UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA
Master Universitario di Primo livello in
LINFOLOGIA
III Edizione
Algodistrofia e linfedema nella mano:
problematiche e aspetti riabilitativi
Direttore: Prof. C. CAMPISI
Fisioterapista: CARRO Renata
Genova, 1 Luglio 2008
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Anatomia della Mano
Lo scheletro della mano comprende tre gruppi di ossa che formano il carpo, il
metacarpo e le falangi.
Il carpo è formato da otto piccole ossa brevi disposte in due fila e articolate tra
loro mediante artrodie. Le ossa della fila prossimale sono in senso lateromediale:
scafoide,
semilunare,
piramidale,
pisiforme, e si articolano
direttamente con il radio e indirettamente con l’ulna.
Le ossa della fila distale sono in senso latero-mediale: trapezio, trapezoide,
capitato, uncinato e si articolano con le ossa metacarpali.
Il metacarpo è costituito da cinque ossa lunghe disposte a raggiera, la cui
estremità prossimale o base, si articola con la serie distale del carpo, mentre
l’estremità distale o testa, si articola con la falange prossimale del
corrispondente dito per mezzo di artrodie. Fa eccezione l’articolazione tra I°
osso metacarpale e trapezio che è una articolazione a sella, avvolta da una
capsula molto lassa soprattutto dorsalmente. È questa un’articolazione di
particolare importanza, in quanto permette il movimento di opposizione del
primo al quinto dito, determinante per la prensione: caratteristica della mano
dei primati. L’articolazione trapezio-metacarpica permette movimenti di
abduzione da 50° a 58° e di adduzione da 30° a 40°.
Le falangi rappresentano lo scheletro delle dita, sono ossa lunghe, tre per ogni
dito tranne che per il primo che ne ha solo due.
I muscoli della mano possono essere distinti in intrinseci e estrinseci. I muscoli
intrinseci della mano possono essere distinti in muscoli dell’eminenza Tenar
(rilievo della palma e della mano alla base del pollice), muscoli dell’eminenza
Ipotenar (rilievo della palma e della mano alla base del quinto dito), muscoli
lombricali e muscoli interossei.
I muscoli dell’eminenza Tenar sono muscoli corti che dal carpo si portano al
primo osso metacarpale o alla prima falange del pollice e con la loro
contrazione provvedono ai movimenti del pollice. I muscoli dell’eminenza
Ipotenar sono muscoli corti che vanno dal carpo al quinto osso metacarpale o
alla prima falange del quinto dito e con la loro contrazione provvedono ai
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movimenti del mignolo. I muscoli lombricali sono quattro piccoli muscoli
allungati ch3e originano, nel palmo della mano, dai quattro tendini del muscolo
profondo delle dita e si portano sul dorso delle prime falangi dove si uniscono ai
quattro tendini del muscolo estensore comune delle dita, contraendosi flettono
le prime falangi delle ultime quattro dita della mano estendendo le altre falangi.
I muscoli interossei si possono distinguere in dorsali e palmari e occupano gli
spazi tra le ossa metacarpali da cui originano per terminare tramite un piccolo
tendine sulle prime falangi.
I muscoli interossei dorsali determinano l’allontanamento delle dita dall’asse
mediano
della
mano,
quelli
palmari
le
avvicinano.
I muscoli intrinseci della mano sono ricoperti da una robusta lamina fibrosa di
forma pressoché triangolare, con base alle articolazioni metacarpo-falangee
(MF) ed apice al legamento anulare del carpo, a cui aderisce, detta Aponeurosi
palmare.
I muscoli estrinseci della mano sono quei muscoli il cui ventre si trova a livello
dell’avambraccio, mentre i tendini decorrono lungo la mano e si inseriscono
sulle falangi.
L’innervazione della mano è a carico di tre nervi:
• Nervo radiale
• Nervo mediano
• Nervo ulnare
Il nervo radiale origina dal tronco secondario posteriore (C5-T1), le sue fibre
derivano da tutti i segmenti spinali del plesso brachiale; attraversa i punti di
origine del tricipite, raggiungendo la faccia dorsale del braccio, si avvolge in una
spirale sinistrorsa intorno all’omero e, in prossimità della testa del radio, si
divide in un ramo superficiale e uno profondo. Nell’avambraccio il ramo
profondo, pressoché interamente motorio, innerva tutti i muscoli estensori del
polso e delle dita; il ramo superficiale, completamente sensitivo, raccoglie la
sensibilità del pollice e del dorso della mano nel territorio delle prime quattro
dita.
Il nervo mediano origina da componenti sia del tronco secondario laterale, sia
del tronco secondario mediale del plesso cervicale (inferiore) (C6-T1).
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Interposto fra i muscoli estensori e flessori, il nervo decorre sulla faccia interna
del braccio in direzione del gomito e prosegue nell’avambraccio, fra lo strato
superficiale e quello profondo dei flessori dell’avambraccio, per arrivare fino al
tunnel carpale; esso innerva i pronatori, i flessori del polso e delle dita, ad
eccezione del flessore ulnare del carpo e della metà ulnare del flessore
profondo delle dita. La regione di innervazione sensitiva comprende l’intero
palmo, le prime tre dita e la metà laterale del quarto dito dal lato dorsale,
nonché la faccia palmare di medio, indice e pollice.
Il nervo ulnare è molto più sottile del nervo radiale e del nervo mediano, le sue
fibre originano dal tronco secondario interno (C8-T1) e si estendono,
posteriormente al nervo mediano, sulla faccia del braccio in direzione del
gomito; nel solco del nervo ulnare, l’ulna devia fortemente il nervo verso
l’avambraccio. Dal punto di vista motorio l’ulnare innerva i restanti muscoli del
polso e delle dita, ossia il flessore ulnare del carpo e la porzione ulnare del
flessore profondo delle dita; anche la maggior parte dei muscoli brevi della
mano sono innervati dal nervo ulnare.
Muscoli della mano
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I muscoli della mano si possono suddividere in :Estensori -Intrinseci – Flessori
Estensori
Estensore radiale lungo del carpo
Origine: terzo distale della cresta sopracondiloidea laterale dell'omero e setto
intermuscolare laterale.
Inserzione: lato radiale della superficie dorsale della base del secondo
metacarpo.
Azione: estende e abduce il polso e può intervenire nella flessione del gomito.
Innervazione: radiale C5, 6, 7, 8
Deficit: diminuisce la capacità estensoria del polso. Predispone a una
deviazione ulnare della mano.
Estensore radiale breve del carpo
Origine: epicondilo laterale dell'omero grazie al tendine comune degli
estensori, legamento collaterale radiale del gomito e fascia antibrachiale.
Inserzione: superficie dorsale della base del terzo metacarpo.
Azione: estende e abduce il polso.
Innervazione: radiale C5, 6, 7, 8
Deficit: diminuisce la capacità estensoria del polso. Predispone a una
deviazione ulnare della mano.
Estensore ulnare del carpo
Origine: epicondilo laterale dell'omero grazie al tendine comune degli
estensori, margine posteriore dell'ulna mediante un'aponevrosi e fascia
antibrachiale.
Inserzione: lato ulnare alla base del quinto metacarpo.
Azione: estende e adduce il polso.
Innervazione: radiale C6, 7, 8
Deficit: diminuisce la capacità estensoria del polso. Predispone a una
deviazione radiale della mano.
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Estensore comune delle dita
Origine: faccia posteriore dell'epicondilo omerale.
Inserzione: con quattro tendini destinati alle dita dal 2° al 5°. Ciascun tendine si
divide in tre linguette, di cui la mediale si attacca alla base della seconda
falange, mentre le altre due vanno ad inserirsi alla base della terza falange.
Azione: estende le prime falangi delle ultime quattro dita della mano;
secondariamente estende anche le altre due falangi. Interviene nell'abduzione
del 2°, 4° e 5° dito e nell'estensione del polso.
Innervazione: radiale C6, 7, 8
Deficit: diminuisce la capacità estensoria delle falangi prossimali interessate,
predisponendole ad un atteggiamento in flessione. Diminuisce la forza di
estensione del polso.
Estensore dell'indice
Origine: faccia posteriore del corpo dell'ulna, membrana interossea.
Inserzione: si unisce al tendine dell'estensore comune delle dita destinato
all'indice.
Azione: estende e può addurre l'indice.
Innervazione: radiale C6, 7, 8
Deficit: diminuisce la capacità estensoria dell'indice.
Estensore del mignolo
Origine: faccia posteriore dell'epicondilo omerale.
Inserzione: si unisce al tendine dell'estensore comune delle dita destinato al
mignolo.
Azione: estende e può abdurre il mignolo.
Innervazione: radiale C6, 7, 8
Deficit: diminuisce la capacità estensoria del mignolo.
Estensore lungo del pollice
Origine: faccia posteriore del corpo dell'ulna, membrana interossea.
Inserzione: faccia dorsale della base della seconda falange del pollice.
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Azione: estende la seconda falange del pollice e la trapeziometacarpale.
Interviene nell'abduzione e estensione del polso.
Innervazione: radiale C6, 7, 8
Deficit: diminuisce la capacità estensoria della seconda falange e ne predispone
ad una deformità in flessione.
Estensore breve del pollice
Origine: faccia posteriore del corpo del radio, membrana interossea.
Inserzione: faccia dorsale della base della prima falange del pollice.
Azione: estende la prima falange del pollice e la trapeziometacarpale.
Interviene nell'abduzione del polso.
Innervazione: radiale C6, 7, 8
Deficit: diminuisce la capacità estensoria della prima falange e ne predispone
ad una deformità in flessione.
Abduttore lungo del pollice
Origine: faccia posteriore del corpo del radio, faccia posteriore del corpo
dell'ulna, membrana interossea.
Inserzione: base del primo metacarpo, lateralmente.
Azione: abduce e estende la trapeziometacarpale. Partecipa all'abduzione del
polso.
Innervazione: radiale C6, 7, 8
Deficit: diminuisce la forza di abduzione del pollice e del polso.
