fatto che i pazienti frontali sono compromessi proprio nella capacità di interiorizzare ed automatizzare il programma motorio: essi non impiegano spontaneamente strategie di apprendimento, anche quando ne sarebbero capaci. 2.8 Disturbi del linguaggio Le funzioni linguistiche, in seguito al coinvolgimento dei lobi frontali, possono manifestare due ordini di problemi: un disturbo del comportamento comunicativo e un disturbo nella ideazione e formulazione del discorso. I disturbi del comportamento comunicativo sono sostanzialmente da ricondursi a disturbi della competenza cosiddetta “pragmatica”: e cioè della competenza che modula il linguaggio come strumento di formazione del pensiero, di organizzazione del discorso, di efficacia e di interazione interpersonale e sociale. I disturbi di questo ordine sono così caratterizzati da carente rispetto del sistema di convenzioni, regole e consuetudini linguistiche che, seppur non formalmente codificate, consentono di variare e flettere il significato dell’espressione verbale a seconda della situazione e del contesto (concettuale, emotivo e sociale) in cui la comunicazione avviene. I disturbi dell’ideazione e formulazione del discorso invece, sono rappresentati prevalentemente da riduzione della flessibilità sintattico-grammaticale e lessicale con difficoltà nel reperire espressioni di efficace qualificazione, sintesi o astrazione, nonché da incapacità di mantenere l’organizzazione tematica del discorso, la “coerenza globale” al di sopra del livello delle singole frasi. Ad esempio, il paziente frontale, se inerte, si esprime con frasi brevi, molto concrete, ripetitive nei contenuti, circoscritte alla realtà quotidiana oppure scarsamente informative. Se disinibito, è logorroico, inopportuno, sia nel prendere l’iniziativa verbale che nell’interazione comunicativa, fatuo negli argomenti espressi, scarsamente aderente al contesto. Per quanto riguarda la pianificazione ed elaborazione del messaggio verbale invece, questo appare dispersivo o ridondante nella articolazione delle argomentazioni, spesso limitato agli aspetti più superficiali o incentrato su particolari scarsamente rilevanti. 31 2. La sindrome frontale 2.9 Anosognosia Il nostro successo nella vita dipende in modo critico da due capacità: quelle di intuire e comprendere il mondo mentale nostro e altrui. Queste abilità sono strettamente legate e si trovano entrambe sotto il controllo dei lobi frontali. Uno degli aspetti più sconcertanti del comportamento del paziente frontale è la pressoché completa mancanza di consapevolezza del disturbo. Il non riconoscere esplicitamente le proprie difficoltà rappresenta un disordine dei meccanismi preposti al monitoraggio e alla consapevolezza delle condizioni del nostro corpo e del nostro stato cognitivo. L’anosognosia è una condizione devastante che priva il paziente della capacità di comprendere la propria malattia: essa può assumere diverse forme, ma nessuna forma risulta più completa e impermeabile di quella causata da un grave danno frontale. I meccanismi dell’anosognosia frontale sono scarsamente compresi. In senso lato, essi probabilmente hanno a che fare con la compromissione della funzione “editoriale” dei lobi frontali, ossia quella funzione che opera il confronto fra l’esito delle proprie azioni da una parte, e quelle che erano le intenzioni, dall’altra. Oppure, può darsi che riflettano un aspetto ancor più profondo della patologia frontale, ossia la fondamentale mancanza di intenzionalità che le è intrinseca. Un organismo senza desideri, senza scopi, senza obiettivi, per definizione non sperimenterà alcun senso di fallimento. E tuttavia, la consapevolezza del deficit è il prerequisito fondamentale di qualsiasi sforzo, da parte del paziente, per migliorare la propria condizione. Un paziente con anosognosia non sperimenta alcun senso di perdita o carenza, e pertanto non sente alcun bisogno di impegnarsi a correggerlo. Poiché la cooperazione del paziente è essenziale per il successo di qualsiasi sforzo terapeutico, l’anosognosia trasforma il processo terapeutico in una battaglia da combattere, rendendo perciò particolarmente devastanti le conseguenze delle patologie frontali. 2.10 Confabulazione Questo tipo di comportamento è uno degli aspetti che caratterizzano il quadro di disfunzione mnesica associata alla patologia frontale. 32 2. La sindrome frontale Alcuni Autori hanno definito questa alterazione cognitivo-comportamentale come “falsificazione della memoria”, facilmente riscontrabile in soggetti cerebrolesi con gravi deficit delle funzioni mnesiche e dell’autocontrollo. Gli stessi Autori, riferendo le diverse ipotesi formulate circa i meccanismi neuropsicologici che sottendono ai comportamenti confabulanti, osservano il fatto che il termine “confabulazione” è stato attribuito a fenomeni di vario genere e di diversa natura (psicogena e organica), quali, elevata suggestionabilità, alterazioni della capacità di sequenzializzazione cronologica, modalità di meccanismo di difesa, tentativo di “riempimento” di un “vuoto” mnesico e difetto di auto-monitoraggio. Nonostante sia tuttora aperta la discussione circa le possibili connessioni tra queste condizioni cliniche e i comportamenti confabulanti, i pazienti che ne sono affetti in generale presentano un’amnesia globale o una sindrome frontale. Il paziente “confabulante”, nel caso sia amnesico, tende a “costruire” ricordi mescolando elementi ricavati da fatti autobiografici diversi, mentre nel caso presenti una compromissione di tipo “frontale”, produce spontaneamente informazioni aventi manifesta non aderenza alla realtà, in assenza di intenzionalità ad ingannare. La presenza di due diversi meccanismi patogenetici, spesso concomitanti (amnesia globale e patologia dei lobi frontali), a cui corrispondono i suddetti due “livelli” di confabulazioni, è stata da tempo dimostrata anche in ambito sperimentale. 2.11 Disinibizione / Disforia Tanto la confabulazione quanto la disinibizione appartengono a quella classe di comportamenti che sono inadeguati per le condizioni e i tempi in cui vengono manifestati: comportamenti che, da un lato, rendono il soggetto socialmente inaccettabile e, dall’altro, invalidano qualsiasi tentativo di riabilitazione. La maggiore frequenza e le forme più gravi di disinibizione si osservano in seguito a lesioni diffuse ma coinvolgenti prevalentemente i lobi frontali e le connessioni temporo-limbiche, come nei traumi cranici, nei processi infettivi o degenerativi e nei casi di ipossia cerebrale. La presenza di condotte disinibite può essere indicativa di deficit a vari livelli e più precisamente: a) Deficit dell’autoconsapevolezza (come nel caso in cui un paziente con gravi limitazioni motorie o cognitive, sembra euforico); 33 2. La sindrome frontale b) Deficit dell’autocontrollo (per esempio, atteggiamenti di esibizionismo e richieste sessuali imbarazzanti, manifestate in pubblico e con persone incontrate occasionalmente); c) Insufficienti capacità di critica e difficoltà nel discriminare o recepire i segnali di “feedback” ambientali (per esempio, apprezzamenti o domande eccessivamente personali, rivolti ad interlocutori con cui non sussistono rapporti di confidenza, oppure “battute di spirito” prodotte in un contesto non idoneo. Un fenomeno spesso associato alla disinibizione è rappresentato dalla sindrome d'uso (Shallice, 1982), nota anche come sindrome da dipendenza ambientale: è la tendenza ad utilizzare oggetti o strumenti presenti nell'ambiente, anche nelle circostanze in cui tale comportamento è inopportuno od inadeguato, o ad imitare in modo compulsivo le azioni dell'interlocutore. Questo comportamento sottolinea la difficoltà a tenere in considerazione i feedback ambientali, e particolarmente gli indizi a disconferma delle proprie ipotesi (perseverazione nell'errore). È interessante notare come questi comportamenti sono normali ed adattativi in età evolutiva, e costituiscano le modalità di apprendimento più importanti in età preverbale, per poi scomparire in età adulta. 34 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi I disturbi cognitivi compromettono gravemente la capacità dell’individuo di interagire con i propri simili e con l’ambiente; il paziente non è più in grado di far fronte in modo adeguato alle richieste poste dal contesto sociale in cui vive; egli soffre di una limitazione grave delle possibilità di scelta comportamentale e, in ultima analisi, è costretto a reagire in modo stereotipato agli stimoli complessi e variegati che la vita quotidiana presenta. Quando la patologia è diffusa, si assiste al decadimento progressivo delle funzioni corticali secondo una modalità spesso uniforme, che inizia con disfunzioni attentive e dei processi mnesici, per giungere a difficoltà di linguaggio, della gestualità finalizzata e del riconoscimento percettivo fino alla perdita della capacità di analisi della situazione contestuale e di programmazione del comportamento, che risulta limitato ad atti afinalistici e strettamente dipendenti dalla natura dello stimolo. In definitiva l’insorgenza di una sofferenza cerebrale, imponendo una drastica interruzione delle usuali modalità di interazione individuo-ambiente, comporta non solo un cambiamento radicale del vissuto personale, dell’autonomia nella vita quotidiana e della sua qualità, ma anche una alterazione profonda del ruolo che l’individuo svolge nell’ambito familiare e nel contesto sociale. Una serie di variabili socio-demografiche ed economiche stanno trasformando la neuroriabilitazione in una disciplina centrale della medicina, soprattutto nei paesi industrializzati. L’allungamento della vita media, ad esempio, comporta che l’attesa di vita dei pazienti colpiti da patologie neurologiche sia assai più lunga che in passato. I notevoli miglioramenti delle tecniche riabilitative e l’aumento della scolarizzazione media comportano che pazienti con sequele di patologie neurologiche possano attingere a potenziali residui più elevati che in passato. La crescente domanda di interventi riabilitativi è inoltre legata al forte impatto sociale dei traumi cranici, patologie invalidanti che riguardano, spesso, soggetti giovani. Il pensiero neurobiologico ha considerato estremamente limitato il potenziale plastico del sistema nervoso adulto e quindi velleitario ogni tentativo di riabilitazione. 35 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi Le indagini epidemiologiche hanno sottolineato l’attuale preponderanza delle disabilità croniche rispetto alle patologie acute e ciò ha indotto ad integrare la classificazione internazionale delle malattie (ICD) con la classificazione internazionale delle menomazioni, disabilità ed handicap (ICIDH), più recentemente sostituita dall’ICF. Non è più sufficiente che l’intervento sanitario riesca ad affrontare la fase acuta della malattia; è necessario rivolgere l’attenzione verso le conseguenze croniche della malattia. Sebbene il numero di persone che presentano una grave disabilità cognitiva sia estremamente elevato, raramente a questi pazienti viene offerta la possibilità di migliorare la qualità della loro vita. Al contrario fino ad anni recenti si è registrato un atteggiamento terapeutico fortemente rinunciatario alla cui origine può essere verosimilmente individuato il riferimento culturale a modelli di funzionamento del sistema nervoso centrale ormai superati ma profondamente radicati e difficili da sostituire. Un ostacolo rilevante è cioè rappresentato dallo stereotipo culturale secondo cui non esisterebbero trattamenti efficaci. Non è ancora divenuta patrimonio conoscitivo comune la vera rivoluzione copernicana che le nuove acquisizioni delle neuroscienze hanno determinato anche nel settore riabilitativo. 3.1 Plasticità neuronale Il concetto di riabilitazione cognitiva riposa sull’accettazione di un assunto fondamentale: il cervello umano è dotato di un certo grado di adattamento che, in caso di lesione, permette la riorganizzazione di quei circuiti neuronali responsabili dei processi cognitivi. Le recenti acquisizioni delle neuroscienze hanno apportato innovazioni straordinarie a livello diagnostico e terapeutico, ma la diffusione delle nuove conoscenze sembra incontrare una serie di ostacoli, tra cui l’indifferenza, timore ed ostilità che colpisce ogni operatore sanitario di fronte alla complessità dei problemi posti dalle patologie neuropsicologiche. La consapevolezza di questo iato crescente tra le conoscenze di base e la loro applicazione pratica ai problemi di salute della comunità ha rappresentato uno dei motivi principali che ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a sollecitare 36 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi come interesse primario le indagini volte a documentare la reale efficacia della riabilitazione neuropsicologica. I dati disponibili hanno determinato una revisione critica di nozioni che sembravano costituire dogmi immutabili: • le cellule nervose sono perenni; • il tessuto nervoso è “nobile” e non riproducibile; • ognuno nasce con un patrimonio fisso e non sostituibile di neuroni; • l’organizzazione anatomofunzionale del sistema nervoso è statica; superato il periodo evolutivo le possibilità di riorganizzazione subiscono una limitazione progressiva fino alla stabilizzazione delle configurazioni strutturali in aree con funzioni specifiche definite. Una visione così rigida del sistema nervoso precludeva ogni plausibile approccio teorico alla riabilitazione. Di necessità i primi tentativi di riabilitare i disturbi delle funzioni cognitive sono stati empirici, privi di un supporto scientifico convalidato: è impressionante oggi pensare che, soltanto qualche decennio fa, quando non era pratica di routine la fisioterapia, la grande maggioranza dei pazienti emiplegici perdeva qualunque autonomia nella deambulazione e restava confinata a letto per tutto il resto della vita. L’efficacia della riabilitazione ha quindi fatto da traino per lo sviluppo di ricerche finalizzate alla comprensione dei meccanismi alla base del recupero da una lesione cerebrale, ricerche che hanno reso indispensabile introdurre il concetto di plasticità come proprietà fondamentale del sistema nervoso. Il concetto di neuroplasticità ha numerose implicazioni teoriche e pratiche: • in netto contrasto con le opinioni precedenti, le più recenti indagini sulle cellule staminali suggeriscono che il cervello è in grado di produrre neuroni durante tutta la sua esistenza; in ogni caso, la capacità dell’individuo di modificare il comportamento in rapporto alle mutevoli condizioni ambientali e di far fronte alle novità ha un correlato fisiologico nella continua adattabilità della sinapsi, cioè nella capacità della cellula nervosa di stabilire connessioni funzionali; 37 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi • le connessioni fra neuroni non sono fissate una volta per tutte ma sono dinamiche e sempre modificabili tanto da poter affermare che non solo non possono esistere due cervelli identici, ma che il cervello di un individuo non è mai esattamente lo stesso da un istante all’altro; le connessioni sinaptiche danno origine a circuiti di complessità variabile che non sono precostituiti ma vengono selezionati sotto la spinta delle caratteristiche ambientali di cui il soggetto fa esperienza diretta; • l’unità funzionale del sistema nervoso può essere concepita meglio come una rete neuronale piuttosto che come singolo neurone; la rete neuronale corrisponde ad un sistema funzionale costituito da componenti multiple, di tipo modulare; le singole componenti sono situate in sedi cerebrali distinte ma interconnesse e possono essere condivise da più sistemi funzionali, appartenere cioè a più reti che in parte si sovrappongono; maggiore la complessità del sistema nervoso, maggiore la capacità di riorganizzazione; naturalmente esistono limiti ben definiti al processo di recupero, ad esempio la ridotta possibilità di sostituzione di componenti ad alta specializzazione funzionale. Brillanti documentazioni sulla neuroplasticità derivano dagli studi sulla modificabilità delle mappe cerebrali: la topografia cerebrale può andare incontro a variazioni sia in seguito ad una defferentazione, da lesione periferica o centrale, che in seguito all’esercizio, all’apprendimento e alla iperattività funzionale. Le indagini di imaging funzionale mostrano come la rete neuronale attivata da una determinata prestazione cognitiva cambia con l’esperienza che il soggetto ha del compito. Il sistema nervoso è quindi caratterizzato da un meccanismo intrinseco in grado di consentire un continuo rimodellamento funzionale. In un sistema così organizzato, il singolo componente perde la sua funzione strategica e in caso di danno può essere rimpiazzato. Grazie a questo meccanismo l’ambiente, fisico e sociale, plasma la materia cerebrale e il sistema nervoso assorbe le caratteristiche dell’ambiente in cui vive. Le acquisizioni sulla plasticità cerebrale hanno modificato profondamente l’atteggiamento culturale nei confronti di una serie di condizioni che, in base alle precedenti teorie sul funzionamento del sistema nervoso, venivano considerate l’effetto inevitabile di un danno delle strutture cerebrali. 38 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi I due esempi più significativi sono rappresentati dalla possibilità di limitare le conseguenze negative dell’invecchiamento cerebrale e di recuperare l’efficienza delle funzioni cognitive danneggiate da una lesione: di fatto né l’età né la patologia modificano l’attitudine del sistema nervoso di organizzarsi in relazione agli stimoli che riceve. 