L’educazione nella filosofia greca
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L’educazione nella filosofia greca
L’educazione del cittadino all’interno della pólis
Il concetto di educazione nella tradizione filosofica greca del periodo classico - sofisti,
Socrate, Platone, Aristotele - non può essere compreso se non nel contesto della pólis:
educare una persona significa per questi filosofi educare il cittadino. Le ragioni per cui è
visto in maniera così stretta il legame tra l'uomo e il cittadino sono diverse da filosofo a
filosofo; è tuttavia indubbio che su questo punto tutti subiscano l'influsso della concezione greca dell'uomo, che non aveva eguali nelle culture dei popoli vicini: per i Greci
l'uomo è portatore di una cultura che si esprime nella sua libertà individuale, resa possibile soltanto dalla vita nella libera comunità politica, la pólis.
Da questa idea prende le mosse Jaeger in quello che è forse il più importante e approfondito studio dedicato alla nozione greca di paidéia: «L’educazione, in primo luogo,
non è faccenda individuale, ma, per sua natura, è cosa della comunità. […] L’edificio
di ogni comunità riposa sulle leggi e norme, scritte e non scritte, in essa vigenti, le quali
vincolano essa medesima e i suoi membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta
della viva coscienza normativa d'una comunità umana».
Tutte le posizioni dei filosofi di cui tratteremo potranno essere viste come risposta a
questi due quesiti di fondo:
qual è la vera natura dell'uomo che l'educazione deve valorizzare, rispettare ed esprimere?
quale rapporto deve esservi tra l'educazione come trasmissione di valori acquisiti
dalla comunità e l'educazione come cammino personale, libero, per la realizzazione
di sé?
Si tratta di questioni tipicamente filosofiche e in questo senso la pedagogia è stata per
tutta la sua storia disciplina filosofica. La domanda sulla vera natura dell'uomo, sulla
sua identità nel mondo, rimanda ai più complessi problemi metafisici ed etici: al rapporto con la natura, con Dio, con le finalità e il senso della vita; lo studio del rapporto tra
individuo e comunità, dal punto di vista della libera espressione di sé nella cultura, rimanda ai fondamentali temi filosofici della libertà, dei fondamenti del diritto e della
legge.
Educazione e virtù presso i sofisti
Socrate all'inizio del Protagora di Platone chiede se la virtù sia insegnabile. Pone la sua
domanda all'interno di un contesto tipicamente sofista: il giovane Ippocrate desidera essere accolto tra gli allievi del celebre maestro Protagora, ed è quindi giusto che sappia
che cosa potrà guadagnare; se Protagora promette di educarlo alla virtù politica, evidentemente ritiene che la virtù sia insegnabile; ma lo è davvero? Non sembra, perché i figli
degli uomini politici spesso non traggono affatto profitto dalla virtù dei padri, e inoltre
nella Assemblea della pólis di Atene nessuno è riconosciuto dai suoi concittadini maestro nelle cose politiche, e tutti sembrano considerarsi al pari degli altri su questi argomenti..
La domanda di Socrate tocca uno dei punti chiave della pratica del sofisti: Protagora
è uno dei primi maestri a pagamento, cioè uno dei primi professionisti dell'insegnamento in un settore non tecnico (come sarebbe il caso della formazione di un mestiere specifico), ma generale, quale quello della formazione del cittadino. Mettere in dubbio che la
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virtù politica sia insegnabile significa mettere in dubbio la legittimità stessa di Protagora
a insegnare.
L'argomentazione di Socrate poggia in realtà su antiche tradizioni: l'obiezione non è
una novità per Protagora che è ben pronto a rispondere. L'insegnamento sofista, infatti,
proponeva una radicale rottura con la tradizione e infrangeva l'antico codice per cui la
formazione di una persona avveniva nel contesto della famiglia, sotto il controllo della
comunità. I sofisti erano maestri itineranti, sottraevano letteralmente i loro allievi all'autorità dei padri. Tra l'altro, sostenevano idee nuove, potenzialmente pericolose: insegnavano che le leggi della città non necessariamente dovevano essere fondate sulle antiche
tradizioni o sui valori religiosi della comunità, che la natura umana richiede all'individuo libertà e capacità di affermazione di sé.
Su che cosa si fondava la loro autorità? Che cos'era per loro la virtù?
