UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA LAUREA IN TECNICO SANITARIO DI LABORATORIO BIOMEDICO TESI DI LAUREA Candidato: ELEONORA TESTA Relatore: Dott.ssa CRISTIANA LO NIGRO ANNO ACCADEMICO 2008/2009. EXEMESTANE E POLIMORFISMI DEL CYP19A1 NEL CARCINOMA MAMMARIO OPERATO EXEMESTANE AND CYP19A1 POLYMORPHISMS IN EARLY BREAST CANCER 2 1. INTRODUZIONE 5 1.1 ANATOMIA DELLA MAMMELLA 5 1.2 IL TUMORE DELLA MAMMELLA 6 1.3 FARMACOGENETICA E FARMACOGENOMICA 13 1.4 I POLIMORFISMI 14 1.5 GLI INIBITORI DELL’AROMATASI 15 1.6 TAMOXIFENE ED EXEMESTANE 18 1.7 L’ALTERAZIONE DEL PATHWAY PROLIFERATIVO 19 2. SCOPO DEL LAVORO 25 2.1 POLIMORFISMI DEL GENE CYP19A1 25 2.2 POLIMORFISMI NEL GENE TP53 ED MDM2 26 2.3 POLIMORFISMI DEI GENI GLUTATIONE-S-TRANSFERASI 26 3. MATERIALI E METODI 28 3.1 ESTRAZIONE AUTOMATICA DI DNA 28 3.2 QUANTIFICAZIONE MEDIANTE NANODROP 29 3.3 PCR 31 3.4 IL SEQUENZIAMENTO 37 3.5 GENESCAN 45 3.6 ALLELIC DISCRIMINATION 47 3 3.7 PCR-AGAROSIO 50 3.8 STRUMENTI STATISTICI PER LA VALUTAZIONE DEI DATI 52 4. RISULTATI 55 4.1 RAPPRESENTAZIONE MEDIANTE BOX-PLOT 55 4.2 I DUE GRUPPI DI PAZIENTI A CONFRONTO 57 4.3 ANALISI GLOBALE DEI GENOTIPI IDENTIFICATI 66 4.4 ANALISI STATISTICA DEI DATI 67 5. CONCLUSIONI 70 6. BIBLIOGRAFIA 76 4 INTRODUZIONE ANATOMIA DELLA MAMMELLA La mammella è un organo pari e simmetrico, posto nella regione anteriore del torace tra il terzo e sesto spazio intercostale. La componente ghiandolare è costituita da 15-20 lobi ognuno dei quali sboccia verso il capezzolo attraverso un dotto galattoforo. Queste strutture sono immerse all’interno di una componente di tessuto adiposo, mentre la componente fibrosa di sostegno si porta in profondità e divide il parenchima ghiandolare in lobi e lobuli. Ogni lobulo comprende gli alveoli che fungono da unità secernenti e che sono rivestiti da epitelio semplice. I dotti hanno un calibro progressivamente crescente: dotti alveolari, lobulari ed infine i galattofori. Ogni lobulo ha il suo dotto galattoforo che sbocca lateralmente al capezzolo in un’ampolla che ha la capacità di accumulare il secreto prodotto. L’epitelio da cubico semplice dei dotti alveolari diventa pluristratificato non cheratinizzato nei dotti galattofori. Schema della mammella normale. 5 IL TUMORE DELLA MAMMELLA EPIDEMIOLOGIA Il tumore alla mammella colpisce entrambi i sessi anche se nell’uomo ha un’incidenza di 100 volte inferiore. Nei Paesi Industrializzati, inoltre, rappresenta il tumore più frequente nelle donne. In Italia ci sono circa 262 casi/100.000 ogni anno in donne con età > 65 anni e 117.6 morti/100.000 ogni anno. Ciò significa che una donna su 14 manifesta un carcinoma mammario nel corso di una vita media normale. Colpisce maggiormente le donne in età adulta con due picchi di insorgenza: tra i 40 e i 50 anni e dopo i 70 anni. La prevenzione e la diagnosi precoce hanno comunque ridotto di molto la mortalità (per esempio tra il 1993 e il 1998 si è registrato un sensibile regresso della mortalità (-9,3%). FATTORI DI RISCHIO L’insorgenza della neoplasia si verifica secondo un meccanismo multi-step. Nel suo sviluppo concorrono sia una componente genetica che una componente ambientale volta a facilitare il fenotipo legato alla mutazione genetica. Gli studi su base epidemiologica hanno dimostrato che diversi fattori possono aumentare il rischio di tumore alla mammella: • Età e sesso: raramente, se non in alcuni casi familiari colpisce donne < 25 anni. L’incidenza aumenta nel corso della vita e l’età media alla diagnosi è di 64 anni. • Razza: sono maggiormente colpite le donne bianche. Un maggior numero di casi di carcinoma alla mammella è diagnosticato nelle donne nere di età inferiore ai 40 anni rispetto alle donne bianche; più frequentemente però queste presentano i recettori ormonali negativi e hanno differenti tipi di mutazioni sporadiche di p53. Le donne caucasiche generalmente presentano la più alta incidenza di carcinoma alla mammella. 6 • Aumentata esposizione agli estrogeni ed al progesterone: menarca precoce (prima degli 11-12 anni), menopausa tardiva (dopo i 55 anni), nulliparità o terapia ormonale sostitutiva. • Anamnesi personale di precedente carcinoma alla mammella, all’endometrio o all’ovaio: probabilmente a causa dei condivisi fattori di rischio ormonali per questi tumori. • Anamnesi personale di iperplasia atipica o carcinoma in situ. • Storia familiare di carcinoma mammario: il rischio per una donna di sviluppare il cancro è maggiore se la propria madre, sorella, figlia o altri membri femminili della famiglia, ad esempio cugine, ne sono state colpite, specie se in giovane età. • Modificazioni genetiche: mutazioni geni BRCA1/ BRCA2 • Radiazioni: le donne sottoposte a radiazioni durante l'infanzia, specialmente per il trattamento del morbo di Hodgkin, hanno maggiori probabilità di sviluppare un tumore della mammella nel corso della vita. Secondo alcuni studi, più bassa è l'età in cui si è ricevuta la terapia radiologica, più tale rischio aumenta. • Dieta: elevato consumo di grassi saturi ed alcool. LA CLASSIFICAZIONE DEL TUMORE ALLA MAMMELLA Distinguere i vari tipi di neoplasia della mammella può esser utile nel determinare il miglior approccio terapeutico. Il carcinoma duttale e il carcinoma lobulare sono i più comuni. Come dice il nome, colpiscono rispettivamente le cellule duttali e le ghiandole deputate alla produzione di latte. In entrambi i casi la neoplasia può rimanere localizzata (carcinoma in situ) oppure estendersi al di fuori del sito originario del tumore e metastatizzare in altre parti del corpo attraverso il sangue o il sistema linfatico (cancro alla mammella invasivo). 7 Esistono altre forme che originano dal tessuto connettivo fibroso, capezzolo, areola. In alcuni casi non hanno origine all’interno della mammella ma sono metastasi di neoplasie con sede in altre parti del corpo, come ad esempio colon, polmoni, linfoma non-Hodgkin, melanoma. Una buona classificazione deve tener conto dello stato dei recettori ormonali, in particolare quelli per gli estrogeni e progesterone. Il recettore è una struttura proteica situata sulla parte extracellulare di una cellula bersaglio, che legandosi in modo specifico ad un ligando, media una risposta biologica. Le cellule normali della mammella ed alcune cellule di carcinoma mammario possiedono i recettori per gli ormoni femminili. Gli ormoni mandano segnali alle cellule affinché venga aumentata la crescita cellulare. Il cancro che presenta questi recettori è definito ormono-responsivo ed in particolare può esser ER+ (recettore positivo per l’estrogeno) oppure PR+ (recettore positivo per il progesterone). Nel suo trattamento sono usati farmaci bloccanti gli ormoni (tamoxifene) in modo da rallentare la progressione del tumore. Il cancro non ormono-responsivo non può invece avvalersi della terapia ormonale in quanto i recettori ormonali non sono presenti. Conoscere se nelle cellule neoplastiche è presente una overespressione del gene HER2 può infine esser un’informazione utile ai fini della classificazione e del trattamento. Il gene HER-2 codifica per una glicoproteina di 185 kDa appartenente alla famiglia di tipo I dei recettori per fattori di crescita, tra cui il recettore per l’EGF, c-erbB3 e c-erbB4. La fosforilazione del dominio intracellulare tirosin-chinasico provoca l’attivazione di un segnale intracellulare che porta all’accensione di diversi geni coinvolti nella proliferazione e nella crescita cellulare. Casi di HER2 negativo, ER- e PR- sono definiti tripli negativi e la neoplasia tende ad esser più aggressiva. IL TRATTAMENTO DEL TUMORE ALLA MAMMELLA Avendo oggi a disposizione diversi metodi terapeutici è necessario pianificare un programma di trattamento. La terapia va scelta in base alla dimensione, alla localizzazione del tumore all’interno della mammella, alle metastasi e ai risultati degli esami diagnostici eseguiti. Pertanto le modalità di intervento dipendono in modo stretto dalla stadiazione del tumore. stadio: si basa sulla classificazione TNM e con esso intendiamo l’estensione della neoplasia. (Frederick L. 2007) 8 • Stadio 0: chiamato anche carcinoma non invasivo. Segnala un rischio elevato di sviluppare un cancro ad entrambe le mammelle, ma non è detto che questo tumore evolva in cancro invasivo. • Stadio I - II: identificano forme precoci di carcinoma mammario invasivo. Nello stadio I il tumore ha un diametro di circa 2 cm e non è esteso oltre la mammella. Lo stadio II invece comprende diversi livelli: tumore con un diametro di 2 cm con invasone dei linfonodi ascellari, tumore con un diametro di 2-5 cm con o senza invasione dei linfonodi ascellari, tumore che misura più di 5 cm di diametro ma senza invasione linfonodale. In questi casi si interviene con terapia chirurgica seguita da radioterapia e da una terapia adiuvante con chemioterapia o inibitori dell’aromatasi per prevenire il rischio di una recidiva o lo sviluppo di metastasi. • Stadio III: definito anche tumore localmente avanzato. Il diametro è maggiore di 5 cm con estensione ai linfonodi ed ai tessuti adiacenti. Si interviene con intervento chirurgico e radioterapia alla mammella e alla zona ascellare. I cicli di chemioterapia possono precedere (chemioterapia neoadiuvante) o seguire (chemioterapia adiuvante) il trattamento chirurgico. • Stadio IV ovvero carcinoma mammario metastatico: diffusione al cavo ascellare delle cellule neoplastiche e attraverso il sistema linfatico estensione anche ad altri organi. Le metastasi si riscontrano con più frequenza in ossa, polmone e fegato. La chirurgia mira a trattare il tumore alla mammella. La chemioterapia o la radioterapia mirano a tenere sotto controllo le metastasi. (Simona Lambertini 2004) I tipi di trattamento del carcinoma mammario possono essere locali o sistemici. I primi consistono nell’asportare le cellule cancerose di una determinata zona. La chirurgia e la radioterapia, ad esempio, sono trattamenti locali. Le terapie sistemiche eliminano le cellule cancerose diffuse in tutto l'organismo. La chemioterapia e l'endocrinoterapia, ad esempio, sono trattamenti sistemici. Può esser utilizzata una sola forma di trattamento o una combinazione di questi, praticati uno alla volta o in successione. L’integrazione di varie forme di trattamento dei tumori è definita terapia integrata o multidisciplinare. In generale possiamo parlare di una terapia finalizzata alla guarigione o palliativa. L’intervento chirurgico: è la prima linea di trattamento nel caso di tumore della mammella. Viene chiamata chirurgia demolitiva l'operazione di asportazione della mammella (o di una consistente porzione di tessuto mammario). Un'operazione che asporta 9 il tumore ma non l'intera mammella è invece denominato intervento di chirurgia conservativa. Di solito, sono seguite da sedute di radioterapia allo scopo di distruggere ogni cellula cancerosa residua. Radioterapia: è un tipo di terapia oncologica loco-regionale basata sull'utilizzo di radiazioni ad alta energia nell’ordine dei MeV (raggi X, alfa, beta, gamma), in grado di distruggere le cellule tumorali. Le radiazioni danneggiano il DNA impedendo alla cellula di replicarsi e causandone la morte. La terapia è diretta specialmente contro le cellule tumorali poiché si replicano più attivamente. Tuttavia alcune cellule normali possono essere uccise, soprattutto quelle ad elevata velocità di replicazione. La radiazione può provenire dall'esterno del corpo mediante l’uso di apposite strumentazioni chiamate acceleratori lineari (LINAC) capaci di generare un fascio di elettroni, raggi X o raggi GAMMA; oppure può provenire da materiali radioattivi collocati direttamente all'interno del tumore (brachiterapia). La radioterapia viene spesso utilizzata in associazione alla chemioterapia, per ridurre la dimensione di un tumore prima della chirurgia o per distruggere eventuali cellule tumorali rimaste dopo un intervento chirurgico. Solo in alcuni casi di tumori localizzati è impiegata come trattamento principale. Chemioterapia: è una terapia farmacologia sistemica, in grado di distruggere le cellule tumorali con diversi meccanismi d'azione che bloccano la crescita cellulare e la sintesi del DNA. Un chemioterapico ideale dovrebbe uccider solo le cellule neoplastiche senza danneggiare le cellule normali. In realtà vengono danneggiate anche le cellule normali in fase di replicazione. L’azione citotossica che ne deriva è proporzionale al tempo di contatto e non alla dose di farmaco somministrata. Attualmente può portare a guarigione definitiva solo di alcuni tipi di tumore. Per molte altre neoplasie fornisce una terapia palliativa consentendo un prolungamento delle aspettative di vita. Uno dei maggiori problemi che si riscontrano è relativo alla resistenza ai farmaci. Essa può essere primaria se compare fin dal primo contatto. Si parla di resistenza acquisita se compare verso un farmaco precedentemente efficace nei confronti della neoplasia. I farmaci più usati sono le antracicline (adriamicina, epirubicina), gli agenti alchilanti (ciclofosfamide), antimetaboliti (5-fluoruracile, methotrexate), alcaloidi vegetali 10 (vincristina). Nei vari programmi di terapia, possono essere combinati fra loro: si parla in questo caso di polichemioterapia. Esistono diverse linee di azione della chemioterapia. 