Intrinseci della mano
Flessore breve del pollice
Origine: capo superficiale, retinacolo dei flessori e trapezio. Capo profondo,
trapezoide e capitato
Inserzione: lato radiale della base della falange prossimale del pollice e
espansione digitale estensoria
Azione: flette le articolazioni metacarpo-falangea e trapezio-metacarpale del
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pollice. Partecipa all'opposizione del pollice al mignolo. Può estendere
l'interfalangea del pollice mediante la sua inserzione sull'espansione digitale
estensoria
Innervazione: capo superficiale, mediano C6, 7, 8 D1. Capo profondo, ulnare C8 D1
Deficit: riduce la capacità di flettere la falange prossimale. Difficoltà nel tenere
fortemente oggetti tra il pollice e le altre dita. Un deficit marcato predispone a
deformità in iperestensione della metacarpofalangea.
Opponente del pollice
Origine: retinacolo dei flessori e tubercolo del trapezio
Inserzione: margine radiale del primo metacarpo, su tutta la sua lunghezza
Azione: flette e abduce il primo metacarpo e lo intraruota; in questo modo il
pollice viene posto in una posizione tale per cui può venire opposto, mediante
una flessione della matacarpo-falangea, alle altre dita
Innervazione: mediano C6, 7, 8 D1
Deficit: ipotrofia dell'eminenza tenar e atteggiamento in estensione e
adduzione del primo metacarpo. Difficoltà nell'impugnare una penna e
indebolimento delle prese di forza.
Adduttore del pollice
Origine: capo obliquo, capitato e base del secondo e terzo metacarpo. Capo
trasverso, superficie palmare del terzo metacarpo
Inserzione: il capo trasverso sul lato ulnare della base della falange prossimale
del pollice; il capo obliquo sull'espansione digitale estensoria
Azione: adduce l'articolazione trapezio-metacarpale, avvicinando il pollice al
palmo della mano muovendolo su un piano perpendicolare a quello del palmo;
adduce e coopera a flettere la metacarpo-falangea e interviene nell'opposizione
del pollice al mignolo. può intervenire nell'estensione dell'interfalangea
mediante l'inserzione del capo obliquo sull'espansione estensoria
Innervazione: ulnare C8 D1
Deficit: difficoltà nel serrare fortemente il pollice contro le altre dita a pugno
chiuso.
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Opponente del mignolo
Origine: apofisi unciforme dell'uncinato e retinacolo dei flessori
Inserzione: margine ulnare del quinto metacarpo, su tutta la sua lunghezza
Azione: flette e intraruota di pochi gradi l'articolazione carpo-metacarpica del
quinto dito, sollevando il bordo ulnare della mano in modo tale che i flessori
della metacarpo-falangea possano portare il polpastrello del mignolo a opporsi
a quello del pollice. Partecipa a realizzare l'incavamento del palmo della mano
Innervazione: ulnare C7, 8 D1
Deficit: ipotrofia dell'ipotenar e difficoltà nell'opposizione del mignolo al
pollice.
Flessore del mignolo
Origine: apofisi unciforme dell'uncinato e retinacolo dei flessori
Inserzione: lato ulnare della base della falange prossimale del mignolo
Azione: flette la metacarpo-falangea del mignolo e interviene nell'opposizione
dello stesso al pollice
Innervazione: ulnare C7, 8 D1
Deficit: riduce la forza di flessione e opposizione del mignolo.
Interossei dorsali
Origine: Primo, capo laterale, metà prossimale del margine ulnare del primo
metacarpo. Primo, capo mediale, margine radiale del secondo metacarpo.
Secondo, terzo, quarto, superfici adiacenti di due metacarpi vicini
Inserzione: sull'espansione digitale estensoria e sulla base della falange
prossimale, in quest'ordine:
Primo: lato radiale dell'indice soprattutto alla base della prima falange.
Secondo: lato radiale del medio. Terzo: lato ulnare del medio, soprattutto
sull'espansione estensoria. Quarto: lato ulnare dell'anulare
Azione: abducono l'indice, il medio e l'anulare rispetto all'asse passante per il
terzo dito. Partecipano alla flessione della metacarpo-falangea e all'estensione
delle matacarpo-falangee delle stesse dita. Il primo interosseo può intervenire
nell'adduzione del pollice
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Innervazione: ulnare C8 D1
Deficit: riduce la capacità di abduzione del secondo, terzo e quarto dito.
Diminuisce la forza di flessione delle metacarpofalangee e di estensione delle
interfalangee delle stesse dita.
Interossei palmari
Origine: Primo, lato ulnare della base del primo metacarpo. Secondo, secondo
metacarpo su tutta la lunghezza del lato ulnare. Terzo, su tutta la lunghezza del
lato radiale del quarto metacarpo. Quarto, su tutta la lunghezza del lato radiale
del quinto metacarpo
Inserzione: Soprattutto sull'espansione stensoria del dito corrispondente, con
possibile inserzione sulla base della falange prossimale, in questo modo:
Primo: lato ulnare del pollice. Secondo: lato ulnare dell'indice. Terzo: lato
radiale dell'anulare. Quarto: lato radiale del mignolo
Azione: adducono il pollice, l'indice, l'anulare e il mignolo rispetto all'asse
passante per il terzo dito. Partecipano alla flessione delle metacarpo-falangee e
all'estensione delle interfalangee delle stesse dita
Innervazione: ulnare C8 D1
Deficit: riduce la capacità di adduzione del primo, secondo, quarto e quinto
dito. Diminuisce la forza di flessione delle metacarpofalangee e di estensione
delle interfalangee delle stesse dita.
Lombricali
Origine: Primo e secondo, margine radilae dei tendini del flessore profondo,
rispettivamente dell'indice e del medio. Terzo, margini adiacenti dei tendini del
flessore profondo del medio e dell'anulare. Quarto, margini adiacenti dei
tendini del flessore profondo dell'anulare e del mignolo.
Inserzione: margine radiale dell'espansione estensoria delle dita corrispondenti.
Azione: estendono le articolazioni interfalangee e flettono le
metacarpofalangee delle dita dal secondo al quinto. Estendono le interfalangee
anche con le metacarpofalangee estese.
Innervazione: del primo e secondo lombricale, mediano C 6, 7, 8 D1. Il terzo e
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quarto, ulnare C 7,8 D1.
Deficit: deformità ad artiglio della mano.
Abduttore breve del pollice (eminenza tenar)
Origine: scafoide, trapezio e legamento trasverso del carpo.
Inserzione: base della prima falange del pollice, lateralmente e espansione
estensoria dorsale sul primo interosseo.
Azione: contrariamente al suo nome, adduce il primo metacarpo
anteponendolo al carpo, flette la prima falange sul metacarpo e estende la
seconda falange sulla prima.
Innervazione: mediano C6, 7, 8 D1
Deficit: interferisce nella presa di oggetti voluminosi.
Abduttore del mignolo (eminenza ipotenar)
Origine: pisiforme e tendine del flessore lungo del carpo.
Inserzione: base della prima falange del mignolo, medialmente con
un'espansione estensoria .
Azione: abduce e flette la metacarpofalangea. Può intervenire nell'etensione
delle interfalangee. Innervazione: ulnare C7, 8 D1
Deficit: riduzione della forza di abduzione e tendenza all'adduzione.
Flessori
Flessore lungo del pollice
Origine: faccia anteriore del radio al di sotto della tuberosità bicipitale,
membrana interossea, margine mediale del processo coronoideo dell'ulna e/o
dell'epitroclea dell'omero.
Inserzione: superficie palmare della base della falange distale del pollice.
Azione: flette l'interfalangea del pollice, contribuisce alla flessione della
metacarpofalangea e della trapezio-metacarpale e può intervenire nella
flessione del polso.
Innervazione: mediano C6, 7, 8 D1
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Deficit: riduce la capacità di flettere la falange distale. Difficoltà nel tebere una
penna o piccoli oggetti tra il pollice e le altre dita. Un deficit marcato
predispone a una deformità in iperestensione dell'interfalangea del pollice.
Flessore superficiale delle dita
Origine: capo omerale, epitroclea dell'omero mediante il tendine comune dei
flessori, legamento collaterale ulnare del gomito e fascia antibrachiale. Capo
ulnare, superficie mediale del processo coronoideo. Capo radiale, linea obliqua
del radio.
Inserzione: sui lati delle falangi intermedie delle dita dal secondo al quinto.
Azione: flette le interfalangee prossimali delle dita dal secondo al quinto,
interviene nella flessione delle metacarpofalangee e nella flessione del polso.
Innervazione: mediano C7, 8 D1
Deficit: riduzione della forza della presa e della flessione del polso. Difficoltà in
attività come scrivere a macchina, suonare il piano o strumenti a corda per i
quali è necessario flettere le interfalangee prossimali mantenendo estese le
distali. Tendenza all'iperestensione dell'interfalangea prossimale durante
l'estensione delle dita.
Flessore profondo delle dita
Origine: tre quarti prossimali delle facce anteriore e mediale dell'ulna,
membrana interossea e fascia antibrachiale.
Inserzione: con quattro tendini sulla faccia anteriore della base delle falangi
distali.
Azione: flette le interfalangee distali delle dita dal secondo al quinto, interviene
nella flessione delle interfalangee prossimali e delle metacarpofalangee:
interviene nell'adduzione di indice, anulare e mignolo e nella flessione del
polso.
Innervazione: per fasci del secondo e terzo dito, mediano C7, 8 D1. Per i fasci del
quarto e quinto dito, ulnare C7,8 D1
Deficit: riduzione della capacità di flettere la falange distale. E' l'unico muscolo
che può flettere tale segmento. In caso di deficit si riduce anche la forza di
flessione del polso.
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Flessore radiale del carpo
Origine: epitroclea dell'omero mediante il tendine comune dei flessori e fascia
antibrachiale.
Inserzione: base del secondo metacarpo e con un'espansione tendinea, base del
terzo metacarpo.
Azione: flette e abduce il polso e può intervenire nella pronazione
dell'avambraccio e nella flessione del gomito.
Innervazione: mediano C6, 7, 8
Deficit: riduce la forza di flessione del polso e, talvolta, la forza di prenazione
dell'avambraccio. Predispone a deformità in deviazione ulnare della mano.
Flessore ulnare del carpo
Origine: capo omerale, epitroclea dell'omero mediante il tendine comune dei
flessori. Capo ulnare, margine mediale dell'olecrano mediante un'aponevrosi,
due terzi prossimali del margine posteriore dell'ulna e fascia antibrachiale.
Inserzione: pisiforme e, mediante espansioni tendinee, uncinato e quinto
metacarpo.
Azione: flette e adduce il polso e può intervenire nella flessione del gomito.
Innervazione: ulnare C7, 8 D1
Deficit: riduce la forza di flessione del polso e predispone a deformità in
deviazione radiale della mano.