3.2 La riabilitazione come apprendimento Il recupero dopo lesione cerebrale può essere visto come un processo di apprendimento in condizioni patologiche. Di conseguenza l’intervento riabilitativo, inteso come l’attuazione di mezzi per rendere più completo il recupero, deve assumere i caratteri di una condotta di insegnamento volta a far acquisire al paziente comportamenti che gli permettano di interagire col mondo in maniera sempre più complessa in rapporto sia alle caratteristiche di questo sia ai propri scopi. È nozione comune che l’apprendimento implica cambiamenti funzionali e/o strutturali nel sistema nervoso. Una rigida applicazione della regola della fissità delle connessioni nervose in età adulta contrasta con il fatto che l’apprendimento, in assenza di specifiche patologie, può avere luogo praticamente a qualunque età. Studi primatologici hanno fornito dimostrazione diretta dei mutamenti nervosi indotti dall’apprendimento documentando un ampliamento delle aree di rappresentazione nervosa riguardanti elettivamente strutture coinvolte nell’apprendimento di un determinato compito. Se da un lato è chiaro che l’allenamento e la corretta esecuzione di un determinato compito modificano il sistema nervoso al fine di ottimizzare il compito stesso, dall’altro comincia ad essere compreso che l’esercizio strenuo ed improprio induce cambiamenti neurali in senso disorganizzativo e quindi dannoso. Molti interventi terapeutici in neuropsicologia riabilitativa trovano il loro fondamento in alcune teorie dell’apprendimento sviluppate nel corso del tempo. La storia e lo sviluppo della ricerca sul cambiamento cognitivo dell’uomo possono essere descritti considerando l’importanza e l’influenza reciproca che i diversi studiosi hanno attribuito ai fattori interni e a quelli esterni di tale evoluzione: cioè se l’acquisizione di conoscenze, idee e abilità sia frutto dell’influenza dell’ambiente in cui l’individuo vive oppure se sia determinata esclusivamente da meccanismi interni. 39 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi È possibile condensare questo tema nel rapporto tra apprendimento e recupero, che ha delle implicazioni importanti nel campo della riabilitazione: porre l’accento sulle influenze esterne o sui meccanismi interni significa formulare diversi obiettivi di trattamento e adottare metodiche distinte. Mentre il comportamentismo rifiuta di considerare rilevanti ai fini della conoscenza i meccanismi interni all’individuo, e quindi concentra la propria attenzione solamente sull’apprendimento, il cognitivismo non tiene presenti i fattori esterni e spiega il cambiamento cognitivo in termini di modificazione di strutture possedute dall’individuo ( Boscolo, 1997). Posizioni completamente opposte, quindi, che con l’approfondirsi degli studi in questo campo trovano una loro collocazione logica e conciliante nella posizione del costruttivismo, ma soprattutto di Vygotskij, che rifiuta la pretesa del comportamentismo di identificare l’apprendimento con lo sviluppo, ma allo stesso tempo respinge il concetto piagetiano dello sviluppo indipendente dall’apprendimento: in realtà, apprendimento e sviluppo sono due aspetti complementari che dialogano continuamente tra loro. La riflessione sullo stretto rapporto tra esperienza e cognizione ha portato ad allontanarsi dalle tesi universalistiche di Piaget , per attribuire invece un’importanza maggiore, e quindi una considerazione più attenta, al ruolo dell’esperienza nello sviluppo cognitivo, e passare quindi da un’attenzione particolare puntata sul contesto o sul soggetto, allo studio delle profonde interazioni tra i due fattori. 3.2.1 Comportamentismo La corrente del comportamentismo prende spunto dagli studi del fisiologo russo Pavlov (1849 / 1936), anche se elementi di questa teoria possono essere rinvenuti in Darwin. Nell’esperimento più famoso condotto dal fisiologo russo, Pavlov suonava un campanello ogni volta che porgeva del cibo ad un cane. Ogni volta che il cane sentiva il campanello sapeva che da lì a poco il cibo sarebbe arrivato, e per tale motivo iniziava a salivare. Successivamente Pavlov iniziò a suonare il campanello, ma senza porgere il cibo al cane: nonostante la mancanza di quest’ultimo, il cane salivava comunque. Questo perché l’animale era stato “condizionato” a salivare al suono del campanello. 40 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi Pavlov sosteneva che anche l’uomo reagisse agli stimoli secondo lo stesso schema, definito “condizionamento classico”, e questa idea venne sostenuta e rafforzata da Watson ( 1878 / 1958 ). Egli fu il primo ad applicare le teorie di Pavlov nel campo dell’apprendimento umano, affermando che tutti i comportamenti umani, tranne alcuni riflessi e reazioni emotive innate, fossero fissati attraverso il condizionamento per mezzo delle associazioni stimolo-reazione. Fu proprio Watson a coniare il termine “comportamentismo”, perché sosteneva che la psicologia non era collegata con la mente o la coscienza umana, ma solamente con il comportamento: in tal modo, l’uomo poteva essere studiato in modo oggettivo, tanto quanto i ratti e le scimmie. Le teorie elaborate da Pavlov hanno trovato un forte riscontro nei metodi di trattamento dei disturbi comportamentali: sono stati sviluppati, seguendo il principio del “condizionamento classico”, alcuni approcci di intervento basati sul controllo degli stimoli ambientali, mirati all’apprendimento di nuove abilità e a favorire l’emissione di comportamenti adeguati con lo scopo di aumentarne la stabilità . Skinner ( 1904 / 1990 ) riprese gli studi di Watson, affermando a sua volta che i processi di apprendimento erano osservabili grazie a dei cambiamenti nel comportamento, senza tenere conto di eventuali cambiamenti avvenuti nella mente. Egli studiò il “condizionamento operante” nell’apprendimento: secondo questa teoria, le contingenze ambientali o le reazioni dell’ambiente al comportamento di un individuo determinano il comportamento dell’individuo stesso. Se la reazione dell’ambiente è positiva, l’azione che l’ha causata viene rinforzata e quindi è più probabile che venga ripetuta. Per Skinner chi apprende agisce sull’ambiente che lo circonda e le reazioni che ne conseguono, positive o negative che siano, sono le fonti dell’apprendimento: è l’ambiente che seleziona i comportamenti più o meno funzionali, e le reazioni dell’ambiente alle azioni umane sono un segnale che rinforza o scoraggia i diversi modi di agire. Fu proprio Skinner ad introdurre nello studio dell’apprendimento umano i concetti elaborati dai primi comportamentisti: secondo lui, “l’apprendimento umano, inteso come induzione di comportameni desiderati, può essere favorito attraverso il rinforzo positivo” (Skinner, 1954). Da questa sua affermazione, tratta dall’articolo “the science of teaching and the art of learning” del 1954, che da l’avvio agli studi behaviouristi nell’apprendimento umano, si può evincere come l’acquisizione di concetti sia un processo passivo 41 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi controllato dall’esterno (si parla infatti di “induzione”), misurato in base alla comparsa di comportamenti esteriori ( e non quindi in base a modificazioni a livello intellettivo e psicologico), che prende il via da un rapporto “positivo” con l’ambiente: la dinamica che prevale in tale rapporto è quella del trial and error, denominata da Thorndike come “legge dell’effetto” (1931). I comportamentisti hanno cercato di spiegare le dinamiche dell’apprendimento senza indagare i processi mentali sottesi. Nonostante gli esperimenti sull’apprendimento fossero stati condotti in modo semplificato e incentrati comportamenti riflessi principalmente sui dell’individuo sottoposto a precisi stimoli, le teorie comportamentiste si sono diffuse ed hanno portato a forti generalizzazioni riguardanti le funzioni di livello superiore. Skinner, infatti, ha avuto un forte impatto sia sulla psicologia che sulla medicina riabilitativa: secondo i comportamentisti ogni comportamento è seguito da una risposta ambientale le cui caratterisiche, gradevoli o sgradevoli, dipendono dal tipo di comportamento prodotto, è essenziale dunque che l’apprendimento sia un’esperienza positiva, dato che qualsiasi associazione emotiva spiacevole può interferire con il processo. La mente di chi apprende è considerata una sorta di “scatola nera” all’interno della quale è impossibile vedere i processi che vi avvengono: quindi risulta inutile evocare i meccanismi interni per spiegare il comportamento, quando è più facile e dimostrato come quest’ultimo possa essere determinato dall’esterno in modo lineare. In base alle ipotesi di Skinner, l’obiettivo della riabilitazione neuropsicologica è di cambiare o comunque plasmare il comportamento di un individuo con lesione cerebrale servendosi di “rinforzi” o “punizioni”: in altre parole le metodologie comportamentistiche intervengono applicando tecniche in grado di modificare comportamenti inadeguati nell’interazione ambientale e sociale, dove ogni intervento è finalizzato a modificare la frequenza, la durata o la locazione di determinati comportamenti attraverso il variare sistematico delle condizioni ambientali. Tale approccio è caratterizzato da un esiguo, se non assente, numero di gradi di libertà del paziente, fattore che ha dei risvolti positivi e negativi. La debolezza del metodo risiede nel fatto che il paziente può trovarsi in una situazione in cui lo “stimolo” che dovrebbe portare all’adozione di comportamenti desiderati, di cui parla Skinner, viene a mancare e di conseguenza l’apprendimento non avviene. D’altra parte è anche vero che un approccio di questo tipo può essere utile durante 42 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi la seduta terapeutica, in quanto richiede un basso grado di processamento delle informazioni. Una delle leggerezze compiute dal comportamentismo è stata quella di generalizzare le teorie ricavate dall’osservazione di esperimenti di basso livello di apprendimento, basati principalmente sui riflessi, applicandole a funzioni di più alto livello, nelle quali vengono chiamati in causa altri processi più complessi. L’influenza delle teorie darwiniane emerge dal fatto che il processo di apprendimento altro non è che un adattamento all’ambiente circostante, che tramite le risposte alle nostre azioni su di esso ci fornisce degli stimoli che ci inducono a ripetere o ad abbandonare il comportamento fonte dello stimolo. Inoltre, nell’approccio comportamentista sono assenti due aspetti importanti: 1) un interesse verso il meccanismo utilizzato dall’individuo per apprendere il processo completo: studi successivi, infatti, hanno dimostrato che un processo complesso non può essere appreso semplicemente scomponendolo in elementi e insegnando i sottoprocessi senza considerare il conteso all’interno del quale il processo avviene. 2) un interesse verso la significatività della tematica appresa per l’individuo: se il processo appreso è in conflitto con la conoscenza già posseduta dall’individuo, quest’ultimo può risolvere tale discrepanza o non riuscendo ad accomodare 1 la nuova conoscenza in modo significativo alle proprie strutture mentali, oppure costruendo strutture conoscitive parallele a quelle possedute o in conflitto con esse. Il comportamentismo si presenta quindi come una sorta di “addestramento” piuttosto che come processo di apprendimento. 3.2.2 Cognitivismo Attorno agli anni Settanta, nell’ambito delle teorie del condizionamento operante, ha assunto molta importanza lo studio dell’apprendimento e si è così cercato di 1 Per accomodamento si intende, secondo Piaget, il momento in cui i dati provenienti dall’esperienza modificano la struttura mentale dell’individuo adattandola alle loro caratteristiche (Vygotskij, Piaget, Bruner, “concezioni dello sviluppo” a cura di Liverta Sempio O., 1998) 43 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi stabilirne le principali regole, come, ad esempio, se è più utile un apprendimento massivo o distribuito o il rapporto ideale tra il numero di stimoli e rinforzi. L’affermarsi della psicologia cognitivista, che veniva ad affiancarsi e a superare le impostazioni comportamentiste, è valso ad attirare l’attenzione degli studiosi dei prodotti del sistema nervoso centrale dell’uomo, sulla necessità di tener presente come oggetto di studio, oltre agli input e agli output del sistema, anche i processi che avvengono all’interno di esso, processi che fino ad allora non erano ritenuti possibili come oggetto di studio. La psicologia cognitivista ha sottolineato alcune nozioni che rivestono la massima importanza nell’analisi dell’organizzazione del comportamento, quali i processi cognitivi, il concetto di schema, la definizione di attenzione e di memoria a lungo e a breve termine, vista quest’ultima come sede delle operazioni di organizzazione del comportamento. Questa impostazione nello studio dell’attività umana è stata significativa, almeno in parte, per far riflettere anche il riabilitatore sulla reale correttezza di proposte operative che rimandavano ad un secondo tempo in riferimento ai processi di elaborazione che nella realtà erano contemporanei al movimento. Fino al 1970 la maggior parte dei neurofisiologi studiava prevalentemente il funzionamento del singolo elemento (neurone, sinapsi) o più gruppi di elementi indipendentemente dall’attività dell’animale. Infatti, la maggior parte delle ricerche era condotta nell’animale inferiore e per lo più decerebrato, cioè posto in condizioni di non programmare il suo movimento e di elaborarlo sulla base di finalità presenti al suo sistema nervoso centrale. Gli studi di questo tipo hanno condotto a notevoli acquisizioni per quanto riguarda la conoscenza dei circuiti riflessi a partenza muscolare e dei meccanismi di integrazione nel senso sherringtoniano del termine, non sono però riusciti, se non in maniera assai ridotta, ad evidenziare e specificare i rapporti con i livelli superiori. Intorno agli anni Settanta un numero maggiore di fisiologi prende a studiare l’attività motoria in un modo più globale ricorrendo con maggiore frequenza ad animali superiori, conducendo gli studi su animali integri, senza sezioni a carico del sistema nervoso centrale, non anestetizzati e addestrati a determinati compiti, cioè ad attivare comportamenti finalizzati che potessero essere oggetto di studio.00000000I vecchi concetti dell’attività motoria riflessa come mattone del comportamento, vengono 44 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi superati quando il fisiologo riesce a dimostrare che l’attivazione del circuito riflesso è in relazione con l’intenzionalità di chi si muove e con la finalità del movimento. Altri parametri del movimento prima trascurati perché ritenuti soggettivi e quindi non sufficientemente quantificabili, vengono ritenuti fondamentali per spiegare l’intervento del sistema nervoso centrale nell’organizzazione del comportamento. Sulla spinta delle osservazioni critiche derivate dalla psicologia cognitivista, il comportamento viene ora proposto come lo studio dei processi messi in atto da un sistema che interagisce con l’ambiente secondo le proprie necessità, dove l’attività umana viene a rappresentare l’oggetto dell’intervento riabilitativo. Il recupero è considerato come la conseguenza dell’attivazione di una serie di processi cognitivi e quindi di funzioni nervose superiori: migliore la loro integrazione, migliore il recupero. Fondamentale è la conoscenza dei processi che strutturano le contrazioni in sequenze significative all’interno di un contesto relazionale. Dal momento che si parla di apprendimento, bisogna considerare ovviamente le funzioni cognitive di base o di servizio, come ad esempio le funzioni esecutive, l’attenzione, la memoria, la percezione e sensazione, il linguaggio, le associazioni, nonché la plasticità del sistema nervoso centrale e i meccanismi di riparazione. Un’analisi del movimento di tipo pragmatico che tenga conto non solo delle caratteristiche fenomeniche del movimento e delle alterazioni in loro indotte dalla patologia, ma soprattutto delle necessità del paziente oltre che delle caratteristiche dell’ambiente col quale deve interagire, conduce alla definizione che l’oggetto dell’intervento riabilitativo può essere ritenuto il recupero dell’adattabilità, intesa come capacità di interagire e possibilità di adeguare alle necessità informative la relazione con il mondo esterno. Inoltre, se si ritiene che il movimento debba essere analizzato come elemento in grado di permettere la conoscenza del mondo, è indispensabile perfezionare la comprensione del suo ruolo: interagire con l’oggetto non è equivalente a ricostruire meccanicamente l’oggetto nella mente, operazione peraltro impossibile, ma significa in ogni caso interpretare l’oggetto in funzione delle proprie necessità. Esiste un’importante differenza di impostazione tra un programma di trattamento dal punto di vista del comportamento, e quello relativo all’apprendimento. Una strategia comportamentale è essenziale nelle prime fasi della riabilitazione, quando la lesione cerebrale evolve nel corso del processo di recupero; in ogni caso, se gli approcci terapeutici vengono diretti soltanto alla sintomatologia della lesione (per esempio 45 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi occupandosi della memoria o dell’attenzione, controllando le risposte agli stimoli ambientali), allora non vengono proposte quelle attività indispensabili al raggiungimento delle abilità necessarie per consentire risultati funzionali ottimali e permanenti. La determinazione delle abilità richieste, si svilupperà dall’interazione dei deficit organici e cognitivi, e dal modo in cui questi limitano la capacità dell’individuo di occuparsi della cura di se sesso, il grado di dipendenza fisica dagli altri e l’adattabilità psicosociale nell’occuparsi di attività produttive, importanti dal punto di vista sociale. Inerente alle abilità richieste vi è quella di acquisire un comportamento pratico ed esperto. Come per tutti, per un individuo con lesione cerebrale il comportamento pratico ed esperto consiste nell’esperienza e nella capacità di eseguire i compiti della vita quotidiana. L’esperienza è l’abilità di raggiungere in modo costante un obiettivo, in un’ampia varietà di condizioni. La capacità di risolvere i problemi e di generalizzare le nuove situazioni si basa sulla capacità di apprendimento dell’individuo, che indica l’efficienza nell’organizzare le risorse interiori disponibili, per creare e controllare soluzioni che portano ad interazioni significative tra lui e l’ambiente. 