1. Chemioterapia adiuvante: eseguita in aggiunta alla terapia primaria ottenuta con la chirurgia, serve per eliminare le cellule neoplastiche che si sono diffuse dalla sede principale del tumore ad altri distretti all’interno del corpo. Viene impiegata in pazienti nelle quali non è stato possibile evidenziare con i comuni esami strumentali (scintigrafia ossea, RX torace, ecografia) metastasi a distanza, ma la presenza di fattori prognostici sfavorevoli (istologicamente non differenziati, invasione vascolare o linfatica, coinvolgimento del cavo ascellare), fa aumentare la probabilità che queste siano presenti sotto forma di micrometastasi non documentabili quindi con gli esami strumentali. L’alta possibilità di micrometastasi a distanza è dovuta al fatto che fin dalle prime fasi il tumore alla mammella sembra avere una diffusione sistemica. Questo tipo di terapia permette di aumentare il tasso di sopravvivenza e l’intervallo libero da malattia. Numerosi studi randomizzati hanno dimostrato come essa determini un significativo aumento della sopravvivenza, in particolare nelle pazienti in premenopausa, mentre gli stessi risultati non sono mai stati confermati nelle pazienti in postmenopausa. (Simona Lambertini 2004) (M. Luisa Brandi 1997) 2. Neo adiuvante: il trattamento viene effettuato prima dell’intervento chirurgico affinché venga ridotta la massa tumorale e vengano eseguiti interventi meno demolitivi. Terapia di elezione in pazienti con carcinoma mammario localmente avanzato, in cui si cerca di sostituire la mastectomia con un intervento chirurgico conservativo. (Simona Lambertini 2004) Oltre alla diminuzione del volume tumorale, la terapia neo adiuvante ha l’obiettivo di eliminare precocemente le micrometastasi occulte. (M. Luisa Brandi 1997) 3. Palliativa: in questo caso i farmaci chemioterapici vengono impiegati al fine di controllare l’evoluzione del tumore. Viene somministrata per migliorare la qualità di vita del paziente riducendone i sintomi e per ottenere un beneficio in termini di sopravvivenza. 11 Terapia ormonale: oggi la terapia ormonale ha assunto un ruolo chiave nella cura di molti tipi di tumore in quanto le conoscenze scientifiche sul ruolo degli ormoni sessuali si sono notevolmente perfezionate nel corso degli anni. Molte cellule tumorali richiedono gli estrogeni per la propria proliferazione. I farmaci impiegati, agiscono interferendo con l’attività di questi ormoni in due modi: impedendo alla cellula tumorale di utilizzare gli ormoni prodotti (farmaci antiestrogeni) oppure inibendo la produzione degli estrogeni stessi (inibitori dell’aromatasi). (Simona Lambertini 2004) Nella terapia ormonale gioca pertanto un ruolo fondamentale l’espressione del recettore per gli estrogeni (ER): maggiore è il contenuto e maggiori sono le possibilità di un successo terapeutico. Esistono due tipologie di ER: ERα e ERβ. Sono prodotti da geni diversi ma hanno una struttura simile ed entrambi funzionano come fattori trascrizionali nucleari dopo essere stati attivati dai rispettivi ligandi (Fuqua SA 2004). ERα regola attraverso proteine coregolatrici (AIB1 E SCR3) la trascrizione di geni responsivi all’estrogeno (importanti per la proliferazione cellulare), l’inibizione dell’apoptosi, la stimolazione della metastatizzazione e la promozione dell’angiogenesi. (McKenna NJ 1998) Meno conosciute sono le funzioni di ERβ che pare avere un attività antagonista a quella di ERα sulla crescita della neoplasia. (McInerney EM 1998). Quando i recettori sono attivati dal tamoxifene, che modula selettivamente ER, alti livelli di ERβ aiutano ad inibire la crescita tumorale. Grazie alle terapie adiuvanti endocrine come ad esempio il tamoxifene, il rischio di recidiva dopo il trattamento chirurgico primario si riduce del 30-35%. Nella malattia metastatica il tasso di risposte obiettive varia dal 30-35% al 65-75%. Il tamoxifene considerato per molto tempo l’antiestrogeno per eccellenza, ha però evidenziato come la sua somministrazione prolungata sia la causa di un’aumentata incidenza di carcinomi dell’endometrio. Negli ultimi anni è stato introdotto l’uso di una nuova classe di farmaci: gli inibitori dell’aromatasi (formestane, anastrozolo, letrozolo ed exemestane) che sembrano avere un rischio minore nel determinare una nuova neoplasia. (Simona Lambertini 2004) (Dino Amadori 2005) 12 FARMACOGENETICA E FARMACOGENOMICA La farmacogenetica è una disciplina che si occupa di studiare le basi scientifiche della variabilità interindividuale delle risposte ai farmaci. Grazie agli studi sui meccanismi d’azione dei farmaci, all’individuazione di nuovi bersagli e all’identificazione del ruolo dei fattori genetici in relazione alla risposta alla terapia, si potrebbe arrivare a programmare l’intervento terapeutico in modo da colpire selettivamente le patologie neoplastiche. Si ridurrebbe in questo modo la variabilità interindividuale della tollerabilità nei confronti dei chemioterapici. Alla base della regolazione a livello individuale della farmacocinetica e della farmacodinamica dei farmaci, ci sono i fattori genetici. Le analisi genetiche permettono pertanto di predire in quale misura un trattamento sarà efficace e tollerato dal paziente. Uno dei punti critici nel trattamento mediante chemioterapici consiste nel loro indice terapeutico. Sebbene l’attività sia prevalentemente rivolta verso le cellule tumorali, si verificano inevitabilmente anche fenomeni di tossicità nei confronti dei tessuti sani. Mutazioni del bersaglio o fenomeni di down regulation sono la causa del fallimento di alcuni farmaci volti ad inibire vie metaboliche determinanti per la sopravvivenza delle cellule neoplastiche. Il sequenziamento del genoma, ha permesso la scoperta di varianti alleliche alla base della regolazione del metabolismo dei farmaci che potrebbero essere correlate con la loro chemiosensibilità piuttosto che con la loro tolleranza. (Danesi R 2001). La farmacogenomica analizza l’intero genoma individuando le alterazioni geniche responsabili delle risposte terapeutiche che non sono spiegabili con il metodo farmacogenetico e individuando nuovi bersagli per la terapia con chemioterapici. La classificazione della variabilità genica comprende le mutazioni geniche (delezioni, inserzioni poco frequenti, inaspettate e che influenzano negativamente la funzione cellulare) e le varianti delle sequenze geniche (gli SNPs) che sono presenti rispetto alle prime con frequenza maggiore nella popolazione. Se gli SNPs interessano gli esoni il risultato sarà il cambiamento della sequenza aminoacidica, se interessano gli introni causano l’inserzione di siti alternativi di splicing, se invece coinvolgono la porzione regolatoria dei geni verrà alterata l’espressione genica. Con la scoperta della correlazione tra i vari profili di espressione dovuti a mutazioni o SNPs, è stato possibile scegliere in modo più razionale i farmaci da utilizzare nel trattamento. 13 In particolare l’azione dei chemioterapici viene influenzata da: attivazione e inattivazione metabolica (CYP450 e UTG), espressione dei bersagli farmacologici (EGFR), integrità sistemi di trasduzzione che promuovono o inibiscono l’apoptosi (p53, bcl2), sistemi di riparazione del DNA (ERCC1), attività dei trasportatori che portano i farmaci al di fuori delle cellule (trasportatori ABC). Le varianti genetiche coinvolte nel metabolismo dei farmaci possono esser associate a fenotipi metabolizzatori lenti o veloci. Nel caso di un fenotipo metabolizzatore veloce responsabile dell’inattivazione dei farmaci, esso è associato ad una ridotta esposizione delle cellule al farmaco. Pertanto la tollerabilità è alta ma la sua attività scarsa, al contrario degli enzimi del metabolismo dei profarmaci (CYP 450) in cui un’elevata attività risulterà con una tollerabilità minore ma con una maggiore attività antineoplastica. (Dino Amadori 2005) I POLIMORFISMI Il termine polimorfismo indica, per definizione, l'esistenza in una popolazione di più di un allele per un dato locus con frequenza superiore all'1%. Un polimorfismo a singolo nucleotide (SNP) è un polimorfismo che si presenta tra individui della stessa specie, caratterizzato da una differenza a carico di un unico nucleotide. Gli SNPs possono interessare una regione codificante di un gene, una regione non codificante o una regione intergenica. Per quanto riguarda i primi, non necessariamente cambiano la sequenza aminoacidica della proteina prodotta. Uno SNP che genera in tutte le sue forme la stessa sequenza aminoacidica è detto sinonimo (mutazione silente), se invece la sequenza prodotta è diversa allora gli SNPs sono definiti non sinonimi. Questi ultimi vanno ancora distinti in missenso (l’aminoacido codificato è diverso dall’originale) o non senso (il risultato è la formazione di un codone di stop). Gli SNPs che coinvolgono sequenze non codificanti possono presentar effetti negativi sullo splicing o su legami con i fattori di trascrizione. Nel genoma umano ci sono circa 10 milioni di polimorfismi. Si trovano in media ogni 100300 coppie di basi all’interno dei 3 miliardi di coppie di basi del genoma, sebbene la loro densità varia tra le regioni. Nonostante la maggior parte degli SNPs sia silente, essi hanno 14 conseguenze molto importanti sulla suscettibilità individuale ad alcune neoplasie. Per esempio, il trattamento e l’outcome clinico delle pazienti affette da carcinoma alla mammella, secondo alcuni studi, potrebbe dipendere dal genotipo degli enzimi metabolizzatori. In letteratura esistono studi che evidenziano l’associazione tra gli SNPs del gene CYP2D6 ed il successo terapeutico con tamoxifene: in particolare essi evidenziano come il polimorfismo nel gene CYP2D6 sia associato con una ridotta efficacia dell’enzima nel metabolizzare il farmaco. Al contrario il polimorfismo del gene CYP2C19 sembra associato ad una maggiore efficacia del tamoxifene. ( Lim HS 2007) (Schroth W 2007) GLI INIBITORI DELL’AROMATASI Il passaggio finale nella biosintesi degli estrogeni è l’aromatizzazione degli androgeni (androstenedione e testosterone) in estrogeni (estrone ed estradiolo). Questa conversione, nelle donne in premenopausa avviene nell’ovaio mentre nelle donne in postmenopausa avviene nei tessuti periferici (pelle, muscoli e fegato). La sintesi dell’estrogeno nel tessuto tumorale avviene attraverso la trasformazione di estrone solfato in estrone ed estradiolo ed attraverso l’aromatizzazione di estrogeni intratumorali (Pasqualini JR 2002). Questo dimostra come l’inibizione dell’aromatasi può rappresentare uno strumento di riduzione della spinta proliferativa del tumore, mediante il controllo della produzione degli estrogeni. 