Vediamo separatamente le due questioni. L’autorità dei sofisti si fonda esclusivamente
sui loro successi come maestri; Protagora promette che Ippocrate, frequentandolo, diventerà migliore ogni giorno che passa: «Il mio insegnamento consiste nella facoltà di
prendere decisioni riguardo alle questioni private, come per esempio si possa amministrare nel modo migliore la propria casa, e a quelle pubbliche, come essere cioè il più
idoneo a parlare e a gestire gli affari della città» (Protagora, 318). Dunque il maestro
non è colui che sa e trasmette un sapere, ma colui che aiuta a saper fare e, più esattamente, a saper fare nel contesto della comunità privata (la casa, l'ôikos) e pubblica (la
pólis): colui che guida al possesso della areté, la virtù.
La parola areté ha una lunga storia che si intreccia con la storia stessa della cultura
greca e della concezione dell'uomo. In Omero e in tutta l'età arcaica designa il valore di
un uomo in termini non etici, ma pratici, legati all'abilità e alla forza: l'areté non è un
valore, ma un insieme di abilità diverse da persona a persona a seconda del ceto sociale
e dell'attività svolta. L'areté del nobile e dell’eroe omerico è il suo comportamento in
guerra e nel suo ruolo di capo, è il fondamento del suo onore, della considerazione sociale di cui gode e per cui vive. Ma al tempo dei sofisti cominciava a farsi strada l'idea
che l'areté fosse piuttosto l'espressione della personalità dell'uomo, della natura (phsis)
stessa che costituisce l'identità di ciascuno. Si cominciava quindi a contrapporre la phsis al nómos, cioè al complesso delle antiche tradizioni, e si sosteneva che la vera virtù è
la forza e l’abilità con cui l'uomo è in grado di vivere esprimendo al meglio le potenzialità della propria natura nel contesto in cui opera, la pólis. Molti sofisti come Protagora
erano dei moderati, e questa tesi in loro significa soltanto che le tradizioni non possono
soffocare la libera vitalità dell'individuo; ma esistevano correnti radicali della sofistica
(di cui è espressione, ad esempio, il sofista Antifonte) che portavano alle estreme conseguenze queste nuove idee, fino a farle apparire come una sostanziale legittimazione
della legge del più forte. Da molti il nuovo e indubbiamente rivoluzionario movimento
sofista era accusato di dare una interpretazione radicale dell'areté dei padri, con il sostenere che la vera virtù dell'uomo è lo sviluppo in massimo grado della natura individuale,
anche contro ogni tradizione. Molti ritenevano che questo potesse mettere in pericolo i
fondamenti su cui riposava la vita della pólis: educazione e comunità sembravano entrare in rotta di collisione.
La virtù e il suo insegnamento per Socrate
Socrate si oppone in modo molto netto alla sofistica sul tema della virtù. La domanda
che Socrate pone all’inizio del Protagora platonico sulla possibilità che la virtù sia insegnabile ne nasconde un'altra assai più radicale su chi sia il vero maestro della virtù,
chi sappia che cosa è la virtù. Non può trattarsi di quel che ritengono i sofisti; infatti tut-
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to il percorso del Protagora porta a una nuova definizione: alla fine del dialogo Socrate
mostra che la vera virtù è legata alla conoscenza del bene, perché l'uomo segue in realtà sempre quello che crede bene, ma molto spesso non sa quale sia (è il cosiddetto intellettualismo etico di Socrate). Si tratta davvero allora di conoscere se stessi, non solo
nel senso tradizionale di questa massima (cioè di avere coscienza dei propri limiti), ma
anche e soprattutto di imparare a scavare nella propria coscienza, attraverso la dialettica,
per far luce su che cosa sia il bene. La vera virtù è legata al sapere.
Ne deriva la tesi, questa volta sostenuta da Socrate contro la sua stessa posizione iniziale, che la virtù sia insegnabile: non nel senso che qualcuno la possiede e la insegna a
un altro che non la possiede, ma nel senso che è possibile educare l'uomo ad apprenderla da se stesso, nell'interiorità della propria coscienza.
