da MARIO VEGETTI. Quindici lezioni su Platone
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Platone: chi era costui?
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Platone: chi era costui?
UN DESTINO POLITICO. Platone non era nato nella filosofia e per la filosofia.
Era nato (428 a. C.) nel cuore dell'aristocrazia ateniese, in una famiglia ricca tanto di
beni quanto, e soprattutto, di memorie genealogiche.
Per parte di padre essa faceva risalire la sua discendenza a Codro, secondo la
leggenda l'ultimo re di Atene.
Per parte di madre, essa vantava una discendenza da Solone, il primo legislatore di
Atene, l'uomo che verso l'inizio del VI sec. aveva configurato, in un momento di acuta
crisi sociale, un assetto costituzionale capace di garantire alla città per quasi due secoli
una relativa concordia interna. Nella famiglia di Platone si custodiva dunque una memoria di regalità, da un lato, e, dall'altra, quella del saggio legislatore al di sopra delle
parti e capace di imporre la norma di giustizia nell'interesse comune.
In ogni caso, una vocazione al potere supremo, comune però anche a una figura più
vicina, e più sinistra, del buon re e del fondatore della legge: lo zio materno Crizia,
l'estremista oligarchico che nel 404 (Platone aveva 24 anni) avrebbe rovesciato la
democrazia di Atene cancellandovi quegli equilibri sociali che Solone aveva instaurato.
Crizia tentò di sostituirli con il potere di un gruppo di ricchi aristocratici (i Trenta tiranni).
Il potere di Crizia durò pochi mesi e fu rovesciato da una restaurazione democratica
in cui egli stesso trovò la morte, ma la lacerazione che egli aveva segnato nella storia
politica della città era destinata a lasciare una traccia duratura, nella memoria collettiva
e nella stessa esperienza personale del giovane Platone.
Essa era dunque in qualche modo segnata dalle memorie e dalle presenze familiari,
della cui importanza egli era del resto perfettamente consapevole.
Altrettanto rilevanti le memorie e le presenze familiari sarebbe risultate nel pensiero
politico di Platone: vi ricorrono figure come quella dell’«uomo regale» (Politico), del
fondatore delle leggi di giustizia (Repubblica; Leggi), e anche quella inquietante del
tiranno spesso evocato come detentore della forma di potere più efficace, in grado di
offrire una scorciatoia verso l'imposizione del buon ordine sociale.
DISCEPOLO DI SOCRATE (E DI CRATILO?)
Socrate non fu forse l'unico maestro di
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Platone - sappiamo da Aristotele che egli avrebbe seguito anche l'insegnamento di
Cratilo, un seguace di Eraclito -, ma è certo che il suo modo di pensare e di vivere
impresse una traccia profonda e duratura nel discepolo, tanto che questi ne fece il
protagonista pressoché esclusivo dei suoi dialoghi.
LA VII LETTERA. Le successive vicende della vita di Platone ci sono note soprattutto
grazie a uno straordinario documento autobiografico che va sotto il nome di Lettera VII.
Per quanto l'autenticità di questo documento è stata a più riprese revocata in dubbio,
per molte buone ragioni, si può ragionevolmente ritenere che la Lettera VII rappresenti
un documento biografico degno di fede.
Seguiamone il racconto considerandolo come un'attendibile testimonianza del modo
in cui il vecchio Platone (la lettera, indirizzata agli «amici di Dione a Siracusa», può
essere datata al 353) rifletteva sulla sua esperienza personale.
Quando ero giovane, condivisi una passione comune a molti: pensavo, appena
raggiunta la mia indipendenza, di entrare nella vita politica della città. (324b).
Questa vocazione non era nulla di eccezionale: nell'Atene del V e del IV secolo, il
coinvolgimento politico rappresentava una tappa pressoché obbligata nella vita dei giovani membri della grande aristocrazia, che lo sentivano tanto come un dovere quanto
come un diritto "naturale" al potere, e a maggior ragione questo doveva valere per chi,
come Platone, fosse nato in una famiglia la cui genealogia veniva fatta coincidere con
la storia stessa della città.
Al ventiquattrenne Platone l'occasione fortunata sembrò presentarsi con il colpo di
stato dei Trenta tiranni, che nel 404 rovesciarono il regime democratico, «una costituzione aborrita da molti» (324e), e, ben s'intende, soprattutto dalla parte aristocratica cui
egli era legato per nascita.
Alcuni di questi erano miei parenti e persone a me ben note, e naturalmente si
rivolsero anche a me, dando quasi per scontato il mio coinvolgimento (324d).
