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IL “TEATRO NEL TEATRO”
La “trilogia metateatrale”
La critica pirandelliana alle forme teatrali correnti, nel periodo del “grottesco”, lavora all’interno di quelle
forme stesse, spiegandole all’assurdo e così disgregandole. Nel 1921, con “Sei personaggi in cerca
d’autore”, Pirandello porta allo scoperto il rifiuto verso il teatro del tempo. I sei personaggi, un Padre, una
Madre, un Figlio, una Figliastra, una Bambina, un Giovinetto, sono nati dalla mente di un autore, che si è
rifiutato di scrivere il loro dramma. Pertanto si presentano su un palcoscenico dove una compagnia sta
provando una commedia, affinché gli attori diano al loro dramma quella forma che l’autore non volle
fissare. Così Pirandello, invece del dramma dei personaggi, mette in scena la sua impossibilità di scriverlo.
Emerge anche l’impossibilità di rappresentarlo: non solo per la mediocrità degli attori, ma per l’incapacità
intrinseca del teatro di rendere sulla scena ciò che uno scrittorie ha concepito. “I sei
personaggi”costituiscono così un testo metateatrale in cui si discute del teatro stesso. Un “teatro nel
teatro”, cioè un teatro in cui viene messo in scena il teatro stesso con i suoi problemi.
Ne “Ciascuno a suo modo”, viene affrontato il conflitto tra gli attori e il pubblico, offrendo una
rappresentazione in cui viene mostrato il pubblico che irrompe in scena.
“Questa sera si recita a soggetto”, a sua volta, affronta il conflitto tra gli attori e il regista. Il regista Hinkfuss
vuole ridurre gli attori a puri strumenti, ad esecutori passivi della sua volontà, ma gli attori si ribellano e lo
cacciano.
“Enrico IV”
“Enrico IV” (1922), si stacca dal “grottesco” per un’ambizione alla “tragedia”. In una villa solitaria nella
campagna vive rinchiuso da vent’anni un uomo che, impazzito per una caduta da cavallo, si è fissato nella
parte che vi rappresenta, quella dell’imperatore medievale Enrico IV. Da allora continua a restare immerso
in quella lontana vicenda storica, assecondato da tutti. Nella villa si introduce una donna che un tempo lui
amava, Matilde, con l’amore Tito Belcredi e la figlia Frida. Un dottore, mascherando Frida, vuole provocare
uno choc all’uomo, che lo riconduca alla ragione. Ma “Enrico IV” rivela di essere rinsavito e di essersi chiuso
nella sua parte per disgusto di una società corrotta. Così facendo la vita gli è sfuggita. Vorrebbe riappropria
sene, vivere ciò che non ha vissuto, possedendo la donna che non aveva potuto avere, cioè Frida. Belcredi
interviene, ma “Enrico IV” lo uccide. Così da quel momento, sarà costretto a chiudersi nella sua pazzia.
La finzione dell’eroe non è che la prosecuzione cosciente, rigorosa, portata all’estremo, della finzione che è
di tutti, costretti dal meccanismo sociale ad indossare una maschera. “Enrico IV”, con la sua recita,
costringe anche gli altri a mascherarsi. Verso la sua maschera l’eroe ha un atteggiamento ambivalente: da
un lato ne prova fastidio; dall’altro la maschera costituisce una sorta di rifugio che lo isola dal mondo.
Sei personaggi in cerca d’autore
La struttura del testo. Entrando in sala, gli spettatori trovano il sipario alzato e il palcoscenico senza scena.
Un macchinista incomincia ad inchiodare delle assi. Il direttore di scena lo allontana, perché gli altri attori
devono provare una nuova commedia, “Il giuoco delle parti”. Entrano in scena gli attori che chiacchierano
fra di loro: il primo attore trova ridicolo dover interpretare Leon Gala mentre sbatte le uova. Gli spettatori
hanno inizialmente l’impressione non di assistere ad uno spettacolo, ma di cogliere realmente, come per un
disguido, la compagnia mentre sta provando una commedia. A questo punto entrano dal fondo della sala
sei figure, che portano maschere e vestono abiti speciali; essi sono stati concepiti dalla mente di un autore.
Tuttavia l’autore si è rifiutato di scrivere il loro dramma. Dopo l’iniziale sbalordimento per la richiesta dei
©Gianluigi Caruso
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sei personaggi, il capocomico e gli attori accettano di recitare il dramma dei personaggi. Questi in parte lo
narrano, in parte lo rivivono dinanzi alla compagnia, ridando vita ai conflitti che li dividono.
La vicenda del dramma non scritto. Il Padre ha scoperto che tra la moglie e il proprio segretario è nato un
sentimento: egli decide di assecondarlo, e spinge la moglie a vivere con l’amante, abbandonando il Figlio
nato dall’unione legittima. Il Padre assiste alla nascita di tre bambini, e segue l’infanzia della Figliastra. La
Madre, rimasta vedova, è costretta a lavorare come sarta per l’atelier di Madame Pace; ma in realtà la
famiglia sopravvive soltanto perché la Figliastra si prostituisce nell’atelier, che maschera una casa
d’appuntamenti. Qui un giorno giunge il Padre, e senza saperlo, sta per avere un rapporto con la Figliastra,
ma sopraggiunge a tempo la Madre a impedire l’unione. Il secondo “atto” è costituito dalla morte della
Bambina, che per disgrazia affoga nella vasca del giardino, e del Giovinetto, che si spara.