Il legame tra questione educativa e vita della comunità (pólis) non è quindi risolto da
Socrate in termini tradizionali: Socrate non torna indietro rispetto ai sofisti, non è un restauratore del nómos. Anzi, con Socrate prende avvio quel processo di accentuazione
del valore individuale della persona, nella pienezza della sua libertà e responsabilità
morale, che costituisce uno dei caratteri tipici della cultura occidentale e che ritroveremo nel cristianesimo. Questo però non significa affatto che l'individuo possa fare a meno della comunità; al contrario, senza l'apporto degli altri, l'individuo non è in grado di
migliorare se stesso, di progredire sulla via della ricerca interiore. Per Socrate è essenziale la piazza, il luogo della continua ricerca dialettica, il confronto con i suoi concittadini. La dialettica è il mezzo per acquisire la virtù, se la virtù è così strettamente connessa alla coscienza di cosa sia il bene. È la dialettica, infatti, il mezzo per scavare nella
propria coscienza, e la dialettica implica una comunità in dialogo.
L’educazione per Platone
Nella Repubblica Platone enuncia un programma educativo basato sulla dialettica come
strumento per la ricerca del bene. Platone ritiene infatti che nella mente dell'uomo vi sia
la memoria della idee oggettive ed eterne, e che l'idea del bene sia la più importante,
perché illumina tutte le altre, dando loro un senso comprensibile dall'intelletto. La dialettica è lo strumento per acquisire consapevolezza della verità ricordando le idee che
sono già in noi (conoscenza come reminiscenza).
Fin qui la novità rispetto a Socrate è la teoria delle idee (di derivazione socratica, ma
in Socrate assente) e questo non riguarda l'educazione. Ma Platone ritiene che tutta l'organizzazione dello Stato (le ricerche condotte nella Repubblica sono finalizzate alla descrizione dello Stato ideale) debba essere sottoposta al controllo dei filosofi, perché soltanto essi hanno la migliore comprensione della verità (il mondo delle idee). Il problema
educativo è quindi impostato in Platone come problema politico in senso stretto, molto
diversamente che in Socrate, perché dall'educazione dei giovani dipende la loro corretta
collocazione nello Stato. Per Platone deve essere dedicata la massima attenzione alla
formazione dei giovani che accederanno alla classe dei filosofi, perché da essi dipende il
buon governo dello Stato.
È in questo contesto che Platone colloca sia la dura polemica contro i poeti, sia la condanna dell'arte, che al contrario della filosofia allontanerebbe i giovani dalla vera
comprensione delle idee: l'arte infatti è intesa come imitazione della natura, e quindi
come imitazione di quella che Platone interpreta come una imitazione imperfetta delle
idee. Insomma, un’imitazione di un’imitazione, che certo non avvicina all'originale. La
via corretta per educare i giovani è invece il continuo esercizio dialettico, è la filosofia
stessa. Ma il tutto sottoposto al diretto controllo dello Stato, per una finalità propria del-
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lo Stato: il governo orientato dalla idea del bene.
La polemica di Platone contro i poeti va inquadrata nel suo giusto contesto: i “maestri della Grecia”, dice Platone nella Repubblica, sono sempre stati i poeti, perché,
all’interno di una cultura ancora essenzialmente orale, è attraverso Omero, Esiodo e gli
altri che le antiche tradizioni, il nómos, si è tramandato; il programma educativo di Platone tende quindi a sostituire la filosofia, come conoscenza dialettica delle idee, al predominio degli antichi maestri, che non sanno aiutare l'uomo a raggiungere la verità ma
si fermano a un mondo di vuote apparenze (le “ombre” della caverna platonica).
L’educazione per Aristotele
Aristotele non accoglie l'impostazione politica della Repubblica di Platone, sia perché
non accetta la teoria delle idee, sia perché ritiene che nelle materie pratiche, come (l'etica e la politica, non si debba procedere proponendo un modello ideale, ma cercando il
meglio nelle situazioni reali.
Tuttavia anche per Aristotele il luogo in cui parlare dell’educazione dei giovani è la
politica ed è nel contesto delle lezioni di Politica che si trova il programma educativo da
lui proposto, proprio nei libri VII e VIII in cui si studiano i caratteri della migliore costituzione. Anzi, Aristotele esplicitamente dichiara che «poiché lo Stato nella sua totalità
ha un unico fine, è evidente di necessità che anche l'educazione è unica e uguale per
tutti, che la cura di essa è pubblica e non privata […]. Delle cose comuni, comune deve
essere anche l'esercizio». (Politica, VIII, 1)
È la stessa concezione aristotelica dell'uomo a imporre questa tesi. Nell'Etica Nicomachea Aristotele aveva chiarito che la politica («lo Stato nella sua totalità») ha un fine
preciso: il bene supremo della città, cioè del luogo in cui i cittadini vivono. Perché si
tratta di una cosa così importante? Perché è soltanto lì, nella città, che l'uomo, animale
politico per eccellenza, può raggiungere la felicità. Perseguire la felicità individuale è,
in termini di realtà, possibile soltanto a condizione che vi sia una comunità che lo consenta.