15 Il primo ad essere utilizzato in campo clinico fu l’aminoglutetimide. Oggi vengono utilizzati inibitori dell’aromatasi di terza generazione (anastrozolo, letrozolo ed exemestane) che si sono dimostrati più specifici ed efficaci rispetto ai precedenti (inibizione dell’enzima pari al 97-99%). (Lonning PE 2002) Classificati secondo le loro strutture ed i loro meccanismi d’azione possono essere distinti in 2 gruppi. Anastrozolo e letrozolo sono inibitori non steroidei che legano reversibilmente l’enzima. L’exemestane lega irreversibilmente il sito attivo dell’aromatasi competendo con il ligando. (Dino Amadori 2005) EXEMESTANE: Struttura chimica dell’exemestane. E’ un inibitore steroideo dell’aromatasi. Mima l’androstenedione e agisce come falso substrato per l’enzima, causando la sua inattivazione (inibizione suicida). Appartiene agli inibitori di classe I (insieme a formestane, plomestane, atamestane) che legano in modo irreversibile l’aromatasi impedendogli di svolgere il compito di conversione degli androgeni in estrogeni. In particolare la percentuale di androgeni soppressi varia da un 85% per l’estradiolo al 95% per l’estrone. Indicato per il trattamento adiuvante nelle donne in postmenopausa con recettori ER+ nel cancro alla mammella iniziale, che hanno ricevuto 2-3 anni di terapia con tamoxifene e sono poi passate all’exemestane come completamento del trattamento ormonale adiuvante. Utilizzato anche nel trattamento del cancro alla mammella avanzato, in donne in postmenopausa nelle quali la neoplasia è progredita nonostante trattamento con tamoxifene. (Stephen Neidle 2008) 16 L’aromatasi catalizza la conversione dell’ androstenedione in estrone. ANTIESTROGENI TAMOXIFENE: Formula chimica del tamoxifene. Fino a poco tempo fa considerato come il trattamento di elezione per il tumore alla mammella. Si ritiene che agisca come inibitore dell’azione del recettore degli estrogeni nel tessuto mammario. Composto non steroideo, somministrato nelle donne in premenopausa in quanto compete con gli effetti degli estrogeni. In donne ipoestrogeniche possiede una debole azione estrogenica sufficiente a mantenere una buona densità ossea e a prevenire malattie cardiocircolatorie in quanto riduce i livelli di colesterolo circolante. Nei dosaggi normalmente usati è in grado di ridurre il colesterolo di circa il 12% e la frazione LDL di circa il 20%. Studi in vitro dimostrano che il tamoxifene agisce a livello del recettore degli estrogeni provocando un’alterazione nella sua conformazione con conseguente danno a livello della trascrizione dell’RNA e riduzione della proliferazione cellulare. La sua attività antiproliferativa può esser misurata dai fattori di crescita: inibisce la secrezione dell’αTGF 17 e dell’EGF (coinvolti nella promozione del tumore) mentre stimola il βTGF (nell’inibitore della crescita tumorale). Inizialmente non erano sconosciuti gli effetti collaterali e il tamoxifene veniva largamente impiegato anche negli stadi iniziali del tumore mammario. Recenti studi hanno evidenziato una correlazione tra l’uso di questo farmaco e l’insorgenza del tumore all’endometrio e altre neoplasie. Tra gli effetti collaterali sono state descritte anche severe alterazioni oculari, alcune irreversibili. Il 60% delle pazienti con tumore alla mammella con lesioni ER-α positivo inizialmente traggono beneficio dalla terapia con tamoxifene ma molte vanno incontro a ricaduta. TAMOXIFENE ED EXEMESTANE La terapia ormonale del carcinoma alla mammella presenta un profilo tossicologico più favorevole rispetto a quello della chemioterapia. Per poter usufruire di questo tipo di terapia è necessario avere una positività per i recettori ormonali, che non tutte le donne con neoplasia mammaria presentano. Per circa 40 anni, il farmaco di elezione nella terapia ormonale come trattamento adiuvante era il tamoxifene, rimpiazzato recentemente dagli inibitori dell’aromatasi (anastrozolo, letrozolo ed exemestane). La soppressione degli ormoni circolanti con gli inibitori dell’aromatasi di terza generazione è circa del 95%-98%. (Geisler J 1998). Abitudinariamente l’exemestane viene somministrato in sequenza dopo 3 anni di tamoxifene, al fine di ottenere una terapia con una durata complessiva di 5 anni. Infatti, è dimostrato come il rischio di ricaduta nelle donne con tumore alla mammella operato persista dopo 5 anni di trattamento adiuvante con tamoxifene, sebbene non è indicato prolungare oltre i 5 anni la terapia adiuvante con questo farmaco. Inoltre, nelle pazienti ormono-responsive il rischio di ricaduta è più basso nei primi 5 anni dopo terapia adiuvante rispetto alle pazienti non ormono-responsive ma, nonostante ciò, rimane costante senza diminuire per 15 anni. Il tamoxifene, sembra esser correlato ad una sovra regolazione dei recettori della tiroxina chinasi (HER2, EGFR) implicati nella resistenza primaria o acquisita al farmaco stesso. (Osborne CK 2003). Inoltre, le pazienti dimostrano un rischio aumentato per emorragie vaginali, tumore all’endometrio, e trombosi venose. L’exemestane, invece, sembra essere ben tollerato ed inoltre si associa ad un diminuito rischio per eventi trombotici (p=0.004), 18 iperplasia endometriale (p=0.0001), polipi uterini (p=0.0001) e severi eventi ginecologici (p=0.0002). Nonostante ciò, gli inibitori dell’aromatasi possono provocare alterazioni del metabolismo osseo sebbene tra tutti l’exemestane abbia effetti meno dannosi a 12 mesi di trattamento. L’ALTERAZIONE DEL PATHWAY PROLIFERATIVO Le cellule cancerose hanno una capacità proliferativa incontrollata in quanto non rispettano le fasi del ciclo cellulare e sono pertanto indipendenti da stimoli proliferativi extracellulari. Il ciclo cellulare è diviso in varie fasi rigorosamente regolate, che portano alla duplicazione e alla trasmissione del materiale genetico da una cellula madre alle cellule figlie. Il DNA deve essere stato precedentemente duplicato, in modo che le cellule figlie ricevano lo stesso corredo cromosomico. La fase G0 definisce una situazione nella quale le cellule sono quiescenti temporaneamente, o in maniera indefinita per tutto il ciclo. Nella fase G1 la cellula è sottoposta ad una serie di stimoli da parte dell’ambiente extracellulare. La fase S permette la sintesi del DNA. L’intervallo tra il completamento della sintesi e la mitosi vera e propria è chiamata G2. Infine la fase M è contrassegnata dalla formazione del fuso mitotico, dalla divisione dei cromatidi e dalla divisione cellulare. (Sharpless NE 2001) Esistono punti chiamati di controllo, checkpoint, che servono per monitorare l’integrità del DNA. Posti in posizioni strategiche nelle fasi del ciclo, al fine di impedire la proliferazione delle cellule danneggiate o mutate che porterebbero ad un accumulo di danni cellulari. Tra i vari checkpoint, il più importante è quello nella fase G1. La cellula normale, per passare dalla fase di quiescenza alla fase G1 ha bisogno di stimoli esterni ai quali risponde mediante un sistema di interazione ligando-recettore ad attività tirosino-chinasica. Si realizza così una cascata di fosforilazioni intracellulari che si traducono con l’attivazione e l’espressione di proteine chiamate cicline. Queste ultime, legano la CDK per formare complessi attivati. Nella fase G1, le cicline D incrementano la loro espressione e formano complessi con la CDK4 e CDK6 che sono regolate da 2 famiglie di inibitori: p21 e p27 e dalla famiglia che comprende p16INK4a e p19ARF. I complessi ciclina/CDK4 e ciclica/CDK6 una volta attivati fosforilano la proteina Rb che 19 libera il fattore EF2. Il fattore EF2 in forma libera può così legare sequenze di DNA e trascrivere i geni richiesti per superare il ceckpoint in G1. (Ashcroft M 1998) In caso di danno al DNA, Rb sequestra i fattori proteici di trascrizione EF2 bloccando la cellula nel punto di restrizione. In questo pathway biomolecolare sono fondamentali il gene oncosoppressore p53 e la sua unità regolatoria Mdm2. Le cellule cancerose, tendono a rimanere nel ciclo in quanto sono in grado di evadere il punto di controllo in fase G1, continuando a proliferare in modo incontrollato. Questa situazione si può verificare in seguito a mutazioni a carico di p53, Rb, cicline, CDK o dei loro inibitori. Anche una sovra-espressione della ciclica D, può portare ad una crescita incontrollata in quanto promuove la fosforilazione di Rb ed il rilascio di EF2. Di seguito sono brevemente spiegati i geni presi in considerazione in questo studio. p53: È un proteina di 393 aminoacidi, con un peso molecolare di 53 kDa. Codificata dal gene TP53 presente sul braccio corto del cromosoma 17, in particolare in posizione 17p13.1, una regione frequentemente deleta nei carcinomi. Possiamo distinguere 3 domini: N-terminale denominato dominio di trascrizione-attivazione (TAD) che attiva fattori di trascrizione; un dominio legante il DNA (DNA-binding core domain DBD), che contiene ioni zinco e residui di arginina; un dominio c-terminale di omo-oligomerizzazione (OD). Agisce come fattore di trascrizione, regolando la trascrizione di geni critici per il controllo del ciclo cellulare. Avendo il compito di controllare l’omeostasi dell’organismo è espressa costitutivamente, ma in condizioni normali la sua concentrazione è molto bassa poiché viene velocemente degradata. (Kubbutat MHG 1998) (Meek DW 1998). Tuttavia, in caso di danno al DNA viene stabilizzata e la sua concentrazione aumenta. I meccanismi di azione di questa proteina sono sostanzialmente due: attiva la trascrizione di geni che bloccano la progressione del ciclo cellulare e reprime i geni indispensabili per la sopravvivenza cellulare con apoptosi della cellula stessa. Strutturalmente la proteina p53 presenta molti siti di fosforilazione dove possono agire le protein-kinasi, quando attivate a seguito di situazioni di stress (Jayaraman L. 1999) (Shieh Sy 1997). La fosforilazione porta a modificazioni nella conformazione della proteina che impediscono l’interazione con mdm2. (Bottger V 1999) (Kamijo T 1998) Tra i meccanismi che stabilizzano la proteina, un ruolo importante è svolto dalla proteina p14ARF (Stott FJ 1998) (Bates S 1998), la cui sintesi è promossa da diversi fattori di trascrizione tra cui E2F1, MYC, E1A. (Zindy F. 1998) (Honda R 1999) La p14ARF lega mdm2 ed è in grado di impedire la degradazione 20 di p53 (Weber JD 1999) (Hsieh JK 1999). Anche la pRB è in grado di legare la p53 e di impedirne la degradazione, con un meccanismo però un po’ diverso in quanto non impedisce il legame tra le due proteine ma solamente l’azione di p53. (Hanahan D 2000) Per quanto riguarda la prima delle conseguenze dell’attivazione di p53, ossia l’arresto del ciclo cellulare, la proteina è in grado di attivare la p21WAF30 che lega le CDK e ne impedisce l’attività. Il ciclo cellulare si arresta in corrispondenza del checkpoint al termine della fase G1. Infatti, l’inibizione delle CDK impedisce la fosforilazione della proteina Rb che non può rilasciare il fattore di trascrizione E2F, responsabile dell’attivazione di alcuni geni indispensabili affinché la proteina entri nella fase S del ciclo cellulare. La cellula non potendo duplicare il DNA non può pertanto trasmettere la mutazione alle generazioni successive. Per quanto riguarda poi l’induzione del processo apoptotico, le modalità con cui viene indotto non sono ancora oggi del tutto chiare, ma si pensa che questo processo comporti l’attivazione di processi ossidoriduttivi e la lisi dei mitocondri. Mutazioni del gene TP53 sono state descritte in quasi tutti i tipi di tumore ed in particolare nel 25% dei tumori alla mammella. (Olivier M 2001) Al giorno d’oggi se ne conoscono circa 20.000, suddivise in diverse categorie: delezione di uno o di entrambi gli alleli; troncamento della proteina da parte di mutazioni puntiformi che generano un segnale prematuro di stop nella traduzione dell’mRNA; mutazioni missenso che sono il tipo più comune con una frequenza del 75% e che consistono in una sostituzione di uno o più aminoacidi nella sequenza. 