3.2.3 Conclusioni Sono stati fatti molti tentativi per descrivere i processi dell’apprendimento umano, teorie affascinanti, tanto più interessanti perché possiamo verificarle quotidianamente, anche riflettendo sulle esperienze di apprendimento che abbiamo vissuto nella nostra vita. Ma la domanda che ora è necessario porsi è se esiste una teoria dell’apprendimento migliore e più efficace delle altre, e quindi quali possono essere i metodi migliori per applicare tale teoria nell’ambito riabilitativo. Il fatto è che la lesione cerebrale può dare origine ad un’ampia varietà di disturbi comportamentali, che vanno però indagati sulla base delle caratteristiche individuali, tenendo in considerazione una serie di fattori soggettivi che possono favorire od ostacolare il processo di recupero. Non è quindi possibile generalizzare gli interventi e non è altrettanto auspicabile ottenere gli stessi risultati funzionali se si considera l’individuo nella sua globalità. 46 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi 3.3 La riabilitazione neuropsicologica La lesione cerebrale può dare origine a comportamenti “bizzarri” che vengono solitamente interpretati come reazioni psicologiche, anziché come una conseguenza inevitabile della lesione, creando un circolo vizioso che conduce spesso alla esclusione del paziente dal contesto in cui vive. In generale i deficit cognitivi possono avere conseguenze molto più devastanti sul comportamento quotidiano rispetto ai deficit di moto o di senso; tuttavia il problema comportamentale non è immediatamente rilevabile e compare solo al momento dell’interazione sociale. La maggior parte delle difficoltà incontrate dai soggetti che hanno subito un trauma cranico vengono attribuite dai familiari ad un cambiamento generale del carattere, ma sono in effetti la conseguenza di alterazione dei processi attentivi e della perdita delle strategie di analisi e programmazione che richiedono l’integrità funzionale dei lobi frontali. In questo senso bisogna considerare che vittima della lesione cerebrale non è solo il paziente ma anche la sua famiglia. Non poco aiuto deriva ai conviventi da una migliore comprensione del comportamento del paziente e della influenza che su di esso possono esercitare le modificazioni del contesto, di cui fanno parte in prima istanza proprio i conviventi; informare che le prestazioni cognitive e gli aspetti emotivo-affettivi seguono determinate regole, che la lesione ha provocato una riduzione di vario grado delle possibilità di scelta comportamentale (fino al limite di una sola possibilità) e che generalmente il paziente fornisce la migliore risposta che ha a disposizione in quella determinata situazione può abbattere alcune barriere che ostacolano la comunicazione con il paziente; suggerire la inopportunità di atteggiamenti derivanti dal continuo confronto con le abilità e le caratteristiche comportamentali che si conoscevano prima della lesione o dall’applicazione degli stessi criteri di giudizio usati in precedenza, quando si dava per scontato che il comportamento fosse la conseguenza di una scelta volontaria e spontaneamente modificabile, può aiutare a limitare il manifestarsi di condotte problematiche. Un corollario di grande rilievo è rappresentato dalla riabilitazione nella cronicità; sono sempre più numerose le documentazioni di miglioramenti funzionali significativi in soggetti con lesione insorta da molti anni grazie alla utilizzazione di piani riabilitativi individualizzati. Per il recupero sembra cioè più importante il tipo di strategia riabilitativa che il tipo di lesione. 47 3. Premesse teoriche della riabilitazione dei processi cognitivi Se il comportamento può essere considerato un imperativo neurologico, nella relazione cervello-ambiente la variabile dipendente è il cervello; la plasticità, che caratterizza l’individuo nella sua singolarità ha la sua massima espressione in età evolutiva, ma si mantiene per tutta la vita, anche in età geriatrica, e non viene persa nemmeno in caso di patologia. La perenne modificabilità delle mappe cerebrali è la migliore garanzia delle possibilità di successo della riabilitazione neuropsicologica, un settore delle neuroscienze che appare ormai affrancato dall’empirismo, pur solido, su cui aveva fondato le sue origini ed ha acquisito un suo corpus dottrinario che ne giustifica la prassi, permettendo di superare lo scetticismo che effettivamente appariva giustificato sulla base delle conoscenze teoriche antecedenti. Allo stato attuale delle conoscenze, la riabilitazione neuropsicologica assume un ruolo decisivo nel progetto di salute di ogni soggetto che soffra di una disabilità cognitiva. 48 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale In questo capitolo sarà descritta la metodologia dell’intervento riabilitativo nei pazienti con sindrome frontale, degenti durante la fase postacuta in un ospedale di riabilitazione. Il progetto proposto è inserito all’interno di un più ampio protocollo di riabilitazione neurologica che vede l’intervento interdisciplinare di numerose figure professionali: medici neurologi e fisiatri, infermieri, fisioterapisti, logopedisti, psicologi e assistenti sociali. L’obiettivo generale dell’intervento, in accordo con la nuova concettualizzazione delle disabilità dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2003), che tiene conto per la prima volta anche di fattori ambientali, è quello di fare regredire le menomazioni psichiche, le limitazioni delle attività e le riduzioni della partecipazione attraverso interventi diagnostici, prognostici e riabilitativi. L’ESAME NEUROPSICOLOGICO L’esame neuropsicologico fornisce informazioni sul comportamento, le capacità cognitive, la personalità, le abilità apprese e il potenziale riabilitativo delle persone che hanno subito una lesione cerebrale. Il suo obiettivo è quello di rilevare le manifestazioni comportamentali delle funzioni cerebrali, siano esse compromesse o preservate. La sua metodologia richiede l’utilizzo di tecniche specializzate nella relazione comportamento-cervello. L’esame neuropsicologico tiene conto di tre dimensioni del comportamento: • le funzioni cognitive; • le funzioni esecutive; • l’emozione e la motivazione; e di una attività mentale: • la consapevolezza o coscienza. 49 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale La valutazione neuropsicologica si basa su un’osservazione clinica multiprofessionale. Essa contribuisce: • a determinare la diagnosi neuropsicologica; • a completare la diagnosi neurologica, supportandone la diagnosi differenziale; • a individuare la prognosi clinica generale; • a strutturare il progetto riabilitativo integrato; • a sviluppare il programma di riabilitazione neuropsicologica; • a fornire al paziente e alla famiglia indicazioni sulle abilità compromesse e su quelle residue, per poter riadattare in modo congruente le aspettative e gli obiettivi per il futuro, nonché le strategie di compenso; • a fini assicurativi e legali. Nella sindrome frontale è opportuna una valutazione di minima di tutte le funzioni corticali superiori ed una valutazione specifica delle funzioni esecutive. L’esame neuropsicologico si avvale dei seguenti strumenti: • l’intervista; • l’osservazione; • i test neuropsicologici standardizzati. L’esame neuropsicologico sarà preceduto da una preliminare consultazione di: referti neuroradiologici; anamnesi medica generale e neurologica in particolare; relazioni cliniche e scolastiche. L’INTERVISTA NEUROPSICOLOGICA L’intervista neuropsicologica ha lo scopo di rilevare: • la storia personale: educativa, familiare, occupazionale, cognitiva, sociale, medica, psicologica; 50 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale • la descrizione soggettiva dei disturbi cognitivi; • la motivazione e la presenza di apatia; • l’emozione e la presenza di disturbi emotivi; • l’autocontrollo e la presenza di disinibizione, aggressività e altri disturbi da discontrollo comportamentale; • l’esame di realtà e la presenza di disturbi tipo psicotico (deliri e allucinazioni) o pseudopsicotico (paramnesie reduplicative, confabulazioni, allucinosi); • la personalità premorbosa e la presenza di modificazione della personalità; • i livelli di consapevolezza dei disturbi e la presenza di anosognosia, meccanismi di negazione o altre alterazioni della consapevolezza; • l’impatto della menomazione, le limitazioni dell’attività, la riduzione della partecipazione, il grado di disadattamento; • le relazioni familiari. Infine, il primo colloquio neuropsicologico ha una funzione fondamentale: quella di porre le basi per iniziare a costruire una collaborazione e una relazione terapeutica con il paziente. L’intervista neuropsicologica è uno strumento essenziale della valutazione neuropsicologica; sebbene sia strutturata per aree di approfondimento, viene condotta in modo flessibile, non ha una forma rigida e fissa e segue il tema proposto dal paziente .L’intervista neuropsicologica deve essere trascritta su un modulo specifico, per poter essere conservata e facilmente consultata. L’OSSERVAZIONE L’osservazione del comportamento è il fondamento della valutazione psicologica. Viene effettuata secondo quattro modalità: 1. indiretta: comportamenti riferiti da familiari, medici, terapisti; interviste; liste comportamentali; 2. indiretta strutturata: questionari di self report o di eterovalutazione; 3. diretta informale: comportamenti emersi durante l’intervista e i test; 51 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale 4. diretta strutturata: monitoraggio e scheda di osservazione di un comportamento specifico; test neuropsicologici non standardizzati. I TEST NEUROPSICOLOGICI I test neuropsicologici rilevano le funzioni e i deficit cognitivi: • la memoria e l’amnesia; • l’attenzione e disturbi dell’attenzione • la percezione e le agnosie; • la cognizione spaziale e i disturbi spaziali; • il linguaggio e le afasie, dislessie, disortografie; • il sistema dei numeri e del calcolo e le discalculie; • le funzioni esecutive o di controllo e le sindromi disesecutive; • il pensiero, le funzioni intellettive superiori e il loro deterioramento; Nessun test neuropsicologico è una misura pura di una specifica funzione o processo cognitivo, poiché ciascuno di essi attiva molteplici abilità cognitive. I test di memoria ed esecutivi operano sempre anche su una funzione neuropsicologica strumentale. Non è possibile misurare una funzione cognitiva somministrando uno o due test; l’individuazione di un deficit cognitivo avviene attraverso l’analisi multidimensionale delle prestazioni a un gruppo di test selezionati man mano, in base alle prestazioni individuali. Criteri di selezione dei test neuropsicologici Attualmente sono disponibili numerosi test neuropsicologici per le differenti funzioni cognitive, molti dei quali, nel nostro Paese, standardizzati. I test neuropsicologici iniziali o di screening vanno scelti in base alle seguenti variabili: 52 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale • dati anagrafici: età, scolarità, professione e caratteristiche socioculturali del paziente; • natura o eziologia della malattia: vascolare, traumatica, degenerativa, tumorale, dismetabolica; • tempo intercorso dall’esordio, fase della malattia (acuta, postacuta), esiti oppure stato evolutivo (iniziale, intermedio, terminale); tipo di decorso della malattia: progressivo, cronico, regressivo; • motivo dell’esame: diagnostico, prognostico, riabilitativo, legale. I test di approfondimento vengono selezionati in base ai risultati dei test iniziali o di screening. Per ciascun test devono essere registrati, nell’apposita scheda di notazione: • la risposta; • il tempo impiegato; • gli errori autocorretti; • le risposte perseverative; • l’inchiesta dell’esaminatore; • le facilitazioni; • le risposte successive; • l’attenzione; • La motivazione e la collaborazione allo svolgimento del test; • la presenza di risposta catastrofica o di ansia da prestazione. 53 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale TEST NEUROPSICOLOGICI NELLA SINDROME FRONTALE Inibizione di imitazione e perseverazione AMI Flessibilità di risposta automatica STROOP TEST Flessibilità di risposta WCST TRAIL MAKING TEST Giudizio GIUDIZI VERBALI MPR 38 STIME COGNITIVE Classificazione WEIGL’S SORTING TEST Pianificazione e strategie TEST DI FLUENZA TORRE DI LONDRA Pianificazione e apprendimento FIGURA DI REY Working RIP. memory Consapevolezza INVERSA DI CIFRE SCALA DI OSSERVAZIONE DEL COMPORTAMENTO 54 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale PROTOCOLLO DI RIABILITAZIONE La plasticità cerebrale in seguito a lesione corticale è ampiamente documentata anche in individui adulti. Affinché i processi di riorganizzazione corticale abbiano luogo, l’ambiente deve fornire una specifica stimolazione volta a compensare i deficit. Oggetto della riabilitazione è creare questa stimolazione ambientale con un approccio olistico e individualizzato, che risponda ai bisogni cognitivi, emotivi e motivazionali del paziente. Lo scopo dell’intervento riabilitativo è migliorare l’adattamento funzionale del paziente nonostante il danno cerebrale subito. I disturbi neuropsicologici trattati sono: 1. di tipo cognitivo, quali agnosia, aprassia, amnesia, discalculia, deficit di attenzione; 2. di tipo emotivo-motivazionale (detti anche affettivi o neuropsichiatrici), quali inerzia, apatia, labilità, irritabilità, depressione, ansia; 3. di tipo esecutivo (detti comportamentali o frontali), quali disinibizione, riduzione del controllo, incapacità di critica, rigidità, disorganizzazione, difficoltà a risolvere i problemi; 4. la mancanza di consapevolezza, l’anosognosia. In questa prima fase dell’intervento si integra la diagnosi neuropsicologica e le associazioni e dissociazioni con la menomazione, disabilità e le limitazioni. Si effettua un’analisi cognitiva e comportamentale del/i disturbo/i neuropsicologico/i: • per i disturbi cognitivi si inizia individuando i processi alterati e preservati sottostanti la funzione cognitiva da riabilitare, con l’utilizzo di test cognitivi tratti o modificati da studi sperimentali pubblicati in riviste scientifiche del settore ; • per le alterazioni esecutive e della motivazione vengono eseguite delle osservazioni dirette e indirette sui livelli di motivazione, iniziativa e partecipazione del paziente al programma riabilitativo, sull’adeguatezza della 55 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale condotta sociale, sulla capacità di inibizione e controllo, sulla fluidità/rigidità del pensiero e del problem-solving. Queste osservazioni durano per tutto il periodo del trattamento. • per il funzionamento emotivo si individuano, per mezzo del colloquio psicologico individuale, l’organizzazione di personalità del paziente, l’adattamento psicologico alla nuova realtà, la presenza e l’entità di disturbi emotivi (labilità, irritabilità, ansia, depressione, mania), l’eventuale modificazione di personalità intercorsa, la qualità delle relazioni familiari. La consapevolezza del disturbo neuropsicologico, la relativa reazione e partecipazione emotiva vengono costantemente monitorate con l’osservazione e il colloquio. Successivamente si integrano i dati raccolti, si individuano le disabilità, le limitazioni dell’attività e le riduzioni della partecipazione, conseguenti ai disturbi e alle menomazioni neuropsicologiche oggetto di riabilitazione. I dati vengono quindi codificati con il sistema di Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) dell’OMS (2003). L’integrazione tra disturbo neuropsicologico, menomazione, disabilità e limitazioni viene riassunta in una scheda predefinita. OBIETTIVI L’obiettivo generale della riabilitazione è quello di favorire una maggiore autonomia (ridurre le limitazioni) e integrazione psicosociale dell’individuo (aumentare la partecipazione). Si tenta di raggiungere l’obiettivo generale prefiggendo dei sottobiettivi specifici, che abbiano una valenza “ecologica” nella vita della persona. Gli obiettivi sono formulati per stadi di riabilitazione: 1. l’obiettivo iniziale prevede di rendere il paziente consapevole delle proprie limitazioni, e di stimolarne un ruolo attivo; 2. la seconda fase prevede un intervento di rieducazione e di compenso per i disturbi cognitivi e comportamentali, e un intervento psicoterapeutico sui disturbi emotivi; 56 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale 3. la terza fase prevede la generalizzazione delle strategie di compenso nell’ambiente. Necessariamente queste tre fasi si sovrappongono nel percorso riabilitativo. METODI TERAPEUTICI La riabilitazione nei disturbi frontali prevede un trattamento riabilitativo olistico, che consenta cioè di gestire in maniera sistematica ed integrata le problematiche di tipo cognitivo, emotivo e comportamentale e le difficoltà di inserimento sociale. La metodologia terapeutica è il mezzo con il quale raggiungere l’obiettivo, ha le sue radici nelle scienze cognitive e nel comportamentismo e può essere schematizzata nei seguenti interventi. • Metodi cognitivi: stimolazione specifica di un processo cognitivo leso Viene facilitato l’accesso a un’informazione che è relativamente intatta, ma inaccessibile. Stimolazione e riadattamento funzionale di moduli cognitivi preservati, o abilità residue, e superamento degli effetti inibitori. Vengono sviluppate nuove abilità, coinvolgendo differenti processi cognitivi, per svolgere una determinata funzione. • Tecniche comportamentiste: costituiscono lo strumento con il quale implementare i metodi cognitivi e affrontare i disturbi comportamentali da disfunzione esecutiva e dell’autocontrollo; tramite esse, vengono riaddestrate le procedure per eseguire un determinato compito (condizionamento operante, task analisi, fading, shaping, chaining, modeling, condizionamento classico e apprendimento senza errori). • Psicoterapia cognitiva individuale adattata al paziente cerebroleso (detta neuropsicoterapia): prevede prevalentemente l’uso del problem solving, l’automonitoraggio, la ristrutturazione cognitiva, i colloqui guidati per il recupero della consapevolezza. • Modificazione ambientale e intervento protesico: viene strutturata una modificazione dell’ambiente, fornendo un aiuto dall’esterno. 