L’impossibilità di scrivere il dramma dei personaggi. Pirandello ha voluto mettere in scena l’impossibilità di
scrivere un dramma del genere. Nella fase del “grottesco” Pirandello aveva accettato le strutture
convenzionali del dramma borghese, ma le aveva svuotate dall’interno, portandole all’assurdo, riducendole
a meccanismi ridicoli. Il dramma borghese lo rifiuta del tutto e fa oggetto dell’opera proprio tale rifiuto.
L’autore critica innanzitutto la letteratura drammatica del tempo, che si compiace appunto di “drammoni”.
L’impossibilità di rappresentare il dramma. Nel testo gli attori sono presentato in una luce critica; incapaci
di dare veramente vita artistica ai personaggi, e per di più vanitosi e pieni di sé in modo ridicolo e irritante.
La rappresentazione scenica è una deformazione dell’idea dell’autore. È quanto aveva teorizzato nel saggio
“Illustratori, attori e traduttori” (1908).
I temi cari alla “filosofia” pirandelliana. I) “L’impossibilità di comunicare” nasce dal fatto che ciascuno di
noi ha in sé una sua visione soggettiva che resta sconosciuta agli altri, per cui non possiamo mai
riconoscerci nella visione che gli altri hanno di noi. Di qui deriva il fatto che il teatro per Pirandello tradisce
sempre la volontà dell’autore; e per questo gli attori della compagnia, prescindendo dalla loro mediocrità,
non sono mai in grado di rendere il dramma dei personaggi come questi lo sentono. II) “Il rapporto veritàfinzione” e l’”inconsistenza della persona individuale”; i personaggi letterari sono più veri dei personaggi
viventi, perché questi mutano continuamente, mentre il personaggio artistico ha veramente una sua vita.
III) “Il conflitto vita-forma”.
L’ULTIMA PRODUZIONE TEATRALE
“Il pirandellismo”
L’eccesso di cerebralismo è dovuto al’influenza su Pirandello di un suo interprete, Adriano Tilgher, che in un
saggio del 1922 aveva meccanicamente ridotto tutta la tematica pirandelliana al conflitto tra “vita” e
“forma”, inducendo così lo scrittore stesso a modellare su quell’astratto schema i suoi drammi.
Un cambiamento di poetica
L’”umorismo” di Pirandello tendeva a scomporre la realtà, svelando stridori e contraddizioni, dissolvendo
l’idea di una tonalità organica: era il corrispettivo della visione di una realtà frantumata e aperta, molteplice
e polivalente, avvicinabile da prospettive diverse, i cui frammenti non potevano venire ricomposti in un
ordine oggettivo. Di qui derivano la riduzione degli intrecci narrativi e drammatici e meccanismi assurdi e
l’impostazione razionante, tesa ad anatomizzare quelle situazioni paradossali mediante un linguaggio
spezzato, concitato, convulso.
©Gianluigi Caruso
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I “miti” teatrali
L’azione si svolge di norma in luoghi separati dalla realtà storica contemporanea: nella “Nuova colonia”,
un’isola; in “Lazzaro”, un podere felice; nei “Giganti della montagna” la villa simbolica della Scalogna. In
questi spazi “altri” si producono eventi prodigiosi, sovrannaturali.
“I giganti della montagna”
Il testamento di Pirandello è “I giganti della montagna”. L’opera affronta un problema che assilla lo
scrittore, quello della posizione dell’arte. L’attrice Ilse vuole portare tra gli uomini il messaggio estetico,
ostina dosi a recitare “La favola del figlio cambiato”, ad un pubblico volgare che rifiuta l’arte e la poesia. Di
contro il mago Cortone, chiuso con un gruppo di stravaganti creature nella villa della Scalogna, afferma che
l’arte può vivere solo nella sfera dell’inconscio, quindi è perfettamente autosufficiente non deve cercare il
contatto con la società e il pubblico. Il mago non riesce a convincere Ilse e questa, su suo consiglio, cerca
l’aiuto dei Giganti, potenti creature che vivono sulla montagna, e che rappresentano il Potere industriale:
l’arte deve cercare l’appoggio del potere economico e politico. La conclusione del dramma non fu scritta da
Pirandello, ma da suo figlio Stefano secondo le indicazioni del padre: Ilse recita la Favola dinanzi ai servi dei
Giganti, ma quegli esseri barbari e rozzi sbranano lei e i suoi attori. In questa conclusione si può forse
cogliere l’eco di un episodio reale: egli aveva rappresentato a Roma la sua “Favola del figlio cambiato” e
aveva incontrato scarsa approvazione da parte del regime. Nella figura dell’attrice Ilse e del mago Cortone
si proietta un dilemma lacerante: continuare l’attività teatrale, facendo i conti con la sordità del pubblico e
lottando per ottenere un sostegno dello Stato che finanziasse il teatro in crisi, o rinunciare al rapporto col
pubblico, chiudersi nella sfera autosufficiente della pura creazione poetica, che sprezza i condizionamenti
materiali.
©Gianluigi Caruso
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