Nelle prime lezioni del nuovo anno del corso di filosofia abbiamo

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Sandro Montorfano
Sandro Montorfano
So solo di non sapere
La Filosofia secondo me
La filosofia secondo me
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Presentazione
Sommario
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
Il
Le Origini …………………………………….p. 6
Filosofi antichi e Presofisti……………….p. 11
Sofisti e la Crisi………………..……………p. 18
Socrate……………………………………….p. 21
L’influenza di Sparta……………………….p. 28
Platone……………………………………….p. 31
Aristotele e Alessandro…………………...p. 47
L’Età Ellenistica…………………………… p. 66
Cinici e Scettici……………………………..p. 69
L’Epicureismo………………………………p. 72
La Scuola Stoica …………………………..p. 77
L’Eclettismo…………………………………p. 84
Accenni sull’Impero Romano……………p. 89
Neoplatonismo…………………………...p. 93
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Ciò che mi spinge a scrivere questi appunti, è il desiderio di
verificare la mia capacità di apprendere e di comprendere una
materia come la filosofia, che da sempre considero complessa e
difficile, ma verso la quale mi sento naturalmente attratto come
fonte di sapere ideale, morale e culturale. La scintilla si è accesa
improvvisa, quando mi capitò la fortunata occasione, di
partecipare ad una lezione su Platone tenuta dal prof. Aldo
Rossini presso l’università A.Volta di Como. Fino ad allora
l’interesse per una materia come la filosofia, fosse anche solo
per curiosità, non mi aveva mai sfiorato ritenendola,
inconsciamente, troppo impegnativa per le mie modeste capacità
culturali e per il poco tempo disponibile, anche se in fondo la
curiosità di sapere di conoscere e capire mi è connaturata.
A tale proposito apro una piccola parentesi, ricordando un
episodio di quando ero bambino. Un Natale i miei genitori mi
regalarono una automobilina di latta, di quelle a molla che si
caricano con la chiavetta, ero felice ma non completamente
soddisfatto, perché per me era un regalo che giudicavo
importante, quindi da giocarci il meno possibile. Naturalmente
arrivò il giorno in cui qualcosa si ruppe, forse la molla e quello
paradossalmente, fu il momento di vera gioia, anche se ebbi un
rimbrotto della mamma per la proverbiale poca cura, perché
potevo “guardarci dentro” per vedere e capire come era fatta
l’automobilina e soddisfare la mia repressa curiosità per, almeno
questo era il mio intendimento intimo, poterla riparare, ciò che
feci, avendo come scusante l’impossibilità di usarla in quelle
condizioni e nel contempo il piacere di ripristinarla per poterci
ancora giocare. (chiudo la parentesi retrospettica)
Ora, mutate le condizioni, e trovandomi nella libertà di
tempo sufficiente con la disponibilità mentale appropriata, ho
Sommario
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6
Presentazione
I
Le Origini
pensato di annotare ciò che più mi attira e colpisce della
materia filosofica, naturalmente senza la pretesa di farne una
sintesi scientifica e storica rigorosa, ma semplicemente proporre,
gli avvenimenti e i personaggi conosciuti, nel modo in cui io li
ho compresi e interpretati, per il piacere di fermare, fissare idee e
concetti per poterli consultare ed eventualmente confrontarli o
modificarli in un secondo tempo, in ciò servendomi dello
schema del corso di filosofia della prof. Cairoli dell’A. Volta;
naturalmente con l’ausilio di libri, letture e volumi.
E’ con questo spirito che ho cercato di
curiosare,
intrufolandomi tra la storia, i miti e l’insegnamento dei filosofi,
annotandone le frasi, i pensieri, i motti, i concetti particolari che
hanno attirato la mia attenzione e ammirazione, anche se forse,
non di importanza fondamentale, cercando di seguire una
collocazione temporale e storica. Ciò che ne uscirà, sarà per me
come la sorpresa nell’uovo di Pasqua, che scoprirò alla fine con
piacere, sicuramente con curiosità e interesse.
Devo ricordare il grande aiuto ricevuto da Fabio,
nell’accompagnarmi e nel motivarmi all’uso del computer, senza
il supporto del quale nulla avrei potuto.
La mia indagine inizia, naturalmente in forma
necessariamente sintetica, intorno al VI sec. a.C., nel periodo
mitico dell’Orfismo Pitagorico, quando la storia della Grecia
classica inizia con quella fase di grande espansione culturale,
economica e civile che raggiungerà il suo massimo con
Aristotele intorno al 320 a.C. e con diverse e alterne fortune
proseguirà fino ai giorni nostri.
Sandro Montorfano
In origine il culto di Dioniso, divinità venerata soprattutto
dalle popolazioni della Tracia, culturalmente più rozze e quindi
considerate barbare dai Greci, ebbe una notevole penetrazione e
influenza in tutta la civiltà Greca fin dalle sue origini storiche.
Pur non essendo connesso con gli dei dell’Olimpo, Dioniso o
Bacco era considerato dalle popolazioni Tracie il dio al quale era
associato il culto della fertilità ed a lui erano diretti i riti
propiziatori intrisi di profondo misticismo, ma anche di primitiva
violenza. Quando si trovò il modo di produrre il vino e se ne
scoprì la proprietà inebriante, fu interpretato come un segno
divinatorio e si dette il merito appunto a Bacco. In seguito le
funzioni e i riti della fertilità furono in un certo senso subordinati
alle feste riguardanti l’uva e “la divina follia del vino”.
E’ quasi sicuro che questo culto si insediò anche nel resto
della Grecia prima dell’inizio dei tempi classici e nonostante le
molte possibili contrarietà da parte dell’ortodossia liturgica il
culto di Bacco attecchì in profondità. Per comprendere come ciò
sia avvenuto bisogna rifarsi all’epoca e alla convulsa crescita
della nuova Grecia del VI - V sec. a.C. . Il rapido sviluppo civile
e una certa consuetudine al conformismo corrente, in cui la
razionalità e la virtù si fanno elementi sgraditi, opprimenti e
male sopportati, dalla classe dominante Ateniese sopratutto, crea
per reazione, il desiderio e l’aspirazione di ritornare ad un
presunto migliore costume di vita primitiva, più istintiva e
passionale di quella prevalente imposta.
Il rituale bacchico, generando il cosiddetto “entusiasmo”,
cioè l’entrata del dio nel suo adoratore attraverso l’ebbrezza del
vino e i rituali mistici, procura una forma d’affrancamento
dall’oppressione della civiltà, la quale vista come sinonimo di
scienza e razionalità, non riusciva a soddisfare appieno i
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I * Le Origini
desideri degli uomini che sentivano il bisogno di passione,
d’arte ma anche di religione.
Il culto di Dioniso, che nella sua forma originaria e primitiva
era per molti aspetti crudele e selvaggio, col tempo subì una
riforma di tipo mistico-rituale attribuita ad Orfeo, figura
mitologica che per questo, così dice il mito, fu ridotto a pezzi
dalle Menadi, (specie di sacerdotesse tradizionaliste custodi del
culto). Questa metamorfosi, venne accolta favorevolmente nel
suo aspetto più spirituale e mistico, dai filosofi e dai religiosi,
avendo acquisito molti elementi di somiglianza con le dottrine
provenienti dall’Oriente e dall’Egitto.
Gli orfici erano una setta ascetica, credevano nella
trasmigrazione dell’anima, aspiravano a divenire puri attraverso i
rituali di purificazione, per loro il vino era poco più di un
simbolo e l’ebbrezza che cercavano era “l’entusiasmo”, cioè
l’unione con il dio e solo in questo modo pensavano di acquistare
la conoscenza mistica. Questa miscela di misticismo e ascetismo
fu acquisita dalla filosofia Greca e valorizzata soprattutto da
Pitagora che fu, oltre che matematico e filosofo, un riformatore
dell’orfismo, come Orfeo prima di lui, lo fu della religione di
Dioniso. Attraverso il pitagorismo molti elementi orfici furono
recepiti da altri filosofi e da Platone in particolare, e da questo in
seguito in molta parte della filosofia posteriore.
Ovunque si affermò l’Orfismo sopravvissero molti elementi
bacchici come il femminismo, che appunto in Platone, si
manifestò al punto di dover proclamare l’eguaglianza politica per
le donne. Un altro elemento bacchico caratteristico era
l’ascetismo e l’importanza data alle forti emozioni, alle passioni
violente dalla quale derivò gran parte della tragedia greca.
Euripide nelle sue tragedie trattava senza rispetto, quasi con
disprezzo, l’uomo giusto, freddo, di specchiata condotta e alla
fine lo irrideva in ogni modo, facendolo cadere in disgrazia
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I
* Le Origini
dinanzi agli dei come punizione per la sua “empietà”,
onorando nel contempo i due più importanti dei dell’orfismo
Eros e Bacco.
Differenti erano gli approcci concettuali alla religione,
principalmente per quanto riguarda la purificazione, che
nell’orfismo come abbiamo già detto è una progressiva apertura
mistica alla rivelazione divina attraverso riti iniziatici e misterici,
nel pitagorismo essa è frutto del sapere e si conquista attraverso
la matematica, la musica e l’astronomia. Questa religione, che
ebbe il suo massimo sviluppo intorno al VI° secolo a.C. si diffuse
in tutta l’Ellade in coincidenza col trasferirsi della scena storica
dalla Ionia verso occidente,
trasformandosi in maniera
diversissima rispetto a quella ionica. In particolare l’adorazione
di Dioniso contiene in germe, un modo interamente nuovo di
considerare i rapporti dell’uomo con il mondo, tanto che il
fenomeno dell’estasi suggerisce ai Greci che l’anima è qualcosa
di più di un doppione di se stessi, perché questa mostra “fuori dal
corpo” la sua vera natura. Sembrò che tale religione stesse per
giungere anche in Grecia allo stadio già raggiunto dalle religioni
orientali e cioè divenire religione di stato, ma ciò non avvenne,
per merito della proliferazione delle scuole scientifiche. Questa
nuova religione, perché tale era per un certo aspetto, anche se per
l’altro verso (i riti magici e le credenze) era vecchia quanto
l’umanità, raggiunse il suo più alto punto di sviluppo con la
fondazione delle “comunità orfiche”. La sede originaria di queste
fu l’Attica, ma esse si diffusero con straordinaria rapidità nelle
colonie dell’Italia Meridionale e della Sicilia, differenziandosi e
assumendo delle caratteristiche nuove e diverse, in cui gli
adepti si raccoglievano in gruppi e comunità religiose per onorare
il culto di Dioniso, al quale chiunque poteva partecipare per
iniziazione. Ora è interessante sottolineare la straordinaria
analogia tra le credenze orfiche e quelle dominanti in India
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I
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* Le Origini
intorno alla stessa epoca, pur sapendo con sufficiente
certezza che, non possono esserci stati contatti tra le due culture.