21 Pathways di p53. Mdm2: la minute doble murine 2 è una proteina di 491 aminoacidi con un peso molecolare di 90 kDa. Il gene che codifica per questa proteina si trova sul cromosoma 12 in posizione 12q15. Presenta una localizzazione nucleare e citoplasmatica ed è presente in quantità ridotta o è del tutto assente nelle cellule p53 negative. Possiede un dominio Nterminale, un dominio acidico centrale (la cui fosforilazione pare importante per la regolazione delle funzioni della proteina) ed infine un dominio RING C-terminale, che conferisce alla proteina l’attività E3 ubiquitina ligasi. Questa funzione promuove la degradazione proteasoma dipendente di p53 e regola la sua attività mediante un meccanismo di feed-back negativo (il legame avviene con il dominio N-terminale di transattivazione). Infatti l’mdm2 inibisce le funzioni di apoptosi e di blocco della proliferazione in fase G1, proprie della proteina p53. Inoltre, facilita la degradazione della proteina Rb (retinoblastoma) nei proteasomi dipendenti e pertanto una sua overespressione contribuisce allo sviluppo del cancro dovuto alla destabilizzazione di Rb. Mdm2 funziona in due siti: a livello genico riduce la trasformazione di p53; a livello proteico lega il prodotto di p53, ne riduce la sua attività e media a sua esportazione nucleare, aumentandone la degradazione proteosomiale e l’ubiquitinazione. In presenza di 22 danno al DNA, come già detto precedentemente, il gene p53 viene indotto, con un incremento del suo prodotto proteico. La successiva fosforilazione rende la proteina p53 attiva con aumento della sua emivita e con l’inattivazione della proteina Mdm2 attraverso p19arf. Polimorfismi a singolo nucleotide sono stati identificati nel promotore di Mdm2 e hanno mostrato una maggiore affinità per l’attivatore trascrizionale sp1 con un conseguente aumento dei livelli di RNA e di proteina che attenuano il pathway di p53. Le mutazioni di questa proteina sono insolite e solitamente quelle coinvolte nella cancerogenesi sono mutazioni puntiformi. E’ coinvolta soprattutto nello sviluppo dei tumori nei tessuti molli, osteosarcomi o carcinoma esofageo. (Uhrinova S 2005) (Vassilev LT 2004) (Lorusso 2005) (Meister A 1983) Glutatione-S-transferasi: enzima coinvolto nella resistenza a diverse famiglie di chemioterapici. Agisce coniugando diverse sostanze al glutatione ridotto in modo che possano essere eliminati dall’organismo. Il tripeptide γ-glutamilcisteinglicina o glutatione (GSH) è pertanto molto importante nell’omeostasi redox intracellulare ed esiste in forma ridotta (GSH) ed in forma ossidata (GSSG). (Kalyanaraman B. 1996) (Briviba K. 1999) (Hayes J.D. 1995) Le GST vengono suddivise in 3 grandi famiglie: citosoliche o solubili suddivise in base all’omologia della sequenza aminoacidica. Le mitocondriali e le microsomiali o MAPEG coinvolte soprattutto nel matabolismo degli ecosanoidi. Tutte hanno la comune funzione di detossificare le sostanze dannose. L’azione di questo enzima porta inevitabilmente ad una diminuzione di GSH intracellulare con un inevitabile aumento del GSSG, aumento molto tossico perché porta alla formazione di ponti disolfuro nelle proteine cellulari. (Pemple S.E 1996) (Sheehan D.001) (Frova C. 2006) (Philpot RM. 1991) Per quanto riguarda la correlazione tra questo enzima ed i tumori, le GST sono coinvolte nel processo di prevenzione del processo carcinogenico mediante inattivazione o detossificazione del composto elettrofilico di derivazione carcinogenica, ma come detto precedentemente sono coinvolte anche nel processo di insorgenza delle farmacoresistenze. Tra le varie forme isoenzimatiche spicca come importanza la GSTP1-1 presente in molti tumori solidi, overespressa nel caso di forme resistenti ai farmaci. 23 Citocromo p450: i citocromi sono proteine vettori di elettroni che permettono l'utilizzazione dell'ossigeno a livello cellulare. La famiglia del citocromo P450 è una superfamiglia enzimatica di emoproteine appartenente agli enzimi di fase 1, coinvolti nel metabolismo dei farmaci. Nell’uomo sono stati sinora identificati più di 63 geni codificanti per isoforme del citocromo P450, di cui 57 geni completi e 5 pseudogeni, divisi in 18 famiglie e 43 sottofamiglie, espressi nel fegato ed in altri tessuti come il tratto gastrointestinale, i reni, i polmoni, la cute ed il sistema nervoso centrale. (Gaetano Crepaldi 2002) Sono i maggiori attori coinvolti nella detossificazione dell'organismo, essendo in grado di agire su un gran numero di differenti substrati, sia esogeni (farmaci e tossine di origine esterna) che endogeni (prodotti di scarto dell'organismo). Le reazioni catalizzate dalle isoforme del citocromo P450 sono svariate. La più comune è una classica reazione da monossigenasi: il trasferimento di un atomo di ossigeno dall'ossigeno molecolare ad un substrato organico, con riduzione del secondo atomo di ossigeno ad acqua: RH + O2 + 2H+ + 2e– → ROH + H2O Questi enzimi si ritrovano principalmente legati alle membrane del reticolo endoplasmatico liscio ed alla membrana mitocondriale interna tramite la regione N-terminale idrofobica, in particolare nella frazione microsomiale delle cellule epatiche. Le funzioni svolte dal citocromo P450 nell’uomo sono di ossidazione ed eliminazione di sostanze endogene, come la bilirubina derivante dal metabolismo dell’emoglobina, e di sostanze esogene, come inquinanti e farmaci, ma comprendono anche la regolazione dei livelli di concentrazione degli ormoni steroidei, come gli estrogeni ed il testosterone, la biosintesi del colesterolo ed il metabolismo della vitamina D. Per quanto riguarda la regolazione della concentrazione degli ormoni steroidei, il citocromo implicato è il CYP19A1. Costituito da nove esoni. La regione a monte di questo gene è piuttosto complessa e contiene più promotori. La trascrizione può avere inizio a livello dei diversi promotori con la produzione di 7 diversi prodotti, tutti codificanti però per il CYP19A1. 24 SCOPO DEL LAVORO Lo scopo dello studio presentato in questa tesi è valutare la possibile correlazione tra gli SNPs nel gene CYP19A1 e l’outcome clinico in pazienti affette da carcinoma mammario operate e trattate con exemestane. Inoltre, lo studio è stato esteso all’analisi di SNPs in p53, MDM2 e nei geni GST al fine di: • identificare ulteriori determinanti molecolari per la resistenza/sensibilità all’exemestane; • determinare il ruolo di markers CYP19A1 in associazione ad un pannello di markers candidati in p53, MDM2, e nei geni GST; • predire l’outcome alla terapia in un gruppo di pazienti omogenee; • generare un algoritmo multigenico di risposta al trattamento basato sulla combinazione di questi markers. POLIMORFISMI DEL GENE CYP19A1 Sono noti vari polimorfismi di CYP19A1 coinvolti nella regolazione dell’attività dell’aromatasi attraverso la stabilizzazione dell’mRNA, l’aumento della trascrizione o la regolazione post-traduzionale della sua espressione. I polimorfismi che caratterizzano geni coinvolti nel metabolismo degli estrogeni potrebbero alterare la possibilità di avere una corretta soppressione estrogenica mediata dal farmaco. In particolare, il target CYP19A1 presenta dei polimorfismi che influenzano l’attività enzimatica e quindi la risposta tumorale agli inibitori delle aromatasi. Particolare importanza ha il polimorfismo C1588T localizzato a livello della regione 3’UTR non tradotta. Alcuni studi, hanno dimostrato che l’allele C è associato ad una scarsa soppressione pituitaria durante la stimolazione ovarica. I pazienti con genotipo CC necessitano di un numero di giorni maggiore per ottenere una soppressione pituitaria, 25 rispetto ai pazienti con genotipo TT. L’allele C, infatti, porta alla formazione di una quantità minore di enzima aromatasi ed è pertanto è associato con una riduzione statisticamente significativa dei livelli di estradiolo e di estrone riducendo il rapporto estradiolo/testosterone ed estrone/androstenedione. Al contrario, l’allele T è associato con alti livelli di estradiolo ed estrone. In particolare, in questo lavoro sono state analizzate due regioni del gene CYP19A1: una nel gene 3’UTR (C1558T) dell’esone 10 ed una nell’introne 4 (IVS4[TCT]+/-). (Alison M. Dunning 2004) POLIMORFISMI NEL GENE TP53 ED MDM2 Di spiccata importanza in p53 è il polimorfismo Arg72Pro; in particolare, le proteine che contengono l’Arginina sembrano essere più efficaci nell’induzione dell’apoptosi di quanto non lo siano quelle che presentano la variante Prolina. (Dumont P 2004) (Thomas M 1999). Pertanto, alcuni studi suggeriscono come l’omozigosi Arg/Arg induca l’apoptosi meglio di quanto non faccia il genotipo omozigote per Pro/Pro. Per quanto riguarda la correlazione tra polimorfismo e terapia adiuvante, la sopravvivenza libera da malattia nelle pazienti con genotipo Pro/Pro è inferiore rispetto alle omozigoti Arg/Arg. (Tatsuya Toyama 2007) Per quanto riguarda i polimorfismi in Mdm2 invece è stato preso in considerazione lo SNP309 T/G localizzato a livello della regione del promotore. In letteratura è riportato come l’omozigosi G/G sia correlata con una minor sopravvivenza rispetto all’omozigosi T/T. (Manner Gareth 2006) POLIMORFISMI DEI GENI GLUTATIONE-S-TRANSFERASI Abbiamo analizzato in particolare il polimorfismo di GSTP1 nell’esone 5 (A313G) in cui un’Isoleucina è sostituita con una Valina (I105V). Questo codone che subisce la mutazione si trova nel sito legante di GSTP1. Questo polimorfismo è associato secondo alcuni studi ad una consistente diminuizione dell’attività dell’enzima. La forma Val/Val ha un 60% di sopravvivenza in più rispetto alla variante Ile/Ile. Infatti, alti livelli di GST dati dalla forma 26 Ile/Ile sono correlati ad una minor sopravvivenza delle pazienti proprio perché l’enzima GST è molto più efficace nella sua azione ed elimina velocemente il chemioterapico. Il polimorfismo presente nel gene Glutatione S-transferasi mu, M1 (GSTM1) è dovuto ad una delezione del gene stesso. Caratterizzato dalla delezione della maggior parte della regione codificante del gene, determina una perdita di funzionalità dell’enzima. Anche il polimorfismo nel gene Glutatione S-transferasi theta, T1 (GSTT1) origina dalla delezione della maggior parte della regione codificante del gene e determina anch’esso una perdita di funzionalità dell’enzima. (Kathleen M. Egan 2004) (Mingfang Zhao 2001) 27 MATERIALI E METODI Le caratteristiche cliniche delle pazienti affette da carcinoma mammario ER positivo operate e trattate con exemestane arruolate in questo studio, sono riportate nella tabella seguente: CARATTERISTICHE DELLE PAZIENTI n PAZIENTI 106 ETA' MEDIA (RANGE) 62,6 (48,0 85,7) ER+ (n° PAZIENTI) 106 NON RICADUTE 101 FOLLOW UP DALLA CHIRURGIA (MESI) RICADUTE 50.5 (10-87) 5 TEMPO LIBERO DA MALATTIA 26,2(13-63) Il DNA è stato ottenuto mediante l’estrazione da linfociti di sangue periferico intero, prelevato in provette vacutainer da 6 ml contenenti anticoagulante EDTA. Il consenso, approvato dal comitato etico, è stato ottenuto prima di iniziare l’arruolamento e tutte le pazienti hanno fornito un consenso informato scritto di adesione allo studio. ESTRAZIONE AUTOMATICA DI DNA Per velocizzare e facilitare l’analisi è stata eseguita l’estrazione del DNA mediante il BIO ROBOT EZ1 (DNA Blood Kit QUIAGEN). Da 200 µl di sangue si ottengono 200 µl di estratto di DNA, con una concertazione di circa 20ng/µl. 28 L’estrazione degli acidi nucleici è il primo passo nelle applicazioni di biologia molecolare. Il procedimento si suddivide in tre fasi: la lisi cellulare, la deproteinizzazione del campione lisato e la precipitazione dell’acido nucleico. La particolarità dell’estrattore automatico da noi utilizzato è l’adsorbimento del DNA su microsfere (biglie) di silice magnetiche. Il DNA estratto è stato conservato a -20°C fino al momento della genotipizzazione. QUANTIFICAZIONE MEDIANTE NANODROP La quantificazone del DNA è stata effettuata misurando l’assorbanza del campione a 260 e 280 nm utilizzando lo spettrofotometro Nanodrop ND-1000. Lo strumento utilizza soltanto 1µl di campione per la lettura e permette quindi di riservare più materiale per le successive analisi. Inoltre, non richiede l’uso di cuvette o capillari, perché il campione viene pipettato direttamente sulla superficie di misura. Non sono nemmeno necessarie diluizioni del campione: ciò consente di eseguire misure più rapide ed in modo più semplice. Bastano infatti meno di 30 secondi per effettuare la lettura e prepararsi alla successiva. La tensione superficiale serve per mantenere sulla colonna il campione liquido mentre viene effettuata la 29 misurazione tramite due fibre ottiche. Lo spettro e la relativa analisi vengono visualizzati sullo schermo del PC ed archiviati in esso. Esempio di misurazione della concentrazione di DNA al Nanodrop Prima di eseguire la determinazione dei campioni, è importante eseguire una misura del bianco. Per determinare la purezza dell'acido nucleico vengono utilizzati i seguenti rapporti: • 260/280= indice della contaminazione da proteine. Per in DNA il rapporto deve essere 1.6-1.8; rapporti inferiori indicano una contaminazione da proteine. • 260/230= indice della contaminazione da fenoli (solventi); il valore ottimale di questo rapporto e di circa 2.2: rapporti inferiori indicano contaminazione da solventi. E' possibile utilizzare anche la lunghezza d'onda di 320nm come background: a questa lunghezza d'onda non assorbono né acidi nucleici né proteine quindi l'assorbanza dovrebbe essere zero. Il valore di assorbanza a 320nm deve essere sottratto agli altri valori di assorbanza. 