57 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale La scelta degli obiettivi e della metodologia dipende dall’integrazione di diversi fattori: • il tipo di disturbo cognitivo-comportamentale e il relativo impatto sul funzionamento quotidiano; • il tipo di lesione cerebrale: sede e natura; • le risorse cognitive risparmiate dalla lesione e le abilità residue; • l’abilità di apprendere nuove strategie; • la funzionalità esecutiva per generalizzare le strategie e per risolvere problemi quotidiani in situazioni reali; • l’analisi delle funzioni cognitive necessarie allo svolgimento di un’abilità; • le differenze individuali che possono contraddire le previsioni formulate in base a studi di gruppi o alle analisi statistiche; • il contesto socioculturale ed educativo; • le competenze cognitive premorbose; • la personalità e l’adattamento psicologico premorboso; • la consapevolezza del disturbo, dell’impatto e della disabilità; • la reazione emotiva manifestata in seguito alla lesione cerebrale; • la motivazione essenziale e al trattamento; • la modificazione della personalità intercorsa; • la disabilità globale e le conseguenze psicosociali individuali; • la qualità del supporto familiare. DURATA DELL’INTERVENTO La durata del trattamento viene necessariamente condizionata, più che dal raggiungimento dell’obiettivo, dalla durata della degenza, che raramente supera i due mesi. Quando l’obiettivo proposto non è stato raggiunto a fine degenza, si propone una riabilitazione in day-hospital o si demanda ad altra struttura. 58 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale VERIFICA DEI RISULTATI La modificazione delle menomazioni e delle limitazioni del paziente viene monitorata costantemente dal responsabile del programma di riabilitazione neuropsicologica, che valuta se i cambiamenti sono quelli attesi o se è necessario modificare tecniche di intervento od obiettivi. Alla fine del trattamento riabilitativo viene effettuata una valutazione di controllo utilizzando gli stessi strumenti impiegati nella fase di analisi del disturbo (che possono essere test cognitivi, questionari o sessioni strutturate e graduate di osservazione), e vengono analizzati i risultati. I dati vengono quindi codificati con il sistema di Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) (OMS, 2003). I risultati del trattamento vengono poi trasformati in indicatori di efficacia. OPERATORI COINVOLTI L’esecuzione della riabilitazione richiede l’intervento di numerosi operatori professionali, in particolare quando deve essere aumentata l’autonomia nelle attività di vita quotidiana o devono essere modificati comportamenti disfunzionali: il neuropsicologo, il fisioterapista, il logopedista e il personale di reparto. Le ricerche e le osservazioni cliniche dimostrano che la famiglia gioca un ruolo essenziale e insostituibile all’interno del processo riabilitativo, e che esiste una relazione tra l’efficacia dell’intervento riabilitativo e la capacità della famiglia di adattarsi all’evento cerebrale. Lo scopo dell’intervento con la famiglia è sia quello, iniziale, di acquisire informazioni anamnesiche e osservazioni indirette, che quello di informare/formare e assistere la famiglia sulle problematiche neuropsicologiche del congiunto. L’intervento è rivolto ai caregiver ed eventualmente allargato ad altre persone che hanno una relazione costante con il paziente. Il familiare, se disponibile, viene direttamente coinvolto nel programma di riabilitazione, messo a conoscenza degli obiettivi, addestrato alla gestione dei disturbi cognitivi comportamentali del paziente e sulle modalità di interazione da tenere per favorire il recupero nelle varie fasi del processo riabilitativo. 59 4. Progetto di intervento riabilitativo nella sindrome frontale Se necessario, prima della dimissione, viene effettuata una consulenza a operatori sociali, insegnanti o chiunque venga coinvolto nel percorso di programmazione del reinserimento sociale, lavorativo o scolastico. Il progetto illustra come il terapista, avvalendosi di metodi e strumenti che spaziano dalle neuroscienze alla psicologia generale, dal cognitivismo alla psicoterapia cognitiva e comportamentale, dalla neuropsicologia alla psicologia clinica, possa contribuire a costruire un intervento integrato e olistico, mirato a ridurre non solo le menomazioni conseguenti la lesione cerebrale, ma anche le limitazioni dell’attività e le riduzioni della partecipazione, come è indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2003). I protocolli presentati sono frutto di un’esperienza decennale di presa in carico delle problematiche cognitive, emotive e comportamentali del paziente cerebroleso inserito all’interno di un’unità di riabilitazione Vorrei soffermarmi sulla valenza interdisciplinare del progetto; il programma neuropsicologico non è un’isola a sé stante, ma acquista valore nel momento in cui è integrato dal contributo di altri diversi programmi riabilitativi, aventi tutti il medesimo scopo di far raggiungere al paziente cerebroleso la migliore indipendenza funzionale possibile. 60 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali I deficit cognitivi rappresentano, molto spesso, la più grave causa di disabilità nei pazienti che hanno subito un danno cerebrale. Quando l’obiettivo ottimale di ripristino della funzione lesa non può essere raggiunto, lo scopo di una riduzione della disabilità o dell’handicap deve comunque essere perseguito. Un problema spesso presente in ambito riabilitativo è quello della valutazione della sua efficacia. In effetti, al di là di un “sapere” riabilitativo basato su più o meno validi presupposti teorici ed esperienza personale, si fa sempre più pressante la richiesta di una valutazione di efficacia che risponda ai principi della medicina basata sull’evidenza. Diversi sono i problemi che nascono quando si voglia esprimere un giudizio obiettivo sui contributi che la letteratura scientifica produce a tale riguardo. Ci sono, infatti, tutta una serie di variabili da prendere in considerazione nella valutazione dell’efficacia del trattamento riabilitativo. Una di esse è il tipo di intervento riabilitativo a cui i pazienti sono sottoposti. Oltre allo specifico tipo di trattamento (che può variare in funzione non solo dello specifico problema presentato dal paziente ma anche in base alla diversa “scuola” riabilitativa), altri fattori potenzialmente in grado di incidere in maniera significativa sull’outcome del deficit cognitivo sono il diverso grado di esperienza / competenza dei singoli team riabilitativi e/o operatori, così come la durata e frequenza delle sessioni riabilitative. Un’altra variabile da prendere in considerazione è la tipologia del paziente sottoposto al trattamento. Proprio perché il deficit cognitivo non può essere concepito secondo una dicotomia tutto/nulla ma può variare nei suoi aspetti sia qualitativi che quantitativi, la valutazione di efficacia di un trattamento, così come il confronto tra singole metodiche riabilitative, dovrebbe tener conto della variabilità interindividuale dei pazienti afferenti ai vari studi. C’è da rilevare, peraltro, che la variabilità nella tipologia dei pazienti è anche da ricercare sia nelle caratteristiche socio-anagrafiche dei pazienti (con un relativo maggior beneficio dal trattamento riabilitativo nei pazienti più giovani) sia nel diverso stadio evolutivo del deficit (acuto, subacuto, cronico), con una suscettibilità a 61 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali trarre giovamento dal trattamento riabilitativo che si va via via riducendo man mano che ci si allontana dal momento di insorgenza del deficit stesso. Un ultimo elemento da tenere in considerazione quando si vogliano trarre, dalla letteratura scientifica disponibile, elementi di giudizio circa l’efficacia della riabilitazione cognitiva riguarda il tipo di disegno sperimentale. La variabilità tra i vari studi riguarda, in questo caso, i target di outcome considerati, il tipo di randomizzazione dei pazienti afferenti al trattamento sperimentale e, soprattutto, la tipologia della condizione di controllo. Questa potrà essere rappresentata da nessun tipo di trattamento (nel qual caso l’eventuale beneficio della condizione sperimentale potrebbe essere la mera espressione di un’aspecifica attivazione cognitiva), un trattamento aspecifico (che evita il problema sopradetto ma che non ci dà alcuna informazione circa l’efficacia di una metodica riabilitativa rispetto ad un’altra) o, infine, un altro trattamento riabilitativo (rappresentando, in questo caso, un reale confronto di metodiche riabilitative). In questo capitolo sono riassunti i risultati di una serie di meta-analisi condotte sugli studi sperimentali relativi alla riabilitazione dei più frequenti disturbi neuropsicologici conseguenti a lesione dei lobi frontali. I risultati sono relativamente incoraggianti riguardo l’efficacia della riabilitazione cognitiva. Ulteriori dati sperimentali si rendono, tuttavia, necessari soprattutto per documentare l’efficacia di tali metodiche nel migliorare l’autonomia dei pazienti nella vita di tutti i giorni 5.1 Riabilitazione dei disturbi delle funzioni esecutive La letteratura neuropsicologica clinica attribuisce alle funzioni esecutive il più alto livello delle abilità cognitive come l’attenzione, la fluidità e flessibilità di pensiero nella generazione di soluzioni a nuovi problemi, la pianificazione e regolazione adattiva e il comportamento finalizzato. Le alterazioni delle procedure esecutive, come è noto, producono disfunzioni nei compiti di governo, di elaborazione, di coordinazione di tutte le funzioni cerebrali, sia basiche che strumentali, nonché disturbi del comportamento, delle capacità logiche, di giudizio astratto e di problem-solving. 62 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali Nell’ambito della patologia tali disturbi possono manifestarsi con varie modalità e in varie combinazioni. Contestualmente si osservano anche disturbi della capacità di elaborazione logico-astratta e di generalizzazione, che si riflettono anche nella qualità del rendimento in ogni altra funzione neuropsicologica . Lo svolgimento delle varie attività prassico-procedurali è affrettato o eccessivamente lento, qualitativamente approssimativo, inaccurato nei dettagli, con frequenti errori della sequenza procedurale. La perdita di creatività e originalità è una costante in tutte le attività, anche nelle più comuni e quotidiane, con tendenza a perseverare in soluzioni già adottate per incapacità ad adattarsi ai mutamenti. Nel condurre un ragionamento logico verbale o logico-matematico si manifestano difficoltà nell’analisi degli aspetti del problema, nella pianificazione e realizzazione della sequenza di ragionamento, come pure incapacità a trarre conclusioni. L’integrità delle funzioni esecutive è essenziale per la maggior parte delle abilità pratiche e la sua disfunzione risulta estremamente debilitante sia per i pazienti che per le loro famiglie. Queste abilità risultano a volte non solo difficili da definire, ma anche da valutare, motivo che ha condotto allo sviluppo di un grande numero di test neuropsicologici clinici e sperimentali. Sebbene gran parte del progresso sia rivolto alla risoluzione dei deficit sensitivomotori conseguenti al trauma, la terapia cognitiva rimane una sfida: nonostante lo sforzo considerevole di medici e ricercatori nello sviluppare strategie riabilitative per migliorare i disturbi delle funzioni esecutive, la strada verso un trattamento efficace è stata piena di difficoltà ed ha spesso prodotto risultati deludenti: sono poche le strategie che attualmente possono esser ritenute efficaci, tuttavia, oltre all’intervento farmacologico, la terapia cognitiva rimane l’approccio elettivo di intervento e gioca un ruolo essenziale per l’outcome funzionale e la reintegrazione sociale. È difficile sviluppare un approccio terapeutico cognitivo standard per i disturbi delle funzioni esecutive per diverse ragioni: 1) come è stato precedentemente discusso, ci sono un’ampia varietà di deficit che possono derivare da una lesione del lobo frontale che rientrano nell’ambito delle funzioni esecutive (pianificazione, inibizione, iniziativa, consapevolezza di sé, ecc…) ; 2) le condizioni neurologiche che possono provocare una lesione del lobo frontale sono molteplici (trauma cranico, ictus, encefaliti, ecc…) ; 63 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali 3) molti pazienti con lesione del lobo frontale manifestano deficit comportamentali come la mancanza di consapevolezza di sé, scarsa motivazione o disturbi della personalità e dell’umore che costituiscono un serio impedimento al processo riabilitativo. Pertanto, è difficile generalizzare gli interventi riabilitativi per deficit cognitivi e comportamentali così differenti fra loro. L’estrema variabilità dei disturbi e, soprattutto, l’estrema mutevolezza del quadro clinico dei pazienti anche da un giorno all’altro, sottolinea la necessità di sviluppare programmi di intervento individualizzati e specifici, adattati al livello di disabilità e adeguati in rapporto alle fasi di recupero cognitivo-comportamentale e funzionale. Questi limiti, così come i diversi livelli cognitivi delle funzioni esecutive, hanno condotto ad una divergenza nell’approccio generale adottato dagli specialisti della riabilitazione. Negli ultimi anni, sono apparse in letteratura un certo numero di meta-analisi volte a valutare, con il metro della medicina basata sull’evidenza, il peso delle evidenze sperimentali riportate in letteratura relative all’efficacia del trattamento riabilitativo di specifici deficit cognitivi. La letteratura scientifica propone varie tecniche di intervento, la cui validità è stata testata attraverso studi di ricerca che descrivono gli interventi individuali su singoli pazienti o su piccoli gruppi. Questi diversi interventi hanno in comune la possibilità di essere generalizzati ed estesi ad altri contesti e ad altre abilità. Gli studi attuali suggeriscono che la strategia specifica di riabilitazione impiegata, nonostante l’approccio generale, rientra all’interno di tre diverse ma sovrapponibili categorie: • Manipolazione e modificazione ambientale; • Controllo del comportamento; • Interventi diretti mirati a migliorare il deficit specifico. L’eterogeneità di queste forme di terapia rende necessari diversi tipi di valutazione. Gli studi valutativi hanno permesso di raggiungere diversi livelli di evidenza: mentre le forme di terapia cognitiva hanno raggiunto livelli di evidenza elevati, gli studi basati sulla manipolazione ambientale e sul controllo del comportamento, presentati 64 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali soprattutto come studi su singolo caso con parametri di outcome individuali, hanno raggiunto solo bassi livelli di evidenza. La manipolazione ambientale sottolinea i fattori esterni al paziente. L’ambiente non è caratterizzato solo da determinate caratteristiche fisiche, ma anche e soprattutto dal fatto di contenere in maniera più o meno esplicita, in rapporto alle intenzioni di chi si muove, informazioni che devono / possono essere raccolte, per dare senso in rapporto agli scopi. L’adattabilità che caratterizza il comportamento, non deve essere intesa solo nei confronti degli oggetti, ma anche dalle intenzioni del soggetto, si tratta cioè di una caratteristica appartenente al processo dell’interazione piuttosto che all’uno o all’altro degli elementi che entrano in rapporto. Il contesto viene a rappresentare un elemento dinamico in continua evoluzione sulla base delle acquisizioni compiute all’interno della stessa azione in grado di determinare gli sviluppi e di guidarne lo svolgimento in ogni istante. La componente motoria dell’azione deve essere quindi in grado di adeguarsi alle necessità del contesto in ogni fase evolutiva. Questo approccio mira a ricercare l’adattabilità del comportamento relativo al contesto, riducendo gli elementi di distrazione, semplificando le richieste e rispettando i tempi del paziente. Sebbene potrebbe essere una strategia efficace per migliorare determinate funzioni, utilizzando fattori esterni al paziente essa pone una grande quantità di richieste ed è inflessibile. Una recente revisione sottolinea validi meccanismi esterni che possono dare il via all’azione per pazienti con problemi di iniziativa e deficit della memoria prospettica e offre raccomandazioni per il loro utilizzo, identifica i fattori importanti per selezionare un particolare piano d’azione e suggerisce le modalità per monitorare la loro efficacia. Il controllo del comportamento è una strategia che focalizza l’attenzione sui meccanismi compensatori concepiti per permettere al paziente di portare a termine un compito in un modo nuovo che minimizza le abilità compromesse dalla lesione. Un esempio di tecnica compensatoria è il “costo della risposta”, sviluppato da Alderman e colleghi (1991), consiste in penalizzazioni come immediata conseguenza di comportamenti indesiderati (condizionamento operante). Viene impiegata per trattare problemi di disinibizione, come il linguaggio ripetitivo e il comportamento 65 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali aggressivo. Questa tecnica si è dimostrata efficace dove altre tecniche come il “time out” e i rinforzi positivi non lo sono stati. Gli approcci compensatori per i disturbi delle sequenze di azione, includono un sistema codificato di azioni che assiste gli individui nel riconoscimento di errori, nell’omissione o nell’ordine e sono applicate per migliorare le abilità della vita quotidiana. Le strategie compensatorie come queste fanno spesso affidamento a fattori esterni al paziente, come avviene nella manipolazione ambientale, ma sono mirate a cambiare il comportamento preso in esame, spesso provando a migliorare la consapevolezza. Le strategie che impiegano interventi diretti, occupano probabilmente la più ampia vastità degli interventi di riabilitazione delle funzioni esecutive in letteratura. Sono approcci metodologici rivolti alla stimolazione di singole funzioni cognitive quali l’attenzione, la