La lunga strada dal laboratorio alla CLINICA

RICERCA
La lunga strada
dal laboratorio alla CLINICA
di Livia Romano
Corbis
Ogni fase della ricerca ha la sua funzione:
gli studi clinici, quelli che riguardano
direttamente i pazienti, sono anche
i più lunghi e i più complessi
uovi geni coinvolti nella rimedio o una nuova tecnica,
genesi di malattie, nuove prima di essere resi disponibili
molecole che possono es- a tutti, devono passare dalle
sere bersagli per farmaci più ef- forche caudine della ricerca clificaci e mirati, nuovi marcatori nica, la più delicata, per certi
che segnalano precocemente la versi, perché effettuata direttapresenza di un tumore in un mente sull’uomo.
“Se prendiamo cento scoorganismo: sono questi i risultati della cosiddetta ricerca di perte di base in oncologia (ma
base, quella che analizza la ra- anche in altri campi della medice del problema cancro. Ma dicina e della biologia), possiaperché tali scoperte si traduca- mo dire che probabilmente
una sola permetno concretamente
terà la nascita di
in vantaggi per i
La ricerca
pazienti, in farma- translazionale un nuovo rimedio in tempi raci nuovi o in mestudia
gionevoli, e per
todi diagnostici
più avanzati la l’applicabilità ragionevoli si intende in genere
strada è lunga e
porta dal laboratorio di base a almeno una decina d’anni”
quello cosiddetto translazionale spiega Maria Ines Colnaghi, di(cioè quello dove si verifica rettore scientifico di AIRC.
l’applicabilità concreta di una “Questo non vuol dire che le
determinata conoscenza) fino altre 99 scoperte siano inutili:
al letto del malato. E un nuovo consentono ai ricercatori di
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farsi un’idea generale dei meccanismi che portano una cellula sana a diventare tumorale e
quindi sono il germe di nuove
idee e nuove strategie, tutte
però da verificare prima nel
corso degli studi traslazionali,
poi, se si rivelano vincenti,
negli studi clinici”.
UNA REALTÀ
VIRTUALE
Quando i ricercatori affermano di aver identificato un
possibile target, ovvero un possibile bersaglio per un nuovo
farmaco, spesso i pazienti si
aspettano di trovarlo sugli scaffali delle farmacie di lì a qualche mese. Gli studi clinici,
però, richiedono molto tempo
e molta pazienza. “Quando si
scopre un possibile bersaglio, il
farmaco è ancora virtuale. È
un’idea di farmaco, ancora
tutta da realizzare. È come trovarsi davanti a una serratura coperta da una mascherina e vederne la forma per la prima
volta: se non altro, si sa che tipo
di chiave cercare per aprire la
porta, ma prima di identificare
la chiave giusta tra tutte quelle
che si somigliano, ci vuole
tempo” continua Colnaghi.
Quando invece dalla ricerca
di base si passa a quella traslazionale, il farmaco non è più
virtuale ma comincia a prendere forma: una forma, però, che
deve essere testata in laboratorio, su modelli cellulari.
Solo se alle prime prove pratiche si rivelerà utile allo scopo
per il quale è stata progettata,
la nuova molecola potrà
accedere alla fase degli studi
clinici, quella sull’uomo.
La ricerca di base
e quella
LA RICERCA CONTINUA
Tre fasi prima del traguardo
translazionale sono relativamente rapide. In pochi anni si
può già capire se dall’idea di
partenza si può arrivare a una
scoperta vera e propria e da qui
si passa alla valutazione della
sua trasferibilità. Diverso è il
discorso della ricerca clinica:
qui i tempi si dilatano, anche
per tutelare i malati, e in genere ci vogliono dai 10 ai 15 anni
di osservazione perché una
nuova terapia sia universalmente disponibile”.
QUESTIONE
DI TUTELE
Dieci anni possono sembrare un tempo lunghissimo per
coloro che sentono la vita fuggire via, ma applicare direttamente all’uomo una nuova scoperta senza passare dalla fase
degli studi clinici sarebbe a dir
poco criminale. “Le leggi internazionali impongono procedure lunghe e dettagliate perché lo
scopo della ricerca clinica è innanzitutto quello di dimostrare
che il nuovo farmaco (ma
anche il nuovo strumento diagnostico o la nuova tecnica chirurgica) non è dannoso per
l’uomo. In sostanza il primo
passo è analizzare la tossicità, se
si tratta di una sostanza, oppure
gli effetti a lungo termine, se si
tratta di tecnologie o procedure
chirurgiche. Per questo la
prima fase clinica coinvolge in
genere pochissimi individui”.