Dei Trenta facevano parte Crizia e Carmide, rispettivamente zio e fratello della madre di Platone. Era perfettamente naturale che questi si aspettasse da loro un ristabilimento della «giustizia» nella città. Ma non occorse molto perché la tirannide rivelasse
il suo volto violento e oppressivo: centinaia di cittadini di parte democratica messi al
bando o condannati a morte per confiscarne le ricchezze, uso indiscriminato della forza
per imporre un potere illegittimo, ricorso spregiudicato all'inganno e al tradimento,
tanto, commenta Platone, «da far sembrare aureo il regime precedente» (324d).
Lo colpì soprattutto un episodio: il tentativo dei Trenta di coinvolgere il suo maestro,
Socrate, in un'azione criminale, l'arresto di un uomo illegalmente condannato a morte,
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in modo di farsene un complice - richiesta che Socrate rifiutò a rischio della vita.
Mi ritrassi allora con indignazione da quei crimini. Dopo non molto tempo
caddero i Trenta e tutto il loro regime. Di nuovo, anche se con minore
impazienza, mi prese il desiderio di impegnarmi nella politica e nelle vicende
pubbliche (325a-b).
Il regime democratico, restaurato dopo pochi mesi con un'azione di forza diede prova
di una certa tolleranza, che poteva fargli nuovamente sperare un accesso alla politica
anche in un contesto dominato dalla parte avversa.
PROCESSO E MORTE DI SOCRATE. Accadde però, qualche anno dopo (399), un evento
traumatico, destinato a spegnere questa speranza e ad allontanare per sempre
Platone dalla scena della democrazia ateniese. Il maestro, Socrate, fu processato e
condannato a morte - su accusa di esponenti del ristabilito regime democratico - da
una giuria popolare. Le ragioni del processo e della condanna erano eminentemente
politiche.
Nell'esperienza di Platone, la condanna del maestro segnava una rottura incolmabile.
Essa non segnava solo il fallimento del regime democratico, che si rivelava così
opposto ma simmetrico alla violenta oligarchia criziana. Questo evento tragico (che
indusse Platone e altri membri del gruppo socratico alla fuga da Atene, per timore di
ulteriori persecuzioni) sembrava aprire un conflitto insanabile fra l'esercizio critico del
pensiero fìlosofico e la dimensione politica della città, con i suoi requisiti di
conformazione al regime dominante.
Da allora in poi, Platone non avrebbe cessato di riflettere sul rapporto tra la filosofia e
la città: su ciò che la filosofia avrebbe potuto fare per dare alla città un potere giusto, e
su ciò che la città avrebbe dovuto fare per la filosofia in vista della salvezza comune.
Tornai a riflettere su tutto questo - gli uomini che facevano politica, le leggi, i
costumi - e quanto più avanzavo nell'età tanto più mi appariva difficile
governare correttamente la vita politica. Mi convincevo che senza uomini che
fossero amici e compagni fidati non era possibile fare niente, ma non era
agevole trovarne fra quelli consueti, perché la nostra città non era più governata
secondo le leggi e i costumi dei padri, ne era possibile acquisirne di nuovi con
una certa facilità
(Lettera VII, 325C-d).
SOLITUDINE E IMPOTENZA DI SOCRATE.
Di fronte alla pericolosa solitudine e all’im-
potenza del filosofo è comprensibile l'atteggiamento di chi cerca rifugio nella privatezza
degli studi e così giunge alla fine della sua vita mantenendosi al riparo dall'ingiustizia e
dalla follia collettiva. Non poco, certo; ma «non molto davvero», aggiunge Platone
parlando nella Repubblica attraverso il personaggio Socrate (497a).
Non è questa privatezza la via che Platone avrebbe scelto per sé, ma quella della ri-
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cerca di "compagni e alleati" con i quali affrontare, non più in solitudine, le "fiere" della
politica - oltre che, naturalmente, di una comunicazione pubblica che continuava quella socratica nella forma diversa della composizione di dialoghi scritti, iniziata
probabilmente poco dopo la morte del maestro.
LA FONDAZIONE DELL’ACCADEMIA. La fondazione della "scuola" di Platone, l'Accademia, probabilmente intorno al 387, rispondeva a questo doppio intento: di
consolidare un gruppo di "amici", insieme ai quali sia condurre la ricerca filosofica, sia
tentare le vie dell'intervento politico.
IL PRIMO VIAGGIO A SIRACUSA. Ma intanto, Platone continua a osservare la situazione,
«attendendo sempre il momento opportuno per l'azione».
Alla fine, mi resi conto che tutte le città di adesso sono mal governate […]. E
fui costretto a dire, elogiando l'autentica filosofia, che solo essa consente di
individuare tutte le forme di giustizia nell'ambito sia della vita politica sia di
quella personale: le generazioni umane non saranno liberate dai loro mali
finché quel tipo di uomini che praticano la filosofia in modo autentico e vero
sia pervenuto al potere politico oppure coloro che comandano nelle città, per
una qualche sorte divina, non comincino a praticarla (Lett. VII, 320 a-b).