Naturalmente non tutti i Greci erano inclini alla religione e
al misticismo anzi, un’altrettanta parte di loro, era empirica,
razionalistica e desiderosa di raggiungere la conoscenza profonda
dei fatti. Nella stessa Atene che, pur aveva posto sotto la
protezione della legge e introdotto tra i rituali di Stato la
celebrazione dei misteri Aleusini, la dottrina orfica restava
circoscritta tra la cerchia ristretta degli iniziati, senza influire
minimamente sulla religione di Stato. In generale si può
affermare che chi era di temperamento religioso si volgevano
all’orfismo, mentre i razionalisti lo disprezzavano. Questa
seconda parte della cittadinanza Greca, razionalista e pragmatica,
almeno la più colta, andava perseguendo una diversa conoscenza
di tipo laico e materialista che si indirizzava allo studio delle
leggi che presiedevano l’origine del mondo e la nascita
dell’universo e più in generale tutto ciò che era attinente alla
fenomenologia della natura. Alcuni di questi pensatori soprattutto
quelli di scuola milesia si indirizzarono con grande impegno
verso quest’altra scienza, la filosofia cosmologica, rivolgendo la
loro attenzione alla natura, ai suoi principi, e a ciò da cui tutte le
cose derivano (archè), ricercando, con la sola ragione, la
conoscenza totalizzante della realtà. La “filosofia” che non è mito
non è religione non è astrologia non è neanche alchimia, anche se
in origine tutto o in parte era presente e mescolato, si avvia a
diventare scienza. Essa , che è “amore del sapere”, risponde al
bisogno innato nell’uomo di conoscere e spiegare il perché delle
cose ricercandone i principi generali. Nasce intorno al VI secolo
a.C. nelle colonie greche dell’Asia minore e particolarmente a
Mileto con Talete, Anassimandro e Anassimene e ad Efeso con
Eraclito. In seguito si diffonde anche nelle colonie della Magna
Grecia: a Crotone in Calabria con Pitagora, ad Elea in Campania I
* Le Origini8
con Parmenide Senofane e Zenone, ad Agrigento in Sicilia
con Empedocle. Nel V° secolo infine approda ad Atene all’epoca
aurea di Pericle, con Anassagora e i suoi seguaci.
Scuola Pitagorica
Sommario
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II
* Filosofi Antichi e Presofisti
II
Filosofi Antichi e Presofisti
Secondo la tradizione chi ha cercato di dare una risposta
razionale sull’origine dell’universo, dei suoi processi di
trasformazione per come noi li vediamo, e il loro destino futuro è
stato Talete, studioso di geometria, matematica e astronomia
vissuto a Mileto intorno al VII e il VI sec. a.C., egli afferma che
“principio di tutte le cose è l’acqua”, l’acqua come principio
universale in quanto fonte continua di vita. Al pari dell’acqua
Talete introduce anche il concetto di anima, vista come soffio
vitale in quanto principio di movimento in tutte le cose, in una
concezione del tutto nuova rispetto alle conoscenze correnti
quando, l’anima era come un altro io che sta in noi. Molti sono
gli aneddoti a lui attribuiti, come l’aver previsto un’eclisse di sole
avvenuto nel 585 a.C. Recatosi in Egitto calcolò l’altezza delle
piramidi, studiò la proprietà della calamita, scoprì il sistema per
calcolare la distanza delle navi dal porto e Platone, oltre due
secoli dopo, lo colloca al primo posto tra i sette sapienti.
Per Anassimandro invece, principio di tutte le cose è
“l’àperion”, termine che significa inesauribile, infinito,
indefinito, cioè quel che non può essere attraversato da una parte
all’altra fino alla fine. Immagina essere una sostanza infinita,
eterna e senza età e che “abbraccia tutti i mondi”, infatti egli
crede che il nostro mondo sia uno fra molti. Questa sostanza
primigenia, contiene tutto ciò che esiste in forma inerte, come un
particolare magma e diverranno sostanze e forme a noi famigliari
quando, con il movimento di cui l’àperion è naturalmente dotato,
causa il distacco dei “contrari”. A questo proposito fa una
importante affermazione: “da quello onde viene la nascita delle
cose, in quello va anche la loro morte secondo la necessità,
poiché essi pagano a vicenda la pena e l’espiazione
dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Questa idea
della giustizia suggerisce che c’è una regola di “alternanza”,
nel mondo finito, per cui vi è un tempo entro il quale tutto viene
riequilibrato. Ragione di tale dinamica è che: ogni elemento
essendo un contrario, sussiste proprio in virtù del suo opposto ed
è da questa relazione che trae vita e senso. Se un contrario si
assolutizzasse sopprimerebbe l’altro impedendo a questo di
sussistere, ecco perché Anassimandro rifiuta l’idea di Talete, che
sia l’acqua l’elemento principe e base di tutto, perché se così
fosse avrebbe superato ogni altro elemento. Egli prospettò per
primo l’ipotesi evoluzionistica dicendo che l’uomo discendeva
dai pesci.
Anassimene è l’altro grande di Mileto, visse probabilmente
tra il 588 e il 528 a.C. fu allievo di Anassimandro, egli identificò
l’àperion “nell’aria” che “da essa vengono le cose che si
producono, quelle che si sono prodotte, e quelle che si
produrranno, gli dei e le cose divine”. L’aria ha parecchie
caratteristiche in comune con l’àperion: è inafferrabile, è
inesauribile, è invisibile ed è sempre in movimento. L’anima è
aria; il fuoco è aria rarefatta; condensandosi diventa acqua; e
ancora più condensata diventa terra e poi pietra; egli immagina la
terra piatta e rotonda tutta circondata dall’aria che la tiene
insieme. Anassimene ebbe una notevole influenza su Pitagora e
su gran parte della successiva speculazione. La scuola di Mileto è
importante non per i risultati che raggiunse, ma per ciò che tentò.
Le speculazioni dei tre di Mileto vanno riguardate come ipotesi
scientifiche e mostrano raramente, indebite intrusioni di desideri
antropomorfi e di idee morali.
Pitagora, nato nel 570 a.C. a Samo isola dell’Egeo, lasciò la
città in seguito alla caduta del tiranno Policrate, si trasferì a
Crotone nel 530 a.C. dove fondò la sua scuola. E’ difficile
distinguere le dottrine di Pitagora, da quelle dei suoi discepoli,
dato che la sua scuola si presenta più che altro come una
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II
* Filosofi Antichi e Presofisti
associazione religiosa, ascetica e mistica, per cui si parla più
precisamente di “scuola pitagorica” la quale sottolinea il legame
esistente tra pitagorismo e orfismo, già accennato, con diversi
punti di relazione evidenti ma anche di separazione.
Se i filosofi di Mileto avevano cercato il principio della
natura in una sostanza particolare l’attenzione dei pitagorici si
rivolge principalmente alla forma e trovano nel numero
l’elemento di somiglianza in quanto tutte le cose sono limitate ,
cioè misurabili; per cui la misura e quindi il numero è il loro
modo essenziale di essere. Studiando l’armonia musicale e le sue
regole, osservando il moto regolare dei fenomeni dell’universo,
probabilmente i pitagorici giunsero ad attribuire al numero la
funzione di archè (origine e causa di tutte le cose). Essi facendo
corrispondere ad ogni numero una figura determinata si spinsero
a trovare corrispondenze magico-religiose tra alcuni numeri e i
fenomeni più diversi della vita come, la giustizia il quattro e il
nove, il matrimonio il cinque, la perfezione il dieci , ecc.. dando
ai numeri dispari tutte le determinazioni positive, quelli pari le
determinazioni negative. Da queste opposizioni scaturisce poi
l’armonia universale di tutte le cose, che trova nella musica la sua
espressione più alta. Si apre cosi per i pitagorici l’universo,
diventando comprensibile al pensiero e aperto alla conoscenza
attraverso il numero.
La visione filosofica rappresentata da Eraclito (nato ad
Efeso in Lidia intorno al 500 a.c.) è caratterizzata dal persistente
conflitto, dal continuo mutamento che sconvolge l’ordine del
mondo e mette in contrapposizione uomini e dei, città e tempio,
potere e sapere. Egli dalla sua prospettiva materialistica e non
mistica individua nel fuoco i caratteri essenziali della realtà
“eternamente vivente che si accende con misura e con misura si
spegne”. Il fuoco è elemento sempre vivo, in perenne
movimento, capace di
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II
* Filosofi Antichi e Presofisti
trasformare ogni cosa e più dell’aria, è adatto a spiegare il
divenire universale in quanto la fiamma che pare qualcosa di
stabile, in realtà è in continuo flusso.
Il cosmo viene mantenuto in equilibrio da un’armonia di
tensioni contrapposte e ogni fattore ha il suo contrario pur
essendo identico, proprio come salita e discesa sono aspetti
diversi della stessa strada. L’uomo, essendo impossibilitato ad
elevarsi alla verità, a causa dell’inaffidabilità dei suoi sensi,
deve continuamente ricercarla col pensiero e l’intelligenza
(logos) dentro di se e solo chi se ne è impadronito può ritenersi
saggio. La realtà appare in continuo divenire, tutto passa e nulla
rimane, “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume
perché sempre nuove acque scorrono intorno a te”. “L’unità è
formata da contrari e i contrari sono tali nell’unità che li lega”.
Con Parmenide si ebbe una diversa fase della speculazione
filosofica. Nacque ad Elea intorno al 540 a.C. formulò ottime
leggi per la sua città e fu molto onorato dai suoi cittadini. Egli
individua due aspetti diversi della conoscenza dell’uomo: “Il
pensiero” cioè ciò che è, e “l’apparenza” che è ciò che si
percepisce attraverso i sensi. Tre sono i principi basilari della
verità: la realtà, il pensiero e il linguaggio; solo scomponendo la
“realtà” e quindi col “pensiero” si giunge alla conoscenza che è
espressa col “linguaggio”. L’essere “è” perché non è possibile
che non “sia”, non esiste il non essere perché non può esistere
ciò che non “è”. Questa è la dottrina Parmenidea. Solo col
pensiero “l’essere” è conoscibile e solo ciò che “è” può essere
pensato. E’ nel linguaggio però che l’essere trova la sua più
adeguata espressione. Si è chiesto: cos’è l’essere? Parmenide
precisa che: “è ciò che non nasce e non muore, vive in un eterno
presente, è unico, immobile, continuo simile a una sfera”
Su queste basi, altri pensatori, suoi allievi e non, si sono
cimentati nella ricerca e nell’analisi portando alle estreme
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II
* Filosofi Antichi e Presofisti
conseguenze il discorso parmenideo, con conclusioni
assolutamente contrapposte.
Zenone, concittadino e tenace difensore della tesi del maestro
nacque verso il 489 a.C. Egli, a chi ritiene assurda in nome della
testimonianza dei sensi, l’immutabilità, contrappone l’unità e
l’indivisibilità dell’essere con ben 40 paradossi (argomenti
contro l’opinione comune) tendenti a dimostrare per assurdo, la
fragilità delle tesi contrarie a quelle eleatiche. Sono noti il
paradosso contro il movimento “Achille e la tartaruga” in cui se
la tartaruga parte favorita anche di un solo passo Achille “piè
veloce” non la raggiungerà mai in quanto dovrà percorrere lo
spazio che ha gia percorso la tartaruga, ma questa a sua volta
Zenone di Elea
avrà fatto un tratto fino a S1 e
quando Achille avrà raggiunto il
punto S1 essa avrà raggiunto il
punto S2, e cosi via all’infinito.
Altro esempio è quello della freccia
che, scagliata contro un bersaglio,
rimane immobile infatti, in ogni
istante di tempo che la freccia
occupa uno spazio determinato
uguale a se stessa è in posizione di
riposo per cui, sommando la totalità
di istanti che la freccia si trova in
riposo essa pur movendosi per i
nostri sensi sarà sempre ferma e ciò è un assurdo. Quindi sia nel
primo che nel secondo esempio, si dimostra che la molteplicità e
la divisibilità contrastano con la logica. Per questi argomenti
chiamati sofismi o cavilli Zenone fu definito inventore
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II
* Filosofi Antichi e Presofisti
della dialettica, intesa come arte della confutazione
Melisso fu un strenuo difensore della dottrina parmenidea e
in polemica contro Empedocle e Leucippo, la sviluppa
ulteriormente affermando che l’essere uno e immobile si
contrappone al molteplice e al cambiamento, i quali
rappresentano la sfera dell’apparente. Egli polemizza di
preferenza contro il mutamento “se l’essere mutasse anche solo
di un capello ogni diecimila anni, andrebbe interamente distrutto
nella totalità del tempo” e ne sottolinea “l’incorporeità “. “Se è
(l’essere) bisogna necessariamente che sia uno; ma se è uno non
può aver corpo, perché se avesse corpo avrebbe parti e non
sarebbe più uno”. La negazione della corporeità nella dottrina
parmenidea è implicita come la negazione della molteplicità e del
mutamento e nel rifiuto dell’esperienza sensibile come via di
accesso alla verità.