30 Eempio di rappresentazione delle misure effettuate al Nanodrop PCR La PCR (Polymerase Chain Reaction) è una tecnica di biologia molecolare che consente l’amplificazione di frammenti di acidi nucleici dei quali si conoscano le sequenze nucleotidiche iniziali e terminali. L'amplificazione mediante PCR consente di ottenere molto rapidamente in vitro la quantità di materiale genetico necessaria per le successive applicazioni. Esistono numerose variabili che condizionano la reazione di amplificazione. Innanzitutto l’enzima Taq DNA polimerasi, che è capace di resistere a temperature molto elevate (97°C) ed è in grado di funzionare fino da temperature di 65°C. La sua concentrazione può oscillare tra 1 e 5 unità per 100µl di reazione in quanto con concentrazioni troppo elevate si possono accumulare prodotti di reazione aspecifici: se, invece, la concentrazione dell’enzima è troppo bassa, difficilmente si raggiungono rese ottimali di amplificato. La concentrazione ottimale dei primer è circa 0,75-1µM: concentrazioni elevate possono promuovere l’accumulo di prodotti aspecifici, che determinano un notevole calo in resa dei prodotti desiderati. I deossiribonucleotidi trifosfati devono essere ad una concentrazione di circa 0,2 mM, ed è consigliabile utilizzare per i quattro nucleotidi la stessa concentrazione, questo infatti minimizza gli errori di incorporazione. 31 Essenziale per la PCR è lo ione magnesio (Mg2+), utilizzato in concentrazione variabile tra 0,05 e 5 mM (mediamente 1,5 mM), che influenza l’attività dell’enzima aumentando la temperatura di denaturazione del DNA bersaglio, condiziona l’attacco dei primer stabilizzando l’ibrido molecolare e forma complessi solubili con i dNTPs che sono i veri substrati riconosciuti dalla DNA polimerasi. Esistono 3 fasi nella reazione di PCR: Denaturazione: il DNA a doppia elica è denaturato alla temperatura di circa 95°C ed è convertito in DNA a singola catena; Annealing: i primer oligonucleotidici complementari alle due estremità 3' della sequenza da amplificare ibridano con i due filamenti denaturati ad una temperatura che è orientativamente 5 °C più bassa della Tm ( temperatura di Melting = 4 (G+C ) + 2 (A + T)) dei primer stessi; Estensione: i primer oligonucleotidici, in presenza dei quattro deossinucleotidi trifosfati e di una DNA polimerasi, vengono estesi ognuno in direzione dell'altro ma su due diverse catene complementari portando alla sintesi di due molecole di DNA a doppia elica copie della regione bersaglio delimitata dagli inneschi. (Innis M. A. 1990) Ciascuna delle tre fasi della reazione di amplificazione è caratterizzata da strette condizioni termodinamiche (temperatura e tempo di ciascuna fase), dalle quali dipende la riuscita del ciclo di amplificazione. Si deve tenere presente che temperature eccessive determinano la perdita di attività della polimerasi: la Taq polimerasi ha infatti un’emivita che diminuisce progressivamente con l’aumentare della temperatura (> 2 ore a 92,5°C, 40 minuti a 95°C e 5 minuti a 97,5°C). Si deve evitare l’uso di primer che presentino complementarità all’estremo 3’, perché in tal caso si possono formare dei dimeri tra loro che riducono la resa del prodotto desiderato; si devono inoltre evitare primer con sequenze palindrome e con strutture secondarie estese. Una considerazione generale è che i primer stessi devono essere sufficientemente complessi affinché la probabilità di ibridare sequenze diverse da quella voluta sia estremamente bassa. Una conseguenza dell’uso di una temperatura di annealing troppo bassa è che uno o entrambi i primer possono ibridarsi con sequenze diverse da quella bersaglio 32 (amplificazione non specifica) determinando quindi un calo in resa del prodotto desiderato; al contrario una temperatura più alta determina una riduzione dell’ibridazione dei primer sul DNA bersaglio e quindi della resa stessa. Il numero di cicli di amplificazione è un fattore condizionante la resa di amplificazione. Tale numero dipende da vari parametri, e principalmente dalla quantità di DNA bersaglio di partenza. In generale condizioni che incrementano la resa di amplificazione portano ad una ridotta specificità di amplificazione cioè a rischi di amplificazioni non specifiche. Le condizioni ottimali di reazione sono quelle che assicurano un bilanciamento tra queste due opposte tendenze. Schema delle fasi di una PCR: 1. Denaturazione 2. Annealing 3. Allungamento 4. Termine del ciclo 33 L’elettroforesi con l’amplificato su gel di agarosio e’ un metodo semplice e veloce che permette di separare, e quindi identificare, frammenti di DNA amplificati in base al loro peso molecolare. I frammenti migrano, nel campo elettrico che attraversa il gel, dal polo negativo a quello positivo, in funzione delle cariche elettriche conferitegli dai gruppi fosfato. La velocità di migrazione dipende: 1) dalle dimensioni dei frammenti; 2) dalla percentuale dell’agarosio nel gel; 3) dal voltaggio applicato. Frammenti lineari più piccoli migrano più velocemente rispetto a quelli più grandi. Esempio di gel di controllo. Le reazioni di PCR per l’amplificazione della regione contenente gli SNPs nei singoli geni sono state così allestite: TABELLA PRIMER UTILIZZATI Geni analizzati Primer F Primer R CYP19A1 5'GTCTGGAACACTA 5'ATGCCATGGGCCACT 3’UTR_F2 e R2 GAGAAGGCTGGTC GAGTGTTCAC3' AGTAGC3' CYP19A1deltaTCT ACCAGGAGTTCTCC CAAAAAAGGCACATTC _F e R TGACC ATAGAC P53EX4F2-R2 CAATGGTTCACTGA CTGTCCCAGAATGCAA AGACCC GA MDM2 SNP309F e CGGGAGTTCAGGG AGCAAGTCGGTGCTTAC R CTG TAAAGGT GSTP1 I105V F e R CCAGTGACTGTGTG CAACCCTGGTGCAGAT GSTT1 del F e R GSTM1 del F e R TTGATC GCTC TTCCTTACTGGTCC TCACCGGATCATGGCCA TCACATC GCA GAACTCCCTGAAA GTTGGGCTCAAATATAC AGCTAAAGC GGTGG 34 La mix per la PCR dei vari geni è stata così allestita: Mix PCR conc finale stock Volume x 1 camp. dNTPs 200 µM 2 mM 1 µl buffer 1X 10X 1 µl MgCl2 1.5 mM 25 mM 0.6 µl primer F+R 0.75 µM 5 µM 1 µl TaqGold 0.25U 5 U/µl 0.05 µl H2O fino a 10.5 µl (0.5 µl in + per evaporazione) 4.85 µl DNA 30 ng 20 ng/µl 2 µl Il numero dei cicli e le temperature delle varie fasi nel termociclatore sono state personalizzate in base ai geni da amplificare: CYP19A1 3’UTR Cicli di temperatura: 95°C 10’ 95°C 30’’ 60°C 30’’ 35 cicli 72°C 40’’ 72°C 15’ 4°C 10’ CYP deltaTCT Cicli di temperatura: 95°C 10’ 94°C 25’’ 55°C 20’’ 10 cicli 72°C 30’’ 90°C 25’’ 55°C 20’’ 25 cicli 72°C 30’’ 72°C 15’ 4°C 10’ 35 p53EX4 Cicli di temperatura: 95°C 10’ 95°C 1’ 55°C 1’ 40 cicli 72°C 1’ 72°C 7’ 4°C 10’ MDM2 SNP309 Cicli di temperatura: 95°C 10’ 95°C 30’’ 60°C 30’’ 35 cicli 72°C 40’’ 72°C 15’ 4°C 10’ GSTP1 I105V Cicli di temperatura: 95°C 10’ 95°C 30’’ 60°C 30’’ 35 cicli 72°C 40’’ 72°C 15’ 4°C 10’ GSTT1 Cicli di temperatura: 95°C 10’ 95°C 30’’ 60°C 30’’ 35 cicli 72°C 40’’ 72°C 7’ 4°C 10’ 36 GSTM1 del F e R Cicli di temperatura: 95°C 10’ 95°C 30’’ 60°C 30’’ 35 cicli 72°C 40’’ 72°C 7’ 4°C 10’ Per il controllo della corretta riuscita della PCR abbiamo corso 4 µl di amplificato su gel di agarosio al 2%. Schema delle metodiche utilizzate per lo studio dei vari geni: Gene Variante Metodica CYP19A1 TCT (+/-) primer marcato 6-Fam e sequenziatore- gene scan CYP19A1 3’UTR T/C Allelic discrimination p53 esone 4 Sequenziamento GSTT1 ins/del PCR-agarosio GSTM1 ins/del PCR-agarosio GSTP1 MDM2 Sequenziamento con primer F A/G Sequenziamento con primer R IL SEQUENZIAMENTO La purificazione della reazione di PCR per il sequenziamento è stata eseguita con il kit EXO-SAP. Il DNA, per la buona riuscita del sequenziamento deve essere pulito dai nucleotidi, primer e sali che potrebbero inficiare il risultato. Il metodo EXO-SAP si basa su una reazione enzimatica mediante esonucleasi I e fosfatasi alcalina. Gli enzimi degradano rispettivamente primer e dNTPs, ma non rimuovono sali o altri prodotti secondari della PCR. 37 I campioni sono stati purificati da residui di primer e dNTPs con 2 µl di EXO-SAP in termociclatore per 20 min a 37°C e 5 min a 90°C. Le fasi per ottenere il prodotto finale da far correre sul sequenziatore automatico sono: 1. PCR 2. purificazione del prodotto di sequenza 3. PCR di sequenza 4. purificazione del prodotto di sequenza 5. corsa sul sequenziatore La PCR di sequenza è simile ad una normale PCR, nonostante esistano alcune sostanziali differenze: nella reazione viene usato solo un primer così che l’amplificazione del prodotto risulta lineare e non esponenziale. Inoltre, vengono usati dei dideossinucleotidi oltre ad i normali deossinucleotidi. La particolarità di questi nucleotidi è nel fatto che interrompono la reazione quando vengono incorporati. La TAQ polimerasi da utilizzare dovrà pertanto avere come caratteristica una bassa discriminazione tra dNTP e ddNTP: se si accorgesse che il ddNTP non è il dNTP perfetto, potrebbe non incorporarlo. Elettroferogramma (traccia) di una porzione di sequenza di DNA T=Timina A=Adenina G=Guanina C=Citosina. Il sequenziamento del DNA è la determinazione dell'ordine dei diversi nucleotidi (Adenina, Citosina, Guanina e Timina) che costituiscono l'acido nucleico. 38 Sono state ideate diverse strategie per ottenere la sequenza nucleotidica del DNA. I primi metodi, tra cui quello ideato da Allan Maxam e Walter Gilbert nel 1973, (Proc Natl Acad Sci U S A. 1973) erano piuttosto complicati; una svolta si ebbe nel 1975 con la prima pubblicazione di una strategia enzimatica ancora oggi diffusissima, sviluppata da Frederick Sanger, il cosiddetto metodo dei terminatori di catena, chain termination method o metodo Sanger, dal nome del suo scopritore (Sanger F. 1975) (Sanger F. 1977) che ricevette per questo il suo secondo premio Nobel. Un'altra strategia inizialmente molto popolare ed utilizzata fu sviluppata dagli stessi Maxam e Gilbert nel 1977 ed è conosciuta sotto il nome di metodo di Maxam e Gilbert. Più recentemente sono stati sviluppati nuovi metodi caratterizzati dalla capacità di sequenziare molti frammenti di DNA contemporaneamente (anche se con efficienza minore in termini di numero di basi sequenziate per frammento) aprendo una nuova era del sequenziamento. Queste metodiche vanno sotto il nome di sequenziamento ad elevato parallelismo. METODO SANGER T=Timina A=Adenina G=Guanina C=Citosina Il metodo Sanger è un metodo cosiddetto enzimatico, poiché richiede l'utilizzo di un enzima; il principio della tecnica sviluppata da Sanger si basa sull'utilizzo di nucleotidi 39 modificati (dideossitrifosfato, ddNTPs) per interrompere la reazione di sintesi in posizioni specifiche. I nucleotidi dideossitrifosfato sono molecole artificiali corrispondenti ai nucleotidi naturali, ma si differenziano per l'assenza del gruppo idrossilico (-OH) sul carbonio 2' e 3' della molecola. I dideossinucleotidi, a causa della loro conformazione, impediscono che un altro nucleotide si leghi ad essi, in quanto non si possono formare legami fosfodiesterici. Confronto tra deossiadenosina (sopra) e dideossiadenosina (sotto). I dideossinucleotidi devono essere marcati (radioattivamente o per fluorescenza) in modo da poter visualizzare le bande dei frammenti di DNA neosintetizzato dopo aver effettuato l'elettroforesi. Il campione di DNA da sequenziare viene diviso in quattro reazioni separate, ognuna delle quali contiene la DNA polimerasi e tutti e 4 i deossiribonucleotidi (dATP, dCTP, dGTP, dTTP). Ad ognuna di queste reazioni viene poi aggiunto solo uno dei quattro nucleotidi dideossi (ddATP, ddCTP, ddGTP, ddTTP) in quantità stechiometricamente inferiore per permettere un’elongazione del filamento sufficiente per l'analisi. L'incorporazione di un dideossinucleotide lungo il filamento di DNA in estensione ne causa la terminazione prima del raggiungimento della fine della sequenza di DNA stampo; questo dà origine ad una serie di frammenti di DNA di lunghezza diversa interrotti in corrispondenza dell'incorporazione del dideossinucleotide. I frammenti generati da queste reazioni, vengono poi fatti correre su gel di poliacrilammide che permette la separazione dei vari frammenti con una risoluzione di un nucleotide. Ognuna delle 4 reazioni è corsa su pozzetti vicini, successivamente le bande sono 40 visualizzate su lastra autoradiografica o sotto luce UV, e la sequenza viene letta direttamente sulla lastra o sul gel, a seconda del tipo di marcatura dei dideossinucleotidi. Basandosi su questa procedura, la metodica è stata affinata per facilitare la reazione, e con l'avvento dell'automatismo la reazione di sequenziamento è diventata molto più veloce. Attualmente è possibile effettuare, anziché quattro reazioni distinte per ogni nucleotide modificato, una sola reazione utilizzando i 4 ddNTPs marcati fluorescentemente in modo diverso tra loro ed utilizzando lettori ottici appropriati. In questo modo ogni filamento di DNA emetterà una luce di colore diverso in base al nucleotide (ddNTP) con il quale terminerà. SEQUENZIATORE AUTOMATICO Il sequenziatore automatico permette di eseguire, coniugando a ciascun ddNTP un diverso marcatore fluorescente, quattro reazioni di sequenziamento in un unico tubo da saggio. Rivestono particolare importanza i terminatori BigDye, sistemi a trasferimento di energia a singola molecola, costituiti da accettore e donatore. Presenta il vantaggio di emettere un segnale omogeneo, basso rumore di fondo, luminosità maggiore, facilità interpretativa per A e G attigue. Le emissioni fluorescenti vengono captate da un rilevatore e le informazioni vengono integrate e trasformate in picchi di colore diverso, con aree proporzionali all’intensità di emissione. I sequenziatori automatici possono essere a gel o a capillare, quello da noi utilizzato appartiene alla seconda categoria. Il capillare è caricato del polimero di corsa (POP4 o POP7) e i frammenti marcati di DNA vengono rivelati man mano che corrono lungo il capillare. 