memoria, l’apprendimento, la pianificazione e l’organizzazione dell’attività mentale. Un esempio di intervento che ha mostrato di possedere un certo grado di efficacia per la riabilitazione dei disturbi attentivi è l’“ Attention Process Training” ( APT ) (Solberg, 1992), sebbene esistano altri validi programmi di intervento. È un programma di riabilitazione dell’attenzione costruito secondo un approccio funzione-specifico. Questo comporta un trattamento modulare delle principali funzioni in cui può essere suddivisa l’attenzione, quali: attenzione sostenuta, selettiva, alternata e divisa. Il training è altresì strutturato gerarchicamente, in modo che le funzioni con minori richieste di elaborazione vengano trattate prima di quelle con esigenze maggiori. Sulla base di questa logica, il trattamento dell’attenzione sostenuta precederà quello dell’attenzione selettiva , perché si presuppone che fino a quando il paziente non sarà in grado di mantenere dei livelli sufficienti di vigilanza in compiti semplici, tantomeno lo sarà in presenza di informazioni distraenti. Allo stesso modo, se il soggetto non è capace di sopprimere delle risposte inadeguate o di ignorare delle informazioni irrilevanti, difficilmente riuscirà a gestire compiti che richiedono una forte dose di attività controllata, come accade nei compiti di attenzione alternata o di attenzione divisa. Oltre che tra le diverse sezioni (o cicli) esiste una gerarchia anche entro ognuna di esse: gli esercizi più semplici devono essere infatti somministrati prima di quelli più complessi. Questo approccio è basato sul principio che l’esercizio su compiti selezionati di attenzione favorisce il recupero delle vie nervose danneggiate e, di conseguenza, 66 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali delle abilità attentive che possono essere estese in vari contesti. Per valutare l’efficacia di questa tecnica è stato effettuato uno studio controllato su 23 soggetti con trauma cranico ed è emerso che, sebbene ci sia stato un miglioramento significativo del livello di attenzione nel gruppo sperimentale, non è stata evidenziata alcuna differenza con il gruppo di controllo. Una recente meta analisi ha valutato tutti gli studi in cui sono state implementate tecniche di intervento diretto come questa, ( non solo APT ), paragonando in modo specifico i risultati degli studi che prevedevano la sola valutazione dei gruppi sperimentali con gli studi controllati. L’analisi ha rivelato che, mentre nei primi si producevano una grande quantità di effetti, gli studi con il gruppo di controllo non hanno dato risultati significativi. Questi dati sono utili a mettere in evidenza il significato metodologico dei gruppi di controllo, importanti per valutare l’efficacia di ciascun intervento. È importante notare, comunque, che i risultati degli studi sul singolo caso hanno rivelato che i pazienti con lesione dei lobi frontali, attraverso l’esercizio e la pratica possono apprendere una varietà di compiti specifici, nonostante ci siano tuttora minime evidenze sulla capacità di riaddestramento diretto dei processi attentivi. Questo dato è stato supportato anche dai risultati incoraggianti ottenuti da studi focalizzati su un approccio funzione-specifico, come ad esempio il training per l’apprendimento delle attività della vita quotidiana ( ADL ), ed hanno suggerito che la riabilitazione mirata sull’acquisizione di funzioni importanti e specifiche potrebbe essere un potente approccio riabilitativo. Sono molti gli interventi che attualmente vengono sperimentati, ed è chiaro che, per il recupero delle funzioni esecutive, indipendentemente dal tipo di strategia impiegata, anche combinando i due approcci (training funzione-specifico e training per i processi di riaddestramento) e i tre tipi di strategie (modificazione ambientale, controllo del comportamento e intervento diretto) , l’esercizio e la pratica sono fondamentali per promuovere i processi di apprendimento. 5.2 Trattamento dei disturbi comportamentali La vasta terra incognita nella dottrina non ha certo portato a nichilismo terapeutico nella pratica. Al contrario, l’urgere delle istanze poste dalla drammaticità dei 67 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali problemi ha stimolato i riabilitatori a saggiare ogni indirizzo metodologico suggerito dalla ricerca neuroscientifica. Nella maggior parte dei casi, e segnatamente nelle prime fasi del decorso, i disturbi del comportamento conseguenti a lesioni cerebrali (e quindi di natura eziopatogenetica non “psichiatrica” in senso stretto) non consentono trattamenti basati su colloqui psicoterapici o su farmaci, anche se interventi di questo tipo possono sempre dimostrarsi utili in singoli casi, o in via sussidiaria, o nel prosieguo del decorso. Il che ben si comprende se si considera la patogenesi lesionale e la conseguente presenza nel quadro clinico di componenti quali deterioramento cognitivo, amnesia, anosognosia, ed altre, che non consentono elaborazioni quali la memorizzazione stessa di un colloquio clinico, la disamina cognitiva delle argomentazioni, nonché la capacità di insight (introspezione), che generalmente non consentono pure, per le stesse ragioni, l’uso di farmaci anche se, come si è detto, la complessità delle componenti e delle possibili evoluzioni possono giustificare ogni tipo di intervento quando sembrino esservi le indicazioni. Tutto questo spiega la ragione per cui i riabilitatori, dopo molti tentativi ed errori, abbiano ampiamente adottato la linea metodologica che, nel quadro delle neuroscienze terapeutiche, viene comunemente denominata “cognitivo- comportamentista”. Nei termini più generali, i metodi cognitivo-comportamentisti tendono a modificare i comportamenti patologici in via “indiretta” e quindi mirano ad indurre un apprendimento “implicito” dei suggerimenti forniti. Tale apprendimento dei comportamenti corretti in via indiretta e implicita si ottiene mediante vari metodi di condizionamento (classico e operante), ampiamente applicati in situazioni sperimentali. Tuttavia, il trattamento non si esaurisce certo con la semplice applicazione di questi metodi. Nella pratica clinica altre condizioni sono necessarie per ottenere risultati. Innanzitutto, è importante la predisposizione di un “ambiente” di per sé “terapeutico”, in cui tanto le caratteristiche ambientali (luoghi e attrezzature) quanto gli atteggiamenti, la capacità empatica, le metodiche applicate, le competenze tecniche delle varie figure professionali e l’abilità di operare in equipe, siano i cardini dell’intero processo riabilitativo, fino al raggiungimento dell’obbiettivo, comune a qualsiasi tipo di intervento, rappresentato dal miglior reinserimento e adattamento sociale possibile. Un’altra decisiva condizione è che, una volta definiti i metodi e le tecniche , si deve stabilire a cosa andranno applicati, 68 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali poiché si potrebbe facilmente commettere l’errore di applicarli ai deficit in sé: in realtà vanno applicati ai problemi e alle loro implicazioni “ecologiche”. È questa la ragione per cui il primo passo per l’avvio di un efficace programma di intervento riabilitativo è nella predisposizione di strumenti di rilevamento che consentono una visione ecologica del problema: una visione, cioè, del paziente nella sua realtà e nelle sue istanze esistenziali. Scale, questionari e check-list compilati per osservazione diretta dagli operatori sanitari, o sulla base di resoconti dei pazienti medesimi e dei familiari, possono esser variamente “costruiti”, o adattati alle caratteristiche di ciascuna patologia prendendo spunto dai numerosi già esistenti. 5.2.1 Trattamento dei comportamenti inadeguati “in difetto” In generale, il trattamento dei comportamenti considerati inadeguati “in difetto” (cioè, insufficienti in frequenza, intensità e durata) dovrebbe prevedere l’applicazione di metodologie ispirate ai principi del condizionamento, in cui alla “passività” del paziente non viene assegnata alcuna ricompensa, mentre la manifestazione di qualsiasi intenzione viene prontamente ricompensata. Come è stato descritto nei precedenti capitoli, i pazienti sembrano in uno stato di indifferenza verso l’ambiente circostante che si manifesta con atteggiamenti di demotivazione fino ad una totale inerzia. Secondo i principi del condizionamento, è quindi necessario mantenere il paziente costantemente impegnato in qualche attività secondo “piani” quotidiani “personalizzati” nei quali vengono indicati i tempi, le modalità di esecuzione, le conseguenze positive (vantaggi) che le prestazioni potranno avere e le conseguenze negative (penalizzazioni) derivanti dalle inadempienze, sulla base di vere e proprie “contrattazioni”. Benché nella stesura di questi “contratti” dovrebbero essere previsti momenti dedicati ad attività di svago (guardare la TV, leggere, giocare a carte, fare una passeggiata, ecc.), non dovrebbe essere consentito al paziente di rimanere a riposo più a lungo del necessario o di dipendere dagli altri nell’esecuzione di compiti per i quali sussistono potenziali abilità residue. Affinché il paziente demotivato/inerte possa essere stimolato ad assumersi la totale responsabilità nelle attività quotidiane di routine (cura ed igiene personale, preparazione di semplici merende, svolgimento di piccoli lavori domestici, uso del denaro per le piccole spese quotidiane, ecc.), può essere utile l’uso di “rinforzi 69 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali negativi”. Ad esempio, per sollecitare il paziente all’agire, può dimostrarsi più utile prevedere la possibilità di mangiare una merenda gradita se preparata spontaneamente, anziché un altro alimento, meno gradito, preparato da altri; oppure, può essere una sollecitazione più efficace a migliorare l’igiene personale, poter ottenere la riduzione della durata o della frequenza delle sedute nel caso in cui si presenti curato ed ordinato, anziché continuare a “subire” le sedute ad intervalli di tempo relativamente brevi; e ancora, si può concedere al paziente la possibilità di seguire un programma televisivo di proprio gradimento, qualora venga scelto spontaneamente, piuttosto che continuare a “subire” la sgradevole sintonizzazione su programmi scelti da altri ecc. 5.2.2 Trattamento dei comportamenti inadeguati “per eccesso” I comportamenti che denotano la carenza di autocontrollo (impulsività, irritabilità, atteggiamenti oppositori e aggressivi) sono conseguenze molto frequenti dopo eventi lesivi che coinvolgono la corteccia prefrontale e le sue connessioni ai complessi circuiti sotto-corticali. Questi disturbi pongono seri problemi nell’interazione col paziente poiché viene messa a dura prova la capacità “empatica” delle persone addette all’assistenza, siano esse operatori sanitari o familiari. Inoltre, le turbe comportamentali di questo tipo, come gran parte dei comportamenti inadeguati “per eccesso”, rappresentano condizioni assai sfavorevoli per la riabilitazione, limitando o annullando la necessaria collaborazione del paziente ai vari trattamenti, tanto che, nei casi in cui le reazioni assumano le caratteristiche di vere e proprie aggressioni fisiche, può avvenire che siano proponibili solamente terapie farmacologiche e di contenimento. In ogni caso, è opportuno che tutti gli operatori sanitari e i familiari addetti all’assistenza siano in grado di condurre attente osservazioni e monitoraggi utili ad individuare le condizioni ambientali scatenanti (dove, quando, con chi si verificano gli episodi di discontrollo verbale o comportamentale). La rilevazione di tali coordinate ambientali può apparire un compito relativamente semplice: in realtà richiede un certo addestramento poiché numerose sono le condizioni e le variabili da considerare. Occorre sottolineare che, in molti casi, è possibile prevenire o contenere le reazioni oppositorie e le esplosioni aggressive adottando semplici “strategie” nell’interazione col paziente. Così, è opportuno che gli operatori sanitari evitino espressioni di disapprovazione, di ansia o di eccessivo allarme; al contrario, 70 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali avvicinare il paziente con rassicurazioni, mantenendo un tono di voce costante, sollecitare la collaborazione proponendo attività e argomenti diversificati, prevedere frequenti pause soprattutto nelle prime fasi del recupero, sottolineare i progressi ottenuti, ecc., sono modalità di approccio valide per evitare le frustrazioni e le paure che possono suscitare le reazioni aggressive. In molti casi, tuttavia, l’atteggiamento empatico, che comunque è una componente essenziale per una valida interazione operatore/paziente, non è una condizione sufficiente a prevenire o contenere gli atteggiamenti oppositori ed i comportamenti aggressivi, mentre l’inserimento anche di metodiche mutuate dal modello comportamentista può incrementare l’efficacia dell’intervento riabilitativo. Le osservazioni sperimentali suggeriscono che nella pratica clinica l’uso sistematico delle cosiddette procedure di “time out” è specificatamente indicato nei casi in cui è necessario aumentare il grado di collaborazione del paziente. Il time-out, sulla base del paradigma del condizionamento operante, consiste nella sospensione di qualsiasi stimolo (rinforzo), gradevole o sgradevole, alla comparsa di una comportamento bersaglio che si intende modificare (in questo caso, gli atteggiamenti oppositori e le reazioni aggressive). Tale sospensione di rinforzi si ottiene “ignorando” il soggetto immediatamente dopo il comportamento indesiderato, allo scopo di offrire l’opportunità di apprendere “per via condizionata” che i propri atteggiamenti non producono alcun effetto sull’ambiente circostante. Nei casi in cui i comportamenti aggressivi siano riferibili a deficit della funzione di autocontrollo secondari a danno dei lobi frontali, sembrano essere efficaci anche le procedure di “costo della risposta” basate sul metodo della “contrattazione delle contingenze”(stesura di un vero e proprio contratto tra operatore e terapista in cui vengono stabilite delle regole di condotta e le conseguenze positive in caso di adempienza o negative in caso di inadempienza). Queste procedure prevedono delle penalizzazioni (ad esempio, attività non gradite,perdita di piccoli “privilegi”, ecc.) come immediata conseguenza di comportamenti indesiderati, ed hanno, per così dire, la stessa funzione deterrente delle comuni “contravvenzioni”, in quanto l’esistenza di una “regola” punitiva acuisce la consapevolezza del “costo” qualora non venga rispettata. 71 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali 5.2.3 Trattamento dei comportamenti inadeguati per condizioni, tempi e modalità Come è già stato precedentemente affermato, sarebbe in particolare questo tipo di alterazioni comportamentali a rendere il soggetto socialmente inaccettabile e difficilmente gestibile in ambito riabilitativo. Per questo motivo, il trattamento dei disturbi quali l’anosognosia, la disinibizione e la confabulazione, spesso, si impone come prioritario rispetto alla rieducazione cognitiva di deficit neuropsicologici concomitanti. 5.2.3.1 Trattamento dei disturbi della consapevolezza La sussistenza di “anosognosia” (intesa, nella più ampia accezione del termine, come difficoltà più o meno evidente sia nel riconoscimento di specifici deficit percettivi, motori o cognitivi, sia nell’accettazione dello stato di disabilià conseguente a tali deficit) rappresenta una delle condizioni più sfavorevoli al processo riabilitativo e una delle maggiori difficoltà per il riabilitatore, quando debba affrontare deficit sui quali non è possibile alcun intervento “diretto”. In questi casi si rende necessaria l’attivazione delle strategie d’intervento definite “indirette”, cioè, incentrate essenzialmente sulle modificazioni delle caratteristiche ambientali. L’applicazione di interventi di tipo cognitivo-comprtamentale è particolarmente indicata sia nelle fasi immediatamente successive all’insorgenza del danno cerebrale e, quindi, nella fase in cui i deficit sono di natura direttamente “lesionale” e connessi a difetti strumentali di comprensione delle informazioni, sia nelle fasi successive, in cui possono emergere difficoltà emotive connesse all’accettazione della condizione di “malato” e delle implicazioni sociali che ne derivano. Pertanto, il trattamento dei deficit della consapevolezza, come qualsiasi altro intervento neuro-comportamentale, deve essere strutturato secondo uno schema che procede per “livelli”. Questo significa che, individuando la diversa natura della “non conoscenza” a seconda del livello di insorgenza del deficit (neurologico, neuropsicologico, emotivo), in fase acuta il terapista debba aiutare il paziente a riconoscere i propri deficit, sottolineandone l’evidenza in modo sistematico, fornendo spiegazioni semplici e comprensibili, ma realistiche. Ad esempio, nei pazienti che presentano difficoltà a riconoscere i propri deficit mnesici, può essere utile monitorare gli “insuccessi” che si verificano quotidianamente e discuterli col paziente al fine di motivarli all’uso 72 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali degli ausili esterni (agenda, calendario, appunti, ecc.) e all’attivazione di adeguate strategie di compenso. Via via che si consolida il processo di riacquisizione della consapevolezza, il deficit assume connotazioni neuropsicologiche o più francamente emotive che potrebbero risultare ulteriormente aggravate da caratteristiche premorbose negative (ad esempio, tratti “narcisistici” con scarsa flessibilità, difficoltà a tollerare le imperfezioni e le frustrazioni, ecc.). in questa fase possono essere indicate sessioni di “neuropsicoterapia”, che devono offrire al paziente l’opportunità di esprimere i sentimenti di depressione, per la perdita della normale funzionalità, gli eventuali timori e frustrazioni che possono derivare dalla condizione di “malato”, i sentimenti di diffidenza e sospettosità nei confronti degli operatori sanitari, per prevenire l’insorgenza di reazioni catastrofiche e facilitare l’aumento di autostima e l’accettazione dei propri limiti, pre-condizioni indispensabili per un soddisfacente reinserimento sociale. 