Palmare lungo
Origine: epitroclea dell'omero mediante il tendine comune dei flessori e fascia
antibrachiale.
Inserzione: retinacolo dei flessori e aponevrosi palmare.
Azione: mette in tensione l'aponevrosi palmare, flette il polso e può intervenire
nella flessione del gomito e pronazione dell'avambraccio.
Innervazione: mediano C6, 7, 8 D1
Deficit: riduce la capacità di incavare il palmo della mano e diminuisce la
capacità di flessione del polso.
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Palmare breve
Origine: margine ulnare dell'aponevrosi palmare e superficie palmare del
retinacolo dei flessori.
Inserzione: sulla pelle del margine ulnare della mano.
Azione: corruga la pelle del lato ulnare della mano
Innervazione: mediano C6, 7, 8 D1
Deficit: poco significativi.
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Fisiologia articolare
Fisiologia articolare del Pollice
Il primo dito della mano, a differenza delle dita lunghe, è costituito da due sole
falangi: falange prossimale e falange distale. L’epifisi prossimale della prima
falange si articola con la testa del primo metacarpo in una articolazione di tipo
condiloideo, che permette movimenti di flesso-estensione e rotazione.
L’intervallo attivo in flessione è da 10° a 100°, con una media di 75°. L’intervallo
in estensione è da 0° a 90°, con una media di 20°. I movimenti di lateralità, che
teoricamente si realizzano intorno ad un asse antero-posteriore, sono quasi
nulli; questa relativa assenza di movimenti di inclinazione laterale è compensata
dalla grande mobilità della articolazione trapezio-metacarpica. Un movimento
molto importante, non abituale per una articolazione di tipo condiloideo, è la
rotazione assiale della prima falange con il relativo metacarpo, che esiste sia
come movimento attivo che come movimento passivo e che riveste notevole
importanza nel movimento di opposizione del pollice. La stabilità articolare
della metacarpo-falangea (MCF) è data, oltre che dalla capsula, da due forti
legamenti collaterali e dai muscoli intrinseci del pollice. La capsula della MCF
del pollice è una struttura fibrosa lassa sul lato palmare e rafforzata
inferiormente dalla placca volare, lateralmente dai legamenti collaterali ulnare
e radiale e dorsalmente dall’estensore breve del pollice.
La placca volare è una struttura fibro-cartilaginea più rigida nella sua parte
distale e con una porzione flaccida nel suo terzo prossimale: due sesamoidi
sono contenuti nella sua parte rigida.
La placca si inserisce sul bordo volare della base della falange tramite un
intermezzo fibroso e si continua prossimalmente con un recesso sinoviale
detto
‘tasca
volare’.
Esiste un legamento di placca molto lasso, il legamento metacarpo-glenoideo,
che parte un po’ volarmente e si inserisce a ventaglio sul bordo laterale della
placca e ne controlla i movimenti.
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I legamenti collaterali sono due, uno mediale o ulnare e uno laterale o radiale,
si inseriscono dorsalmente al collo metacarpale e volarmente alla base della
falange prossimale.
Il legamento collaterale ulnare (LCU) presenta un fascio Principale più dorsale e
un fascio Accessorio più volare. Il legamento collaterale ulnare origina dalla
testa metacarpale e si dirige in direzione distale e volare per inserirsi sul
tubercolo laterale della falange prossimale. Il legamento collaterale accessorio è
un poco più superficiale e volare dell’LCU e le sue fibre si uniscono distalmente
alla fibro-cartilagine della placca volare.
In posizione di estensione a 0° della MCF, il fascio principale appare rilassato, e
la stabilità del pollice è legata alla integrità del fascio accessorio e della placca
volare, che appaiono invece tese; in flessione invece il legamento principale si
tende e impedisce i movimenti in radializzazione, mentre il fascio accessorio e
la placca volare si detendono. La MCF pertanto presenta una lassità fisiologica
in posizione neutra di circa 30°, mentre è assolutamente stabile in flessione.
In estensione a 0° è fisiologica una lassità allo stress in radializzazione del
legamento principale dell’LCU di circa 15°, mentre in flessione non si ha alcuna
lassità allo stress in radializzazione perché è posto in tensione il legamento
principale. In caso di insufficienza legamentosa del collaterale ulnare del pollice
si ha debolezza di presa.
Questo sistema legamentoso si trova al di sotto della Aponeurosi dell’adduttore
del pollice; con la flessione, la posizione della aponeurosi dell’adduttore si
sposta distalmente rispetto all’LCU a causa della connessione dell’aponeurosi
stessa con l’apparato estensore.
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Fisiologia articolare del II III IV dito
Le quattro dita lunghe della mano sono costituite ciascuna di tre falangi:
• 1ª falange o prossimale
• 2ª falange o intermedia
• 3ª falange o distale
Le falangi, nonostante la loro brevità, sono considerate ossa lunghe, con una
diafisi e due epifisi distale e prossimale.
La diafisi ha forma semicilindrica, lievemente concava volarmente e convessa
dorsalmente.
Le prime falangi hanno l’estremità prossimale conformata a cavità glenoidea
per adattarsi al sottostante metacarpo e l’estremità distale conformata a
troclea, con asse maggiore trasverso, per articolarsi con la base della seconda
falange che ha un epifisi prossimale incavata, con una cresta mediana e
sagittale.
Le terze falangi hanno forma di cono schiacciato in senso dorso-palmare,
l’estremità distale è allargata trasversalmente ed è piatta per dare uno
scheletro allargato al polpastrello ed un saldo sostegno all’unghia, l’estremità
prossimale è a troclea.
Le articolazioni metacarpo-falangee sono di tipo condiloideo e possiedono due
gradi di libertà:
• flesso-estensione nel piano sagittale intorno ad un asse trasversale;
• inclinazione laterale sul piano frontale intorno ad un asse antero-posteriore.
La flessione per il secondo dito può raggiungere i 90° e cresce progressivamente
fino al quinto dito, l’estensione attiva può raggiungere i 30°.
Le articolazioni interfalangee possiedono solo un grado di libertà, nel piano
sagittale, di flesso-estensione: a livello delle IFP l’ampiezza del movimento
flessorio oltrepassa i 90°, come per le MF questa ampiezza cresce dal II° al V°
dito, per raggiungere i 135° del mignolo, a livello delle IFD. L’ampiezza del
movimento flessorio è leggermente inferiore a 90° e, come per le precedenti,
cresce dal II° al V° dito.
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L’estensione attiva nelle articolazioni interfalangee è nulla nelle articolazioni
prossimali e molto debole nelle distali; per quanto concerne l’estensione
passiva, è nulla a livello delle IFP, e circa 30° nelle IFD.
L’articolazione interfalangee prossimale (IFP) è l’articolazione della mano più
frequentemente colpita.
È dotata di una notevole stabilità intrinseca in tutto l’arco di movimento,
dovuta alla forma trocleare, ai legamenti, alla fibro-cartilagene glenoidea e al
rinforzo dato dalle strutture tendinee e retinacolari.
La capsula fibrosa aderisce volarmente alla fibro-cartilagine glenoidea ed è
rinforzata sui lati dai legamenti collaterali.
I legamenti collaterali sono due spessi legamenti, uno mediale o radiale più
grande e uno laterale o ulnare più piccolo, che originano da una fossetta sita
sulla faccia laterale di ogni condilo e si dirigono volarmente, inserendosi alla
base della seconda falange. Si tendono durante il movimento di flessione,
mentre in estensione e in flessione massima sono rilassati. I legamenti
collaterali impediscono lo spostamento laterale delle dita.
Il pavimento della articolazione è formato da una struttura fibro-cartilaginea
detta placca volare, dotata di due legamenti prossimali, detti redini o freni, che
prendono origine dal periostio della prima falange, in corrispondenza della
porzione terminale della seconda puleggia anulare.
La funzione dei due prolungamenti è quella di evitare l’iperestensione della IFP,
consentendone invece la completa flessione.
La placca volare non è altro che un rinforzo della parte volare della capsula, che
invece è sottile dorsalmente. I legamenti collaterali e la placca volare
costituiscono un insieme che stabilizza fortemente l’articolazione.
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TRAUMATOLOGIA: frattura dei metacarpi e delle falangi
Qualsiasi frattura della mano dovrebbe essere diagnosticata da uno specialista,
in quanto potrebbero manifestarsi deformità a causa della tensione dei muscoli
e dei tendini che provoca la scomposizione della frattura. Tali fratture possono
necessitare di sintesi interna.
Una frattura della diafisi di un metacarpo sarà immobilizzata con i metacarpi
vicini e di solito causa pochi problemi. Tuttavia, una frattura del collo del
metacarpo può produrre un’angolazione anteriore, interessando in tal modo il
normale scorrimento dei meccanismi estensori e producendo rigidità articolare.
Talvolta i tendini degli estensori rimangono confinati sotto il callo osseo e non
sono quindi in grado di scorrere in modo efficace, impedendo così la completa
estensione delle dita.
Le lesioni osteoarticolari della mano sono alla base della maggior parte di esiti
in rigidità.
La rieducazione deve essere precoce i suoi scopi saranno riduzione del dolore,
risoluzione dell’edema , il mantenimento dei piani di scivolamento e del range
articolare.
Il dolore e l’edema
Il dolore può interferire nella riabilitazione, è tuttavia una risposta naturale di
protezione e ne va tenuto conto durante la mobilizzazione; la riabilitazione
rappresenta un equilibrio tra riposo, per promuovere la guarigione, e
mobilizzazione, per mantenere la funzione; il dolore comunque non è una
controindicazione al trattamento.
Anche l’edema è un altro fattore che limita la mobilizzazione e spesso è anche
causa di dolore severo.
L’edema è l’aumento di liquido interstiziale ed intra-articolare conseguente al
trauma, che di per se rappresenta un grosso trauma per la mano;l’edema è una
vera e propria “colla fisiologica” che favorisce la fibrosi e la retrazione del
tessuto connettivo.
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Il controllo del dolore e dell’edema può essere effettuato tramite elevazione
dell’arto, bendaggi compressivi, bagni alternati . Il dolore cronico può essere
combattuto anche con la stimolazione nervosa elettrica transcutanea (TENS):
questa agisce con meccanismi di inibizione presinaptica e inibizione meccanica
diretta, ed inserita in un programma riabilitativo come parte integrante può
combattere efficacemente il dolore cronico.