41 Il sequenziatore automatico utilizzato per eseguire l’analisi dei geni è AB 3100 della ditta APPLIED BIOSYSTEMS. Il Big Dye da noi utilizzato è il 3.1, migliore rispetto alla versione 1.1 per le sequenze lunghe e con migliore risoluzione soprattutto nella parte finale. Volendo riassumere il principio del sequenziatore automatico, il prodotto di PCR viene sottoposto ad elettroforesi all’interno di un capillare. Un raggio laser colpisce il capillare eccitando la fluorescenza dei fluorocromi che lo attraversano e che marcano i frammenti di DNA. Ciascuno dei quattro diversi fluorocromi emette una diversa lunghezza d’onda. Una cellula fotoelettrica rileva sequenza, tipo ed intensità, delle varie emissioni luminose ed il tutto viene registrato in forma grafica. La sequenza dei picchi corrisponde alla sequenza dei nucleotidi, il colore del picco alla base azotata rilevata. Di norma il sistema interpreta automaticamente l’elettroferogramma, sebbene possa comparire una N quando non riesce a dare interpretazione. In ogni caso è possibile inserire a mano la base azotata mancante, rifacendosi se è possibile alla sequenza del filamento reverse. 42 Reazione di sequenza: Mix Sequenza Volume x 1 camp. Sequencing Buffer 5X 2 µl Ready Reaction Mix V3.1 1 µl Primer 5 µM 1 µl H2O fino a 10.5 µl 4.5 µl 2 µl Prodotto di PCR purificato Cicli di temperatura: 96°C 1’ 96°C 10’’ 60°C 3’ 4°C 25 cicli ∞ Purificazione della reazione di sequenza dai ddNTPs fluorescenti e dai sali • 95 µl di Precipitation Solution (NaAc 3M 33µl ; Et-oh 694µl; H2O 272µl) • Centrifugare a 4000 rpm per 20 min. a temperatura ambiente. • Aggiungere 150 µl di etanolo al 70% • Centrifugare a 4000 rpm per 5 min. a temperatura ambiente. • Centrifugare a 1000 rpm per 1 min con la piastra in posizione invertita • Risospendere in 15 µl di HiDi-Formamide • Lasciare a temperatura ambiente x 10 minuti (o in ghiaccio) • Denaturare per 2 min. a 95°C e mettere in ghiaccio per 5 min. • Trasferire tutto il campione in piastra da sequenza. 43 Gene MDM2 esempio di eterozigoti T/G Gene MDM2 esempio di omozigosi T/T 44 Gene MDM2 esempio di omozigosi G/G GENESCAN L'analisi dei frammenti di DNA tramite genescan viene utilizzata per determinare la presenza di mutazioni, polimorfismi e siti di restrizione in una sequenza genica. A differenza del DNA sequencing, prevede l'utilizzo di primers fluorocromati nella reazione standard di PCR in modo tale che il frammento di interesse viene subito visualizzato e quindi analizzato. Usando questa tecnica si può contemporaneamente, molto rapidamente, distinguere tra un prodotto di PCR normale e uno mutato o si può individuare un polimorfismo che implichi variazione nella lunghezza del frammento analizzato. .La presenza del polimorfismo TCT ins/del nell’introne 4 del gene CYP è stata analizzata utilizzando il programma GeneScan Analysis version 3 (sullo strumento AB 3100 della ditta APPLIED BIOSYSTEMS); il primer forward è stato marcato con una tag fluorescente 6-Fam (Applera). Ogni frammento viene confrontato con uno standard interno, nel nostro caso abbiamo utilizzato il LIZ 500 (Perkin-Elmer). La particolarità di questa sequenza è che presenta i primer marcati anziché i nucleotidi. L’elettroferogramma presenterà picchi di due colori diversi, nel nostro caso il blu per indicare il campione e l’arancione per indicare lo standard. Un eterozigote sarà costituito da due picchi a lunghezze d’onda diverse, un 45 omozigote un unico picco d’altezza doppia rispetto all’eterozigote. Questa metodica è stata utilizzata per l’analisi dell’inserzione/delezione CYP delta TCT con le seguenti condizioni: • dye set G5 (filtro), FAM (fluorocromo campione) e ROX (fluorocromo orange per il marcatore interno) • 1 µl PCR diluito 1:10 • 0.15 µl liz 500 (standard) • 13 µl formammide • Denaturazione 95x5’ CYP delta TCT Esempio di campione omozigote per l’inserzione (sopra) e di campione eterozigote (sotto) 46 Programma GeneScan Analysis version 3. In arancione il marker, in blu il campione. ALLELIC DISCRIMINATION La discriminazione allelica è un metodo utile nella discriminazione di forme diverse di uno stesso gene, che differiscono per una sostituzione di base, una delezione o un’inserzione. Automatizzata e veloce, combina la metodica PCR con quella dell’identificazione in tempo reale di prodotti di reazione fluorescenti; per questo può essere usata come screening di differenze alleliche, presenza di mutazioni in diversi individui, oppure anche per identificare mutazioni ancora ignote. Una sonda complementare viene tagliata dall’attività 3’esonucleasica della Taq DNA polimerasi solo se inclusa nell’amplificazione. La sonda contiene, come nell’amplificazione real time normale, un quencher ed un reporter. Se la sonda rimane intatta durante la reazione, non ci sarà emissione, quando invece la sonda verrà inclusa nell’amplicone il quencher ed il reporter verranno separati grazie all’azione esonucleasica 47 della Taq polimerasi, generando fluorescenza. Una sonda complementare rimarrà ben appaiata durante l’annealing di ogni ciclo di reazione di PCR risultando efficientemente tagliata e rilasciando quindi il fluoroforo che potrà emettere fluorescenza. Quando è presente una mutazione puntiforme la sonda non sarà ibridizzata e tagliata con la stessa efficienza, quindi la fluorescenza emessa sarà notevolmente inferiore. In un sistema biallelico ci saranno due diverse sonde marcate nella stessa reazione. Ciascuna sarà pertanto marcata da un diverso fluoroforo, FAM e VIC. La prima sonda presenterà il fluorocromo FAM posizionato all’estremità 5’(massimo di eccitazione a 500510 nm, massimo di emissione a 540 nm, MGB all’estremità 3’). La seconda sonda presenterà il fluorocromo VIC posizionato all’estremità 5’(massimo di eccitazione a 515 530 nm, massimo di emissione a 540 - 560 nm, MGB all’estremità 3’). Naturalmente una sarà complementare ad un allele mentre l’altra all’altro. Durante la fase di annealing le sonde andranno ciascuna ad ibridizzarsi, con la massima efficienza nella competizione, al proprio filamento specifico. L’aumento di fluorescenza alla lunghezza d’onda specifica di uno dei due fluorofori significa omozigosi per quell’allele, mentre l’aumento contemporaneo ad entrambe le lunghezze d’onda significa eterozigoti. Nonostante il mismatch sia costituito da una singola sostituzione di base, influisce notevolmente sulla temperatura di melting della sonda e dunque sulla sua capacità di appaiarsi. Nella reazione vengono utilizzate due sonde che competono rendendo ancora più restrittive la condizioni di appaiamento anche per un singolo mismatch. Perché la Taq possa tagliarla la parte 5’ della sonda deve essere almeno in parte denaturata (necessita di una forca di tre basi). La totale dissociazione in sonde che portano un mismatch avviene molto più velocemente che in quelle perfettamente complementari, diminuendo così l’efficienza con cui vengono tagliate. A differenza dell’amplificazione real time non viene utilizzato cDNA retro trascritto da RNA ma si parte da DNA. Per poter eseguire l’analisi sono stati utilizzati dei saggi precasted (Applied) che contengono le 2 sonde e i primer. La Genotipyng master mix contiene la DNA polimerasi, i dNTPs, il tampone di reazione ed il Passive Reference. Per l’analisi del CYP19A1 3’UTR T/C e del polimorfismo nell’esone 4 di p53 è stata utilizzata questa metodica sullo strumento Abi Prism 7000 Sequence Detection System. 48 Per quanto riguarda la reazione, le condizioni utilizzate sono le seguenti: Volume x 1 camp. Master MIX (2x) 12.5 µl Assay (20x) 1.25 µl H2O 9.25 µl Il volume di ogni singola reazione è di 25 µl. Per ottenere il prodotto finale sono necessarie 3 fasi: 1. Pre-Read (serve per la determinazione della fluorescenza di fondo): 1’ a 60°C 2. Real time: 50°C 2’ 95°C 10’ (fase di attivazione della Taq Polimerasi) 95°C 15” secondi 60°C 1’ 40 cicli 3. Post-Read (lettura della flourescenza finale): 1’ a 60°C In “Result-Allelic Discrimination” si ottiene, in presenza dei tre diversi genotipi, un grafico simile a quello riportato. Sull’asse delle ordinate sono riportati i valori di fluorescenza relativa ad un allele e sull’asse delle ascisse i dati per l’altro allele. Si determinano dei raggruppamenti (clusters) di segnali di fluorescenza: Omozigoti (allele XX) Eterozigoti (entrambi gli alleli X e Y: both) Omozigoti (allele YY) NTD (campioni bianchi contenenti l’acqua) 49 Esempio di allelic discrimination visualizzato mediante rappresentazione grafica. PCR-AGAROSIO Per determinare le inserzioni/delezioni nei geni GSTT1 e GSTM1 è stata eseguita una PCR (con le condizioni già citate precedentemente) con successiva analisi mediante gel di agarosio al 2%. La regione di inserzione/delezione è localizzata a livello del primer. In caso di delezione il primer non riuscirà a legare la sequenza di DNA ed ad amplificarlo: su gel di agarosio non si vedrà nessuna banda. In caso di inserzione il primer riuscirà invece a legare lo strand ed ad amplificare la regione: su gel di agarosio verrà visualizzata una banda. E’ possibile una visualizzazione diretta, mediante colorazione con il colorante fluorescente bromuro di etidio ed esame in luce ultravioletta (UV) al transilluminatore. I gel di agarosio hanno un potere di risoluzione minore rispetto a quelli di poliacrilamide, ma una gamma di separazione molto più ampia (globalmente, da 100 bp a 50 kb; lo specifico intervallo di risoluzione varia a seconda della concentrazione di agarosio). 50 Le molecole lineari di dsDNA migrano a velocità inversamente proporzionali al logaritmo in base 10 del numero di paia di basi. Le molecole più grandi sono sottoposte a maggiori forze di attrito e inoltre incontrano maggiore ostacolo nel trovare una via attraverso i pori del gel rispetto alle molecole più piccole. Successivamente la corsa elettroforetica è stata letta e valutata su strumentazione VERSADOC 1000, sistema ad alta sensibilità, risoluzione ed uniformità per l’acquisizione e l’analisi delle immagini di campioni chemiluminescenti, fluorescenti a singolo o multiplo canale, chemifluorescenti e visibili. Il sistema è così composto: • Telecamera CCD digitale ad alta sensibilità ed alta risoluzione • Transilluminatore a lampade ultraviolette e in luce bianca. • Epi-illuminatore a LED Blu, Verdi, Rossi e bianchi al fine di eccitare in maniera differenziale e ad alta intensità qualsiasi tipo di fluoroforo o cromogeno. • Il sistema VersaDoc è inoltre dotato di camera oscura integrata a completa tenuta di luce per l’acquisizione di campioni chemiluminescenti. • Stazione computer, software Quantity One, per l’acquisizione delle immagini. 