5.2.3.2 Trattamento della disinibizione Nei casi in cui i comportamenti disinibiti costituiscano un serio ostacolo per l’avvio di programmi riabilitativi, si rendono necessari interventi preliminari di modificazione comportamentale secondo il principio del condizionamento operante e, cioè, mettendo in primo piano le diverse conseguenze che accompagnano le varie condotte a seconda che siano adeguate o inaccettabili. Con alcuni pazienti può essere utile valorizzare altri comportamenti adeguati osservabili nel loro repertorio e incompatibili con il comportamento inaccettabile, attraverso la somministrazione sistematica di “rinforzi positivi”(ricompense) o di “rinforzi negativi”(interruzione di situazioni o attività non gradite alla comparsa di un comportamento desiderato e socialmente adeguato) che inducono il soggetto a ripetere l’azione in situazioni analoghe. In altri casi, può essere efficace un’azione più diretta sulle condotte disinibite, utilizzando tecniche basate sul “principio dell’estinzione” (assenza di qualsiasi effetto positivo o negativo), oppure applicando procedure di costo della risposta (penalizzazioni o abolizione di premi) che inducono il soggetto ad abbandonare il comportamento inadeguato. 73 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali 5.2.3.3 Trattamento della confabulazione Nella maggior parte dei casi, si osserva la presenza di due diversi meccanismi patogenetici, spesso concomitanti (amnesia globale e patologia dei lobi frontali), a cui corrispondono due livelli di confabulazioni. Sul piano operativo, ne consegue che le condotte del riabilitatore e di tutte le persone che interagiscono col paziente dovranno diversificarsi a seconda delle caratteristiche che assumono di volta in volta i comportamenticonfabulanti. Uno dei metodi cognitivo-comportamentali che si sono rivelati particolarmente efficaci, è quello che potremmo definire “confutazione sistematica”, una tecnica avversiva attuata con modalità differenti a seconda della natura della confabulazione. Nei pazienti prevalentemente “frontali”, risultano efficaci esercizi di scambio dialettico e di confutazione, “frustranti” per il paziente (ad esempio, vere e proprie “provocazioni” quali: “Lei non dice la verità”, “Non credo ad una parola di quanto racconta”, ecc.) e finalizzate ad attivare un “moto” attentivo ed un impulso alla concentrazione. 5.3 Conclusioni È opinione oggi largamente condivisa che per un numero rilevante di pazienti con lesione cerebrale il deficit cognitivo è il maggior determinante di disabilità funzionale. Per questi pazienti, non sempre l’obiettivo del trattamento cognitivo potrà essere il ripristino della funzione lesa. In questi casi, una riduzione della disabilità o anche solo dell’handicap andranno comunque perseguiti. Una riabilitazione cognitiva razionale, cioè fondata su validi presupposti teorici, necessita di interazioni efficaci con ambiti scientifici che si occupano del funzionamento cognitivo normale (ad esempio, la psicologia cognitiva) e patologico (ad esempio, la neuropsicologia). Allo stato attuale, la dimostrazione della reale efficacia delle metodiche riabilitative nel migliorare i deficit cognitivi dei pazienti cerebrolesi fa riferimento, in larga misura, a studi clinici e sperimentali non controllati. La sfida per il prossimo futuro è quella di fondare su basi più solide le dimostrazioni di efficacia della riabilitazione cognitiva. Obiettivo, più a lunga scadenza, è quello di 74 5. La riabilitazione dei disordini cognitivi: dati sperimentali mettere a confronto diversi approcci riabilitativi per giungere alla realizzazione di linee guida di intervento, almeno per i disordini cognitivi di più elevata incidenza. 75 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Il processo di recupero nella sindrome frontale implica due fasi: il trattamento neuropsicologico, mirato principalmente alla singola funzione cognitiva lesa, e la reintegrazione dell’individuo nella famiglia e nella società. Per facilitare il reinserimento sociale, il trattamento deve passare dagli interventi mirati alle singole funzioni, agli interventi che promuovono l’acquisizione delle abilità comportamentali. Uno degli ambiti maggiormente soggetti a compromissione funzionale nella sindrome frontale è quello delle “funzioni esecutive”, ovvero di quelle capacità che implicano la volontà, la pianificazione, l’attuazione di strategie organizzative per la risoluzione dei problemi, l’autocontrollo e l’autoconsapevolezza. Naturalmente, tali deficit sono gravemente inabilitanti, soprattutto da un punto di vista psicosociale; basti pensare alle conseguenze della mancanza di motivazione o di volontà nell’intraprendere un qualsiasi comportamento, o alle difficoltà che possono scaturire dal non sapere pianificare adeguatamente le strategie necessarie per risolvere anche i più banali problemi della vita quotidiana. 6.1 Problem solving Il problem solving è forse l’area delle funzioni esecutive più facili da capire, in quanto è direttamente collegata alla vita quotidiana: ognuno di noi affronta ogni giorno molte situazioni di problem solving, è quindi facile immaginare come un disturbo nella capacità di risolvere i problemi possa compromettere profondamente ogni aspetto della nostra vita. Il problem solving è un’abilità cognitiva che interviene quando una persona si trova di fronte ad una situazione da risolvere senza che sia immediatamente disponibile una soluzione. Risolvere un problema vuol dire attuare dei comportamenti secondo un percorso che porta da una situazione presente in direzione di una meta da raggiungere. Si può quindi parlare di una situazione iniziale, di una condizione desiderata che 76 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso rappresenta l’obiettivo prefigurato, di un processo teleologico di soluzione, inteso come quella serie di operazioni da eseguire per poter raggiungere l’obiettivo. In tutti i casi in cui vi sono problemi da risolvere, si crea uno stato di squilibrio nella persona, che cerca di farvi fronte applicando le conoscenze e le strategie precedentemente utilizzate in situazioni simili. Impegnandosi nella soluzione si ha un’alterazione di stati non solo cognitivi, ma emozionali e motivazionali: si percepisce di aver intrapreso un itinerario corretto o sbagliato e tale percezione avrà influenza sulla motivazione successiva, sull’impegno e in definitiva sulla corretta soluzione del problema. 6.1.1 I “passi” del processo di problem solving Il processo di risoluzione dei problemi è un processo complesso che richiede la modulazione ed il controllo di diverse funzioni cognitive fondamentali che devono essere utilizzate nel momento giusto e con flessibilità; esso si snoda attraverso le seguenti tappe: • Identificazione del problema; • Definizione e rappresentazione del problema; • Formulazione di una strategia per la soluzione; • Organizzazione delle informazioni; • Allocazione delle risorse; • Controllo del processo di soluzione; • Valutazione dell’efficacia della soluzione stessa. Innanzi tutto è necessario rendersi conto che esiste un problema, dirigere volontariamente l’attenzione per controllare l’ambiente circostante (attenzione sostenuta) e distribuire le risorse in modo appropriato (attenzione divisa) sopprimendo le informazioni e le risposte irrilevanti (attenzione selettiva); bisogna saper individuare quali sono le informazioni significative (astrazione e inferenza); formulare un piano di azione; anticipare i risultati delle varie fasi di esecuzione; essere sensibili al feedback proveniente dal risultato dell’esecuzione e capaci di cambiare l’approccio al problema quando necessario. Inoltre un comportamento 77 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso adatto richiede spesso che le scelte siano limitate dalla necessità di osservare regole prestabilite. Tra queste tappe particolare importanza assume quella iniziale, cioè l’approccio generale al problema e la motivazione a risolverlo. Si tratta di una fase di “orientamento” che comprende elementi quali la percezione del problema, la sua accettazione, il tipo di valutazione che si fa del problema, il grado di controllo che ognuno di noi pensa di esercitare (aspettative di successo/insuccesso nella solvibilità stessa del problema e circa la concreta possibilità che la persona si autoattribuisce di giungere ad una corretta soluzione), la valutazione dei tempi e dello sforzo richiesti nella soluzione del problema . L’identificazione di una situazione come problematica è un momento delicato: infatti, una volta identificata l’esistenza di un problema, occorre definirlo e rappresentarlo in maniera tale da capire come risolverlo. Tale momento è cruciale, perché, se il problema si definisce e si rappresenta in modo inesatto, si è molto meno abili nel risolverlo. Si può inoltre sbagliare a riconoscere quale sia l’obiettivo da raggiungere e quali siano gli ostacoli che ostruiscono il percorso di soluzione, così come pure sbagliare a riconoscere che la soluzione che abbiamo in mente non funziona. Un ulteriore passaggio consiste nel progettare una strategia per risolvere il problema. La strategia può richiedere l’analisi/scomposizione di tutto il complesso problema in elementi più semplici, oppure in aggiunta, un processo complementare di sintesi da effettuare mettendo insieme i vari elementi per risistemarli in qualcosa di utile. Nella soluzione dei problemi della via reale si può aver bisogno di entrambe le strategie, analisi e sintesi: la strategia ottimale dipende sia dal tipo di problema sia dalle preferenze personali che ha il solutore in relazione ai metodi di risoluzione. Una volta che la strategia, o almeno un tentativo di strategia, è stata formulata, si è pronti per organizzare le informazioni disponibili, trovando una rappresentazione di tali informazioni che permetta di implementare la strategia. Si parla in tal senso di organizzazione strategica delle informazioni. Naturalmente, durante il ciclo del problem solving, le informazioni disponibili vengono organizzate e riorganizzate costantemente. La capacità di monitorare il risultato delle proprie azioni è un elemento fondamentale nel processo di problem solving. Un solutore efficace, infatti, non aspetta la fine del 78 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso percorso di soluzione per controllare dov’è arrivato; piuttosto, controlla se stesso lungo tutto il percorso. A mano a mano che va avanti nella soluzione deve tener conto sia di quanto ha già fatto, sia di ciò che sta facendo, sia di ciò che resta ancora da fare. Oltre a controllare il problema lungo il percorso di soluzione, è necessario valutare la soluzione dopo la fine di tale processo. Spesso è attraverso questa valutazione che si trova il modo di andare oltre, ridefinendo il problema, producendo nuove utili strategie, riconoscendo nuovi problemi, nuove risorse possono diventare disponibili o risorse già esistenti possono essere usate più efficacemente. Dunque il ciclo può dirsi completato quando porta a nuove intuizioni e di nuovo si ricomincia. È anche importante sottolineare l’importanza della flessibilità nella successione dei vari passi del ciclo. Il successo del problem solving può richiedere, infatti, occasionalmente la presenza di alcuni “aggiustamenti” in relazione a come meglio procedere. Raramente possono risolversi problemi con una sequenza ottimale nella successione dei vari passaggi del problem solving. Spesso si deve tornare indietro e/o andare avanti attraverso le varie fasi cambiando il loro ordine secondo il bisogno, o saltare o aggiungere passaggi, quando ciò si renda necessario. È sufficiente l’alterazione di una sola delle tappe dell’intero processo a far sì che il disturbo si rifletta su tutte le situazioni della vita quotidiana in cui bisogna effettuare scelte non precostituite ma dipendenti dalle caratteristiche dell’esperienza in corso. 6.2 Descrizione di un caso clinico In questo paragrafo vengono presentati i risultati di uno studio su singolo caso che, da un lato, ci aiutano a comprendere meglio le difficoltà che incontrano i pazienti frontali di fronte a situazioni da risolvere, dall’altro, ci permettono di valutare l’impatto di una strategia di intervento sull’apprendimento di procedure comportamentali. Questa descrizione mette in evidenza come i deficit derivanti da una lesione frontale coinvolgono non solo le singole abilità cognitive, ma soprattutto il modo con cui tali abilità sono sfruttate dal soggetto per mantenere un comportamento appropriato ai diversi contesti personali e sociali. 79 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso La scelta di condurre uno studio su un singolo caso è stata dettata da esigenze pratiche e logistiche, legate alla difficoltà di selezionare campioni rappresentativi della popolazione da studiare e alla necessità di considerare come campione dello studio le “misurazioni ripetute” di un certo comportamento, abilità e caratteristiche manifestate dal soggetto. Questo metodo ha permesso di osservare il comportamento in maniera molto precisa ed ha facilitato l’evidenziazione, con un’analisi “momento dopo momento”, di lievi modificazioni avvenute ad un certo punto dell’intervento. La possibilità di effettuare un monitoraggio continuo ha permesso in tal modo di apportare delle modificazioni anche “in itinere”, introducendo delle variabili in funzione dei miglioramenti osservati. Prima di descrivere lo studio, vengono presentati i dati salienti che caratterizzano il quadro clinico del paziente. Dati anamnestici Paziente: R.M. Data di nascita: 23/02/1967 Scolarità: III° media Stato civile: coniugato, due figli Attività lavorativa: autotrasportatore dipendente Il paziente viene ricoverato presso l’Unità Operativa di Riabilitazione Intensiva Neuromotoria ( UORIN ), di Trevi , il 24/02/2006 per esiti di arresto cardiaco con ipossia cerebrale durante un intervento di tenorrafia del tendine d’Achille destro (9/02/2006). Dopo l’evento ha avuto un periodo di coma durato una settimana e PTA di durata superiore alle 25 settimane. 80 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Esami diagnostici • TAC encefalo (fase acuta, febbraio 2006): negativa; • RMN encefalo (fase acuta, febbraio 2006): negativa; • EEG (febbraio 2006): modiche alterazioni dell’organizzazione dell’attività bioelettrica cerebrale, assenti aspetti di sicuro specifico significato patologico; • RMN encefalo (dicembre 2006): note di atrofia corticale cerebellare; lieve ampliamento del sistema ventricolare sovratentoriale e dei solchi delle convessità; i fasci cortico-spinali presentano un segnale superiore alla media a livello dei bracci posteriori delle capsule interne; minima asimmetria di calibro delle arterie vertebrali per destra < sinistra, si segnala inoltre che l’arteria basilare è un po’ sottile ma con normale segnale di flusso; caduta di segnale lievemente superiore alla media a livello dei nuclei pallidi nelle immagini in doppio echo; • EEG ( febbraio 2006): nella norma. Valutazione clinico-riabilitativa all’ingresso Al momento della presa in carico il paziente era vigile, manifestava uno stato di agitazione subcontinua, marcato disorientamento temporo-spaziale, grave deficit delle funzioni attentive di base, era scarsamente collaborante e anosognosico. Erano presenti perseverazioni verbali e confabulazioni, GOS 3, LCF 4, DRS 17 . Il paziente necessitava di assistenza continua, se lasciato solo si metteva in situazioni di pericolo. Il primo obiettivo del progetto riabilitativo è stato quello del controllo farmacologico dell’agitazione psicomotoria e il potenziamento delle componenti intensive della funzione attentiva mediante strutturazione di un programma giornaliero con attività fortemente contestualizzate alternate a momenti di riposo. Ad una prima valutazione strutturata delle funzioni corticali superiori ( aprile ’06) si è delineato un quadro di sindrome disesecutiva con associata ridotta iniziativa caratterizzato da disordini attentivi multipli, soprattutto nelle componenti selettive, 81 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso disordini delle funzioni mnesiche con deficit di apprendimento nel lungo termine sia in modalità verbale che visuo-spaziale, confabulazioni, disordini di pianificazione e categorizzazione, perseverazioni nella ricerca di nuove strategie. Il paziente ha effettuato giornalmente trattamento riabilitativo neuropsicologico caratterizzato da: training per l’attenzione sostenuta e shifting attentivo, esercizi finalizzati a stimolare la consapevolezza con utilizzo di feedback da parte del paziente e addestramento all’uso di ausili esterni (calendario e agenda semplificata) per migliorare la memoria prospettica per eventi routinari e addestramento dei caregiver. 6.2.1 Materiali e metodi dello studio Sulla base del quadro clinico del paziente sono state scelte due prove che rispondono alle seguenti caratteristiche: • Adatte al profilo cognitivo e al livello di disabilità del paziente; • Utilizzabili in modo standardizzato anche al di fuori del contesto clinico; • Consentono l’esame, oltre che dell’efficienza globale della prestazione, anche delle strategie usate dal paziente. Nella prima prova abbiamo chiesto di risolvere un compito di vita quotidiana che veniva usualmente svolto e gestito dal paziente prima dell’evento morboso. Nella seconda il paziente si trova ad affrontare un compito “astratto” di pianificazione. Si tratta di prove pur sempre cognitive, ma è bene precisare che, mentre il primo è un compito strettamente legato al contesto che il paziente può verificare attraverso la pratica, nel secondo non c’è il rinforzo dell’esecuzione e quindi il paziente non ha nessun riscontro con l’esperienza. Inoltre, il secondo compito richiede un’analisi molto più dettagliata dei dati, una maggiore capacità di giudizio astratto e una maggiore flessibilità cognitiva nella ricerca di strategie operative. Le prove hanno lo scopo di valutare le capacità di risoluzione attiva e creativa dei problemi. 