Nello specifico l'edema è un'infiltrazione sierosa dei tessuti a livello cutaneo o
mucoso, con aumento di volume del distretto interessato.
L'insufficienza linfatica può essere, secondo la classificazione di Foldi, dinamica
o meccanica.
In caso di insufficienza linfatica dinamica, il carico linfatico presente in quantità
aumentata, oltrepassa la capacità fisiologica di trasporto linfatico.
Si avrà edema molle, in cui il segno di Stemmer è negativo. (Segno di Stemmer è
dato dall'ispessimento della cute a livello del II dito del piede nell'arto inferiore
colpito).
Mentre nel caso di insufficienza linfatica meccanica il sistema linfatico non
funziona normalmente in quanto danneggiato o sede di anomalie congenite.
Il segno di Stemmer è quindi positivo, e l'edema è sempre di tipo linfatico e
presente un elevato contenuto di proteine.
Questo tipo di insufficienza può essere organica, dovuta a patologia sclerotica
del tessuto connettivo, displasia del vaso linfatico; oppure funzionale dovuta a
spasmo o paralisi della muscolatura del vaso linfatico.
Un edema con elevato contenuto proteico che dura per un periodo superiore a
quattro settimane induce turbe trofiche cutanee che si esprimono con la
proliferazione del tessuto connettivo e lo sviluppo di fibrosi.
L’edema nella mano , come verrà illustrato nei capitoli successivi può essere
trattato nei seguenti modi:
posizioni declivi: il paziente va istruito a tenere l’arto in posizione declive, sia a
letto, appoggiandolo a dei cuscini, sia in posizione eretta, portando il braccio al
collo e con la mano posizionata davanti alla spalla;
ghiaccio: applicato più volte al giorno favorisce il riassorbimento dell’edema
con un meccanismo di ginnastica vascolare (vasocostrizione e vasodilatazione);
20
linfo drenaggio manuale: eseguito in senso disto-prossimale;
bendaggio compressivo: particolare bendaggio che va applicato in senso distoprossimale a spirale in modo da creare una leggera compressione;
esercizi di mobilizzazione attiva: la contrazione attiva favorisce la pompa
muscolare con il conseguente riassorbimento dell’edema.
Se l’edema non è trattato adeguatamente si può arrivare ad avere la cosiddetta
“mano negativa”: atteggiamento della mano con il polso flesso, articolazioni MF
estese, articolazioni IFP e IFD flesse. Se la mano viene lasciata in questo
atteggiamento i tessuti andranno incontro a una fibrosi particolarmente
progressiva fino all’instaurarsi di rigidità. Il primo trattamento riabilitativo della
mano traumatica si basa quindi sulla prevenzione della mano negativa,
confezionando un ‘ortesi statica che metta la mano in “rest position”: il polso
leggermente esteso, le MF flesse a 70° e IFP e IFD in posizione neutra.
21
L’algodistrofia
L’algodistrofia, anche conosciuta come "sindrome complessa del dolore
regionale" è una sindrome multisintomatica e multisistemica ed è una patologia
che ha molti significati psicosomatici.
L’algodistrofia è stata per la prima volta chiaramente descritta più di 125 anni fa
dai dottori Mitchell, Morrehouse e Keen, ma le sue vere cause rimangono
ancora oggi incerte.
Molti termini diversi da Algodistrofia, come Atrofia di Sudek e Causalgia, sono
stati usati per descrivere questa condizione di dolore urente bruciante.
Solamente nel 1946 Evans ha usato il termine globale "distrofia da riflesso
simpatico" al fine di enfatizzare l’importanza del sistema nervoso simpatico
nella patofisiologia del dolore post-traumatico.
Negli ultimi 20 anni la ricerca medica, si é dedicata più precisamente alla
definizione di questa sindrome finendo però soltanto per allargare e amplificare
la definizione della diagnosi.
La distrofia da riflesso simpatico, RSD, è oggi riportata come sindrome
complessa da dolore regionale, è classificata come tipo 1 e tipo 2.
E’ definita come una sindrome multi-sintomatica e multisistemica che può
affliggere una estremità traumatizzata ma che può localizzarsi anche in altre
parti del corpo.
Gli studiosi di questa sindrome sostengono che essa sia causata da una
disfunzione del sistema nervoso simpatico, in cui è presente un aumento
dell’impulso dei nervi simpatici efferenti nei confronti delle estremità coinvolte
che induce un aumento dell’attività afferente.
E’ una sindrome che si manifesta frequentemente dopo un trauma ad un nervo,
ad un tessuto molle o ad un plesso neurale, ma la severità dell’evoluzione non
è proporzionale alla intensità o alla gravità del trauma iniziale.
Sono comunque stati riportati anche casi di algodistrofia che sono avvenuti
spontaneamente e che il paziente non ha potuto collegare ad un trauma diretto
della parte del corpo che ha subito la sindrome.
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Patofisiologia dell’ Algodistrofia
Il criterio diagnostico si basa sulla presenza di dolore regionale, sul
cambiamento della sensibilità,
sulla disfunzione del distretto anatomico, sul cambiamento della temperatura,
sulla anormale sudorazione, sulla presenza di edema, sulla anomalia del
controllo motorio a seguito del trauma. Molti studi hanno dimostrato che la
disfunzione del sistema simpatico consiste in una maggiore sensitività alle
catecolamine indotte da una (parziale) denervazione.
È stato anche ipotizzato che l’eccitamento delle sole fibre sensorie causi un
rilasciamento di neuropeptidi alla periferia della parte terminale di queste fibre.
I neuropeptidi possono provocare vasodilatazione, aumentare la permeabilità
vascolare
e
scatenare
nelle
fibre
sensitive
un
fenomeno
chiamato
"infiammazione neurogenica".
Il sistema nervoso centrale riceve un aumento di stimoli dai nocirecettori
periferici che ne altera il meccanismo.
Questi dati inducono a classificare l’algo-distrofia come un disordine
infiammatorio regionale esagerato.
Howarth, et al., ha utilizzato tecniche di medicina nucleare per dimostrare che i
vasi linfatici periferici sono sotto controllo autonomo allo stesso modo dei vasi
sanguigni che irrorano la stessa regione anatomica. Dallo studio della distrofia
del riflesso simpatico, sono giunti alla conclusione che l’edema periferico sia
causato da un incremento degli stimoli simpatici sui vasi linfatici. L’attivazione
del sistema nervoso simpatico a seguito del trauma è parte del "paura-fuga".
Questa è una modalità di risposta ad una situazione di emergenza e consiste
nell’avere paura o fuggire. Questo tipo di risposta è molto importante per la
sopravvivenza.
La risposta simpatica nei vasi cutanei provoca una contrazione e spinge il
sangue al interno delle
masse muscolari. Ciò permetterà alla vittima di usare i propri muscoli dopo un
trauma acuto e fuggendo da un futuro pericolo. La riduzione della
23
vascolarizzazione a livello della cute riduce anche la perdita di sangue
attraverso un eventuale lesione cutanea.
In condizioni normali il sistema nervoso simpatico riduce la sua attività dopo
alcuni minuti o dopo alcune ore in seguito del trauma. Ma nei casi traumatici
d’algodistrofia il sistema simpatico rimane attivo.
Teoricamente l’attività del sistema simpatico nella parte traumatizzata causa
infiammazione dei vasi sanguigni e spasmi muscolari portando una maggiore
sudorazione e dolore. Il maggiore dolore portato da questo meccanismo potrà
stimolare un’altra risposta determinando un circolo vizioso doloroso.
Il meccanismo del dolore nell ’algodistrofia
La percezione del dolore è complessa ed è determinata da:
- evento iniziale,
- informazione afferente,
- interpretazione e modulazione efferente del sistema nervoso centrale.
La percezione cosciente dell’intensità del dolore è in relazione alla capacità
fisiologica d’adattamento del corpo ed alla modulazione ed al bilanciamento
dell’informazione delle fibre afferenti ed efferenti.
Tra un individuo ed un altro é presente una grande variabilità nella capacità di
modulare gli eventi dolorosi acuti e cronici.
In caso di trauma diretto, i neuroni polimodali afferenti "recettori del dolore"
sono traumatizzati e attivati. Essi attivano i nervi periferici attraverso il sistema
del midollo spinale, corna dorsale ed i centri alti cognitivi.
Le fibre discendenti dalla corteccia cerebrale, dal cervelletto e il midollo spinale
modulano quest’attività nociva.
L’interpretazione corticale dell’evento nocirecettivo periferico come "dolore"
dipende da un com-plesso gioco di eventi fisiologici e fattori psicologici.
A seguito del trauma c’è una transitoria alterazione della fisiologia delle
estremità che si manifesta attraverso una funzione ridotta, un iperpatia,
allodinia, sindrome del non riposo e disfunzioni autonomiche.
Normalmente tale situazione è temporanea
24
La reazione diventa patologica quando si ha un perdurare della persistenza di
queste risposte.
Può risultare una struttura permanente con cambiamento sia fisiologico che
della funzione anatomica in entrambe i sistemi nervosi, periferico e centrale.
Lo stato distrofico prolungato può portare ad un danno irreversibile agli organi
e alle strutture periferiche, a un danno dei meccanismi di shunt artero-venoso o
artro-fibrosi delle articolazioni, a una alterata funzionalità dei neurorecettori o
delle vie nervose.
Diagnosi e stadi dell’algodistrofia
La diagnosi di algo-distrofia può essere fatta nel contesto di una storia di
trauma predominante, ma non assoluto, che ha afflitto l’area associata al
dolore.
Può non essere proporzionatamente inscritta in uno o più dei seguenti sintomi
fisiologici:

anormale funzione del sistema nervoso simpatico,

anormale sudorazione,

disordini di movimento,

cambio della struttura del tessuto (distrofia e atrofia).
La tipologia del dolore del paziente può variare e può essere descritta come:
severa, costante, inter-mittente, urente o con profonda dolenzia.
Molto spesso i pazienti presentano allodinia, iperpatia e disestesia parossistica.
La pelle nell’area affetta può apparire dimagrita, secca, disepitelizzata.
Tutti questi segni indicano differenti fasi dell’atrofia o distrofia simpatica.
Questa sindrome è divisa in tre stadi a seconda della presenza di specifici
sintomi fisiologici.