Questa tesi però non consente di spiegare la realtà sensibile
della molteplicità e del cambiamento che pur esiste, quindi
bisogna conciliare in qualche modo questo fatto con il principio
parmenideo. La soluzione viene trovata da Empedocle nella
combinazione dei quattro elementi (radici) fuoco, aria, acqua,
terra, che essendo increati, indistruttibili, indivisibili e sempre
uguali a se stessi, nel senso che anche se divisibili in parti solo
per quantità, ognuna presenta ancora immutate le qualità del tutto
e quindi è priva di molteplicità. Ognuna delle radici è in se stessa
completa e omogenea, non nasce e non muore, ma il combinarsi
e il dividersi degli elementi produce l’apparenza di tutte le cose,
nascita come mescolanza, morte come separazione.
Anche Anassagora, amico e consigliere di Pericle, cerca di
conciliare la tesi eleatica con la ricerca sul mondo fisico iniziata
dagli Ioni, e come Empedocle in Sicilia anch’egli sostiene che
nulla nasce e nulla perisce, all’interno del mondo sensibile ma
tutto si trasforma. Elementi costituenti qualsiasi cosa sono, i
Sommario
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II
18
* Filosofi Antichi e Presofisti
III
“semi” infiniti per numero e qualitativamente presenti: “in
tutto c’è il tutto e tutte le cose sono in tutto”. Ogni cosa ha qualità
manifeste e qualità nascoste (sotto forma di semi), in tal senso
sono presenti anche nelle parti in cui le cose vengano
eventualmente divise, così proprio perché hanno qualcosa in
comune possono trasformarsi le une nelle altre avendo ogni cosa
parte di ogni altra. Per Anassagora la conoscenza avviene tramite
la memoria, l’esperienza, il sapere e la tecnica
Sofisti e la Crisi
Intanto con lo sviluppo dei traffici e dei commerci Atene si
avvia a divenire il centro d’attrazione culturale più importante
della Grecia. Sempre più pensatori e maestri di diritto affluiscono
in città provenienti da ogni parte del vasto mondo Ellenico,
grazie alla mentalità cosmopolita dei suoi abitanti e alla loro
ricchezza, tanto da divenire anche per i secoli successivi lo stato
Greco più rappresentativo di tutto il Mediterraneo. In queste
condizioni di grande fermento economico e culturale la
popolazione prese coscienza della necessità di un nuovo assetto
politico, più democratico e quindi la necessità di formare una
classe dirigente preparata per le nuove realtà. Nacquero cosi le
scuole di pensiero, i cui maestri chiamati Sofisti insegnavano, a
pagamento, la matematica, la filosofia e l’arte di ben parlare in
pubblico, tanto da divenire molto ricercati fra i rampolli delle
famiglie altolocate. Tra questa schiera d’insegnanti per la
maggior parte mestieranti di professione, non raramente si
trovavano dei veri filosofi e pensatori originali che si
contornavano di giovani allievi desiderosi di apprendere l’arte
della politica, della facile oratoria e della retorica allo scopo di
conquistare il consenso popolare.
Il merito principale dei Sofisti fu di operare una vera e
propria rivoluzione filosofica spostando l’oggetto dell’indagine
dalla natura, sull’uomo, cioè dal macrocosmo al microcosmo.
Questa fu anche conseguenza delle difficoltà di sperimentare, con
strumenti oggettivi e inconfutabili, le intuizioni percettive sulla
fenomenologia della natura, oltre al mutato contesto storico e
politico che l’Atene di Pericle, avviandosi decisamente verso la
democrazia, impose, segnando il definitivo tramonto del vecchio
regime aristocratico
19
III
* Sofisti e la Crisi
Oltre all’oggetto cambia anche il metodo della ricerca, non
più deduttivo ma induttivo cioè, non più individuato il principio
da cui le cose hanno origine, dedurne la spiegazione della realtà;
ma raccogliere tutta una serie di fatti reali e concreti concernente
l’oggetto da indagare e trarre da questi elementi, lo scopo
dell’indagine. Per ultimo oltre all’oggetto e al metodo cambia
anche il fine cioè non più la ricerca della verità oggettiva e
assoluta ma la capacità di creare una verità che non possa essere
confutata e che si adatta al fine dell’indagine sull’oggetto.
Convinto assertore del potere enorme della retorica fu
Protagora che esprime molto bene il suo pensiero in questa
frase:
“L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per
ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono”.
Tutte le opinioni hanno uguale valore quindi non vi sarebbero
opinioni false e in genere non vi sarebbe mai l’errore, diventa
palese che se accostiamo ciò al campo politico si deve affermare
che entra di prepotenza la prospettiva relativista. Il criterio che
determina il valore di un’opinione rispetto ad un’altra è la sua
utilità e quindi, è sapiente colui che induce negli altri opinioni
migliori cioè più utili.
Per Gorgia allievo di Protagora il linguaggio ha due
funzioni principali una distruttiva la “dialettica” e una costruttiva
la “retorica”. In contrapposizione netta con il suo maestro egli
afferma che: ”Nulla esiste perché non generato e quindi infinito e
se è infinito non è in nessun luogo. Se anche qualcosa esistesse
non sarebbe conoscibile in quanto, sarebbe necessario che ciò che
noi pensiamo, esista per il semplice fatto che lo pensiamo, ma
anche ciò, non ci assicura che esiste davvero. Se poi fosse anche
riconoscibile non sarebbe comunicabile, poiché il linguaggio non
può tradurre altro che ciò che i sensi (vista, udito ecc.) rivelano,
che però è solo l’apparenza soggettiva esterna dell’essere,
20
III
* Sofisti e la Crisi
perciò non si può provare l’esistenza di ciò che non è, né
conosciuto né comunicato”
Di Gorgia va ricordato lo scritto “Encomio di Elena” nel
quale contro tutta la tradizione, difende a spada tratta la non
colpevolezza di Elena per il suo tradimento e la conseguente
guerra di Troia. Sia che essa si fosse invaghita di Paride per
volontà degli dei, o per una trappola delle circostanze, o per la
forza irrefrenabile della passione essa è comunque vittima del
caso o degli dei per cui non colpevole, essendo la vita non
guidata dalla logica ma dalle circostanze contingenti e dalle
passioni. Concludendo si può affermare che per Gorgia tutto è
falso perché su tutto domina il non essere, l’illusione e
l’apparenza.
Molti altri furono i Sofisti che dibatterono il tema del valore
delle leggi e della loro natura, ma a poco a poco con la crisi della
polis e di Atene in particolare, anche la sofistica entrò
inesorabilmente in crisi a causa delle tensioni negative cresciute
in se stessa, nate dalla esasperata speculazione di quei principi
innovatori che pure aveva introdotto, rivelatisi però capaci solo
di critica ai valori e alle credenze tradizionali, ma incapace di
suggerire soluzioni nuove per una convivenza effettivamente
praticabile.
Anche in ambito puramente filosofico non si seppero
sviluppare quelle intuizioni fondamentali, come l’autonomia del
logos (ragionamento), o la critica delle verità assolute, con la
necessità di rapportarle agli interessi veri e concreti dell’uomo, e
tutto cadde presto in una pura serie di futili e inutili paradossi e
insignificanti dispute verbali.
Sommario
21
22
IV
* Socrate
IV
Socrate
Socrate che pure nacque e visse in quegli anni di grande
fermento ebbe sempre una posizione di forte critica verso
l’esasperazione della sofistica e pur adottandone il metodo e il
tema si rifiutò di ridurre la sua analisi a pura retorica tentando di
andare oltre il relativismo gnoseologico (della conoscenza)
aiutando l’uomo a maturare le verità comuni cioè valide per tutti
e capaci di avvicinare gli uni agli altri . Il suo motto “Conosci te
stesso” è l’indice del modo di concepire la filosofia come esame
e ricerca in se stessi.
Busto di Socrate
Chi fu Socrate non si sa
con certezza, perché non
lasciò nessun scritto e ciò che
sappiamo è opera di scrittori
suoi
allievi
o
a
lui
contemporanei per cui ognuno
lo descrisse secondo la propria
sensibilità o interesse tanto
che alcuni, descrivendo con
occhio poco benevolo il suo
vissuto
quotidiano,
ne
sottolineò gli aspetti tutt’altro
che
esemplari
fino
a
identificarlo come un tipo, a
dir poco bizzarro e poco
raccomandabile,
che
di
lavorare non aveva gran
voglia
preferendo
vagabondare per la città
scherzando e chiacchierando
alla buona con bottegai e commercianti sempre pronto a far
baldoria, alzare il gomito e fare allegre scampagnate al
Partenone con i suoi allievi, si diceva avesse anche dei debiti.
Vestiva sempre con lo stesso chitone tutto sgualcito e rattoppato
sempre a piedi nudi sia d’estate che d’inverno e anche se invitato
nelle case signorili oramai nessuno più si meravigliava. Pure la
moglie Santippe che aveva sposato in età avanzata si lamentava
che non si lavava mai e che trascurava casa e famiglia e quando
questa, esasperata lo denunciò lui difese le buone ragioni di lei e
davanti ai suoi allievi indignati affermò che come moglie aveva
perfettamente ragione e che avrebbe meritato un marito migliore
di lui. Una volta assolto, riprese tranquillamente le sue abitudini
extradomestiche, come sempre frequentando il salotto
intellettuale di Aspasia e non solo ma anche bordelli di bassa
reputazione. Non risulta avesse frequentato scuola alcuna,
viaggiò molto poco fu certamente influenzato dall’insegnamento
di Anassagora attraverso Archelao suo maestro, quasi
sicuramente conobbe di persona Zenone dalla cui dialettica
attinse parecchio ma di altre conoscenze dirette con filosofi del
tempo descritti da Platone probabilmente non ve ne furono. Del
resto il metodo che Socrate adottò per la sua formazione
culturale fu esclusivamente la meditazione e la conversazione
con chiunque si trovasse a colloquiare, e i temi che si era
proposto di analizzare cioè cos’è il bene e qual è il regime
politico adatto a perseguirlo, escludeva per principio la
consultazione scolastica
Ciò non di meno da questa allegra brigata di compagni di
merende uscirono grandi come Platone, Aristotele, Euclide,
Aristippo, un avventuriero in politica come Alcibiade, perfino un
generale e storico come Senofonte.
Figlio di uno scalpellino, Socrate non si impegnò mai a
continuare il mestiere paterno preferendo ispirarsi al mestiere
23
IV
* Socrate
della madre che faceva la levatrice aiutando cioè i suoi
allievi a partorire giustizia e verità, almeno questo era il suo
intento.