Il vecchio Platone ribadisce qui la convinzione centrale della Repubblica, dove si era
sostenuto che solo un "potere filosofìco" può porre fine ai mali della città, e si era
inoltre chiarito quali filosofi fossero legittimati a svolgere questo compito in virtù del loro
sapere. Ma, secondo la Lettera VII, è già con questa convinzione che Platone si
preparò a compiere il primo dei suoi viaggi alla volta della metropoli siciliana di
Siracusa, nel 388/7.
La città, una delle maggiori del mondo greco, era governata dal potente e prestigioso
tiranno Dionisio I. Non sappiamo quali ragioni abbiano indotto Platone a visitare la sua
corte: forse un invito dello stesso tiranno, desideroso di stringere i suoi contatti con
membri influenti dell'aristocrazia e dell'intellighenzia ateniese, forse le pressioni di
Dione, un giovane aristocratico siracusano che già allora Platone considerava fra i suoi
migliori allievi; forse, ancora, una vaga speranza di poter indurre il tiranno ad adottare
una forma di governo ispirata ai principi filosofici di giustizia.
E’ certo, per contro, che con la scelta siracusana Platone rompeva definitivamente
con la politica ateniese.
Quali che fossero le intenzioni e le speranze di Platone nel recarsi per la prima volta
a Siracusa, esse andarono presto deluse. La forma di vita della metropoli siciliana - dispotismo, lusso, corruzione - rendeva inevitabile, agli occhi di Platone, che in una
simile città si alternassero regimi devianti come «tirannidi, oligarchie, democrazie», e
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che chi vi detiene il potere «non possa neppure sentire il nome di una costituzione
fondata sulla giustizia e sull'eguaglianza di fronte alla legge» (326 d).
LA “COSTRUZIONE” DELL’ACCADEMIA.
Platone dedicò i successivi vent'anni alla
“costruzione” dell'Accademia (dove, nel 367, sarebbe approdato un allievo dal grande
futuro come Aristotele) e all'elaborazione di alcuni dei suoi maggiori dialoghi, fra i quali
la Repubblica, uno straordinario sforzo di sintesi teorica dedicata a coniugare la
delineazione di una filosofia rigorosa con un progetto di radicale rinnovamento politico
e morale della società.
IL SECONDO VIAGGIO A SIRACUSA.
Ma proprio questo insegnamento, insieme con la
frequentazione di Dione, avrebbe posto, quasi involontariamente, le premesse di un
nuovo e più grave coinvolgimento platonico nelle vicende della politica siracusana
Nel 367 moriva Dionisio I e gli succedeva il figlio Dionisio II.
Dione si era convinto che un intervento diretto di Platone avrebbe potuto "convenire"
il giovane tiranno all'esercizio di un governo "filosofico" (e forse segretamente pensava
di giovarsi dell'autorità del maestro per assumere egli stesso il potere). Insistette perciò
presso Platone perché prendesse parte a un nuovo viaggio in Sicilia, che questa volta
avrebbe assunto l'aspetto di una sorta di "missione" ufficiale dell'Accademia.
Platone esitò, consapevole dei rischi che l'impresa comportava, ma alla fine decise di
tentare, perché, come avrebbe spiegato a molti anni di distanza.
La spedizione siracusana si consumò fra nobili ingenuità, sospetti e intrighi.
Dionisio II vide in Dione un pericoloso avversario politico e lo mise al bando,
nonostante il sostegno di Platone e dei suoi. Tentò però per ragioni di prestigio di
trattenere presso di sé Platone, ricorrendo da una parte alle lusinghe, dall'altra alla
forza. Finalmente il filosofo riuscì a prendere la via del ritorno ad Atene, grazie anche
all'intervento di Archita, un filosofo di ispirazione pitagorica che deteneva la tirannide a
Taranto, con il quale Platone aveva stretto rapporti durante la permanenza siracusana.
IL TERZO VIAGGIO A SIRACUSA (361 A. C.). Ma la vicenda siracusana non s’era ancora
conclusa. Un nuovo invito di Dionisio II, appoggiato da Archita, e soprattutto le
insistenze dell'esule Dione che sperava di ottenere grazie al maestro il permesso di
tornare a Siracusa, indussero Platone nel 361 a prendere di nuovo la via della Sicilia.
Un viaggio ancora una volta inutile e pericoloso: gelosie di corte, rivalità politiche,
diffidenza di Dionisio verso gli intrighi di Dione, misero Platone in una situazione tanto
difficile che solo un deciso intervento di Archita (l'invio di una nave da guerra a
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Siracusa) gli consentì un sicuro rientro in patria.