51 Analisi dei geni GSTT1 e GSTM1 mediante analisi della PCR su gel di agarosio. STRUMENTI STATISTICI PER LA VALUTAZIONE DEI DATI RAPPRESENTAZIONE MEDIANTE BOX-PLOT Al fine di rendere più completa l’analisi dei dati ottenuti, abbiamo pensato di visualizzare alcune caratteristiche delle pazienti da un punto di vista statistico. La rappresentazione grafica che abbiamo deciso di utilizzare è il box-plot. Questo modello, è costituito dal disegno su un piano cartesiano di un rettangolo, i cui estremi sono il primo e terzo quartile (in statistica, i quartili ripartiscono una distribuzione di dati in 4 parti di pari frequenze), tagliato da una linea all'altezza della mediana (si definisce come mediana il valore assunto dalle unità statistiche che si trovano nel mezzo della distribuzione). Il minimo della distribuzione viene indicato con (Q0), mentre il massimo con (Q4). Abitualmente vengono aggiunte due righe corrispondenti ai valori distanti 1,5 volte la distanza interquartile, a partire rispettivamente dal primo e dal terzo quartile. 52 TEST DI FISHER Il test esatto di Fisher è un test per la verifica d'ipotesi utilizzato nell'ambito della statistica non parametrica in situazioni con due variabili nominali (divise ciascuna in due sole categorie) e campioni piccoli. Usato per verificare se i dati dicotomici di due campioni riassunti in una tabella di contingenza 2x2 siano compatibili con l'ipotesi nulla (H0) che le popolazioni di origine dei due campioni abbiano la stessa suddivisione dicotomica e che le differenze osservate con i dati campionari siano dovute semplicemente al caso. Per descrivere il test di Fisher è utile introdurre la seguente notazione, nella quale le lettere a, b, c e d indicano i valori nelle celle e n è la somma totale. 53 La tabella di contingenza viene costruita così: si malattia no malattia Si esposizione a b a+b no esposizione c d c+d a+c b+d n Ronald Fisher dimostrò che la probabilità di ottenere tali valori (vincolati alle somme di riga e colonna realmente osservati) segue la variabile casuale ipergeometrica ed è pari a: Questa formula dà le probabilità esatte di osservare i valori a, b, c, d (dati a+b, a+c, c+d, b+d) qualora fosse vera l'ipotesi nulla sopra enunciata. 54 RISULTATI RAPPRESENTAZIONE MEDIANTE BOX-PLOT Mediante il box-plot abbiamo rappresentato l’età delle pazienti al momento della chirurgia, paragonando i due gruppi: le pazienti con e le pazienti senza ricaduta. 90 età 80 70 60 50 40 non ricadute ricadute Come si può notare sopra, la maggior parte delle pazienti senza ricaduta ha un’età compresa tra i 48/68 anni; tra le pazienti con ricaduta, la maggior parte si concentra tra un’età di 48/75 anni. Questo concorda con il fatto che, il tumore alla mammella, come esposto nella parte introduttiva, presenta 2 picchi di insorgenza: a 40/50 anni e verso i 70 anni. 55 La tabella seguente dimostra come i due gruppi di pazienti prese in esame non abbiano differenze significative da questo punto di vista. NON RICADUTE RICADUTE Number of values 103 5 Minimum 48 51,1 25% Percentile 57 56,7 Median 62,8 66,9 75% Percentile 67,4 75,05 Maximum 85,7 78,8 Mean 62,38 66,08 Std. Deviation 7,944 10,35 Std. Error 0,7828 4,628 Interessante è invece la distribuzione in base ai mesi che intercorrono tra chirurgia e ricaduta. Nella maggior parte delle pazienti che presentano ricaduta, questa si riscontra, infatti, nei primi anni. 80 età 60 40 20 0 mesi tra chirurgia e ricaduta 56 I DUE GRUPPI DI PAZIENTI A CONFRONTO Di seguito, sono riportati gli istogrammi che riassumono in modo schematico i risultati ottenuti dallo studio di genotipizzazione. I grafici sono stati costruiti mettendo a confronto le pazienti non ricadute con quelle ricadute ed è stato creato un istogramma per ogni gene. I dati che abbiamo ottenuto sono interessanti, nonostante il gruppo delle pazienti con ricaduta sia limitato (solo 5 pazienti). Per la maggior parte dei geni, infatti, tutte le pazienti con ricaduta presentano lo stesso genotipo; dato il piccolo numero degli eventi osservati, non viene raggiunta mai la significatività statistica tra le differenze, ma in certi casi è chiaramente evidenziabile una tendenza in tal senso. Meno evidenti, invece, sono le differenze in p53, GSTT1 e GSTM1. CYP19_3’UTR: Questo gene è importante, poiché coinvolto nella regolazione del livello degli estrogeni. La determinazione del genotipo è stata eseguita con il metodo dell’allelic discrimination su strumento per real-time PCR; la figura sotto riportata rappresenta un esempio di distribuzione allelica. Dal momento che in polimorfismo è in una zona del gene non tradotta in proteina, le due varianti (C e T) non codificano per un diverso aminoacido. 57 La maggior parte delle pazienti senza ricaduta presenta la variante in eterozigosi (C/T). La distribuzione dei due genotipi omozigoti (C/C e T/T) sembra invece essere piuttosto omogenea. Tutte le pazienti con ricaduta presentano genotipo C/T. CYP19 IVS4[tct]: la presenza della delezione e/o dell’inserzione della tripletta TCT è stata analizzata mediante un’analisi di gene scan su sequenziatore automatico. Nell’immagine sotto riportata, sono rappresentate rispettivamente la condizione di omozigote ins/ins e di eterozigote ins/del (picchi blu; in arancione sono riportati i picchi a 250 e a 300 bp del marcatore di peso molecolare 500-liz). 58 Tutte le pazienti con ricaduta presentano tutte un genotipo eterozigote ins/del, mentre questo è presente solo nel 47% delle pazienti che non ricadono. p53: l’analisi del polimorfismo Arg/Pro (G/C) al codine 72 del gene p53 è stata effettuata mediante sequenza diretta con sequenziatore automatico. Abbiamo riscontrato i 3 genotipi pazienti possibili: gli omozigoti G/G (Arginina/Arginina), C/C (Prolina/Prolina) ed la condizione di eterozigosi C/G omozigote C/C 59 eterozigote C/G omozigote G/G Tra il gruppo delle pazienti non ricadute, prevale il genotipo G/G o C/G. Solo 9 pazienti presentano la forma C/C. Nessuna tra le pazienti ricadute presenta la variante C/C. Non sono comunque emerse differenze statisticamente significative tra i due gruppi. 60 MDM2: La ricerca della variabile T/G è stata effettuata mediante sequenziamento diretto. eterozigote T/G omozigote T/T 61 omozigote G/G Questo SNP si trova a livello del primo introne del gene Mdm2 in una regione, pertanto, non codificante. Nonostante ciò, la forma G sembra essere correlata con una prognosi sfavorevole in quanto è associata con una maggior attenuazione di p53; tutte e cinque le pazienti appartenenti al gruppo di ricadute presentano la variante G in eterozigosi. Poche pazienti senza ricaduta e nessuna di quelle ricadute presentano il genotipo G/G. GST: lo SNP in GSTP1 si è rivelato interessante in quanto il genotipo G/G (Valina), correlato in letteratura ad una prognosi migliore in termini di sopravvivenza (60% in più rispetto alle pazienti ile/ile), non è stato evidenziato in nessuna delle pazienti con ricaduta, che presentano tutte il genotipo omozigote A/A (Isoleucina). Tra le pazienti senza ricaduta 62 abbiamo la seguente distribuzione: il 62% A/A, 26% A/G, 12% G/G. Di seguito sono riportati esempi di sequenza dello SNP. Nel primo pannello è forma riportato un eterozigote A/G, nel secondo un omozigote A/A e nel terzo un omozigote G/G. 63 Per quanto riguarda lo studio della delezione/inserzione del gene GSTT1 e del gene GSTM1, non si sono riscontrate significative differenze tra i due gruppi di pazienti; la distribuzione è risultata, infatti, piuttosto omogenea. Qui sopra è riportata l’immagine dell’elettroforesi degli amplificati con PCR corsi su gel di agarosio con cui abbiamo analizzato questi polimorfismi. La presenza della banda a circa 450 bp del gene GSTT1 e di circa 300 bp del gene GSTM1 rappresenta il genotipo ins/ins o ins/del, mentre l’assenza della banda dell’amplificato identifica il genotipo del/del in omozigosi (assenza di entrambi gli alleli del gene in analisi). Di seguito sono riportate le distribuzioni alleliche dei geni della famiglia GSTP1, GSTT1 e GSTM1 nelle pazienti da noi analizzate. 64 65 ANALISI GLOBALE DEI GENOTIPI IDENTIFICATI In conclusione, analizzando i risultati relativi ai singoli geni, non sono state messe in evidenza differenze statisticamente significative tra i due gruppi di pazienti. Tuttavia, è possibile notare la non casualità di certe associazioni di polimorfismi quando si analizzano globalmente i vari geni. In particolare: • quasi tutte le pazienti che presentano il genotipo C/T al 3’UTR del gene CYP19A1 presentano la forma ins/del dello SNP IVS4[tct] dello stesso gene e, tutte le pazienti, tranne una, omozigoti per la delezione nell’introne, presentano genotipo C/C. • la maggior parte delle pazienti con genotipo eterozigote A/G per il polimorfismo del gene GSTP1 sono ins/ins per il gene GSTT1; inoltre, la maggior parte delle pazienti con genotipo ins/ins per il gene GSTM1 presentano sono delete in omozigosi anche nel gene GSTT1. 66 ANALISI STATISTICA DEI DATI Al momento di effettuare l’analisi statistica dei risultati ottenuti dallo studio di genotipizzazione del gruppo di pazienti incluse nello studio retrospettivo, abbiamo preso in considerazione l’ODD RATIO (o rapporto incrociato) ed il test del CHI-QUADRATO. A causa del limitato numero di pazienti incluse nello studio, iniziato nel 2003, e soprattutto di quelle che presentavano ricaduta clinica al momento dell’analisi dei dati, non è stato possibile utilizzare questi test. Abbiamo invece utilizzato il test di Fisher, alternativa al test del CHI-QUADRATO, che è utilizzabile anche con dati < 5 e con un numero totale di osservazioni < 30. Per poter adattare la tabella che si utilizza nel test di Fisher (vedi materiali e metodi a pag. 54) alla nostra statistica è stato necessario accorpare la condizione di eterozigote ad uno dei due gruppi di omozigoti. Dopo un’analisi della letteratura, per ogni singolo gene abbiamo incluso la condizione di eterozigosi al gruppo dei genotipi presentati il polimorfismo in oggetto in omozigosi. 67 a b c d MDM2 5 63 0 38 p53 3 49 2 52 GSTT1 3 77 2 24 GSTM1 3 48 2 53 GSTP1 5 88 0 12 CYP19IVS4 5 71 0 27 CYP19UTR 5 78 0 23 68 I risultati dell’analisi mediante il test di Fisher sono riportati nella tabella che segue: RISULTATI DEL TEST DI FISHER CYP19_IVS4 0,211 CYP19_3'UTR 1,32 p53 0,312 MDM2 0,103 GSTT1 0,263 GSTM1 0,305 GSTP1 1,15 I risultati ottenuti, tuttavia, non sono quindi statisticamente significativi, in quanto il test può essere considerato significativo quando la probabilità che l’associazione analizzata sia casuale è <0.05 (5%). 69 CONCLUSIONI Nello studio sono state prese in esame 106 pazienti con carcinoma mammario operato: di queste, 5 sono ricadute. Tutte le pazienti presentavano i recettori ormonali positivi ER+, condizione necessaria affinché potessero essere arruolate nello studio, in quanto tutte sono state sottoposte a terapia adiuvante con exemestane. Questo farmaco è utilizzato nella terapia ormonale insieme agli altri inibitori dell’aromatasi di terza generazione. Agisce come falso substrato per l’enzima aromatasi legandolo irreversibilmente ed impedendo così la conversione degli androgeni (androstenedione e testosterone) in estrogeni (estrone ed estradiolo). Di recente è stato introdotto come farmaco d’elezione nel trattamento adiuvante in donne in postmenopausa, sostituendo il tamoxifene. A differenza di quest’ultimo, infatti, l’exemestane ha meno effetti collaterali e sembra esser ben tollerato. Nello studio abbiamo cercato di evidenziare la relazione tra i polimorfismi o SNPs nel gene CYP19A1 e l’outcome clinico delle pazienti, estendendo poi l’analisi anche ad altri geni coinvolti nel metabolismo, nella resistenza ai farmaci e nella probabilità di ricaduta: p53, MDM2 e la famiglia dei geni GST. Il gene CYP19A1 fa parte di una famiglia di citocromi impegnati nel metabolismo dei farmaci ed è pertanto importante per la detossificazione dell’organismo. Inoltre, questo enzima, ha il compito di regolare la concentrazione degli ormoni steroidei. Le regioni del gene analizzate sono 2: la regione 3’UTR (C1558T) dell’esone 10 e l’introne 4 (IVS4[TCT]+/-). Il primo si trova in una zona non tradotta in proteina, le due varianti non codificano pertanto per un diverso amminoacido. Il gene TP53 codifica per la proteina p53. Questa, agisce come cofattore di trascrizione e modula l’espressione di alcuni geni implicati nella regolazione del ciclo cellulare. Nonostante venga espressa costitutivamente, i livelli di p53, in condizioni normali, sono bassi poiché la proteina viene degradata velocemente. In caso di danno al DNA la sua concentrazione aumenta e ciò, provoca l’espressione di geni che inibiscono la progressione del ciclo cellulare ed inducono l’apoptosi. Più dettagliatamente, la proteina attiva la p21WAF30 che lega le CDK impedendone l’attività. In questo modo, la cellula danneggiata non può trasmettere la mutazione alle generazioni successive. Lo SNPs preso in esame è il Arg72Pro, localizzato a livello dell’esone 4. 