Fino a circa quarant’anni non se ne sa nulla di lui, (nacque ad
Atene intorno al 470/69 a.c.) e solo intorno al 430 a.C. nella
commedia di Aristofane “le Nuvole”, una satira politica contro i
sofisti che in quel tempo spopolavano ad Atene, è menzionato
per la prima volta Socrate come il simbolo di un certo tipo di
intellettuale innovatore, sofista, anzi dei peggiori, che con i suoi
discorsi corrompe i giovani dabbene negando gli dei patri. Poi si
sa che partecipò alla campagna di Potidea, in Tracia, e ritornò ad
Atene nel 428 a.c. partecipò alla guerra contro i Beoti nel 424
a.c. ancora nel 422 combatte ad Anfiboli e nel 421 tornò ad
Atene, pare che in questi anni tra il 420 e il 415 a.C. sposò
Santippe dalla quale ebbe tre figli, nel 405 fu eletto membro del
Consiglio dei cinquecento e nel 404 a.C. si oppose a rischio della
vita al volere di Crizia capo del governo dei trenta
Fondamento della sua filosofia è la piena consapevolezza di
non conoscere nulla e quindi la necessità di porsi dinnanzi
all’oggetto da indagare ricercandone la verità e il bene di volta in
volta mediante l’analisi, la meditazione e il confronto. Per
rispondere a questa necessità, il metodo socratico si articola in
due parti; una distruttiva formata dall’ironia e una parte
costruttiva formata dalla maieutica, i due momenti si
comprendono e si implicano a vicenda. La maieutica è l’arte (il
mestiere) che la levatrice usa per aiutare le donne a partorire e
che similmente Socrate usa, con le sue domande pungenti,
stimolando il ragionamento, aiutano a portare alla luce la verità,
operazione questa però che costa fatica e sforzo, dovendosi
svolgere in comune, infatti diceva che la verità è di tutti, ma la
ricerca è dei singoli. Sotto l’incalzare del domandare Socratico:
Cosa è?…Che cosa intendi per?… Che significa ciò?…viene
24
IV
* Socrate
messo a nudo tutto il falso sapere e tutta la presunzione di
conoscenza costringendo a uno sforzo di ricerca e di analisi
profonda. L’ironia dunque è la messa in discussione delle
proprie certezze delle proprie convinzioni morali dei propri
pregiudizi. La maieutica è la parte costruttiva in cui con sforzo e
fatica attraverso la discussione è portata alla luce la verità quella
che ognuno ha ricercato e trovato in se stesso. Sottolinea
Socrate, ciò non è possibile a tutti, ma solo a chi è in stato di
gravidanza, cioè chi ha la capacità e il coraggio di ripensarsi, di
mettersi in discussione.
Per Socrate non c’è il bene e neppure il male acquisito ma
importante è il saper operare bene, rispecchiandosi negli altri e
ricercando ragionevolmente ogni volta verità e giustizia, con la
coscienza che la scelta fatta è la stessa che ogni uomo,
trovandosi nella medesima circostanza e a parità di condizione,
avrebbe operato. Si può immaginare che il suo modo di
comportarsi, un po’ insolente ed irriverente, a molte persone di
rango, non stava bene sentirsi messi in discussione, si fece
quindi dei nemici in coloro che vedevano in lui un pericolo per
l’ordine costituito.
Alcuni membri della classe dirigente Ateniese lo
denunciarono presso il tribunale, accusandolo di corrompere i
giovani, di non riconoscere gli dei della città e di averne
introdotti degli altri. La pena richiesta era la morte, e purtroppo
per Socrate il verdetto gli fu sfavorevole e venne condannato.
Si può ragionevolmente pensare che le ragioni vere della
condanna vadano ricercate al di fuori delle accuse medesime, in
un odio profondo che covava da tempo nei suoi confronti.
Socrate si era attirato un profondo risentimento e una
notevole ostilità personale da parte dell’elite Ateniese la quale
non sopportava più di essere criticati da un personaggio le cui
domande impertinenti e la grande popolarità che suscitava tra i
25
IV
* Socrate
cittadino comuni e i giovani, impediva loro di dormire sonni
tranquilli e fare gli affari loro, con in più i giovani che si
opponevano ai padri e alle vecchie tradizioni. A Platone, suo
allievo devoto, (che pure era presente) il processo deve essere
sembrato un’ingiustizia e un crimine contro la verità e disgustato
se ne andò da Atene per parecchi anni. Tutta la vita di Socrate al
servizio della filosofia per la ricerca della virtù e del bene, lo
troviamo concentrato nelle pagine “dell’Apologia di Socrate”
scritta alcuni anni dopo la morte, da Platone in ricordo del
maestro, essa racconta ciò che di quel processo gli era rimasto
impresso. Senza dubbio quest’opera fu scritta per essere
rappresentata e vista in chiave storica anche se filtrata da chi, tra
i suoi allievi fu il migliore. Ciò che emoziona nell’Apologia
sono le argomentazioni, i concetti, le idee e quella incrollabile
fede nelle leggi e nella giustizia che Socrate rivolgendosi prima
agli Ateniesi, poi ai giudici e agli amici esprime con una forza
morale tale che solo chi ha una forte coscienza della verità può
esprimere. Mi piace ricordare: rivolgendosi al pubblico presente
al processo “O cittadini Ateniesi, v’amo con tutta l’anima, ma
più che a voi vorrò obbedire al dio e fintanto che abbia respiro,
fin tanto che possa farlo non desisterò mai di occuparmi di
filosofia e dal dare consigli e dall’istruire chiunque di voi,
sempre che n’abbia occasione, parlando a voi come
soglio”…Rivolto a coloro che lo hanno accusato “Così ora io me
ne vado, condannato da voi; e loro, invece, dalla verità: io, alla
pena di morte , loro a rispondere di malvagità e d’ingiustizia. Io
starò alla mia pena essi alla loro. E forse bisognava che la cosa
andasse proprio così e credo che ognuno abbia avuto una giusta
mercede”…E rivolgendosi ai giudici “Ma anche a voi è
necessario o giudici guardare con fiducia alla morte e fermare il
vostro pensiero in questa verità sola, che ad un giusto non è
possibile accada male alcuno, né in vita, né dopo morte, perché
26
IV
* Socrate
su lui vigilano gli dei” Infine rivolto agli amici “Ma è già
l’ora di andare: io a morire, e voi, invece, a vivere. E chi di noi
vada a miglior destino, ignoto è a tutti, tranne che al dio”. Fino
al giorno della sua morte fu circondato da amici e allievi, per
tutti ebbe parole di consolazione.
Morte di Socrate
Von Humboldt diceva che gli uomini grandi e straordinari
sono quelli che incarnano un’idea e la portano a compimento. E
l’idea di fondo che Socrate ha portato a compimento consiste
nella scoperta dell’essenza dell’uomo e della correlata
fondazione della “filosofia morale”. E Camus asseriva “Perché
Sommario
27
IV
28
* Socrate
V
L’Influenza di Sparta
un pensiero cambi il mondo bisogna che cambi prima la vita
di colui che lo esprime. Che cambi in esempio.” E Socrate è stato
veramente l’“esempio”, un modello per eccellenza proprio come
lo vide e lo rappresentò Platone. Se ciò che scrisse sulla filosofia
socratica sia la verità storica noi non possiamo sapere né tanto né
poco ma è comunque, il ritratto più completo e convincente che
ci rimane. Restano comunque a noi le sue tesi generali: “il
conosci te stesso” “la vita senza ricerca non è degna di essere
vissuta dall’uomo” “l’ironia e la maieutica” “la via della virtù e
del sapere” “non so nulla se non il fatto di sapere che non so”.
Sotto la sua apparente modestia covava un orgoglio e una fede
profonda nella validità di ciò in cui credeva e insegnava.
Coraggioso com’era, il sacrificio della vita non gli parve gran
che, avendo intuito che con la morte si sarebbe assicurato per il
futuro il successo della sua missione. Dopo la sua morte, gli
allievi rimasero in pochi e le forze più giovani si dispersero, ma
la sua eredità non tardò a dare frutti copiosi perché proprio allora
la contemplazione filosofica raggiunse il suo massimo. Tra i
numerosi pensatori allievi di Socrate che si distinsero troviamo
nomi come Senofonte, Aristippo, Antistene e Platone che fu
senza dubbio il più grande di tutti.
Prima di affrontare il pensiero platonico credo sia utile
richiamare l’attenzione sulla civiltà Spartana che tanta influenza
ebbe nella maturazione della filosofia di Platone e dei secoli che
seguirono. Sparta ebbe una doppia influenza sul pensiero greco,
una come realtà e una come mito, l’una e l’altra ugualmente
importanti.
Fu la realtà della guerra che vinse contro Atene e il mito
delle sue leggi che influenzarono non poco i filosofi del tempo e
successivi
Sparta era la capitale della Laconia regione a sud est della
penisola del Peloponneso, abitata dai Dori, popolazione
dominante, proveniente da nord al tempo delle invasioni appunto
doriche che avevano sottomesso e ridotto in schiavitù le
popolazioni locali chiamati Iloti.
Occupazione principale e unica per legge degli spartani era
la guerra, mentre la terra che era suddivisa tra loro in lotti,
passava di mano da padre in figlio, pur rimanendo di proprietà
dello Stato. Il compito di coltivarla, trattandosi di un lavoro
considerato umiliante, era prerogativa degli Iloti i quali all’epoca
del raccolto versavano una certa quantità di derrate al padrone e
l’eccedente era trattenuto; per quanto riguarda l’aristocrazia
questa aveva delle tenute proprie.
Si è detto che per gli spartani la guerra era la principale
occupazione e allo scopo, già dai primi anni di vita venivano
inviati per l’addestramento in un'unica grande scuola fino all’età
di venti anni con l’obbiettivo di renderli arditi, sottomessi alla
disciplina e indifferenti alla sofferenza fisica. Dopo i venti anni
iniziava il vero servizio militare e solo dopo i trenta si diventava
un cittadino veramente libero. Era volontà dello Stato che ogni
cittadino non fosse né troppo povero né troppo ricco e
29
V * L’Influenza di Sparta
nessuno tenesse oro o argento tant’è che la semplicità
spartana divenne proverbiale.
Anche per le donne la vita era diversa da tutte le altre greche
del tempo e già da ragazze partecipavano all’addestramento con
i ragazzi, alla corsa, alla lotta, al lancio dei dardi allo scopo di
irrobustirsi per meglio sopportare la fatica della gravidanza e
partorire figli sani e robusti per lo Stato.
La costituzione spartana si pensa sia stata scritta da Licurgo
che formulò le sue leggi intorno al 885 a.C. In realtà il sistema si
formò gradualmente prima di altri e Licurgo, con ogni
probabilità, fu soltanto un personaggio mitico, ciò non di meno
Sparta acquistò presso gli altri greci una fama e un’ammirazione
sorprendenti se si pensa che dopo il VII secolo a.C. cessò di
contribuire alla civiltà e alla grandezza del mondo greco
cristallizzandosi in sé stessa
Il cittadino greco comune, percepiva Sparta come una città
d’altri tempi con gente semplice buona coraggiosa non guastata
dalla sfrenata ricchezza e, a un filosofo come Platone, che
indagava intorno alle scienze politiche, sembrava la società più
vicina all’ideale. La costituzione rimasta praticamente immutata
per secoli avrebbe permesso una straordinaria stabilità politica e
suscitato grande ammirazione nel resto della Grecia soggetta a
continue rivoluzioni e capovolgimenti. Tale risultato fu
indubbiamente in parte dovuto al pieno successo del loro
principale obbiettivo quello di aver creato una vera classe di
guerrieri che per un lungo periodo dominarono sul campo fino al
371 a.C., quando per mano dei Tebani furono sconfitti a Leuttra,
ponendo fine alla loro grandezza militare.