Solo a questo punto si può
procedere con le successive fasi
dello studio clinico, con l’obiettivo di dimostrare che la novità
apporta dei vantaggi rispetto a
quanto disponibile fino a quel
momento per una determinata
malattia.
“I vantaggi posssono essere
di vario tipo: la cura può essere
migliore e garantire un maggior
tasso di guarigione, oppure una
Fase 1: stabilire la tollerabilità della nuova terapia
Dalla sperimentazione in laboratorio è emerso che la nuova terapia non è dannosa: questo è il momento
della verifica. Al termine degli studi di fase 1 si arriva a capire quale dose di quell'antitumorale è
tollerabile. I risultati, come sempre, vanno da un lato pubblicati e dall’altro inviati al Ministero di
competenza per passare alla fase successiva.
Durata media: 1 anno
Fase 2: verificare come e quando funzionano i farmaci
Gli studi clinici di fase 2 puntano a valutare e caratterizzare l’attività antitumorale dei nuovi farmaci, cioè
a vedere se e quando funzionano. Se la nuova terapia è arrivata a questa fase, è perché si ritiene possa
essere più attiva contro il tumore di quella convenzionale
oppure meno tossica. È a questo punto che la nuova terapia
deve dimostrare concretamente le sue potenzialità.
Durata media: 4 anni
Fase 3: verificare l’efficacia rispetto alle terapie
convenzionali
Quest’ultima fase punta a valutare l’efficacia della nuova
terapia, che è cosa diversa dall’attività antitumorale valutata
prima. Quest’ultima è un dato biologico che si misura sulla
regressione del tumore, mentre l’efficacia è un dato clinico
che viene valutato a medio-lungo termine sull’aumento
della sopravvivenza dei pazienti o delle loro probabilità di
guarigione.
Per superare la fase 3, una terapia deve dimostrarsi più
efficace della migliore già disponibile, deve cioè vincere un
confronto diretto.
Durata media: molto lunga perché è legata ai dati sulla
sopravvivenza
sopravvivenza più lunga. Può
anche essere altrettanto efficace
delle cure già disponibili ma
più tollerabile, gravata da minori effetti collaterali. Quel che
è certo è che non deve risultare
peggiore di quello che la medicina ha già a disposizione!”.
Per arrivare a questa semplice ma importante conclusione
sono necessari anni di studio e
gruppi sempre più numerosi di
pazienti sperimentali, che accettano, cioè, di partecipare agli
studi clinici prima che un
nuovo rimedio abbia superato
tutti gli esami.
CHI FINANZIA
GLI STUDI CLINICI
Spesso gli studi clinici vengono finanziati dalle case farmaceutiche che contano di
mettere sul mercato la nuova
terapia. È una realtà che ha
anche degli aspetti negativi ritorno econo(per esempio quello di lasciare mico in caso di
all’industria, legata, come è u n’ e v e n t u a l e
giusto, a logiche di profitto, la nuova terapia:
determinazione del costo di sono le malattie rare, i cui riuna cura) ma che di fatto non medi non a caso sono noti col
ha alternative. “Il mondo del nome di ‘farmaci orfani’. Ecco,
anche in questo
non profit, come
Il non profit ambito sono le
AIRC, deve concentrare i suoi fi- investe su fasi charities come
nanziamenti sulle economicamente AIRC a dover
aiutare la ricerca,
fasi della ricerca
non
portando avanti
che sono assoluappetibili
anche la fase clitamente necessarie ma che non sono appetibili nica. Ugualmente accade che
per chi deve far fruttare econo- vecchi farmaci, che non sono
micamente il proprio investi- più coperti da brevetto, grazie
mento, altrimenti lo sviluppo alle nuove scoperte dell’oncodella conoscenza si fermereb- logia di base si prestino a
be” dice Colnaghi. Non solo, nuovi impieghi nella cura o
però: “Ci sono anche alcune nella prevenzione dei tumori:
malattie che, per la rarità con questo è un altro caso in cui il
cui si presentano, non costitui- non profit può concretamente
scono un mercato sufficiente- spingere la cura fino al letto
mente vasto da consentire un del malato”.
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