70 Il gene MDM2 codifica per una proteina che regola, mediante un meccanismo di feedback negativo, la proteina p53 inibendo la funzione di apoptosi propria di questo gene. In caso di danno al DNA, i livelli di p53 aumentano come detto precedentemente, mentre la proteina mdm2 viene inattivata attraverso p19arf. Gli SNPs localizzati a livello del promotore correlano con una maggiore affinità per l’attivatore trascrizionale Sp1, che aumenta i livelli di Mdm2 attenuando il pathway di p53. Abbiamo preso in considerazione lo SNP309 T/G, localizzato in una zona non codificante (nel primo introne) a livello del promotore. La famiglia GST, infine, codifica per enzimi coinvolti nella resistenza a diversi chemioterapici. La modalità di azione consiste nel coniugare le sostanze con il glutatione ridotto: in questo modo, vengono espulse dall’organismo le sostanze tossiche. Sebbene sia importante per il processo di detossificazione, è anche implicato nell’insorgenza delle farmacoresistenze. Il polimorfismo studiato è localizzato nell’esone 5 di GSTP1 (A313G) in cui una Isoleucina è sostituita con una Valina (I105V). In particolare, il codone che subisce la mutazione si trova nel sito legante di GSTP1. Abbiamo preso in considerazione, inoltre, inserzioni e delezioni nelle forme GSTM1 (Glutatione S-transferasi mu) e GSTT1 (Glutatione S-transferasi theta). La scelta dei polimorfismi da analizzare e le informazioni sulle modalità di genotipizzazione derivano da un’accurata analisi degli studi riportati in letteratura. Le metodiche utilizzate sono state: il sequenziamento per i geni p53, MDM2, GSTP1; l’analisi di gene scan per il CYP19A1 (IVS4[TCT]+/-); la discriminazione allelica su strumento real time PCR per CYP19A1 3’UTR (C1558T); le inserzioni-delezioni in GSTM1 e GSTT1 sono state determinate più semplicemente mediante PCR ed elettroforesi su gel d’agarosio. Il DNA per le analisi è stato ricavato mediante estrattore automatico da linfociti di sangue periferico intero. I risultati ottenuti si sono dimostrati interessanti e si è notata una correlazione con quanto riportato in letteratura. L’analisi statistica ha confermato che i due gruppi in cui sono state suddivise le pazienti (gruppo 1 non ricadute e gruppo 2 ricadute) erano omogenee nonostante il gruppo delle pazienti con ricaduta era limitato a 5 casi. Mediante rappresentazione con box-plot, abbiamo rappresentato due caratteristiche delle pazienti: l’età alla chirurgia ed i mesi intercorsi tra chirurgia e ricaduta. Nel primo caso abbiamo 71 ottenuto che in media le pazienti senza ricaduta avevano un’età compresa tra 48/68 anni, mentre le pazienti con ricaduta un’età tra 48/75 anni. Molto probabilmente, se il secondo gruppo fosse più numeroso i due range tenderebbero ad essere ancora più sovrapponibili. Per quanto riguarda la seconda caratteristica, invece, quasi tutte le pazienti appartenenti al secondo gruppo, sono ricadute nei primi anni. Solo una paziente ha presentato la ricaduta dopo 63 mesi. I dati sono stati rappresentati mediante un istogramma, mettendo a confronto le pazienti non ricadute con le pazienti ricadute. Tutte le pazienti con ricaduta presentano lo stesso genotipo per molti geni. In p53, GSTT1, GSTM1 la distribuzione appare più omogenea. Analizzando i geni uno alla volta: CYP19_3’UTR: tutte le pazienti ricadute e 50 delle pazienti non ricadute presentano la variante C/T. Le restanti presentano: l’omozigosi T/T (23) e l’omozigosi C/C (28). Come riportato in letteratura, l’allele C porta ad una quantità minore di enzima aromatasi e si associa ad una riduzione dei livelli di estradiolo ed estrone riducendo il rapporto estradiolo/testosterone ed estrone/androstenedione. (Alison M. 2004). Gli SNPs portano a variazioni del livello di estrogeni, come già detto precedentemente, ma non sembrano coinvolti in un rischio aumentato di insorgenza di tumore alla mammella. Possono però avere una correlazione con la risposta al farmaco in quanto l’exemestane ha come bersaglio proprio questo enzima. CYP19 IVS4[tct]: il 100% delle pazienti con ricaduta e 47 tra pazienti senza, presenta il genotipo eterozigote ins/del. Le restanti: 27 hanno l’ins/ins e 24 hanno la forma del/del. p53: 3 casi del primo gruppo e 40 casi appartenenti al secondo gruppo presentano la forma eterozigote C/G. Solo 9 pazienti tra le non ricadute hanno la forma C/C mentre ben 52 pazienti tra le non ricadute e 2 tra le ricadute presentano la forma omozigote G/G. La letteratura, riporta che le proteine contenenti Arginina (genotipo G/G) inducono con maggior efficacia l’apoptosi nelle cellule danneggiate. In questo modo, la sopravvivenza libera da malattia è maggiore rispetto alla forma pro/pro. (Dumont P 2004) (Tatsuya Toyama 2007). Nel nostro specifico caso, abbiamo evidenziato che solo 72 poche pazienti tra le non ricadute presentano effettivamente l’omozigosi prolina/prolina ma altrettanto non è stato dimostrato per il gruppo delle ricadute, dove ci saremo aspettati un numero maggiore di casi, essendo questa condizione correlata con una minor sopravvivenza. Con l’ampliamento dello studio, ci aspettiamo di vedere un aumento, in questo secondo gruppo di pazienti, della variante sfavorevole. MDM2: la distribuzione si è rivelata interessante sopratutto per il gruppo delle ricadute dove il 100% presenta la forma eterozigote. Tra le pazienti non ricadute la distribuzione è stata le seguente: 51 casi T/G, 38 T/T, 12 G/G. La forma omozigote G, rivelatasi rara nel primo gruppo di pazienti, in letteratura viene descritta come caratteristica sfavorevole ai fini della sopravvivenza. Si associa, infatti, con una maggiore attenuazione di p53, condizione che porta anche ad un aumentato rischio di insorgenza del tumore stesso poiché si correla ad una minore risposta i p53 al danno provocato dai chemioterapici. La regolazione del grado di espressione di mdm2 avviene a livello degli estrogeni, in particolare è indotta da ER ALFA. Gli estrogeni e gli ormoni tiroidei legano il promotore di mdm2 attivando la sua trascrizione. Se lo SNP, localizzato proprio in questa regione, si presenta nella forma G/G porta ad un aumento di affinità tra mdm2 promotore e Sp1. Questa variante accelera la formazione del tumore, infatti, alcuni studi sostengono che una cura per le donne con questo tipo di genotipo, potrebbe essere quella di ridurre il segnale estrogenico. (Manner Gareth L. 2006) GST: tutte le pazienti con ricaduta presentano la forma omozigote A/A. La distribuzione nelle pazienti non ricadute è la seguente: 62 A/A 26 A/G e 12 G/G. La letteratura correla con i dati ottenuti, infatti la forma val/val (G/G) che nessuna delle pazienti ricadute presenta, ha una prognosi in termini di sopravvivenza molto più favorevole rispetto alla variante Ile/Ile (A/A), ed essa è circa del 60%. La motivazione è da ricercarsi nel fatto che questa forma porta alla formazione di livelli più bassi di GST che eliminano meno efficacemente il farmaco, lasciandolo svolgere la sua azione nel migliore dei modi. Dallo studio di “Gong Yang el al” (Gong Yang 2004) è emerso che la prognosi migliore propria della variante val/val è risultata indipendente dall’età alla diagnosi a dagli altri fattori di sopravvivenza relativi. Nello stesso studio compare come essa sia presente con maggiore 73 frequenza nelle donne con stadio avanzato di malattia. Nonostante ciò, in letteratura abbiamo trovato uno studio che dimostra il contrario, vale a dire che il genotipo val/val è correlato con una prognosi sfavorevole in termini di sopravvivenza. (Goode EL 2002). In realtà il dato è influenzato dal fatto che alle pazienti è stato diagnosticato il tumore quasi due anni prima dell’arruolamento. Spostando l’attenzione sui risultati ottenuti in GSTM1 la distribuzione appare più omogenea, senza sostanziali differenze. La delezione si trova con frequenza maggiore nelle non ricadute, rispetto al gruppo delle ricadute dove prevale l’inserzione. Le differenze sono comunque molto lievi. Le stesse considerazioni si possono fare anche per il gene GSTT1 dove però prevale le delezione nelle pazienti con ricadute, mentre l’inserzione in quelle senza ricaduta. In letteratura esistono diversi studi, in alcuni casi discordanti, se variazioni in questi geni siano implicati o meno nell’aumento del rischio di tumore. Alcuni dimostrano come la forma deleta porti alla perdita di parte di gene e sia pertanto responsabile di un funzionamento non ottimale dell’enzima. (Kathleen M. 2004) (Gong Yang, 2004). Non sempre è possibile fare un paragone in senso stretto tra i dati ottenuti dallo studio e quelli relativi a studi precedenti trovati in letteratura. In alcuni casi, cambiano le condizioni alla base dello studio: i criteri di campionamento, l’importanza data ai fattori di sopravvivenza relativi, le caratteristiche del gruppo di pazienti studiato, il numero delle pazienti arruolate. L’arruolamento di altre pazienti nello studio, l’allungamento del periodo di follow up con la possibilità di evidenziare nuove ricadute cliniche ed il conseguente del numero di campioni su cui effettuare l’analisi di genotipizzazione potrebbe mettere in evidenza tra i due gruppi di pazienti, differenze, ora solo evidenziate come tendenza, in termini oggettivi e statisticamente significative con i test adatti. Al momento le analisi statistiche eseguite non hanno dato, come già detto in precedenza, dei risultati significativi. I dati sono comunque stati analizzati statisticamente mediante il test di Fisher. Per poter costruire la tabella abbiamo dovuto accorpare la condizione di eterozigote ad uno dei due gruppi di omozigoti. Il test, può essere considerato significativo solo dal momento che la probabilità che sia vera l’ipotesi H0 “le differenze osservate tra i due gruppi di pazienti sono dovute semplicemente al caso” è <0.05 (5%). 74 I risultati ottenuti sono comunque i seguenti: • CYP19_IVS4 0,211 • CYP19_3'UTR 1,32 • p53 0,312 • MDM2 0,103 • GSTT1 0,263 • GSTM1 0,305 • GSTP1 1,15 Nonostante ciò, sono comunque necessari ancora altri studi per poter dimostrare con certezza una relazione tra gli SNPs e l’efficacia della terapia ormonale con exemestane. Lo studio che abbiamo effettuato è uno studio retrospettivo: sono state genotipizzate delle pazienti con tumore alla mammella operato e trattate con exemestane, già in follow up, alcune da tempo. In realtà, lo scopo dello studio è poter identificare dei marcatori in modo che la ricaduta possa essere diagnosticata prima di essere clinicamente evidente. Lo studio dei marcatori è uno studio piuttosto recente ma che ha dato risultati di notevole importanza, nonostante ancora solo per pochi tumori sono noti dei marcatori specifici e sensibili. Mediante la realizzazione di questo pannello di geni, si potrebbe adattare e personalizzare la terapia in base al profilo genico proprio di ogni paziente e sapere quale efficacia aspettarsi dalla terapia ormonale con exemestane. Infatti, come dimostrano i risultati, alcuni genotipi del CYP19A1 presentano, con chiara tendenza, una minor possibilità di successo del farmaco. Varianti in altri geni, come ad esempio la forma C/C in p53, G/G in Mdm2, A/A in GSTP1, correlano con una prognosi sfavorevole in termini di sopravvivenza. Poter predire in senso prospettico, attraverso studi inizialmente retrospettivi come quelloqui presentato, l’outcome clinico delle pazienti affette da carcinoma mammario potrebbe dare dei grandi benefici per lo sviluppo della clinica oncologica. 75 BIBLIOGRAFIA Alison M. Dunning, Mitch Dowsett, Catherine S. Healey, Louise Tee, Robert N. Luben, Elizabeth Folkerd, Karen L. Novik, Livia Kelemen, Saeko Ogata, Paul D. P. Pharoah, Douglas F. Easton, N. E. Day, Bruce A. J. Ponder Polymorphisms Associated With Circulating Sex Hormone Levels in Postmenopausal Women. Journal of the National Cancer Institute, Vol. 96, No. 12, June 16, 2004. Ashcroft M and Vousden KH. Regulation of p53 stability. Oncogene; 18: 7637-43; 1998. Bates S, Philips AC, Clark Pa, Stott F, Peters G, Ludwig RL. Vousden KH. p14ARF links the tumor suppressor RB and p53, Nature; 10;395 (6698): 124-125; Sep 1998. 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