Naturalmente se la teoria fu molto apprezzata, la realtà
spartana era molto diversa almeno secondo alcuni storici e
scrittori, da Erodono ad Aristotele, che descrissero gli spartani
come uomini facilmente corruttibili, vendicativi ed avari non di
30
V
* L’Influenza di Sparta
rado il nemico di oggi diventava alleato nelle guerre
successive, ma forse ciò era per tutti così. Per quanto riguarda le
donne a loro era imputato di fare una vita libertina di ostentare
lusso e ricchezze in antitesi con la fama di donne caste, fedeli e
temperanti. Ciò che più di ogni altro, per i greci comuni,
risultava insopportabile era l’influenza che queste esercitavano a
vari livelli, sul potere politico ed economico, per cui i maligni
additarono in ciò, la riduzione quantitativa nell’impegno
procreativo.
Probabilmente tutte le critiche avanzate nei confronti della
legislazione, della cultura e della politica spartana hanno un
fondamento di verità, ma ciò che rimase nella mente della gente
per molti secoli fu la mitica Sparta delineata da Plutarco e
l’idealizzazione filosofica che ne fece Platone nella
“Repubblica”. Il mito di Sparta diffuso tra i lettori medioevali e
moderni, è soprattutto quello descritto da Plutarco: e fu proprio
verso i suoi scritti e al suo pensiero che, nel bene o nel male, si
indirizzarono, quegli uomini che dopo il Rinascimento si
aprirono alle libertà politiche, come i liberali inglesi e francesi
del XVIII secolo, come per i fondatori degli Stati Uniti, fino ai
romantici della letteratura tedesca. L’influenza che il mito
Spartano ebbe sulle opere di Platone, che è il vero motivo per cui
ne abbiamo accennato, lo si potrà vedere in seguito quando si
affronteranno i vari argomenti, anche se non bisogna
dimenticare, che sempre di mito si tratta.
Sommario
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VI
* Platone
VI
Platone
Platone nasce ad Atene intorno al 427 a.C. da famiglia
nobile e di antica origine, sembra risalente a Solone. In gioventù
conosce la filosofia eraclitea attraverso Cratilo suo maestro, ma
poi incontra Socrate e subito diventa suo discepolo, siamo
intorno al 407 a.C. Per varie vicissitudini di famiglia si trovò
implicato negli avvenimenti seguiti alla caduta di Pericle,
all’oligarchia di Crizia e la fine del governo dei trenta. La
restaurazione della democrazia condanna Socrate nel 399 a.c.
Tutto questo non v’è dubbio che lo sconvolse: si rifugiò prima a
Megara, poi a Cirene e infine in Egitto dove si applicò alla
matematica e alla teologia. Tornò poi ad Atene nel 395 ma di
nuovo si allontanò per andare a Taranto a studiare filosofia
pitagorica, e li conobbe Dione che lo presentò a Dioniso il
tiranno di Siracusa, ma questi non amava gli intellettuali e dopo
un furioso litigio lo scacciò dalla città, vendendolo come schiavo
a Egina.
Fu riscattato da Anniceri di Cirene per tremila dracme
rifiutandosi in seguito di farseli restituire dal filosofo che nel
frattempo le aveva raccolte tra gli amici; così usò quel capitale
per fondare l’Accademia la sua scuola. Quando a Siracusa andò
al potere Dioniso figlio, Platone viene di nuovo invitato per
collaborare alla costruzione della repubblica dell’Uguaglianza
che presupponeva un governo autoritario guidato da un refilosofo sulla falsariga di una nuova Sparta ma il tentativo fallì e
non se ne fece nulla; deluso ritornò ad Atene dove continuò ad
insegnare e a scrivere fino alla morte in tarda età. Forse il senso
della vita di Platone sta nel progetto unitario di congiungere in
un disegno unico potere e sapere, filosofia, scienza e politica.
Tutto nasce dalla traumatica esperienza della vicenda di
Socrate la cui morte è vista come un crimine commesso dalla
Città. Come ha potuto il Male vincere sul Bene, la Menzogna
sulla Verità, l’Ingiustizia sulla Giustizia? Cos’è allora la Verità,
il Bene, la Giustizia?, Esistono veramente, o sono solo parole
alle quali attribuire il significato che più conviene, come
volevano i Sofisti? Come queste, possano essere incarnati
nell’individuo e nella Città? Quando cioè è possibile definire
uno Stato buono, giusto e vero?
E’ rispondendo a queste domande che Platone porta avanti
un lavoro di fondazione, per una rinnovata filosofia che si
intreccia con i problemi etico-politici da un lato e scientifici
dall’altro, che sappia riassumere e nel contempo superare la
tradizione filosofica-culturale greca.
Il metodo che diede ai suoi scritti fu quello dialogante
tipicamente socratico: il protagonista principale è Socrate che
discute con i suoi interlocutori chiamando in causa
indirettamente il lettore che avrà la funzione di trarre le
soluzioni, “maieuticamente”. Pertanto, Socrate da persona
storica diventa personaggio, dando voce al pensiero dell’autore
stesso, cioè a Platone. L’altra peculiarità in Platone è il recupero,
unitamente con alcune tesi dell’orfismo e del pitagorismo, del
mito, con la funzione di evidenziare quanto anche la cultura
antica e mitica sia raggiungibile per via logica e scientifica.
La prima riflessione che affrontiamo su Platone è presentata nei
libri della Repubblica ed è illustrata con il famoso mito della
caverna nella quale è esposta la sua dottrina epistemologica.
Degli esseri umani vivono da sempre in una caverna seduti e
incatenati impossibilitati a girare la testa, lo sguardo fisso rivolto
verso la parete di fondo senza poter comunicare tra loro. Al di la
dell’ampio ingresso da dove entra la luce, che i prigionieri non
hanno mai visto direttamente, si muovono delle persone
affaccendate alle loro occupazioni che proiettano le loro ombre
sul fondo della caverna, per cui i prigionieri vedono solo le
33
VI
* Platone
ombre delle persone in movimento e naturalmente credono
che ciò sia la realtà del mondo. Ora immaginiamo che un
prigioniero riesca a liberarsi e a fuggire verso la luce e pur
rimanendone abbagliato, dopo un certo tempo di assuefazione,
vede direttamente i suoi compagni e la realtà di ciò che prima
vedeva solo come ombre mobili e si rende conto di quanto sia
stato ingannato fino a quel momento. Nella allegoria i prigionieri
sono coloro che sono privi della filosofia, della vera conoscenza,
per cui vedono solo le false apparenze perché impossibilitati alla
visione della luce della verità, a causa delle cattive abitudini e
delle passioni
Chi riesce con la perseveranza a liberarsi e a uscire dalla
grotta, che rappresenta il mondo sensibile, è invaso dalla luce
della filosofia e seppur dopo un momento di adattamento si
troverà ad apprezzare la vera realtà, il bene e percepirà in quale
inganno aveva vissuto e se filosofo, sentirà il dovere pressante di
rendere consci anche gli altri della verità, e mostrare loro la
strada per conseguirla. Naturalmente troverà molta difficoltà nel
persuaderli perché venendo dalla luce piena si muoverà con
difficoltà nella penombra della caverna e per questo apparirà agli
occhi dei prigionieri più stupido e ridicolo, poiché essi, abituati
da sempre alla penombra falsa dell’apparenza, negano la realtà
della luce e tributeranno onori a chi tra loro saprà meglio vedere
tra le ombre.
Il mito della caverna vuole focalizzare la necessità e
l’importanza fondamentale dell’educazione alla filosofia perché
essa sola è la sorgente della verità e del bene. Fondamentale per
Platone è il ritorno alla caverna come educazione per il filosofo
perché lo costringe a riconsiderare e a rivalutare il mondo umano
cioè delle ombre, alla luce di quanto ha acquisito fuori da esso,
cioè della verità. Solo quando si sarà abituato all’oscurità della
caverna conoscerà meglio dei compagni, la natura e i caratteri e
34
VI
* Platone
sarà allora pronto a dare ciò che di vero ha conosciuto: la
bellezza, la giustizia, il bene.
Ritornare alla caverna è mettere a disposizione della
comunità tutta la conoscenza acquisita sapendo che quel mondo,
per quanto inferiore, è il mondo che vale la pena illuminare ed è
quindi un dovere di giustizia per il filosofo obbedire al vincolo
che lo lega all’umanità.. Politici e governanti saranno capi ciechi
di cittadini ciechi finché resteranno legati al mondo delle ombre
dell’immaginazione, della credenza e del pregiudizio, credo che
fosse questo, ciò che Platone ha inteso insegnare con il mito
della caverna.
Se per le prime scuole filosofiche l’anima era considerata
aria, fuoco, o atomi ecc. per Platone l’anima è l’elemento più
prezioso in possesso dell’uomo, ed è distinta dal corpo anche se
può subirne qualche influenza. L’anima si compone di tre parti,
o funzioni, o principi, o forme: la parte razionale che rappresenta
la più alta facoltà è immortale e simile a dio è localizzata nella
testa; la parte coraggiosa è la più nobile, sebbene si trovi anche
negli animali, naturale alleata della ragione è localizzata nel
petto, la parte concupiscibile rappresenta i desideri del corpo e si
trova nel ventre.
Per meglio comprendere il concetto e la sua natura Platone
crea il “ mito dell’auriga”. Questa (l’anima) è simile a una
coppia di cavalli alati guidati da un auriga raffigurante
l’elemento razionale.Il primo cavallo è buono e rappresenta il
coraggio, la modestia, l’onore ed è naturale alleato della ragione;
l’altro è bizzarro focoso e difficile da domare e rappresenta
l’elemento istintivo. Il cavallo buono obbedisce con facilità agli
ordini dell’auriga il quale indirizza il carro verso il cielo e verso
la regione della “vera sostanza” che è l’oggetto della scienza e
può essere contemplata da quella guida dell’anima che è la
ragione.
35
VI
* Platone
Ma questa sostanza che comprende la totalità di tutte le idee
può essere contemplata solo per poco a causa dell’altro cavallo
che tira verso il basso e ubbidisce principalmente all’istinto e
deve essere tenuto a freno con la frusta. L’anima dunque riesce a
contemplare la sostanza dell’essere in misura maggiore o
minore; quando questa si appesantisce perde le ali e s’incarna, va
a vivificare il corpo di un uomo che sarà tale quello che essa lo
rende, secondo che abbia ammirato di più o di meno la sostanza
L’anima umana, che per sua natura è immortale in quanto
ingenerata, è, come le idee, invisibile e quindi presumibilmente
anch’essa indistruttibile e come tale ha il principio della vita,
partecipando della quale non può morire col corpo, ma
all’avvicinarsi della morte si stacca e si allontana senza subire
danni e conservando la sua intelligenza. Infatti movendosi da sé
può viaggiare e reincarnandosi in altri corpi (metempsicosi)
percorrere tutti i gradi della gerarchia fino a giungere alla
bellezza suprema.
L’anima incarnata risveglia il ricordo della vera sostanza
proprio con la bellezza, che per la sua luminosità è riconosciuta
subito dall’uomo, essa si fa mediatrice tra questi e il mondo delle
idee e al suo richiamo l’uomo risponde con l’amore. E’ la
volontà di imparare che crea tra l’uomo e l’essere in sé e tra gli
uomini associati nella comune ricerca, un rapporto che impegna
la volontà nella sua totalità. Questo rapporto è definito da
Platone come amore (Eros).