Lo stadio 1 è caratterizzato da presenza di dolore severo, che rimane limitato
alla sede della lesione; il paziente riferisce iperestesia e può presentare
25
sudorazione localizzata, crampi muscolari e rigidità articolare. All’inizio della
sindrome la cute appare calda e arrossata, magra e disidratata e lentamente
può diventare cianotica, ipotermica con brividi (cambiamenti trofici). Il paziente
può avere iperidrosi, specialmente se il trauma è localizzato nell’arto superiore.
Variazioni ambientali possono provocare cambi nella temperatura della cute, i
quali non sono sempre e solamente determinati da ciò.
Lo stadio 2 è caratterizzato da dolore e da una sudorazione più diffusa. I peli del
paziente possono
crescere abbastanza increspati, ruvidi e numerosi. Nella parte finale dello stadio
possono ridursi e rallentare la crescita.
Le unghie del paziente tendono a crescere più rapidamente nella fase acuta
(stadio 1), mentre nel passaggio da uno stadio all’altro diventano più lucide e
affette da strie bianche. I disordini
sono dovuti in parte alla percezione del dolore e alla ipereccitabilità del sistema
nervoso simpatico
che di controverso ha un effetto inibitorio sulla contrazione muscolare. Questo
porta ad una rigidità articolare e ad una perdita di tono muscolare che se
prolungati e persistenti per un lungo periodo di tempo possono presentare
svantaggi funzionali dovuti ad "atrofia da disuso".
I sintomi normalmente iniziano con un trauma specifico e lentamente si
diffondono prendendo il
sopravvento in un intero quadrante del corpo. Studi radiografici in pazienti
affetti da algodistrofia
hanno dimostrato un aumento del riassorbimento osseo, osteoposi o
osteopenia (atrofia di Sudek).
Questo é il quadro che emerge alla fine del secondo stadio.
Lo stadio 3 della sindrome è caratterizzato da una severa atrofia tissutale con
perdita della massa
muscolare che può diventare irreversibile. La durata di questa sindrome è
proporzionale al grado di
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severità della funzione deficitaria che può protrarsi e in settimane e in mesi e in
anni.
Più la sindrome permane, più risulterà irreversibile.
Nessuno di questi test può da solo essere determinante come fattore
diagnostico della algodiostrofia.
Wasner et al., hanno studiato la patofisiologia e il meccanismo delle anomalie
vascolari che distinguono l’algodistrofia.
E’ stato dimostrato che la massima differenza della temperatura cutanea che si
manifesta durante il ciclo di regolazione distingue l’algodistrofia dagli altri
dolori delle estremità che hanno un’altra sensibilità e specificità.
Decorso clinico in caso di algodistrofia nella mano
Il dolore è ’ il segno più grave: nelle prime fasi da iperalgesia con dolore di tipo
urente. Viene aggravato da fattori ambientali, dalla postura e dal movimento. Il
dolore non ha distribuzione dermatomerica e non riguarda precisamente il
territorio di competenza di un ramo nervoso sensitivo o misto.
I tests della sensibilità permangono a lungo alterati.
In tempi precoci si riscontra una consistenza gommosa dell’articolazione ,
perdita di elasticità e ispessimento dei setti intercommissurali e della fascia
palmare.
In fase iniziale avviene una riduzione della motilità attiva e passiva per il
dolore e per l’edema.
In una fase ulteriore si instaura, con andamento ingravescente , la fibrosi.
In particolare la retrazione maggiore si verifica nella posizione antalgica che il
paziente assume, o nella posizione in cui l’edema fissa la mano.
La retrazione colpisce l’aponeurosi palmare con briglie che limitano lo
scorrimento dei flessori, e dei setti intercommissurali .
A livello dei piccoli muscoli della mano la fibrosi risulta particolarmente
evidente e palpabile all’adduttore del pollice, e il primo interosseo dorsale.
L’edema si presente a cuscinetto sul dorso della mano, e infarcisce tutti i
distretti. Genera immobilità meccanica, dolore da compressione interna e avvia
la degenerazione ischemica.
27
La diagnosi differenziale sarà con flebiti e patologie vascolari dirette, linfangiti,
infezioni.
L’edema tende a raccogliersi nelle zone dove la cute è più lassa , infarcisce le
articolazioni che vengono distese conferendo alla mano un aspetto e una
postura caratteristici con flessione del polso, estensione MF e flessione IF.
L’edema può diventare una complicanza in quanto coinvolge le strutture di
movimento comportandosi come una colla e causando fibrosi e rigidità
progressive.
Prima di avviare il trattamento dell’edema va effettuata una valutazione del
paziente e del segmento, rilevando la consistenza dell’edema - molle, pastoso,
duro – tramite palpazione e rilevando alterazioni dell’articolarità, stato della
cute, temperatura, presenza di cicatrici, alterazioni della sensibilità.
Si procede con una misurazione centimetrica, che si effettua con centimetro
flessibile, dopo aver stabilito con precisione i punti di repere.
Trattamento
Gli strumenti terapeutici sono diversi : possono essere impiegati in associazione
e vanno integrati tra di loro. Le controindicazioni sono ristrette a infezioni e a
tumori o metastasi in fase attiva.
In particolare nell’edema della mano traumatica si potrà avere: edema da
essudato .
Per l’edema da essudato, gli obiettivi saranno:
-
Contenere e ridurre tempestivamente il volume
Drenare gli essudati e promuovere la fagocitazione di residui cellulari e agenti
patogeni
Stimolare il processo di cicatrizzazione
Mobilizzare correttamente la linfa prevenire l’accumulo di fibrinogeno,
responsabile della trombosi dei vasi linfatici e della fibrosi tissutale.
28
Il trattamento, preceduto da una accurata valutazione, prevede una serie di
indicazioni .
-
Bilancio fisiochinesiterapico
Esercizi respiratori
Drenaggio linfatico manuale
Riabilitazione funzionale della mano
Bendaggio compressivo o elastocompressione
29
BILANCIO FISIOCHINESITERAPICO
In presenza di un linfedema, prima di intraprendere un trattamento combinato,
occorre effettuare un corretto bilancio muscolare e articolare, che metta in
evidenzia la complessità dei problemi riabilitativi.
Il bilancio comprende:
1. Anamnesi del paziente: i dati più utili comprendono gli eventuali trattamenti
medici, chirurgici , fisioterapici già effettuati
2. Ispezione dell’edema: ha lo scopo di individuare la localizzazione e la sua
estensione .
3. Palpazione: comprende l’esame manuale della temperatura cutanea, della
consistenza dell’edema (molle, duro, fibroso), la ricerca del segno della fovea e
del segno di Stemmer.
4. Ispezione della cute: presenza di cicatrici, verrucosi, micosi, presenza di varici
negli arti interessati o altri segni di insufficienza venosa od arteriosa.
Rilievi standards
In presenza di linfedema è opportuno effettuare i seguenti rilievi:
-
Misurazioni degli arti a confronto: all’inizio del trattamento e ai controlli
successivi allo scopo di verificare l’efficacia della terapia . Occorre stabilire
precisi punti di repere e misurare le circonferenze con un centimetro da sarto
(polso, gomito, ecc).
-
Foto del paziente: è utile effettuare delle fotografie prima di iniziare il
trattamento ed alla fine per documentare in maniera analitica i risultati dello
stesso.
-
Valutazioni ampiezze articolari: in presenza di edema la funzionalità di un arto
può essere parzialmente compromessa.
Valutare i gradi di ampiezza delle
escursioni delle grandi articolazioni (spalla, gomito, polso per l’arto superiore;
anca, ginocchio per l’arto inferiore) e verificare quanto l’ipomobilità sia causata
30
dalla presenza dell’edema
e quanto dalla compromissione osteoarticolare
preesistente o eventualmente sopraggiunta all’edema stesso.
-
Esame muscolare: l’ipomobilità e la compromissione della componente idrica
sopra fasciale sulle strutture fasciali possono favorire un’ipotrofia muscolare .
Valutare quindi attentamente il trofismo muscolare loco regionale al fine di
meglio indirizzare il trattamento fisioterapico.
-
Valutazioni globali: soprattutto se si è in presenza di ferite chirurgiche porre
particolare attenzione agli esiti cicatriziali, al fine di evitare eventuali
imbrigliamenti muscolo tendinei e possibili aderenze
con i piani cutanei
sottostanti
-
Ricerca di turbe neurologiche sensitive: le lesioni di piccoli tronchi nervosi
periferici causate da interventi chirurgici possono scatenare parestesie e
disestesie
31
ESERCIZI RESPIRATORI
Una corretta ginnastica ventilatoria può favorire il drenaggio dei fluidi in senso
centripeto. Durante la fase inspiratoria all’interno della gabbia toracica si
realizza un incremento pressorio che favorisce lo svuotamento dei fluidi dai
grossi vasi venosi e linfatici verso le loro afferenze finali<, viceversa durante la
fase espiratoria , con l’innalzamento del diaframma, diminuisce la pressione
endo addominale favorendo il drenaggio venoso e linfatico dagli arti inferiori
verso i grossi vasi addominali.
Il tipo di ginnastica ventilatoria , è senz’altro quello addomino-diaframmatico.
Durante l’inspirazione il paziente viene invitato, con le mani poste sulla
superficie addominale, ad abbassare il diaframma sollevando l’addome senza
contrarre i muscoli addominali.
Durante l’espirazione l’addome si riporta lentamente nella condizione di
partenza, con il diaframma che si solleva . La frequenza respiratoria ideale è di
10 atti al minuto.
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Il Linfodrenaggio Manuale secondo il metodo Vodder
Il Linfodrenaggio manuale (DLM) è una tecnica di massaggio che si differenzia in
maniera notevole da quello tradizionale per due aspetti fondamentali: l’intensità
della pressione esercitata dalla mano, molto più delicata nel drenaggio, che si
prefigge di svolgere la sua azione principalmente su strutture sottocutanee, rispetto
al massaggio che si orienta essenzialmente sulle strutture muscolo-fasciali, più
profonde; l’orientamento delle manovre, che nel linfodrenaggio, segue il decorso
delle vie anatomiche.
Per eseguire correttamente la metodica occorre conoscere l’anatomia microscopica
del sistema linfatico . Per finalizzare in maniera ottimale le manovre manuali di
linfodrenaggio va ricordato ancora che la superficie corporea può essere suddivisa
in differenti “settori”delimitati da linee divisorie ideali in base alla direzione di
scorrimento dei principali tronchi linfatici superficiali.
Partendo da questi presupposti generali è evidente che non è possibile codificare
una singole ed univoca metodica manuale, bensì considerando una tecnica di base ,
è possibile realizzare modifiche e variazioni nell’approccio terapeutico nei confronti
della patologia di base, in relazioni alle conoscenze anatomiche e delle risposte che
via via si ottengono con il trattamento.
Alcune
regole
fondamentali
vanno
tuttavia
sempre
rispettate:
- durante le manovre manuali esercitate pressioni dolci (30-40 mmHg) che devono
interessare principalmente i tessuti soprafasciali;
- durante il trattamento il paziente non deve mai riferire sensazioni di dolore ma
solo impressioni gradevoli e benefiche;
- durante il trattamento il paziente deve assumere una postura comoda e che lo
rilassi ;
- l’azione manuale dura mediamente 3 secondi al termine dei quali viene ripetuta la
stessa manovra con la stessa durata , nella stessa regione anatomica per almeno 8 –
10 volte (in tal modo vengono rispettati i tempi di contrazione dei linfangioni che
normalmente avvengono ogni 3 secondi);
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- le manovre manuali non devono essere eseguite direttamente su zone cutanee
sede di fenomeni flogistici o infettivi o lesioni ulcerative;
- non devono essere impiegati, durante tali manovre , talco, olii o quant’altro
impedisca un contatto diretto e con il giusto attrito tra la nostra mano e la cute del
paziente;
- durante l’esecuzione del linfodrenaggio il paziente viene invitato a rilassarsi e a
respirare liberamente, con particolare attenzione all’inizio del trattamento facendo
eseguire alcune respirazioni profonde in maniera tale da richiamare la linfa
attraverso il movimento del diaframma;
- all’inizio del trattamento vanno “aperti” i cosidetti Terminus , dove tutto il sistema
linfonodale va a sfociare. Il
terminus ad esempio
per l’arto superiore è dato
dall’angolo di unione della vena succlavia con la vena giugulare interna, sito in
regione retroclaveare .
Principi di tecnica
Il drenaggio linfatico manuale abbiamo detto è un massaggio leggero, gradevole, ed
indolore, la cui azione si svolge in profondità, su tutti i tessuti. Si tratta di “spinte
tangenziali” alla pelle, senza frizione o scivolamento su essa; e comprende manovre
di svuotamento delle stazioni linfonodali e di riassorbimento e drenaggio della linfa
stagnante.
Nel DLM si lavora sempre dalle zone prossimale a quelle distali, per far si che
durante il drenaggio, la linfa non si vada ad accumulare e a creare ulteriori accumuli
lungo il suo deflusso.
Secondo Vodder le manovre del DLM sono 3 e possono essere così descritte:
1. Manovra di preparazione e apertura dei terminus: con questa manovra si vuole
andare a svuotare i linfonodi, in modo che queste stesse strutture siano in grado di
ricevere la linfa rimossa. Viene eseguita con i polpastrelli e le prime falangi della
mano che viene mantenuta “a piatto” durante tutta l’esecuzione, attraverso
pressioni leggere circolari verso i tronchi linfatici efferenti e verso le stazioni
linfatiche più a monte. Durante questa manovra non si deve mai perdere il contatto
con la cute sovrastante i linfonodi.
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2. Manovra di svuotamento: ha lo scopo di attivare la contrazione dei linfangioni e
facilitare il deflusso verso i tronchi linfatici principali. La manovra viene eseguita con
una o due mani poste perpendicolarmente rispetto al decorso del sistema linfatico.
Va ripetuta almeno 3 o 4 volte .
3. Manovra di reimmissione: con questa manovra si vuole veicolare la linfa
dall’interstizio verso l’interno del lume dei vasi linfatici iniziali ed attraverso questi
verso i collettori di dimensioni maggiori. E’ la vera manovra drenante , quello che
consente il riassorbimento della linfa in eccesso. Le mani dell’operatore vengono
poste perpendicolarmente rispetto al decorso dei linfatici, con una presa “a
braccialetto” con le punte dei pollici che si toccano e con le altre dita che
confluiscono la linfa verso la stazioni di scarico.
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Fasi principali del DLM per l’arto superiore
La sequenza del DLM per l’arto superiore è così strutturata:
1. Apertura del Terminus retroclaveare
2. Trattamento superficiale dell’emitorace fino allo scarico ascellare
3. Drenaggio dal muscolo deltoide convogliando la linfa verso l’ascella
4. Drenaggio del braccio (con movimenti rotatori e combinati) fino allo scarico
5. Apertura dei linfonodi cubitali del gomito
6. Drenaggio dell’avambraccio
7. Movimenti combinati dal gomito all’ascella
8. Movimenti combinati dal polso al gomito
9. Movimenti combinanti dal polso all’ascella
10. Drenaggio della mano
11. Drenaggio del carpo con piccoli movimenti semicircolari alternati dei pollici. Questa
manovra va eseguita in sede volare e dorsale.
12. Trattamento degli spazi interossei con movimenti alternati dei pollici. La spinta è
verso il carpo.
13. Movimenti alternati di spremitura sul palmo della mano
14. Movimento leggero di flesso-estensione del carpo e contemporaneamente drenare
il dorso della mano.
15. Trattamento delle dita con leggera spremitura laterale e mediale
16. Spremitura degli spazi interdigitali
17. Drenaggio del carpo con movimenti semicircolari
18. Movimento a braccialetto dal polso fino all’ascella
19. Scaricare sempre le stazioni linfonodali
20. Leggero sfioramento di tutto l’arto
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Riabilitazione funzionale della mano
Programma riabilitativo
Mobilizzazione Passiva
Lo scopo della mobilizzazione passiva è di mantenere o migliorare l’ampiezza
articolare o lo scivolamento dei tendini, permette di ricostruire i meccanismi
mentali
dell’immagine
motrice
necessaria
alla
mobilizzazione
attiva.
Un’articolazione immobilizzata a lungo tempo sembra aver conservato solo la
sensibilità dolorosa, mentre le sensazioni a distanza sono abolite o molto
disturbate, la mobilizzazione passiva, per ristabilire il senso delle posizioni,
prova a creare di nuovo l’immagine motoria per mezzo dell’associazione della
vista e della sensazione cinestesica; la mobilizzazione passiva, inoltre, restituirà
scioltezza e mobilità all’articolazione restituendo l’escursione ai tendini
bloccati.
La mobilizzazione passiva deve rispettare la soglia del dolore e ogni volta che
questo compare bisogna interrompere l’esercizio, tuttavia non bisogna fidarsi
molto dei pazienti lamentosi e neanche dei pazienti che resistono al dolore,
infatti in entrambi i casi le sensazioni riferite saranno falsate e non obiettive. La
mobilizzazione deve essere lenta e dolce e possibilmente al di sotto della soglia
del dolore, perché altrimenti si evoca un riflesso miotatico di difesa che provoca
una contrazione dei muscoli che invece dovrebbero rilassarsi.
Oltre alla creazione dell’immagine motrice, la mobilizzazione passiva permette il
miglioramento del trofismo cutaneo e l’ammorbidimento della capsula e dei
legamenti.
La mobilizzazione passiva richiede una lunga e accurata preparazione destinata
ad attenuare il dolore, diminuire la contrattura e ridurre l’edema, e sarà tanto
più efficace e facile quanto più sarà stata accurata la preparazione. Durante
ogni mobilizzazione è importante mettere il paziente a suo agio, e in occasione
della preparazione è importante stabilire una necessaria confidenza con il
paziente e in manovra l’operatore dovrà evitare qualunque manovra
intempestiva, dolorosa o psicologicamente mal tollerata allo scopo di
conservare questa preziosa fiducia.
37
La mobilizzazione passiva si distingue in due tipi:
• Mobilizzazione passiva analitica
• Mobilizzazione passiva funzionale o globale
La mobilizzazione passiva analitica sollecita una sola articolazione alla volta, in
un solo piano di riferimento, secondo il piano di libertà articolare rispettandone
l’ampiezza fisiologica. Per realizzare questo esercizio di mobilizzazione è
necessaria una presa efficace sul segmento di arto da mobilizzare, questa deve
essere distale rispetto alla contro-presa che fissa il segmento prossimale.
La
mobilizzazione
passiva
funzionale
mobilizza
più
articolazioni
contemporaneamente e utilizza i gradi di libertà di ciascuna per ottenere una
movimento; non è necessario disporre della totalità della ampiezza articolare
per realizzare tale mobilizzazione.
Mobilizzazione passiva in flessione dell’articolazione trapezio-metacarpica
Mobilizzazione in flessione
Il paziente appoggia sul piano di lavoro le facce posteriori dell’avambraccio, del
polso e della mano. Il pollice si trova in opposizione moderata. Il fisioterapista,
collocato lateralmente, stabilizza con una mano il polso e in particolare l’osso
trapezio, afferrandolo con il pollice, l’indice e il medio. Con l’indice dell’altra
mano uncina il bordo interno dell’estremità distale del metacarpo da
mobilizzare contro la faccia palmare della seconda falange dell’indice. Con la
parte terminale del polpastrello del pollice della stessa mano, il fisioterapista si
appoggia sulla parte esterna e prossimale del metacarpo da mobilizzare. La
mobilizzazione in flessione è provocata dall’azione in coppia di rotazione della
mano distale del fisioterapista. Questa tecnica permette di indurre uno
scivolamento inverso al movimento.
Mobilizzazione in estensione
La posizione di partenza colloca il polso e il pollice in posizione neutra; il
fisioterapista stabilizza l’osso trapezio realizzando una presa con opposizione
tra pollice e indice che si appoggiano rispettivamente sulle facce posteriore e
anteriore del trapezio. Con l’altra mano, egli afferra l’estremità prossimale del
38
metacarpo da trattare grazie ad una presa sub-termino-terminale tra pollice e
indice; le altre dita prendono appoggio con le loro facce palmari sul bordo
esterno delle due falangi e dell’estremità distale del I° metacarpo. La manovra
di estensione consiste nello spostare il primo raggio all’indietro.
Mobilizzazione in abduzione e adduzione
Il polso del soggetto è collocato in lieve estensione e inclinazione radiale. Con
una mano il fisioterapista afferra il trapezio tra pollice e indice, con l’altra
prende il metacarpo e la sua parte più prossimale; per questa mobilizzazione si
utilizza una presa sub-termino-laterale, con la faccia laterale delle articolazioni
interfalangee distali dell’indice che si appoggia sulla faccia anteriore del
metacarpo da mobilizzare. Il movimento di abduzione è realizzato grazie ad un
appoggio del polpastrello del pollice diretto centralmente che induce uno
scivolamento in senso analogo. L’adduzione è determinata da una spinta
dell’indice del fisioterapista diretta dorsalmente e questo realizza uno
scivolamento nello stesso senso.