Ora, che cos'è la felicità per un uomo? È la piena realizzazione di sé. Quindi per sapere in concreto che cosa sia la felicità è indispensabile sapere che cosa sia questo sé
dell'uomo, quale sia la sua più profonda natura. Ma ciò che l'uomo ha di proprio rispetto
a ogni altro essere vivente è la sua mente, dunque una vita felice è una vita che rispetta
le potenzialità insite nella mente dell'uomo: una vita teoretica, che Aristotele contrappone alla vita pratica, la vita del lavoro necessario a produrre le cose necessarie alla vita.
Poiché questo può avvenire soltanto nel contesto di uno Stato ben ordinato, si tratta
di vedere quale sia la migliore costituzione, cioè il miglior ordinamento dello Stato. Aristotele argomenta a favore di una costituzione che oggi chiameremmo democratica, in
cui i cittadini siano tutti in condizioni di eguaglianza e in cui la libertà sia garantita, e
così la sicurezza di vita.
Il principio chiave della educazione per Aristotele è allora chiaro: il giovane va educato a vivere una vita sociale piena, in condizioni di eguaglianza con i suoi simili.
L'educazione è quindi la condizione per l'espressione di sé e per condurre una vita teoretica che dia la felicità.
In Aristotele non vi sono opere espressamente dedicate al tema dell’educazione, ma si
trovano alcune indicazioni a riguardo. La più importante prevede che il giovane sia educato prima con l'azione che con la ragione, e solo per gradi condotto ai più alti livelli
della conoscenza intellettuale. Le buone abitudini sono la chiave di una buona educazione, perché la capacità intellettiva matura col tempo e l'educazione va invece impostata sin dalla primissima infanzia. Aristotele sembra dare una grande importanza a questa
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prima formazione. In un passo sostiene che «al riguardo non diceva male Teodoro, l'attore tragico: egli non permetteva mai a nessuno, neppure a un attore di poco valore, di
comparire sulla scena prima di lui, perché gli spettatori si lasciano attirare da quel che
ascoltano per primo: lo stesso accade nei rapporti con la gente e con le cose, perché ci
affezioniamo di più a tutto quel che ci colpisce per primo. Bisogna perciò rendere estranee ai giovani tutte le cose cattive, specialmente quelle che hanno in sé malvagità e
malignità.» (Politica, VII, 17)
Per esempio, va data grande importanza al gioco, ma i giochi devono essere «per la
maggior parte imitazioni delle loro successive occupazion»" (ivi).
La teoria aristotelica dell'abitudine va poi inquadrata nel contesto della sua concezione della virtù. Per Aristotele la virtù è una disposizione dell'animo che ci spinge ad adottare comportamenti che stiano a metà tra i due eccessi che sempre un'azione può avere (è la teoria del giusto mezzo). La virtù non è quindi soltanto legata, come volevano
Socrate e Platone, pur con le loro importanti differenze, essenzialmente al sapere, ma è
soprattutto il frutto di un esercizio costante, di una educazione a comportarsi senza sforzo secondo certi criteri, essenzialmente di buon senso, adatti alla società in cui si vive.
Aristotele non crede infatti che nelle discipline pratiche si possano raggiungere i princìpi supremi e che una scienza piena in questo campo si possa avere. Naturalmente va ricordato che le persone di cui Aristotele sta parlando sono i cittadini greci maschi: i greci, liberi per natura. Non le donne né gli schiavi, che tali sono altrettanto per natura.
Poiché il giovane deve essere educato a una vita teoretica, e non a una vita legata alla
produzione, le discipline che formeranno il suo percorso di studi comprendono diverse
materie proprie di quelle che nel Medioevo si chiameranno arti liberali, come la musica:
discipline che si coltivano per il piacere che danno alla mente, non per una loro intrinseca utilità pratica.