Solo se l’amore non richiede di rimanere attaccato alla
bellezza corporea, pretendendone di godere solo di essa, è
realizzato e sentito nella sua vera natura, allora l’Eros si fa guida
dell’anima verso il mondo dell’essere e in questo caso, i suoi
caratteri passionali non vengono meno ma sono subordinati e
fusi nella ricerca rigorosa dell’essere in sé, l’idea. L’Eros diventa
allora procedimento razionale di convincimento, dialettica. La
36
VI
* Platone
dialettica è la vera arte della persuasione, la vera retorica, che
non è una tecnica alla quale sia indifferente la verità come
volevano i Sofisti, ma scienza dell’essere in sé, e scienza
dell’anima e come tale distingue le varie specie dell’anima e per
ognuna trova la via appropriata per persuaderla e condurla
all’essere.
Platone sintetizza il concetto in: “l’amore desidera qualcosa
che non ha, ma del quale ha bisogno, ed è quindi mancanza;
come tale desidera la bellezza che non ha, aspira alla sapienza
che non possiede quindi è filosofo mentre sapienti sono solo gli
dei”.
L’amore è desiderio di bellezza, la quale rende felici.
L’uomo che è mortale desidera rigenerarsi nella bellezza, che
è l’oggetto dell’amore, lasciando dopo di sé un essere che gli
assomigli. L’Eros si esprime in diversi caratteri subordinati e
accessori dell’amore: si rivolge ai corpi, alle anime, o come
forza cosmica, determina l’armonia e la proporzione di tutti i
fenomeni sia umani che celesti. Naturalmente anche la bellezza
ha diversi gradi ai quali l’uomo può sollevarsi attraverso un
lungo cammino, che passa dall’amare un bel corpo, a quello
dell’amore per la bellezza materiale, l’amore per la bellezza
delle istituzioni, delle leggi, delle scienze e al di sopra di tutto,
l’amore per la bellezza in sé, che è eterna, perfetta, sempre
uguale a se stessa e fonte di ogni altra bellezza.
Uno degli argomenti più discussi e studiati di Platone è
sull’origine dell’universo, la cosmogonia. Questo tema viene da
lui proposto nel Timeo uno delle opere più studiate e che hanno
maggiormente influenzato filosofi e studiosi successivi. Timeo
quale astronomo pitagorico, conoscitore delle leggi che
governano l’universo, all’inizio della sua riflessione si pone
delle domande: “Cos’è ciò che è sempre ma non ha origine?” E
di seguito: “cos’è ciò che diviene sempre ma non è mai?” Il
37
VI
* Platone
primo, è il mondo delle idee sempre uguale a se stesso e lo
si può conoscere solo tramite la ragione e il pensiero razionale; il
secondo è il mondo materiale, sensibile, soggetto al divenire,
sempre in trasformazione a causa del suo nascere e perire,
quindi conoscibile solo come opinione probabile, verosimile, ma
non assolutamente scientifica.
Posta questa premessa se ne deduce che l’universo ha avuto
una nascita, infatti è visibile ha una consistenza corporea è
percepito dai sensi e avrà un divenire, ciò necessariamente è
dovuto ad una causa. L’Artefice, probabilmente, (così dice
Timeo) fece tutto ciò perché era buono, non conosceva invidia
ed essendo libero da essa, volle che tutto nascesse simile a lui,
secondo il suo modello che è eterno, in forma però sensibile e
visibile, dando ordine, forma e potenza alla materia che aveva a
disposizione, ma che si muoveva con grande disordine.
Pensò fosse meglio dare alle cose l’intelligenza e mise
questa nell’anima perché la guidasse. Perciò il mondo è stato
plasmato dal Demiurgo guardando al modello eterno delle idee,
dotato di corpo anima e intelligenza in modo che l’opera si
mostrasse ottima e bellissima. Affinché fosse simile a lui anche
nell’unicità egli lo creò come un unico essere che racchiudesse al
suo interno tutte le singole specie conoscibili, a lui naturalmente
affini e questo fu l’unico cielo esistito, che esiste e che esisterà.
Lo fece come un globo perché l’uguale è migliore del
disuguale e solo la sfera ha la medesima forma in ogni sua parte;
le diede il movimento rotatorio perché è il più perfetto e l’unico
moto che non ha bisogno di mani o gambe per spostarsi.
Volendo renderlo ancora più somigliante all’ideale che è eterno
il Demiurgo generò il tempo quale mobile immagine
dell’eternità, che con il suo succedersi di giorni, mesi e anni ne
riproduce l’ordine immutabile.
Il cielo e il tempo ebbero inizio nello stesso istante e con il
38
VI
* Platone
movimento degli astri e il succedersi dei giorni e delle notti
si posero le premesse perché gli animali avessero la cognizione
del tempo e la nozione del numero e si potesse così imparare
l’aritmetica e da questa derivò la filosofia. In questa parte è da
notare l’evidente formulazione della struttura del cosmo in forma
pitagorica, infatti la sua costruzione risulta essere di tipo
matematico e gli elementi saranno poi ridotti a poche figure
geometriche essenziali che sono poi rese a loro volta in numeri i
quali saranno gli schemi strutturali del mondo, “la sintassi del
mondo” cioè il codice di interpretazione di ciò che esiste.
La “teoria delle forme o idee” da Platone è così precisata:
“l’oggetto della vera conoscenza deve essere permanente,
immobile, frutto dell’intelligenza e deve comunque riferirsi agli
oggetti reali”
Egli afferma che quando una pluralità di oggetti individuali
ha un nome comune, questa ha una corrispondenza con un’idea.
Il Bene, il Vero, il Bello sono essenze in sé trascendenti e fonte
dei nostri concetti e le accomuna “nell’Idea del Bene”. Per Idea
intende ciò a cui il pensiero si rivolge quando pensa, cioè
qualcosa che è, e non solo una rappresentazione mentale, essa è
la forma interiore, l’essenza stessa della cosa. Con la dottrina
delle Idee Platone si contrappone almeno a due forme pericolose
di relativismo quello sofistico-protagoreo che facendo del
soggetto il criterio e la misura di verità delle cose riduce ogni
azione o realtà a qualcosa di puramente soggettivo; e quello
eracliteo che proclamando la perenne mobilità di tutte le cose
rende inafferrabile, intelleggibile e inconoscibile ogni cosa
perché se tutto muta e nulla sta fermo non è possibile nessuna
conoscenza e ogni giudizio sarebbe privo di senso.
Egli afferma che l’Idea è stabile, è assoluta, non è
manipolabile a piacimento attribuendo ad essa gli stessi caratteri
Parmenidei, è in sé e per sé, è semplice e imperitura ed è sempre
39
VI
* Platone
identica a se stessa, si distingue dalle cose sensibili, che
però, di essa partecipano Platone attribuisce alcune
determinazioni fondamentali alle idee: 1° le idee sono gli
“oggetti” specifici della conoscenza razionale; come tali sono
enti o sostanze nettamente distinte dalle cose sensibili, per
poterle esaminare, occorre che l’anima sia distolta dall’indagine
fatta con gli occhi, superando l’ostacolo dei sensi, in modo che si
possa concentrare e raccogliere tutta l’attenzione sull’essere in
sé, in questo distinguendosi nettamente dai Sofisti che fermano
l’analisi alle sole apparenze, ponendo l’idea, l’essere in sé, come
oggetto proprio della ragione.
Busto di Platone
40
VI
* Platone
2° Le idee sono “criteri” di giudizio delle cose naturali; per
giudicare se due cose sono uguali ci serviamo dell’idea
uguaglianza che è perfetta ed a questa, si adeguano i giudizi
verso gli uguali sensibili che sono più o meno imperfetti, ecco
che allora le idee stesse diventano criteri di valutazione ed esse
stesse valori.
3° Le idee sono “causa” delle cose naturali; per spiegare questa
dottrina Platone si rifà ad Anassagora vale a dire: l’Intelletto è la
causa ordinatrice di tutte le cose, pertanto, riconosce alla
Ragione, all’Idea, la supremazia nel creare l’ordine alle cose e
quindi, essendo questa “l’ottimo e l’eccellente” non può essere
che lei la causa delle cose stesse. In conclusione le idee sono nel
contempo criteri di valutazioni e causa delle cose naturali,
nell’una e nell’altra loro funzione sono le ragioni delle cose.
Diversi sono i tipi di idee, idee-valori, che sono i supremi
principi etici, estetici o politici, idee-matematiche corrispondenti
alle entità di tipo matematico e geometrico, il quadrato, il
cerchio, il numero, ecc; nella realtà noi non troviamo mai
l’uguaglianza perfetta di cui parla la matematica, ma solo copie
imperfette, ma esistono anche le Idee corrispondenti a ognuna
delle realtà.
Platone afferma che le idee sono l’oggetto di studio per la
scienza, come la verità, che non può essere raggiunta con i sensi
ma solo con la ragione, la quale sola sa coglie le cose come
realmente sono, mentre ciò che cade sotto l’analisi dei nostri
sensi sono oggetto del divenire, “l’opinione”, che sta in mezzo
tra la conoscenza e l’ignoranza. Opinione e Scienza
costituiscono l’intero campo della conoscenza umana. Il fatto
che un uomo possa giudicare di cose più o meno uguali, belle o
meno belle, implica la conoscenza di un modello, (ecco la
reminiscenza, una prova dell’immortalità dell’anima) che è la
bellezza assoluta, cioè l’idea-valori della Bellezza. Nella loro
41
VI
* Platone
molteplicità le idee costituiscono un ordine gerarchico
piramidale con le idee-valori in cima e l’idea del Bene al vertice
che è il Valore supremo e la Perfezione massima di cui le altre
idee sono imitazione e riflesso.
E’ con l’educazione che l’uomo passa dalla considerazione del
mondo sensibile al mondo dell’essere, per andare gradualmente
a scorgere il punto più alto dello stesso, che è il Bene. Il Bene è
paragonato al sole che rende gli oggetti tutti visibili e quindi
fonte del loro valore e della loro bellezza e sorgente di vita per
ciò che sulla terra vive. A preparare l’uomo alla visione del Bene
contribuiscono le scienze che hanno per oggetto quegli aspetti
dell’essere che sono più vicini al bene: L’aritmetica, la
geometria l’astronomia, la musica.
Tutti i temi fondamentali riguardanti lo Stato ideale, il
modello al quale ogni Stato dovrebbe cercare di conformarsi è
delineato da Platone nella Repubblica. Egli è profondamente
convinto che la politica è una scienza, che l’uomo di Stato deve
sapere che cos’è lo Stato, quale è il principio fondante e quali
sono gli scopi di una comunità politica. Lo Stato esiste per
sopperire alle necessità degli uomini i quali necessitano di aiuti e
di cooperazione. Il luogo che meglio si presta per tutelarsi da
elementi negativi esterni è la città. Il principio fondante, valido
per i cittadini e per lo Stato è la Giustizia.
Nessuna comunità umana può sussistere senza Giustizia, la
quale è condizione fondamentale della nascita e della vita dello
Stato. La città ha anche uno scopo economico, è centro di
scambi e di commerci e il luogo dove si svolge principalmente la
vita associativa culturale e politica. Ogni individuo, per diverse e
differenti doti naturali e individuali, può concorrere per servire la
comunità nelle diverse occupazioni a lui più congeniali. Si
vengono a delineare così le tre classi sociali che compongono lo
Stato e a ognuna di queste corrispondono le tre parti dell’anima
42
VI
* Platone
dell’uomo.
Alla classe dei governanti o Reggitori, la cui virtù è la
sapienza, appartengono quelle persone che più di altre hanno
saputo contemplare e conoscere il Bene, le loro virtù sono la
sapienza e la saggezza, ciò è sufficiente perché tutto lo Stato sia
saggio.