82 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Strumenti per la valutazione Per questo studio non abbiamo fatto riferimento a scale di valutazione standardizzate per due motivi: 1. L’obiettivo dello studio è stato quello di analizzare, non solo come le singole abilità cognitive intervengono nel processo di soluzione di un problema, ma soprattutto il modo in cui la loro integrazione influenza le possibilità di successo. 1. I test di valutazione neurocomportamentale comunemente in uso in letteratura sono francamente inadeguati per la misura di queste abilità; Per queste ragioni è stato creato un Modello di valutazione comportamentale, strutturato in 9 items, che ha come modello teorico di riferimento l’integrazione di tutte le componenti esecutive responsabili del processo di soluzione di un problema. La valutazione è stata condotta attraverso l’osservazione diretta di ciascuna abilità cognitiva, i tipi di risposte per ciascuna delle abilità sono state codificate in tre livelli, dalla risposta meno idonea a quella migliore. I rispettivi punteggi sono stati attribuiti in base al grado di compromissione di ogni funzione cognitiva indagata, secondo il seguente criterio: • Livello 0 (abilità totalmente compromessa) • Livello 1 (abilità parzialmente compromessa) • Livello 2 (abilità preservata) Questo modello ci ha permesso di analizzare gli aspetti oggettivi e osservabili del comportamento in ogni sua fase evolutiva e di descrivere graficamente l’andamento generale, i miglioramenti, e di mettere a confronto i risultati ottenuti nelle due prove. Le misurazioni ripetute del comportamento del paziente, registrate su un’apposita scheda di osservazione, ci hanno permesso di dare un’interpretazione dei risultati, altrimenti difficilmente comprensibili. I grafici descrivono l’evoluzione del comportamento nel corso delle varie fasi di osservazione; sull’asse delle ascisse viene riportato il numero delle misurazioni effettuate durante la sperimentazione; sull’asse delle ordinate vengono rappresentati i punteggi ottenuti in ogni prestazione, in base al modello di valutazione comportamentale che è stato messo a punto per questo studio. 83 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso MODELLO DI VALUTAZIONE COMPORTAMENTALE NELL’APPROCCIO AL PROBLEM SOLVING COMPONENTI Tipi di risposte P Note per la valutazione ESECUTIVE CONSAPEVOLEZZA INIZIATIVA ATTENZIONE Scarsa, non capisce il problema 0 Fa riferimento alla presa di Moderata, prova a risolverlo 1 coscienza del problema Piena, sa come risolverlo 2 Assente 0 Comportamento spontaneo Moderata, necessita di facilitazioni 1 per 2 minuti, se necessario Spontanea 2 dare facilitazioni Perde subito il compito 0 Capacità di focalizzare, Mantiene l’attenzione solo per una parte 1 mantenere e dirigere del compito volontariamente l’attenzione Mantiene l’attenzione per tutta la durata 2 sul compito Assente 0 Capacità di individuare le Parziale 1 informazioni significative e di Totale 2 sopprimere quelle irrilevanti Non formula ipotesi 0 Capacità di interpretare Formula ipotesi non adeguate 1 adeguatamente la situazione Formula ipotesi adeguate 2 in base a ragionamenti del compito ANALISI DEI DATI ASTRAZIONE adeguati PIANIFICAZIONE / ESECUZIONE FORMULAZIONE / USO DI STRATEGIE AUTOMONITORAGGIO/ AUTOCORREZIONE VERIFICA DEI RISULTATI Non porta a termine il compito 0 Formulazione di un piano di Porta a termine il compito con facilitazioni 1 azione e mantenimento della Porta a termine il compito da solo 2 sequenza operativa Assenza di strategie 0 Flessibilità nella scelta di Procede per tentativi ed errori 1 strategie con cui condurre la Utilizza strategie adeguate 2 sequenza operativa Persevera nello stesso errore 0 Sensibilità al feedback Riconosce l’errore ma non lo corregge 1 proveniente dal risultato Cambia l’approccio al problema 2 dell’esecuzione Non verifica il risultato 0 Verifica il risultato senza esercitare 1 autocritica Verifica il risultato ed esercita autocritica 84 2 Confronto fra l’esito e l’obiettivo 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Trattamento Riabilitativo Per questo studio è stato sviluppato un training di apprendimento procedurale che focalizza l’attenzione su ogni singola fase del processo di problem solving: partendo quindi dall’ ANALISI DEI DATI, il paziente viene facilitato a percorrere tutte le tappe necessarie a concludere il compito con successo: l’individuazione dell’obiettivo, la selezione delle informazioni significative, la pianificazione del piano di azione, l’esecuzione e infine la verifica del risultato. Il training è stato sviluppato anche attraverso la somministrazione giornaliera di un questionario strutturato, creato in base alle maggiori difficoltà incontrate dal paziente nelle prime osservazioni e modificato in funzione dei miglioramenti osservati. Le domande sono state formulate in maniera semplice e comprensibile, adattate al suo grado di scolarità e al suo livello di disabilità. L’intervento è inteso a promuovere la riacquisizione delle varie strategie attraverso le quali si devono criticamente analizzare, definire, riordinare, classificare le informazioni o i compiti proposti e, più in generale, è mirato all’apprendimento di strategie e regole che, se acquisite, gli permettano di identificare e risolvere diversi problemi della vita in una vasta gamma di situazioni e in vari contesti (processo di generalizzazione). Disegno sperimentale Per questo studio abbiamo adottato un disegno sperimentale che prevede: • Una prima fase di baseline, durante la quale abbiamo osservato il comportamento spontaneo e le strategie autonome del soggetto di fronte alla richiesta di eseguire i compiti previsti. Il comportamento è stato sottoposto ad un’attenta analisi, in modo da definire una linea di base che, fornendo dei dati quantificabili, ha descritto l’evoluzione del comportamento da modificare prima dell’attuazione dell’intervento. Il comportamento è stato misurato durante un periodo di tempo sufficientemente lungo, in modo da ottenere una linea di base stabile con la quale confrontare il comportamento successivo. • Una seconda fase di apprendimento, in cui abbiamo osservato il comportamento in concomitanza con l’introduzione del trattamento. 85 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso • Una terza fase di verifica, nella quale abbiamo sospeso il trattamento e continuato a monitorare il comportamento del soggetto di fronte ad un compito simile (prima prova), e di fronte allo stesso compito (seconda prova). 6.2.2 Risultati PROVA N° 1 Compito: “Deve spedire questa raccomandata con ricevuta di ritorno, la deve spedire ora” (forniti busta e i relativi indirizzi). La sperimentazione si è protratta per un mese. Abbiamo chiesto al paziente di eseguire il compito con due diverse modalità di approccio: 1. Pianificazione scritta della procedura 2. Esecuzione (in un luogo non conosciuto dal paziente) L’importanza della pianificazione scritta sta, per prima cosa, nel verificare se le difficoltà del paziente aumentano quando si trova a dover ripercorrere la procedura “mentalmente”; in secondo luogo, il mezzo scritto può essere utilizzato come uno strumento di facilitazione per fissare i dati. Tra la fase di apprendimento e quella di verifica abbiamo introdotto una fase di sospensione del compito, sia in apprendimento che in esecuzione. La presenza di una fase di sospensione è fondamentale ai fini della verifica, poiché, tendenzialmente, le attività distraenti inducono questi pazienti a riprendere il comportamento abituale. In questa settimana abbiamo quindi lavorato su altre attività, mirate al potenziamento delle funzioni attentive e mnesiche, e delle componenti di pianificazione. Lo scopo è stato quello di verificare, in seguito, se il miglioramento osservato è stato in funzione dell’intervento implementato o se invece sia stato la conseguenza di un processo di apprendimento. 86 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso In altri termini, per poter parlare di apprendimento è necessario, da un lato, che le abilità mostrate durante l’addestramento si mantengano nel tempo, e dall’altro, che egli sia in grado di trasferirle in altre situazioni e in contesti diversi. Rappresentazione grafica dei risultati 18 17 16 15 14 13 12 11 10 9 P 8 7 6 5 4 3 2 1 0 Baseline Apprendimento Sospensione Verifica 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 Numero delle misurazioni Esecuzione Pianificazione Osservando i dati riportati nel grafico è possibile evidenziare alcuni aspetti interessanti: innanzitutto la differenza tra i due tipi di prestazione, che si mantiene costante per tutta la durata della sperimentazione, poi, la relativa stabilità del comportamento del paziente durante le ultime 7 misurazioni, che si è mantenuto ai livelli raggiunti durante la fase di apprendimento, in entrambe le modalità di risoluzione del compito, infine, il diverso comportamento nelle prime due fasi, in relazione al training di apprendimento cui è stato sottoposto. 87 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Fase 1 : baseline (7 gg) Questa prima fase corrisponde all’osservazione degli aspetti comportamentali sui quali siamo poi intervenuti. Le prime misurazioni hanno fatto emergere una serie di difficoltà, legate, in primo luogo, alla scarsa consapevolezza del compito, ad un’analisi pressoché assente dei dati e ad un’incapacità di formulare ipotesi e verificarle. I primi giorni il comportamento del paziente si è mantenuto su un livello relativamente basso, poiché non ha preso in considerazione la richiesta di risolvere subito il compito (come specificato dalla consegna), rimandandolo ad un secondo momento. Nei giorni successivi abbiamo fornito alcuni suggerimenti, abbiamo focalizzato l’attenzione sul fatto che il compito richiedesse la spedizione a “mezzo di raccomandata” e non di una semplice lettera, ma questo non è bastato a migliorare la sua prestazione, poiché il paziente ha continuato a cercare il bar per acquistare il francobollo e la cassetta della posta per imbucarla. Un dato d’estrema rilevanza è che, sebbene il paziente abbia eseguito lo stesso compito per più giorni consecutivi e, nonostante i suggerimenti, egli ha continuato a perseverare sugli stessi errori, e, dato ancor più sconcertante, ha abbandonato il compito alle prime difficoltà senza mai curarsi del risultato dell’esecuzione. Le maggiori problematiche emerse da queste prime osservazioni sono state la mancanza d’iniziativa, il deficit attentivo, che ci ha spinto a ricordargli continuamente il compito, il disturbo mnesico, inteso come difficoltà a trovare strategie di accesso ad informazioni presenti in memoria, una forte tendenza alla perseverazione e una scarsa flessibilità cognitiva: questi disturbi non gli hanno permesso di seguire nessuna delle fasi del processo di problem solving. La carenza di un piano strategico è emersa soprattutto quando si è chiesto al paziente di scrivere le tappe che secondo lui erano necessarie per risolvere il compito: le difficoltà si sono intensificate e il paziente non è stato in grado di formulare ipotesi. In questo caso, come è facile notare dal grafico, le prestazioni sono risultate maggiormente deficitarie rispetto all’esecuzione. In conclusione, il compito non è stato portato a termine. 88 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Fase 2: apprendimento dei dati e impiego di facilitazioni esterne (7 gg) Questa fase descrive l’evoluzione dell’intervento, che è stato articolato in 7 giorni di trattamento. L’addestramento giornaliero è stato sviluppato secondo questo programma: 1. Analisi dei dati (categorizzazioni, comparazioni, differenze e facilitazioni) e somministrazione di un questionario strutturato 2. Pianificazione scritta della procedura 3. Esecuzione “a secco” della procedura Osservando il grafico si può notare come, complessivamente, l’effetto del training sia stato estremamente positivo. Dopo un processo di analisi dei dati, il paziente ha individuato il luogo esatto in cui effettuare la spedizione (alla posta e non al bar). Le prestazioni si sono rivelate sensibilmente migliori sin dall’inizio: il paziente ha mostrato un incremento dell’attenzione volontaria (da imputare probabilmente ad una maggiore consapevolezza del compito), riduzione degli errori di procedura e delle perseverazioni, e, dopo qualche giorno d’addestramento e reiterazione di facilitazioni, è riuscito a concludere il compito con successo. Il paziente ha impiegato strategie adeguate per cercare il luogo della spedizione, chiedendo informazioni che poi ha utilizzato senza difficoltà; una volta entrato alla posta ha atteso il suo turno, ha specificato in modo chiaro la richiesta all’operatore, ha scritto correttamente gli indirizzi sulla cedola della raccomandata, ha effettuato il pagamento e atteso la ricevuta. È importante sottolineare come, durante le ultime prove, il paziente abbia dimostrato una certa “familiarità” con il compito, cosa che non era emersa nella prima settimana. Questo fatto ci fa pensare che il programma di addestramento abbia favorito la messa in atto di schemi procedurali già depositati in memoria, e che quindi il successo debba essere inteso come il risultato dell’attuazione di una procedura divenuta automatica. Eseguita la procedura è stato chiesto al paziente di trascrivere tutte le tappe appena effettuate. 89 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso In questo caso sono emerse ancora alcune difficoltà: è stato in grado di esplicitare correttamente solo alcuni passaggi, lasciando spazio a produzioni confabulanti e quindi non rispondenti alla realtà. Ciò ha evidenziato un’alterata capacità strategico-organizzativa , una persistente compromissione della funzione attentiva e mnesica, nonché una difficoltà di pianificazione linguistica (frasi brevi, poco esplicative e strettamente legate alla guida che gli veniva data). Un altro dato da sottolineare è che, anche in questa fase, nonostante i miglioramenti nell’esecuzione, il paziente non ha mai esercitato alcuna verifica sul risultato. Come illustra il grafico, possiamo concludere che l’apprendimento procedurale abbia determinato un miglioramento significativo delle performance, con un andamento crescente sia nell’esecuzione che nella pianificazione Sospensione (7 gg) Fase 3: verifica (7 gg) Abbiamo proposto al paziente lo stesso compito ma in un luogo diverso. Complessivamente le sue prestazioni sono risultate soddisfacenti. I risultati dell’esecuzione sono stati incoraggianti: nonostante ci sia stato un periodo di sospensione il paziente ha eseguito subito il compito senza difficoltà, utilizzando le stesse strategie precedenti: non conoscendo il luogo, ha chiesto informazioni e si è diretto presso l’ufficio postale, dove ha effettuato correttamente tutti i passaggi della procedura. Complessivamente, rispetto alle osservazioni iniziali il paziente è andato meglio anche nella pianificazione scritta, soprattutto quando questa era guidata da domande. Al momento di descrivere di nuovo le fasi della procedura, il paziente ha tenuto in considerazione che il luogo era cambiato e quindi ha fornito delle risposte congrue con la situazione appena sperimentata, anche se non è stato in grado di riportare correttamente tutti i passaggi della procedura, e non ha esercitato alcun tipo di verifica su quello che aveva scritto; tuttavia si sono notevolmente ridotte le produzioni confabulanti. 90 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Durante la pianificazione sono quindi emersi ancora una serie di problemi: atteggiamento confabulante, difficoltà nella ricerca di strategie, scarsa iniziativa, disturbi mnesici e di attenzione, difficoltà nell’organizzazione del linguaggio. Questi risultati sono significativi del fatto che il trattamento abbia avuto effetto, in primo luogo sull’esecuzione, e quindi su uno schema procedurale divenuto automatico, ma, per certi aspetti anche sulla pianificazione, poiché ha sollecitato, anche se non in maniera eccellente, un meccanismo strategico flessibile, ovvero applicabile anche al mutare di alcune variabili ambientali. Il fatto che, come mostra il grafico, il comportamento si sia mantenuto sullo stesso livello anche quando l’intervento è stato sospeso, è estremamente significativo dal punto di vista terapeutico, perché dimostra la stabilizzazione degli effetti del trattamento, il loro mantenimento e la loro possibilità di generalizzazione. In conclusione, si può dire che l’intervento ha determinato delle modificazioni stabili, ovvero l’acquisizione di determinati contenuti e abilità che hanno permesso al soggetto di affrontare una situazione diversa da quella sperimentale. 91 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso PROVA N° 2 Compito: “ HA UNA MATTINATA MOLTO IMPEGNATA, DEVE COMPIERE QUESTE ATTIVITA’” • Rinnovare carta d’identità • Ore 12,30: Riprendere i bimbi a scuola ORARIO APERTURA • Ore 11,30: Appuntamento dal medico • Fare spesa • Ore 8,00: Accompagnare i bimbi a scuola • Fare un bonifico in banca Banca: 9.00 – 12.30 Comune: 8.30 – 12.30 Supermercato: 8.30 – 13.00 “ DESCRIVA L’ORDINE CON CUI SVOLGE LE VARIE ATTIVITA’ , IMPIEGANDO IL MINOR TEMPO POSSIBILE ” CASA BANCA 700 mt SUPERMERCATO 500 mt SCUOLA 300 mt 600 mt 700 mt COMUNE 400 mt AMBULATORIO 92 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso La sperimentazione si è protratta per un mese. Per questa prova non abbiamo introdotto una fase di sospensione, ma si è ritenuto necessario prolungare il periodo dell’apprendimento, poiché il problema conteneva un maggior numero di dati da analizzare e imponeva delle regole strutturate e vincolanti per la corretta risoluzione. Inoltre, il problema implicava la deduzione di dati non espliciti: ( es.