Mobilizzazione in rotazione assiale
Con una mano il fisioterapista stabilizza il trapezio tra pollice e indice, con
l’altra mano realizza una presa interdigitale latero-laterale del I° metacarpo; per
questa presa il fisioterapista impegna totalmente il secondo spazio interdigitale
in arresto della prima commissura del paziente; le articolazioni interfalangee
prossimali del secondo e terzo dito del fisioterapista sono flesse. Le due falangi
del pollice del paziente sono chiuse nel palmo della mano del fisioterapista; la
mobilizzazione in rotazione assiale è alternativamente realizzata in rotazione
interna e poi esterna.
Mobilizzazione passiva delle articolazioni metacarpo-falangee.
Mobilizzazione in flessione
Il paziente è seduto, con la spalla in abduzione-flessione, il gomito piegato e il
polso in posizione neutra. L’avambraccio è in prono-supinazione intermedia per
la mobilizzazione del pollice, oppure in pronazione per quella delle dita. Il
39
fisioterapista, collocato di lato, con il palmo della mano prossimale prende
appoggio a livello delle facce dorsali e della base dei metacarpi, con le dita più o
meno ripiegate sul lato opposto. Con l’alta mano, il fisioterapista realizza una
presa sub-termino-laterale tra l’indice e il pollice, il cui polpastrello è applicato
sulla faccia dorsale della base della prima falange. Il bordo laterale dell’indice
del fisioterapista è in appoggio alla faccia anteriore della testa del metacarpale
corrispondente. La mobilizzazione in flessione è assicurata da un movimento di
leva con la mano distale, che spinge all’indietro il metacarpo e in scivolamento
anteriore la prima falange. L’altra mano prossimale, colloca simultaneamente il
polso del paziente in estensione al fine di distendere l’apparato estensore.
Mobilizzazione in estensione
La tecnica descritta in precedenza è questa volta realizzata su una mano il cui
palmo è rivolto in alto. La mano prossimale del fisioterapista realizza una
flessione del polso mentre la presa effettuata con l’atra mano spinge la testa
del metacarpo da mobilizzare in direzione ventrale grazie all’appoggio
dell’indice, mentre il polpastrello del pollice spinge la prima falange in senso
dorsale.
Mobilizzazione in inclinazione radio-ulnare
Il soggetto è seduto con l’arto superiore in flessione, l’avambraccio in
pronazione, il polso e l’articolazione metacarpo-falangea da mobilizzare in
posizione neutra. Con una mano, il fisioterapista stabilizza il metacarpo grazie
ad una presa di opposizione sub-termino-laterale, con l’asse della mano che è
praticamente perpendicolare ai metacarpi del paziente; con le ultime due dita,
il fisioterapista avvicina la mano dal suo bordo ulnare; per il secondo e terzo
metacarpo impegna la sua contropresa nel primo spazio interdigitale del
soggetto. Con l’altra mano, il fisioterapista afferra le facce laterali della falange
grazie ad una presa di opposizione sub-terminale. Le deviazioni esterna ed
interna sono accompagnate da uno scivolamento nello stesso senso.
Mobilizzazioni passive delle articolazioni interfalangee
Le articolazioni interfalangee prossimali e distali sono abitualmente assimilate
alle troclee; è quindi consentito in solo grado di libertà attivo: la flesso-
40
estensione. A questo bisogna aggiungere due gradi di mobilità passiva: le
inclinazioni e le rotazioni assiali essenzialmente in lieve flessione. Le manovre di
mobilizzazione delle articolazione interfalangee prossimali e distali sono
ricalcate su quelle metacarpo-falangee. Queste articolazioni devono essere
mobilizzate
in
decompressione,
in
rotazioni
assiali,
in
scivolamenti
antero-posteriori e laterali, così come in flessione-estensione.
Mobilizzazione attiva
Al contrario della mobilizzazione passiva, che richiede l’intervento di una forza
esterna per la mobilizzazione degli arti, la mobilizzazione attiva è il risultato di
una attivazione volontaria automatica o riflessa del sistema motorio periferico o
effettore. La motilità volontaria è caratterizzata da una decisione precedente al
movimento, questa richiede una partecipazione completa da parte del paziente
per la realizzazione dell’esercizio, sia che si tratti di contrazione di un singolo
muscolo o di un gruppo muscolare, sia nella mobilizzazione di una o più
articolazioni. I movimenti del pollice e la pinza, bidigitale o pluridigitale, sono
tra i più volitivi del corpo, sono movimenti lenti e permettono prese di grande
precisione e di grande finezza inoltre la motilità della mano prevede
prevalentemente schemi motori acquisiti. La chinesi attiva della mano
comprende:
• Il comando che risulta dall’evocazione del movimento e dall’ordine di
esecuzione.
• L’esecuzione del movimento.
• L’informazione retrograda o feedback che ragguaglia la corteccia sullo stato e
la posizione del recettore.
Un disturbo di una sola delle maglie della catena del movimento compromette
la realizzazione di questo ed proprio dall’integrità di tutta la catena che
dipendono le possibilità di mobilizzazione attiva.
41
Mobilizzazione attiva semplice
Alla rimozione dell’immobilizzazione, il paziente calmo e disposto a collaborare,
può iniziare da solo il movimento richiesto dosando l’ampiezza secondo la soglia
del dolore; nei casi in cui il paziente sia poco collaborante è necessaria una
adeguata preparazione prima di intraprendere la mobilizzazione attiva, infatti, i
primi tempi della mobilizzazione possono essere decisivi per il proseguimento
della riabilitazione.
Nella pratica la mobilizzazione attiva deve cominciare con i movimenti globali
per arrivare ai movimenti analitici; gli esercizi si eseguono procedendo dalla
parte sana verso quella malata e dal polso verso le dita, gli elementi sottostanti
vanno bloccati per permettere la mobilizzazione dei segmenti distali. I
movimenti devono essere lenti, ampi e devono sfruttare tutta l’escursione
articolare possibile.
La mobilizzazione attiva semplice può essere guidata da apparecchi meccanici
che guidano il movimento in gesti complessi (es. il pallottoliere che sollecita
anche la spalla: mobilizzazione completa dell’arto superiore), può essere
assistita per aiutare i movimenti contro gravità (es. in caso di impotenza
dolorosa
della
spalla), può adottare
l’abbinamento delle
dita
detto
“sindattilizzazione temporanea” che consiste nel solidarizzare due dita vicine in
modo da proteggere il dito più debole, e permettendogli una mobilizzazione
auto passiva.
All’inizio la fatica compare molto rapidamente, dopo pochi tentativi e impone il
riposo, se i progressi ottenuti sono rapidi dopo poche sedute si potrà passare
alla mobilizzazione attiva contro resistenza.
Mobilizzazione attiva contro resistenza
Gli esercizi contro resistenza vengono effettuati quando la mobilizzazione attiva
semplice ha reso al paziente il concetto del proprio movimento. Questi esercizi
permettono di risvegliare l’interesse del paziente con l’uso di ausili accessori, di
incoraggiarne il lavoro mediante la constatazione di progressi quantitativi e
infine di recuperare la forza muscolare mediante una contro resistenza
progressiva. Negli esercizi contro resistenza manuale, il terapista oppone al
42
movimento attivo del paziente una forza appena sufficiente a permettere
l’attivazione del movimento.
La contro resistenza deve essere esercitata sul segmento distale e non deve mai
applicarsi attraverso una articolazione interposta, inoltre bisogna fissare la
parte prossimale dell’arto per evitare i movimenti di compenso. Il paziente può
attuare esercizi contro resistenza utilizzando un dito della mano lesa o dell’arto
opposto, oppure tramite resistenze elastiche che si scelgono di forza differente
secondo il dito o il segmento che si vuole mobilizzare e secondo il recupero
acquisito; l’elastico viene fissato a livello della prima falange per mobilizzare la
metacarpo-falangea,
a
livello
della
seconda
falange
per
mobilizzare
l’interfalangea prossimale ed a livello della terza falange per mobilizzare
l’interfalangea distale o per ottenere una mobilizzazione attiva contro
resistenza globale del dito.
Gli scopi della mobilizzazione contro resistenza sono:
• Mantenere efficiente la muscolatura con un lavoro dei muscoli agonisti e
antagonisti
• Rinforzare la muscolatura
• Riallenamento allo sforzo tramite un lavoro globale intensivo di un gesto o di
una funzione
In questo tipo di esercizio la partecipazione del paziente è totale, è lui che
compie lo sforzo; bisogna spiegargli che deve compiere il movimento
nell’escursioni massimali restando al di sotto della soglia del dolore. Fare lo
stesso gesto parallelamente con la mano sana, può aiutare efficacemente
nell’esecuzione della mobilizzazione attiva.
Nei casi in cui l’immobilizzazione obbligatoria di un segmento di un segmento di
arto impedisce il gioco articolare e la mobilizzazione attiva, il deficit muscolare
e la perdita del senso cinestesica rischiano di comparire rapidamente. È quindi
necessario mantenere il trofismo muscolare per mezzo di esercizi che non
richiedono nessun movimento delle articolazioni: questo si ottiene con
movimenti isometrici che esigono una collaborazione intelligente da parte del
paziente. La durata della contrazione statica volontaria è di cinque secondi il
primo giorno per aumentare quotidianamente fino ad un massimo di venti
43
secondi; l’esercizio va ripetuto dieci volte separate da un riposo che va da venti
a trenta secondi.
Tecniche attive per i muscoli delle dita
Lavoro dei muscoli che realizzano la flessione
Il paziente è seduto di fronte a un tavolo su cui poggia il gomito, con
l’avambraccio in supinazione. Il polso è diritto, o in lieve estensione, la mano
ben aperta con le dite ben discostate. Il fisioterapista, con la mano situata sulla
faccia anteriore della giunzione carpo-metacarpale, oppone una lieve resistenza
alla flessione del polso, mentre le dita dell’altra mano, a contatto dei
polpastrelli delle terze falangi delle dita del paziente, sollecitando, più di quanto
non resistano, il ripiegamento delle dita. Il paziente deve riportare i polpastrelli
delle sue ultime falangi verso la parte ulnare della mano; per far questo effettua
simultaneamente una flessione-inclinazione del polso, associata a una flessione
delle dita.