La seconda è quella dei guerrieri o custodi, nei quali prevale
la parte irascibile o volitiva dell’anima, a questa appartengono
uomini in cui prevale la forza, il coraggio e la disciplina, pronti a
intervenire nella difesa dai pericoli interni e esterni secondo
necessità e a controllare che ognuno compia il proprio dovere.
Infine la terza classe in cui negli uomini prevale la parte
dell’anima concupiscibile, formata da mercanti, contadini,
artigiani ecc. è quindi la classe di tutta la popolazione dedita alle
arti e mestieri, essa è buona quando, vi predomina la
temperanza, la quale comanda con la disciplina sui piaceri e i
desideri materiali e sa creare, custodire e amministrare le
ricchezze e i beni, che non dovranno essere né pochi né troppi e
sottomettersi in modo conveniente alle classi superiori. La
Giustizia comprende tutte tre le classi e si realizza in ciascun
cittadino, che attende ai compiti propri che gli competono,
perché questi sono parimenti importanti e necessari per la
comunità. Essa garantisce l’unità e la forza dello stato, ma anche
l’unità e l’efficienza dell’individuo.
Per attuare la Giustizia nello Stato sono necessarie due
condizioni, la prima è l’eliminazione della ricchezza e della
povertà che rendono impossibile all’uomo attendere al proprio
compito. Per Platone le due classi superiori quella dei governanti
e dei guerrieri non devono possedere nulla né avere compenso
alcuno al di fuori del necessario per vivere; i mezzi di
produzione e di distribuzione sono lasciati nelle mani di chi già
li possiede, anche per gli artigiani vale il diritto di proprietà.
43
VI
* Platone
La seconda condizione è l’abolizione della vita famigliare,
dovuta alla partecipazione a pieno diritto alla vita pubblica della
donna, in perfetta uguaglianza con gli uomini, a parità di
condizione e capacità. I rapporti uomo donna sono stabiliti dallo
Stato secondo necessità e i figli vengono allevati e educati dallo
Stato che diventa tutto una grande famiglia.
Queste sono le due condizioni che rendono possibile uno
stato secondo Giustizia, sempre che la guida sia posta nelle mani
dei filosofi. In questa situazione ideale, la Giustizia diventa una
disposizione intima dell’anima per cui ognuno svolge il proprio
mestiere nell’interesse generale e per il bene di tutta la comunità.
Far parte di una classe non è una condizione di sottomissione o
di privilegio ma dipende dalla propria indole, per di più vi è la
possibilità di passaggio in altre classi. Il lavoro non è visto come
fatica, dolore, schiavitù o sfruttamento a favore della classe
dominante e ciò perché ai reggitori e ai custodi è vietato il
possesso di ogni proprietà privata anzi il loro titolo di comando è
dato dall’assenza di ricchezza. Risulta evidente che lo stato
teorizzato è l’aristocratico il cui governo guidato dai migliori è
quello che appare il più perfetto
Le altre forme di stato sono quindi degenerazioni di questa e
sono in ordine decrescente secondo l’ideale: la Monarchia
governo di uno solo fondato sull’onore e sul prestigio conseguito
con la proprietà di vasti territori. Oligarchia governo di pochi
fondato sul censo in cui comandano i ricchi. La democrazia
governo di tutti fondato sulla libertà di ognuno di proporre ciò
che vuol fare. Infine la peggiore è la Tirannide governo di uno o
più uomini fondato sulla conquista del potere con la forza e la
violenza, molto spesso a seguito di un governo democratico
guastato dall’eccessiva libertà.
Il modello di Stato ideale proposto da Platone risulta
evidentemente in molte parti fortemente criticabile soprattutto ai
44
VI
* Platone
nostri giorni ravvisando, per alcuni filosofi e studiosi
moderni, un modello di comunismo platonico per alcuni e un
totalitarismo fortemente autoritario per altri, fino a voler (K.
Popper) considerare Platone come il maggior teorico di una
società chiusa, autoritaria e dispotica fondata sulla premessa di
una verità assoluta che viene imposta con la forza a coloro che
non intendono riconoscerla.
Abbiamo parlato precedentemente di uomini di Stato e delle
qualità specifiche che questi debbono possedere: Platone addita
questa qualità nella “misura”, cioè la capacità di evitare
l’eccesso o il difetto, ma cercare e trovare la giusta via di mezzo.
In questa fase di ricerca e in particolare con l’opera le
“Leggi”, Platone corregge alcune posizioni espresse in
precedenti scritti riconoscendo che anche uno Stato ben ordinato
deve essere guidato dalle leggi, compito delle quali è
promuovere le virtù, non solo il coraggio, perché tutte sono
necessarie alla vita dello Stato. La Legge deve avere
principalmente una funzione educativa nei confronti della
comunità, correttiva e di indirizzo nei confronti degli individui,
essa trova un sostegno fondamentale nella religione come forza
di coesione sociale e stabilità politica tanto, da giudicare
l’ateismo come un cancro per la comunità politica. Rispetto alla
“Repubblica” si notano altre diversità non trascurabili: non esiste
più la rigorosa suddivisione in classi; anche i filosofi non sono
più i reggitori unici; il governo diventa un misto di aristocrazia e
di democrazia anche se rimane un forte controllo statale; viene di
nuovo ammessa la famiglia e la proprietà privata; la classe dei
guerrieri viene sostituita da una milizia cittadina. Con questa
nuova impostazione dello Stato, Platone riconsidera criticamente
l’educazione statale dorica, che fino ad allora non aveva
disdegnato come modello.
Il suo dissenso si volge verso quella virtù “il coraggio” che,
45
VI
* Platone
se solo, diventa politica di guerra e di conquista,
danneggiando sia la città che l’individuo, per cui l’arte del
governo, va indirizzata anche verso le altre virtù. La politica
diventa educativa e quindi “esercizio di virtù”, che, regolata
dalla legge, viene custodita per essere rispettata e divulgata. La
legge diviene il presidio della vita Statale, dato che sono i vizi
interni e l’uso improprio unilaterale della libertà e dell’autorità,
che conducono lo Stato alla rovina e non tanto la potenza e la
forza degli altri Stati.
In tale situazione diventa allora necessaria una costituzione,
che contemperi le opposte esigenze e assicuri uguaglianza e
obbedienza alla legge e comuni diritti dinanzi allo Stato e ciò,
si ha quando i governanti sono i servitori della legge, ed hanno il
dominio del dio come fondamento, prescindendo dalla
superstizione e dall’indifferenza. Con questo ultimo scritto,
Platone ha dato una svolta di grande realismo alla sua opera,
rendendo lo Stato più vicino alla possibilità concreta di
attuazione, in contrasto con l’ideale morale e speculativo
precedente, nel quale spesso la formulazione di Stato perfetto era
apparsa irrealizzabile, illusoria e innaturale. Non occorre che uno
Stato come quello delineato da Platone, sia storicamente e
concretamente realizzabile: il filosofo ha inteso prospettare un
esempio per guidare l’uomo di Stato a vivere in conformità con
esso, conscio che la politica è scienza e chiunque voglia operare
per lui nella Giustizia, deve rivolgere lo sguardo verso tale
modello. E’ difficile pensare ai nostri giorni, che un simile stato
si realizza, ma a quei tempi una tale Repubblica forse si poteva
realmente costituire. Molti dei regolamenti, che ai nostri occhi
possono sembrare del tutto inattuabili, erano già da tempo in
vigore a Sparta, in precedenza già Pitagora aveva tentato il
governo dei filosofi.
Quando Platone venne a visitare la Sicilia e l’Italia
46
VI
* Platone
meridionale, a Taranto il filosofo pitagorico Archita aveva
una notevole influenza politica. Le colonie a quei tempi, erano
libere dal controllo della madre patria e per un gruppo di
platonici sarebbe stato molto facile fondare una loro città Stato
magari sulle coste della Spagna o della Gallia. Sfortunatamente
per Platone il caso lo condusse a Siracusa in un momento di
disperate guerre con Cartagine e in tale situazione un filosofo
non poteva certo ottenere grandi risultati.
D’altra parte, solo una generazione dopo con il sorgere della
potenza Macedone di Filippo, tutti i piccoli Stati si resero inutili
e antiquati mettendo in luce, la futilità della costituzione in
miniatura prospettata da Platone, per cui anche volendo non si
ebbe più la possibilità né di sperimentarla né di attuarla.
Sommario
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48
VII
* Aristotele e Alessandro
VII
Aristotele e Alessandro
La crisi istituzionale delle polis, causata dalla crescente
importanza della Macedonia di Alessandro, provoca nel cittadino
Ateniese la perdita della passione politica, sentendosi oramai
inglobato suo malgrado in un organismo in cui non recita più da
attore ma solo da spettatore. E’ in questo mutato clima politico
che la filosofia Aristotelica, rivolgendo la sua attenzione
soprattutto verso temi metafisici e conoscitivi, trova lo spazio
nel nuovo e differente tessuto socio-politico.
Aristotele nacque a Stagira in Tracia intorno al 384-383
a.C. entrò come allievo nella scuola di Platone all’età di 17 anni
e vi rimase per una ventina di anni fino alla morte del maestro
intorno al 348-347. Lasciata l’Accademia accompagnato da
Senocrate si reca ad Asso nella Troade dove esisteva una
comunità filosofico-politica e li rimase per tre anni, dopo di che
per vari motivi si reca a Mitilene e ci rimane probabilmente fino
al 342, quando è chiamato da Filippo Re di Macedonia per
educare il figlio Alessandro. In questo periodo di permanenza tra
Asso e Metilene, inizia il suo distacco dalla dottrina del maestro
e compone il primo dialogo “Sulla Filosofia” nel quale avanza la
critica alle idee-numeri.
Come maestro di Alessandro, che allora aveva 13 anni,
certamente ebbe grande influenza formativa, alimentando la
speranza di unificazione di tutta la Grecia, convinto della
superiorità della sua cultura e della possibilità di dominare il
mondo con una forte unità politica.
Come educatore si possono invece avanzare seri dubbi sulle
sue capacità, visto il poco edificante carattere dell’allievo
arrogante, crudele, vendicativo, ambizioso, che probabilmente,
mal sopporta sia la scuola sia il maestro e verso il quale, è
possibile immaginare, nutre la poco consolante nomea di
vecchio pedante, messogli a guardia dal padre, con il quale ha
forti dissensi, nella speranza di impedirgli di combinare guai.
Quando Alessandro è nominato reggente (340 circa)
abbandona gli studi (16 anni) e inizia la carriera militare con
grande successo e alla morte del padre gli succede sul trono
(aveva 20 anni). Proseguendo l’opera di espansione oltre i propri
Alessandro Magno
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VII
50
* Aristotele e Alessandro
confini, pensò all’unificazione dei popoli orientali e ne
adottò le loro forme di sovranità e di governo.
Fu allora che Aristotele ritenendo ultimato il suo compito di
educatore, lascia la Macedonia e ritorna ad Atene (335 circa)
dove fonda il “Liceo” la sua scuola, celebrato come maestro di
vita spirituale, scienziato e filosofo. Alla morte di Alessandro nel
323 seguirono dei rivolgimenti politici nei quali fu coinvolto
come partigiano del re e per evitare guai peggiori fugge da Atene
e rientra in Eubea patria della madre e qui rimane fino alla morte
avvenuta poco dopo quella del suo protettore, all’età di 63 anni
nel 322-321 a.C.
La filosofia di Aristotele risente di questo clima politico
oramai mutato e la sua attenzione è rivolta soprattutto verso temi
etici e conoscitivi e non più connessi con la partecipazione attiva
della vita politica. Rispetto alla filosofia di Platone egli lascia
cadere l’elemento mistico-religioso derivante dall’orfismo
rendendo il discorso filosofico più rigido e mostrando maggior
interesse per le scienze naturali che per la matematica,
diversamente dal maestro, che presenta un discorso sempre
aperto inteso come ricerca continua senza fine.