“ Ha una mattinata molto impegnata”, indica che tutte le attività devono essere svolte nell’arco della mattinata; “Impiegando il minor tempo possibile”, indica che deve tenere in considerazione il dato delle distanze; “Rinnovare carta d’identità”, indica che deve recarsi in comune). Altri elementi di complessità erano che le commissioni sono state elencate secondo un ordine casuale e che il compito richiedesse una risoluzione “a tavolino”, non rinforzata da un’esecuzione nel contesto. Rappresentazione grafica dei risultati 18 17 16 15 14 13 12 11 10 P 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 Baseline Apprendimento Verifica 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 Numero delle misurazioni Pianificazione “astratta” 93 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Anche in questa seconda prova, la prima impressione che si ha osservando il grafico è che ci sia una notevole differenza tra le prime due fasi della sperimentazione: tuttavia, poiché il compito era più impegnativo del precedente, le prestazioni non hanno raggiunto i livelli ottenuti nella prima prova. Si può affermare comunque che il trattamento abbia avuto anche qui un effetto positivo sulle performance del paziente, e che il miglioramento si sia parzialmente mantenuto anche nella fase della successiva verifica. Fase 1: baseline (7 gg) Il rendimento complessivo del paziente in questa prima fase è stato gravemente deficitario ed ha fatto emergere un quadro di compromissione di tutte le componenti esecutive ed una situazione di generale carenza su tutto il repertorio delle abilità cognitive: l’attenzione, l’iniziativa, la memoria, l’astrazione, la pianificazione e la consapevolezza. Come si nota dal grafico, i risultati di questa prima fase di osservazione si collocano intorno ad un livello basso e tendenzialmente costante, che oscilla tra i valori 1 e 2 (range 0-18). Il primo giorno il paziente non ha compreso il compito: ha effettuato una lettura parziale dei dati focalizzando l’attenzione solo sulla mappa ed escludendo tutte le altre informazioni contenute nella consegna, è rimasto in silenzio senza neanche tentare di risolvere il problema. Inoltre, non è stato in grado di accedere autonomamente alle informazioni utili contenute implicitamente nelle consegne del compito. A questo punto si è reso necessario fornire delle facilitazioni per aiutarlo nella comprensione (esclusione visiva della mappa e richiami verbali). Proseguendo nell’osservazione si è evidenziata una marcata alterazione di tutti i processi attentivi, che gli hanno impedito di focalizzarsi sulle informazioni rilevanti (componenti selettive) e di portare a termine il compito abbandonandolo ripetutamente senza curarsi del risulto (componenti intensive). 94 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Fase 2: apprendimento (14 gg) L’ obiettivo dell’intervento, articolato in 14 giorni di apprendimento, è stato quello di promuovere la comprensione del compito. Abbiamo quindi lavorato su ogni singolo elemento del problema, scomponendolo in sottofasi ed effettuando un apprendimento fase per fase: compito, elenco delle attività, condizioni vincolanti, analisi della mappa. Il processo di analisi dei dati è stato condotto, in primo luogo, sollecitando il paziente a focalizzarsi sulle varie attività e chiedendogli di elencarle immediatamente dopo aver visto la consegna. I primi tentativi hanno evidenziato una difficoltà nella fissazione di questi dati, mentre se veniva chiesto di disegnare la mappa egli riusciva a ricostruire tutto il percorso e quindi anche le varie attività da svolgere. Il training di apprendimento è stato continuativo, ed ha visto coinvolti i familiari che hanno proseguito il training anche a domicilio. Tuttavia il paziente spesso riferiva di non ricordare quello che aveva fatto il giorno prima e quello che il compito richiedesse, mentre alla visione della consegna rammentava di averlo già visto ed era in grado di dedurre delle informazioni non esplicitate dal compito (es. “ ha una mattinata molto impegnata” , il paziente deduceva che tutte le attività dovevano essere svolte nell’arco della mattinata; oppure, “ deve impiegare il minor tempo possibile”, capiva che doveva scegliere il percorso più corto; “rinnovare carta d’identità”, sapeva che doveva andare in comune). I primi tentativi di risoluzione hanno reso necessario l’impiego di molte facilitazioni esterne, e l’attenzione è stata mantenuta solo per una parte del compito con tendenza ad abbandonarlo alle prime difficoltà. Le risposte sono state spesso impulsive ed hanno portato quindi a soluzioni non sempre adeguate: il paziente non è stato in grado di confrontare i dati utilizzati con quelli ancora da utilizzare, perseverando nelle risposte. Tuttavia, insieme al difetto di memoria, che può da solo giustificare le sue difficoltà, è da riconoscere anche una carenza di strategie organizzative. Nella seconda parte di questa fase il paziente è stato autonomo nel ricordare le attività specificate dal compito, utilizzando come strategia di autofacilitazione la 95 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso ricostruzione della mappa: le perseverazioni sono diminuite e alcuni degli errori di procedura sono stati riconosciuti dal paziente stesso e quindi corretti. Complessivamente, il paziente è stato più propositivo rispetto alla fase iniziale e, come si nota dal grafico, le osservazioni hanno fatto registrare un immediato e consistente miglioramento delle performance mostrando un andamento crescente fino a stabilizzarsi nelle ultime cinque misurazioni. Fase 3: verifica (7 gg) In questa fase della sperimentazione abbiamo sospeso l’intervento e ci siamo limitati ad osservare il comportamento spontaneo del paziente sullo stesso compito. L’obiettivo è stato quello di verificare, tramite l’osservazione dell’approccio globale del paziente al problema, se i miglioramenti osservati durante l’applicazione del training si sono mantenuti, e quindi se il trattamento abbia influito in maniera positiva sulle abilità cognitive del paziente. Complessivamente, abbiamo notato un miglioramento nell’analisi dei dati del problema, che non si è limitata esclusivamente alla mappa, ma anche alle altre informazioni riportate nella prima parte della consegna. Alla visione del compito, il paziente è riuscito ad entrare autonomamente nelle informazioni, a dedurre quelle non esplicitate dalla consegna, a tenerle operativamente in memoria e ad utilizzarle per la formulazione di ipotesi. Tuttavia, non è stato in grado di stabilire le priorità secondo cui collocare temporalmente le varie attività, ordinandone solo due su sei, consultando sempre le distanze tra un posto e l’altro ma non integrando la parte del compito relativa agli orari. Per tutti questi motivi, e ancora, per la difficoltà a pianificare, il compito non è stato mai portato a termine e il paziente non ha mai verificato il risultato. Queste osservazioni hanno comunque evidenziato un generale miglioramento rispetto alla fase iniziale della sperimentazione, soprattutto per quanto riguarda la frequenza degli errori di procedura e delle perseverazioni, il mantenimento dell’attenzione sostenuta, la memoria e l’iniziativa. 96 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Sulla base di questi aspetti, ed osservando il grafico, si può concludere che gli effetti del trattamento non si siano del tutto stabilizzati, poiché, al momento della sospensione del training il comportamento è tornato a raggiungere un livello più basso, anche se non è sceso fino ai livelli della fase iniziale. 6.2.3 Discussione dei risultati Le prove e le osservazioni di cui si è riferito sono forse insufficienti a giustificare una teoria interpretativa globale delle funzioni esecutive. Ciò nonostante essi evidenziano nel paziente modalità di pensiero e di comportamento che ricorrono con insistenza significativa, indipendentemente dal tipo di compito. I risultati ottenuti da queste sperimentazioni sottolineano come la maggiore difficoltà del paziente, e dei pazienti frontali in generale, sia nel costruirsi strategie con cui operare, e quindi di far fronte ai problemi che la vita quotidiana pone, in contesti diversi e mutabili. Esso può essere in grado di risolvere problemi quando viene testato in situazioni ben strutturate, con facilitazioni contestuali e con il rinforzo della pratica, e avere invece prestazioni fallimentari in situazioni che richiedano abilità organizzative e di programmazione di cui il paziente non è più capace. Solitamente le maggiori difficoltà non si osservano nelle situazioni di routine in cui il paziente può fare affidamento su conoscenze e procedure consolidate, ma soprattutto quando deve affrontare situazioni non routinarie, di cui non ha fatto sufficientemente esperienza prima dell’inizio della patologia, quando si tratta cioè di utilizzare le proprie conoscenze in modo inusuale: il paziente ha a disposizione tutti gli strumenti cognitivi ma non sa utilizzarli in modo appropriato. La differenza fra i risultati ottenuti nelle due prove dimostra infatti che le maggiori difficoltà dei pazienti frontali emergono nei compiti che richiedono l’utilizzo del pensiero astratto, quando cioè devono ripercorrere “mentalmente” una procedura e accedere ad informazioni già sperimentate e quindi consolidate, mentre durante l’esecuzione, nella giusta situazione contestuale, questi schemi vengono fuori in maniera automatica. 97 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso È possibile, infatti, che nel secondo compito si sia trovato più in difficoltà, dal momento che è stato costretto ad utilizzare una strategia di ricerca insolita, mentre nel primo caso ha potuto effettuare una ricerca del tutto compatibile a quella in atto nella vita di tutti i giorni, quando si compie un compito di routine. La difficoltà a selezionare, organizzare e sintetizzare secondo un principio direttivo le informazioni ricevute in modo discontinuo nel tempo, o che devono essere rievocate e ordinate traendole dalla memoria, rende le esperienze trascorse inutilizzabili al momento in cui le circostanze impongono forme nuove di pensiero e di comportamento. La “flessibilità cognitiva” è una funzione indispensabile per poter essere in grado di mutare le strategie di pensiero e di azione per fronteggiare le richieste del contesto, quindi, qualsiasi tipo di intervento riabilitativo diventa efficace nel momento in cui crea le condizioni affinché il paziente sia in grado di confrontarsi con le situazioni che la vita quotidiana gli presenta; non si tratta solo di mantenere efficienti le abilità già possedute ma soprattutto di sviluppare la capacità di affrontare situazioni nuove come se fossero familiari, utilizzando cioè i modelli di riferimento acquisiti precedentemente con l’esperienza. La proposta di trattamento riportata in questo studio non è il risultato di uno studio clinico controllato, ma piuttosto un’applicazione esplorativa di conoscenze acquisite recentemente in questo campo. In altri termini, se da un lato esistono singole osservazioni sulla generica validità della riabilitazione delle funzioni esecutive, disegni sperimentali volti a determinare se il disturbo esecutivo possa giovarsi di un trattamento riabilitativo mirato sono estremamente limitati. Conseguentemente, risulta difficile trarre conclusioni sull’efficacia del trattamento. Dai pochi studi condotti fino ad oggi sembrerebbe che i disturbi delle funzioni esecutive siano suscettibili di trattamento ma che, tuttavia, gli effetti raggiunti siano strettamente compito-specifici. Per questo motivo è importante che la selezione delle componenti esecutive da rieducare debba essere basata sulla loro rilevanza funzionale e che il trattamento riabilitativo debba essere condotto il più possibile all’interno del contesto ecologico del paziente. 98 6. Disturbi cognitivi e competenze di problem solving: studio sperimentale su un singolo caso Per concludere, si può affermare che nel campo della riabilitazione delle funzioni esecutive molto resti ancora da fare, sia in termini di definizione delle scale di valutazione funzionale, che fanno da premessa alla elaborazione del programma riabilitativo, sia in termini di progettazione e applicazione delle metodiche. 99 Conclusioni Conclusioni La patologia frontale va assumendo sempre maggiore importanza in ambito riabilitativo, non solo in quanto può essere grave in sé stessa e nelle conseguenti implicazioni personologiche e sociali, ma anche per essere spesso causa di insufficiente collaborazione da parte del paziente, quindi, di impedimento al trattamento dei deficit presenti nel quadro complessivo e potenzialmente suscettibili di miglioramento. In questo lavoro si è cercato di illustrare a titolo esemplificativo i principali disturbi che insorgono quando la patologia aggredisce i lobi frontali e si è visto come questi problemi incidono pesantemente sulla capacità di adattamento personale e sociale e, soprattutto, come essi rappresentino la causa delle maggiori difficoltà per i parenti e per il team di riabilitazione. I disturbi di cui si è riferito sono peculiari della patologia frontale ma possono manifestarsi dopo una qualsiasi lesione cerebrale; ho scelto di descrivere questa patologia perché è quella che meglio rappresenta tali disturbi e, soprattutto, perché le considerazioni fatte finora possono e devono essere calate all’interno di un contesto più ampio, che è quello della riabilitazione neuromotoria. Certamente i deficit cognitivi e le loro manifestazioni sono i problemi più difficili da trattare in riabilitazione perché il paziente è come se avesse perso la sua mente e la sua personalità; egli resta tuttavia la stessa persona, con le stesse esperienze e con lo stesso carattere, solo che egli ora cerca disperatamente di affrontare un “mondo inesplicabile”, senza però poter disporre dei processi necessari per esplorarlo, adattarsi ed organizzarsi. L’incapacità del paziente di svolgere attività della vita quotidiana, che egli dal punto di vista fisico sarebbe in grado di effettuare, è difficile da accettare se non si comprendono i disturbi cognitivi che sono alla base del suo comportamento. Il trattamento delle patologie neurologiche deve essere mirato al recupero delle competenze motorie, ma spesso l’impatto che hanno i disturbi cognitivi sul recupero funzionale tende ad essere sottostimato, o comunque non si considera che essi sono alla radice di tutte le difficoltà del paziente, compresa la perdita di capacità motorie. 100 Conclusioni Un approccio di trattamento sensibile all’interazione della lesione cognitiva e comportamentale, ed il modo in cui queste influenzano l’acquisizione delle abilità, può essere più efficace per definire e sviluppare le abilità e le capacità che, accrescendo il livello di indipendenza e di autonomia, riducono il carico assistenziale gravante sui membri della famiglia. I fattori che influenzano il livello di assistenza necessaria includono la capacità fisica, ma, cosa altrettanto importante, la capacità di eseguire le attività della vita quotidiana ed i compiti professionali, in modo costante ed in contesti ambientali diversi. Non si può dimenticare che la riabilitazione assume il suo pieno significato quando si occupa della relazione individuo-ambiente senza privilegiare nessuno dei due poli a scapito dell’altro, ma lo scopo può essere raggiunto solo prendendo in considerazione il paziente nella sua singolarità di individuo con un deficit specifico inserito in un determinato contesto. Sfortunatamente viene spesso dimenticato il ruolo che l’ambiente svolge, mentre si usano programmi per modificare il comportamento del paziente e la sua disponibilità a collaborare, con il risultato che egli impara soltanto ciò che piace o dispiace al team di riabilitazione, ma non viene scoperta o eliminata la reale causa del suo comportamento indesiderato. Se non vengono riconosciuti e trattati i problemi alla base del suo comportamento, egli non sarà in grado di far fronte alle sempre nuove e complesse esigenze della vita fuori dai confini protetti dell’ospedale o del centro di riabilitazione. Il terapista dovrebbe guardare oltre questi confini, e sviluppare un programma di trattamento che massimizzi i risultati funzionali e migliori la qualità della vita del paziente, riduca il peso dell’assistenza per i membri del nucleo familiare e soddisfi le aspettative della società. Una riabilitazione che tenga conto delle particolari esigenze di ogni paziente e delle circostanze in cui viene a trovarsi, che miri a risolvere i reali problemi quotidiani, sottolinea l’importanza del lavoro in team: un’equipe che può valutare accuratamente le lesioni fisiche, cognitive e comportamentali, stabilire le risorse sociali e finanziarie disponibili, ed identificare i risultati funzionali e professionali più realistici, sarà molto più efficiente nel soddisfare le esigenze del paziente e della sua famiglia. 101 Conclusioni In questo senso, le aree frontali del nostro cervello, regolando l’espressione comportamentale e quindi l’interazione dei nostri movimenti con l’ambiente, costituiscono un “ponte” tra l’esecuzione motoria e il suo risultato sociale. Il fisioterapista, dovendo contribuire al “risultato sociale”, non può prescindere dalla conoscenza di questi meccanismi, sia per ottimizzare l’intervento durante l’esercizio terapeutico che nel definire gli obbiettivi del programma riabilitativo. Obiettivo prioritario della riabilitazione è l’abbattimento delle “barriere cognitive”, che ostacolano l’intervento riabilitativo tanto quanto le più note barriere architettoniche. Il paziente deve essere messo nelle condizioni di collaborare e partecipare attivamente al programma di trattamento, anche nelle condizioni più sfavorevoli, ottimizzando le risorse disponibili. Il reinserimento lavorativo e sociale è un obiettivo perseguibile anche quando ad essere colpita è la mente e non il corpo. 102 Bibliografia Bibliografia • BASAGLIA N., “Trattato di Medicina Fisica e Riabilitazione”, IDELSON GNOCCHI; Napoli, 2000, pp. 821-833. • CAZALIS F., FEYDY A., VALABREGUE R., PELEGRINI-ISSAC M., PIEROT L., AZOUVI P., “fMRI study of problem-solving after severe traumatic brain injury”, INSERUM U 483, Paris, France, 2006. • COLVIN MK., DUNBAR K., GRAFMAN J., “The effects of frontal lobe lesions on goal achievement in the water jug task”, Cognitive Neuroscience Section, National Institute of Neurological Disorders and Stroke/NIH, Room 5C205, Building 10, 10 Center Drive, MSC 1440, Bethesda, MD 20892, USA, 2001. • D’ESPOSITO M., CHEN AJ., “Chapter 8. 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