SYLVIE MENARD, L’ALLIEVA DI UMBERTO VERONESI CAMBIA IDEA: «ORA, DA LAICA, DICO NO ALL’EUTANASIA» da «Unione Cristiani Cattolici Razionali» L’ultimo accorato appello del prof. Umberto Veronesi, scomparso l’8 novembre del 2016, a favore dell’eutanasia è contenuto nel “Manifesto per una legge sull’eutanasia”, firmato insieme a Cinzia Caporale e Marco Annoni. Questo è in sostanza il suo lascito, ricordato dalla radicale Emma Bonino a Milano durante il funerale laico: il diritto di decidere se e come anticipare la morte. «Io credo che la dignità stia da un’altra parte», gli risponde oggi una sua allieva, Sylvie Menard, oncologa ed ex direttrice del Dipartimento di Oncologia sperimentale dell’Istituto Nazionale dei Tumori. Dapprima favorevole alla dolce morte, tanto da redigere anche il suo testamento biologico, oggi si batte contro l’eutanasia. Da laica. «Ho fatto il ‘68 sulle barricate a Parigi. Il nostro motto era “proibito proibire”», racconta intervistata da “Il Giornale”. Poi si è ammalata di cancro e ha cambiato prospettiva: «La malattia cambia la nostra visione della vita. La morte non è più virtuale ma diventa reale. Non ci sentiamo più immortali e siamo obbligati a fermarci e a riflettere». E ancora: «Ci sono molti disabili che accettano la loro condizione e che la vivono con grande coraggio. Ho conosciuto malati gravi felici di vivere. Le stesse persone che, da sane, non avrebbero mai pensato di poter vivere così. Ho conosciuto tanti malati che inizialmente rifiutavano le terapie, ma che poi le hanno accettate, appena hanno accettato la loro malattia. Il fattore “tempo” è importantissimo». La Menard ritiene che la proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento «creerà più problemi di quelli che vuole risolvere», poiché «il testamento biologico avrebbe senso se si sapesse a priori come ci sentiremo da malati, o se non fossimo più in grado di intendere e di volere. Rischia di essere controproducente nel caso in cui qualche erede in attesa della casa della mamma faccia valere queste disposizioni anche in caso di un po’ di demenza senile». Dal motto sessantottino “proibito proibire” alla convinzione che «in uno Stato dove l’eutanasia è permessa, sarà difficile, per chi è contrario e vuole vivere, continuare a chiedere assistenza e cure senza farsi condizionare dalla società circostante». Un’indagine fatta in Svizzera sui pazienti che hanno chiesto di morire, ha proseguito l’oncologa, mostra che è la solitudine, e non la malattia in sé, il fattore preponderante che spinge il paziente a chiedere l’eutanasia. Il concetto di “morte degna” andrebbe bandito perché la vita del malato terminale è comunque degna di essere vissuta. La vita, anche in stato terminale, dovrebbe avere sempre il primato sugli impulsi di morte, fermo restando che «con la terapia del dolore, l’eventuale ricorso alla sedazione più o meno profonda, il problema di morire nel dolore non esiste più». Se una donna oncologo, allieva di Veronesi, è giunta a queste conclusioni, vuol dire che quello dell’eutanasia potrebbe essere un falso problema oppure, nella peggiore delle ipotesi, un escamotage legale per sbarazzarsi di chi è divenuto un fardello troppo pesante da portare. Si pensi, ad esempio, alle persone con demenza senile o affette da Alzheimer. In questi casi, chi potrà dare il consenso all’eutanasia? Non certo il diretto interessato in quanto non più capace di intendere e di volere, anche qualora avesse sottoscritto il testamento biologico, giacché ogni testamento può essere revocato e rivisto. Qui subentra una questione etica di rilievo che concerne i terzi interessati, cioè i parenti o i tutori. Potrebbero costoro asserire in tutta coscienza che, nel momento topico, la volontà del morente sia ancora quella di essere dolcemente ucciso?