Esercizi di artigliamento
Il paziente è posizionato come nell’esercizio precedente, con le dita semiflesse
a contatto con il tavolo con la parte terminale delle ultime falangi. Il
fisioterapista applica il palmo della sua mano a livello della faccia dorsale dei
metacarpi del paziente e vi esercita una forza diretta caudalmente e
dorsalmente. Il paziente ha come obiettivo di scostare la faccia ventrale della
mano dal tavolo prendendo appoggio sulle falangi distali delle dita; l’azione
viene intensificata quando egli si oppone alla forza, diretta dorsalmente,
imposta dal fisioterapista.
Esercizio con sistema di leva
Il paziente, con il gomito flesso e l’avambraccio in supinazione, appoggia la
parte terminale delle terze falangi sull’estremità di una tavoletta che poggia al
centro su un perno; l’altra estremità della tavoletta è appesantita con un carico
addizionale. Il paziente deve sollevare il carico di questo sistema di leva
premendo con le dita sull’estremità della tavoletta.
Lavoro dei muscoli che realizzano l’estensione
Lavoro in catena posteriore
44
Il paziente appoggia il gomito su un tavolo, l’avambraccio, verticale, è in
supinazione, il polso in flessione estrema, le dita in lieve estensione. Il
fisioterapista, con una mano situata sulla faccia dorsale dell’avambraccio,
esercita una forza diretta centralmente. Il dito indice dell’altra mano si applica
trasversalmente sulla faccia dorsale dell’estremità del quattro metacarpi,
mentre il dito medio è situato trasversalmente sulla faccia dorsale delle prime
quattro falangi. Queste due dita esercitano una forza diretta caudalmente; il
paziente deve effettuare un’estensione delle dita.
Lavoro in catena anteriore
Il paziente presenta l’avambraccio in pronazione, il polso in estensione, le tre
articolazioni delle dita flesse. Il fisioterapista con una mano, mediante una
presa antibrachiale, stabilizza l’arto superiore del paziente, mentre l’altra mano,
a palmo aperto, si applica sulla faccia dorsale delle ultime falangi dove si
esercita una flessione diretta dorsalmente. Il paziente, dovendo estendere le
quattro dita mette in azione i muscoli che lavorano in questo senso.
45
Elastocompressione
Il bendaggio elastocompressivo costituisce un elemento fondamentale nel
trattamento del linfedema .
Per ridurre il ristagno dei fluidi, nello spazio interstiziale, è necessario produrre un
incremento pressorio in tale compartimento finalizzato a favorire un gradiente
pressorio positivo verso l’interno del lime vasale.
In linea di massima il trattamento elastocompressivo produce un effetto maggiore
se abbinato all’esercizio fisico.
Risulta evidente che il trattamento elastocompressivo non trova precise indicazioni
in funzione dello stadio clinico del linfedema, ma deve tenere conto delle condizioni
cliniche del paziente.
Bendaggio dell’arto superiore
Nella maggioranza dei casi di linfedema dell’arto superiore , va ricordato che
l’edema si localizza a livello della mano soprattutto nel dorso, e frequentemente si
estende alle dita. Quindi le bende devono essere avvolte anche alle dita. Per l’arto
superiore il bendaggio viene confezionato secondo il seguente schema:
- con benda anelastica alta 2,5 cm. In cotone, partendo dal polso che svolge la
funzione di ancoraggio, si inizia a bendare il V dito indirizzandosi ad esso dalla
superficie dorsale ed avvolgendo in direzione prossimo-distalmente e ,
successivamente disto-prossimalmente per poi tornare al polso sempre passando
sul dorso della mano, senza mai tirare le bende, ma facendole avvolgere alle
strutture interessate;
- dopo un nuovo giro di ancoraggio attorno al polso, si indirizza la bena verso il I dito
sempre passando dorsalmente sulla mano, si benda il I dito come per il V e si
ritorna sempre al polso per poi passare al IV , sempre con la stessa tecnica sopra
descritta;
- terminata la fase di bendaggio delle dita si passa al bendaggio dell’antibraccio,
avvolgendo la parte da trattare con cotone di Germania, il bendaggio viene
effettuato con bende anelastiche (la cui altezza deve essere proporzionata alle
dimensioni dell’arto del paziente) ch vengono ruotate attorno al braccio, partendo
dal polso senza mai trazionare fino ad arrivare alla spalla.
46
Caso clinico
Anamesi patologica remota
In seguito a caduta accidentale la paziente S.A. di anni 64, in data 29 dicembre
2007, riportava frattura pluriframmentaria delle falangi basali del II, III, IV dito
della mano sinistra.
Al pronto soccorso veniva immobilizzata la mano con tutore gessato con le dita
in estensione e con una prognosi di 30gg.
Al primo controllo radiografico (31/1) non si evidenziano anomalie nel decorso
della prognosi, ma la paziente lamenta dolori alla mano.
Alla rimozione del gesso la mano della paziente è edematosa .
Viene rivista dopo una settimana, in data 7/2 si evidenzia edema alla mano ,
con scarsa mobilità del polso e della mano, stessa . Le viene consigliata una
mobilizzazione cauta da rivalutare in data 21/2.
Viene effettuato un ciclo di fkt, presso un altro istituto, ma al controllo in data
21/2 viene diagnosticata sindrome simil – algodistrofica dovuta a deficit di
mobilizzazione.
La pz si rivolge a un ortopedico in data 12 /2 il quale riscontra quanto segue:
-
Grave impotenza funzionale della mano e del polso sin
-
Dolorabilità in sede di frattura
-
Edema della mano e del polso
Consiglia fkt assisitita per almeno 30 gg.
In data 4 marzo viene presa in carico nel nostro istituto.
47
Valutazione
4 MARZO 2008
Ad una prima osservazione la mano non presenta ferite ,
cicatrici o aree
infette.
E’ presente un edema fibroso a livello della zona metacarpo falangea che si
estende fino al gomito.
La grave rigidità articolare permette una minima mobilizzazione passiva in
flesso-estensione della zona metacarpo falangea, e delle dita, così anche per il
polso .
Sensibilità: al momento della rimozione del gesso la sensibilità è assente, ad
oggi è migliorata e la paziente riconosce la localizzazione di due punti.
Per quanto riguarda la forza muscolare non è possibile testarla , data la grave
rigidità.
Dopo valutazione sia ortopedica che fisiatrica si stabiliscono i seguenti obiettivi
- riduzione dell’edema, da trattare con linfodrenaggio e bendaggio compressivo
- mobilizzazione passiva alla mano
- mobilizzazione attiva assistita al polso
- rieducazione funzionale del gomito e della spalla
- ciclo di ionoforesi e di ultrasuonoterapia
48
La Fisiatra prescrive 30 sedute di fisioterapia e rivalutazione alla fine dei
trattamenti.
Si effettuano le seguenti misurazioni:
ARTO SUP SX
ARTO SUP DX
PUNTI DI REPERE
Mcf
19,7
19
Polso
16,5
16
A10 cm
18
17,5
Olecrano
27
25
A10
31
30
A15 cm
33
32
Dito I
Cfr
7
II
III
IV
V
8
6.8 6,7 6,7
Dito I
II
III
IV
V
6,2 6,3 6,3
6,2
6,1
49
Diario trattamenti
11 marzo
Dopo aver effettuato le misurazioni standard si procede con:
- linfodrenaggio manuale
- esercizi di rieducazione
- elastocompressione.
Non si notano cambiamenti sostanziali né per l’edema, né per la motricità.
50
28 marzo
Le misurazioni rivelano un calo volumetrico della mano.
Si prosegue con il trattamento fisiochinesiterapico
Mano sx
Mano dx
Mcf
19,4
19
Polso
16,5
16
6.8
6,5
6,6
6,6
6,5
6,2
6,3
6,3
6,2
6,1
A 10 cm
17,5
17,5
Olecrano
25
25
Dita
I
II
III
IV
V
51
15 aprile
Misurazioni
Mano sx
Mcf
Polso
I
II
III
IV
V
19.3
16,2
6.5
6,4
6,5
6,5
6,4
Mano dx
19
16
6,2
6,3
6,3
6,2
6,1
L’edema alla mano è migliorato , come lo dimostrano le misurazioni.
Migliorata anche la flessione del polso che arriva a 60° e 50° in estensione.
Per le dita si osserva : una marcata limitazione nella zona metacarpofalangea
soprattutto in estensione (20°) e in flessione (60°). Per falangi si ha una limitazione a
livello delle falangi basali, mentre le falangi intermedie e distali presentano una
discreta mobilità.
52
14 maggio
Misurazioni
Mano sx
Mano dx
Mcf
Polso
19.1
16
19
16
I
II
III
IV
V
6.3
6,3
6,3
6,2
6,2
6,2
6,3
6,3
6,2
6,1
Nonostante permanga una limitazione funzionale data dalla tipologia della frattura
non trattata chirurgicamente , ma stabilizzata con tutore gessato, la mano ad oggi è
presenta:
- polso flesso-estensione 60° / 70°
- zona metacarpo falangea flesso-estensione 60° / 20°
Buona la forza muscolare, assenti turbe sensitive.
53
Bibliografia
1) Balboni Anatomia Umana
2) Kapandji Fisiologia Articolare
Edi Ermes
Ed. Monduzzi
3) Michelini - Failla - Moneta Manuale teorico pratico di riabilitazione vascolare
4) Giardini – Respizzi
Drenaggio Linfatico e terapia elastocompressiva Edi-
Ermes
5) Botta – Rossello La riabilitazione della mano Masson
54
Indice
Anatomia della Mano
- muscoli della mano
pag. 2
Fisiolologia articolare
- fisiologia articolare del pollice
- fisiologia articolare del II III III IV V dito
pag .15
Traumatologia:
- frattura dei metacarpi e delle falangi
- il dolore e l’edema
pag. 19
L’algodistrofia:
- patofisiologia
- il meccanismo del dolore
- decorso clinico e stadi
pag. 22
Trattamento:
- bilancio fisiochinesiterapico
- esercizi respiratori
-linfodrenaggio secondo Vodder
- riabilitazione funzionale della mano
- elastocompressione
pag.28
Caso clinico
pag.47
Bibliografia
pag.55
55