LA MORTE DI DIONE.
Pochi anni dopo, Dione ruppe gli indugi e decise di passare
all'azione diretta. Nel 357 egli organizzò una spedizione militare a Siracusa, con la partecipazione di numerosi accademici e con l'approvazione discreta dello stesso
maestro). Dione contava su di un'insurrezione popolare a Siracusa per deporre
Dionisio, e in effetti vi riuscì. Ma mostrò presto di aspirare soltanto a succedergli nella
tirannide, e per questo venne ucciso a sua volta nel 354 dall’accademico Callippo.
GLI ULTIMI ANNI E LA MORTE. Gli ultimi anni della vita di Platone, e anche quelli successivi alla sua morte, assistettero del resto a una convulsa partecipazione dei membri
della scuola nella vita politica della Grecia:
Platone assistette ormai da lontano a questo violento coinvolgimento della scuola
nelle vicende politiche, che in qualche modo aveva ispirato con le sue esperienze
siracusane oltre che con i suoi testi.
Egli però era ormai dedito soprattutto al lavoro filosofico, cui si dedicò fino all'ultimo
giorno di vita.
Il grande dialogo sulle Leggi fu lasciato ancora abbozzato sulla cera delle tavolette,
e toccò all'allievo-segretario di Platone, il pitagorico Filippo di Opunte, scriverlo nella
redazione definitiva.
Secondo una tradizione, il giorno della sua morte, nel 347/6, gli allievi, entrando nella
sua stanza, trovarono presso il capezzale le tavolette contenenti l'inizio della
Repubblica, che egli si preparava a rielaborare ancora una volta.
Fu sepolto nel giardino dell'Accademia, presso un tempietto delle Muse che egli
stesso aveva fatto costruire.
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Appendix:
Lettera settima 324c- 326b)
[…]
Quando ero giovane, io ebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica,
[324c]
non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Or mi avvenne che questo capitasse allora alla città: il
governo, attaccato da molti, passò in altre mani, e cinquantun cittadini divennero i reggitori dello stato. Undici
furono posti a capo del centro urbano, dieci a capo del Pireo, tutti con l’incarico di sovraintendere al mercato e di
occuparsi dell’amministrazione, e, sopra costoro, trenta magistrati [d] con pieni poteri. Tra costoro erano alcuni
miei familiari e conoscenti, che sùbito mi invitarono a prender parte alla vita pubblica, come ad attività degna di
me. Io credevo veramente (e non c’è niente di strano, giovane come ero) che avrebbero purificata la città
dall’ingiustizia traendola a un viver giusto, e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avrebbero fatto.
M’accorsi così che in poco [e] tempo fecero apparire oro il governo precedente: tra l’altro, un giorno mandarono,
insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico più vecchio di me, un uomo ch’io non esito a dire il più giusto del
suo tempo, ad arrestare un cittadino [325a] per farlo morire, cercando in questo modo di farlo loro complice,
volesse o no; ma egli non obbedì, preferendo correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti. Io
allora, vedendo tutto questo, e ancor altri simili gravi misfatti, fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel
tempo. Poco dopo cadde il governo dei Trenta e fu abbattuto quel regime. E di nuovo mi prese, sia pure meno
intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. [b] Anche allora, in quello sconvolgimento, accaddero molte
cose da affliggersene, com’è naturale, ma non c’è da meravigliarsi che in una rivoluzione le vendette fossero
maggiori. Tuttavia bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che
accadde poi che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delitto
nefandissimo, il più [c] alieno dall’animo suo: lo accusarono di empietà, e fu condannato, e lo uccisero, lui che non
aveva voluto partecipare all’empio arresto di un amico degli esuli di allora, quando essi pativano fuori della patria.
Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto
più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che fosse difficile [d]
partecipare
all’amministrazione dello stato, restando onesto. Non era possibile far nulla senza amici e compagni fidati, e
d’altra parte era difficile trovarne tra i cittadini di quel tempo, perché i costumi e gli usi dei nostri padri erano
scomparsi dalla città, e impossibile era anche trovarne di nuovi con facilità. Le leggi e i costumi si corrompevano
e si dissolvevano straordinariamente, sicché [e] io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita
pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene.
Continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un [326a] miglioramento, e soprattutto se potesse migliorare il
governo dello stato, ma, per agire, aspettavo sempre il momento opportuno, finché alla fine m’accorsi che tutte le
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città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione
congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile di vedere la
giustizia negli affari pubblici e in quelli privati, e a lodare solo essa. Vidi [b] dunque che mai sarebbero cessate le
sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e
schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi.