EUTANASIA note tratte da: PESSINA A., Eutanasia. Della morte e di altre cose, = Ragione Scienza Ed Etica 07, Cantagalli, Siena 2007, pp.116, € 12,50. L’AMMINISTRAZIONE DELLA MORTE responsabilità e professionalità dei medici ≠ doverosità di alleviare i dolori = decidere se il medico debba o possa praticare l’E Codice di deontologia medica italiano: no leggi in Olanda (2001) e Belgio (2002) = SI [“atto praticato da un terzo che mette intenzionalmente fine alla vita di una persona sulla base della sua richiesta”] - convergenza tra la volontà del paziente e la situazione clinica nella quale si trova a. richiesta ben ponderata e spontanea b. sofferenze insopportabili e senza prospettiva di miglioramento c. nessun’altra soluzione ragionevole d. con il parere di almeno un altro medico su sull’accuratezza dei criteri precedenti - diritto a chiedere l’E anche ai minori = atto legittimo se controllo accurato delle condizioni formali presupposti teorici - sorta di rapporto tra consenzienti - possibilità di interpretare la morte come qualcosa che possa ragionevolmente far parte degli interessi del paziente - l’autonomia diventa il fondamento della legittimità della richiesta ? non è immediatamente chiaro se il termine sofferenza rinvii ad una condizione fisica (dolore) o alla percezione esistenziale della situazione clinica ? la richiesta di morte è sempre dettata da fattori estrinseci alla volontà dell’individuo (situazione insopportabile o o percezione di sé che non risulta più adeguata alle proprie attese → questa dimensione eteronoma della richiesta induce a mettere in dubbio che la volontà del paziente sia realmente intenzionata alla morte e non alla rimozione delle condizioni che rendono la vita invivibile → una volta normalizzata la pratica eutanasia finisce di fatto con l’avallare il giudizio negativo che il paziente ha di se stesso una delle concause della richiesta di E che finisce con il determinare un pesante condizionamento nei confronti della volontà del paziente, è proprio il rafforzamento dell’idea che ci siamo realmente condizioni in cui la vita non sia più degna di essere vissuta si introduce un principio discriminatorio perché si afferma che alcuni esseri umani fanno bene a considerare la loro vita indegna MA... ... quale significato bisogna attribuire all’espressione vita degna di essere o non vissuta? quando e perché una vita è degna di essere vissuta? Quando c’è il riconoscimento sociale, il benessere, l’autonomia, l’esercizio delle proprie facoltà intellettive? Questa domanda non ha propriamente senso perché... - qualunque essere umano inizia a vivere in condizioni di indigenza assoluta - senza il presupposto che la vita umana sia degna di essere vissuta semplicemente perché la vita umana non è qualcosa, ma è qualcuno, non è possibile nessuna dinamica esistenziale e nessuna forma di relazione sociale; il riconoscimento di questa dignità antropologica è infatti il fondamento della promozione della qualità dell’esistenza umana: certo una vita da schiavi non è degna dell’uomo, ma non è l’uomo ad essere indegno è ciò che gli capita o ciò che egli stesso fa ad essere indegno di lui INOLTRE... ... l’ E innesca di fatto e di diritto una logica eugenia laddove si estende a coloro che non sanno o non possono dare il loro consenso la società, che finge metodologicamente di non essere coinvolta nel giudizio che il singolo esprime su di sé quando chiede l’E, non può più pararsi dietro il criterio della neutralità laddove l’E è chiesta per altri questo nesso implicito con l’eugenismo è confermato dal Protocollo di Gröniningen che prevede la possibilità di interrompere la vita in modo attivo a quei bambini che si presume avranno scarsa qualità di vita perché dovranno convivere con patologie o disabilità, a volte gravi; introdurre una prassi di E infantile fondata direttamente sulla valutazione della qualità della vita futura riallinea, di fatto e di diritto, la prassi dell’aborto volontario praticato in caso di malformazione fetale con la prassi di infanticidio selettivo o, appunto, eutanasico, malgrado l’impostazione liberistica e volontaristica assegnata alla prassi eutanasia, in essa convive una spinta eugenetica che ha una forte dimensione sociale la quale finisce con l’alimentare, indirettamente, dei pregiudizi discriminatori nei confronti di quanti si trovano a subire malattie gravi e magari devastanti; un giudizio sul valore delle persone che dipende dal giudizio sulla loro qualità di vita risulta, al di là dei possibili effetti, intollerabile in una democrazia che pretende di fondarsi sul principio dell’uguaglianza; mentre risulta comprensibile ogni sforzo rivolto alla tutela della dignità personale dentro le situazioni di confine, non sembrano affatto convincenti le tesi che vorrebbero liberalizzare la richiesta di morire e la sua soddisfazione.