Aristotele dà una sistemazione rigorosa alle acquisizioni
raggiunte dal pensiero, tende cioè ad una classificazione, sia dei
temi che dei problemi secondo la natura, con criteri atti a
risolvere tali differenti questioni e dando, per primo, l’avvio ad
un sistema di analisi ben delineato in ogni sua parte: logica,
fisica, metafisica, politica, psicologia, etica, ecc. Anche il
filosofo è visto solo come scienziato e professore dedito alla
ricerca e all’insegnamento, in antitesi al filosofo “platonico”
legislatore e reggitore di Stato-città.
Riguardo la sua visione globale del mondo, egli lo intende da
una prospettiva orizzontale, diviso in settori “regioni” ognuna
con la propria regola e il proprio metodo. Aristotele distingue le
VII
* Aristotele e Alessandro
scienze in: pratiche, poietiche, teoretiche. Le scienze pratiche
riguardano le azioni che iniziano e terminano nel soggetto stesso
e sono le azioni morali, l’etica. Le poietiche riguardano le azioni
che iniziano nel soggetto ma producono il loro effetto fuori da
esso come le arti, i mestieri ecc. Le scienze teoretiche che non
riguardano ne l’azione, né la produzione, ma la contemplazione;
esse sono: la fisica che studia la sostanza sensibile, il
movimento, la forma, ecc.; la matematica che considera le
lunghezze e i piani nella loro quantità; la metafisica che studia
l’essenza ultima ed è quindi la scienza divina.
Nella classificazione delle scienze, Aristotele non colloca la
logica, in quanto non è scienza sostanziale, ma fa parte della
cultura generale che ognuno deve possedere prima di ogni altra
scienza quindi, è lo strumento che ogni persona che voglia fare
della scienza deve esserne fornito, essa è, tecnica dimostrativa,
per l’introduzione al ragionamento corretto. La logica è analisi
del pensiero che pensa la realtà, la riproduce concettualmente in
sé e nel giudizio vero, formulando asserzioni verificabili nel
mondo esterno. In sintesi, per Aristotele, è un’analisi del
pensiero umano nel suo rapporto con la realtà, benché egli
ammette che, non tutte le cose esistono nella realtà extra
mentale, nella stessa forma in cui, il pensiero le concepisce. I
modi con cui noi pensiamo le cose in forma logica sono le
“categorie”, che Aristotele ha individuato in dieci, ma esse sono
nel contempo i modi secondo i quali le cose esistono
effettivamente.Esse sono:
Sostanza:
Quantità:
Qualità:
Relazione
Luogo
uomo, cavallo, ecc…
lungo, grande, ecc…
bianco, di che cosa è…
di chi, maggiore ecc…
nel tal posto ecc…
51
VII
* Aristotele e Alessandro
Tempo
Stato
Possesso
Attività, l’Agire
Passività, il Subire
l’altro giorno, ieri,ecc…
in piedi, giace, ecc…
con scarpe, ecc…
taglia, brucia ecc…
è tagliato, è bruciato ecc…
Questo elenco di categorie, o predicati, o attributi, che
costituisce un piano ordinato dei tipi fondamentali di concetti
che regolano la conoscenza scientifica, è una classificazione dei
modi con cui noi pensiamo l’essere in quanto è realizzato. Le
categorie hanno quindi sia un aspetto logico che un aspetto
ontologico, (nella sua totalità, nei suoi principi primi della realtà)
in quanto un essere non può esistere solo come sostanza pura,
ma necessariamente deve essere comprensivo anche di predicati.
Per es. un cigno non è solo “sostanza” ma ha quantità, ha qualità
(colore) ha uguaglianza o diversità rispetto ad altri cigni o ad
altre sostanze, si trova in qualche posto necessariamente in un
certo tempo preciso, in un determinato stato e agisce o subisce
un’azione. Risulta chiaro che i predicati sono i supremi generi ai
quali viene rapportato ogni termine risultante dalla
scomposizione della proposizione (immagine o pensiero).
Per Aristotele, il ragionamento tipico è quello deduttivo
cioè il sillogismo: un discorso in cui poste alcune affermazioni,
necessariamente ne conseguono altre. Un sillogismo è un
ragionamento che si compone principalmente di tre parti, una
premessa maggiore, una premessa minore e una conclusione.
Nelle due premesse compare sempre il termine medio, che è
quello che stabilisce il rapporto di assegnazione di entrambi i
termini da confrontare, e mai nella conclusione. Es. trovare un
termine “medio” tra Socrate e mortale. Esaminando tra le
categorie che si possono riferire al soggetto Socrate e i soggetti
cui spetta l’attributo mortale, si trova il termine uomo
52
VII
* Aristotele e Alessandro
che è presente in entrambi i casi. Infatti si può enunciare
che: ogni uomo è mortale e si può dire che Socrate è un uomo,
da ciò ne consegue che “Socrate è uomo mortale”. Nell’esame
della teoria del sillogismo mi fermo qui, confessando se mai ce
ne fosse bisogno, la mia scarsa formazione intellettuale, per non
averne ben compreso, né l’importanza, né l’utilità, né la
praticità. Non mi conforta in questo, ma mi consola, il giudizio
di un grande filosofo del novecento B. Russell che a proposito
della dottrina formale del sillogismo diceva che “nella pratica,
non ha importanza alcuna e chi oggi desideri imparare la logica,
perderà il suo tempo leggendo Aristotele o i suoi discepoli”
Aristotele
Per Aristotele la
filosofia
essendo
scienza
obbiettiva,
deve
organizzarsi
conformemente
con
tutte le altre scienze
avendo
però
un
oggetto proprio che la
caratterizzi
rispetto
alle altre scienze e nel
contempo le dia il
primato che le spetta.
Proprio per rispondere
a questa necessità
Aristotele affronta la
sua
Metafisica
prospettando due punti
di
vista
che
si
intrecciano nell’analisi
dell’oggetto, segnando
due tappe
stampa
53
VII
* Aristotele e Alessandro
fondamentali dell’evoluzione filosofica aristotelica. La
prima è la scienza che ha per oggetto l’essere immobile e
trascendente, il motore o i motori dei cieli, ed è quindi teologia,
che studia la realtà più alta, quella divina. Ma questa sola
filosofia così intesa, manca di universalità, venendo meno al
compito di costituire il fondamento della casa delle scienze nel
loro insieme e di giustificarne l’interesse rivolto alla ricerca
verso qualsiasi oggetto.
Nasce così l’esigenza, che introduce al secondo punto, di
indagare tutta la realtà nella sua molteplicità, che si concretizza
nell’aspetto globale e omnicomprensivo, e non solo di una realtà
particolare (la teologia) anche se la più elevata. L’insieme
dell’essere è diviso in singole scienze, ognuna delle quali
considera un aspetto particolare di esso, ma è solo la filosofia
che considera l’essere nella sua totalità tralasciando tutte le
particolarità, quindi è questo l’oggetto nella sua universalità, alla
base della ricerca metafisica, questa è la risposta alla domanda
posta all’inizio.
Penso che la vera scoperta di Aristotele, sia stata l’aver
posto in primo piano la “scienza dell’essere in quanto essere”,
consentendo non solo di giustificare il lavoro delle singole
scienze ma dando alla filosofia, la piena autonomia e la massima
universalità, presupposto indispensabile di ogni ricerca, non più
soltanto come teologia, ma divenendo questa soltanto una sua
parte.
La metafisica è la scienza del perché ultimo di tutte le
cose, delle ragioni supreme è perciò scienza superiore a tutte le
altre, è la conoscenza delle ragioni o dei principi che fondano la
realtà e l’essere nella loro totalità. La superiorità della
metafisica, secondo Aristotele si esprime non perché serve a
qualcosa, ma paradossalmente, proprio perché non serve a nulla
in particolare, infatti, non essendo finalizzata all’attuazione né di
54
VII
* Aristotele e Alessandro
scopi empirici, né verso realizzazioni pratiche è scienza
libera per eccellenza, avendo in se medesima il suo scopo, che
prescindendo da ogni utilità, soddisfa l’esigenza dell’uomo dal
bisogno profondo e dalla necessità di conoscenza che prorompe
dalla sua natura.
L’oggetto della scienza può essere o possibile o necessario.
Il possibile è ciò che, indifferentemente può essere in un modo o
in un altro, sono le scienze poietiche, che iniziano nel soggetto
ma producono il loro effetto fuori dal soggetto stesso, come le
arti, la produzione, le scienze tecniche, i mestieri, il guarire, il
costruire ecc. anche la politica e l’etica sono scienze del
possibile e si dicono pratiche. Il necessario è ciò che non può
essere in modo diverso da quello che è, sono le scienze
speculative o teoretiche e riguardano né la produzione né
l’azione, ma la contemplazione, il puro conoscere come tale, e
sono: la fisica: che studia la sostanza sensibile, ossia ciò che ha
la capacità di movimento ed è ricerca di sostanza e forma, quindi
qualitativa; la matematica: che considera le cose come aventi
lunghezze e piani e di questi valuta le proprietà, perciò nelle
matematiche le quantità sono considerate per astrazione dal
pensiero, che può studiare le cose in certi aspetti, prescindendo
da altri; la metafisica: che è la scienza per eccellenza, la forma di
conoscenza più alta che assume a oggetto della sua
considerazione tutto l’essere in quanto tale e come le altre
scienze, procede nell’analisi per astrazione spogliando l’essere
da tutte le determinazioni particolari (quantità, movimento, ecc.).
Come si può constatare anche l’essere è partecipe delle
categorie di cui abbiamo parlato nella logica, pertanto esso
assume tanti significati, quante sono le categorie che
rappresentano le caratteristiche fondamentali e strutturali
dell’essere. Poste queste premesse il problema della scienza è,
come sia possibile ridurre i diversi significati dell’essere in un
55
VII
* Aristotele e Alessandro
unico significato fondamentale, onde poter riconoscere un
principio che garantisca stabilità e uniformità all’oggetto
indagato perché questa unità non sia accidentale, ma intrinseca e
necessaria per essere oggetto di scienza
Se la metafisica è scienza delle cause e dei principi
dell’essere, necessariamente, è scienza delle cause e dei principi
della sostanza in quanto l’essere fondamentalmente, è sostanza,
quindi si riduce in ultima analisi, ai modi di essere della sostanza
stessa.
Risulta evidente che tra le categorie questa è la più
importante, in quanto condiziona e fa “essere” le altre, tanto che
volendola togliere, con ciò stesso si toglierebbe ogni altra
categoria. Con ciò è palese che alla domanda “cos’è l’essere?”
bisognerà rispondere prima a “cos’è la sostanza?” Con il
concetto di “sostanza” Aristotele definisce sia la forma, sia la
materia, o insieme di materia e forma (sinolo) seppure a vario
titolo. La sostanza è la causa prima e l’essere proprio di ogni
realtà determinata. Ciò che è indicato da un nome proprio è
sostanza (sole, luna, Francia, ecc.) mentre ciò che è indicato da
un aggettivo o dal nome della classe è un “universale” (cane,
gatto, uomo, ecc.) Un universale non è una sostanza, perché è
comune e si riferisce a più di una cosa, mentre la sostanza è ciò
che è peculiare ad essa e non appartiene a nient’altro. Un
universale non può esistere di per se stesso, ma solo nelle
singole cose. La qualità di essere rosso non può esistere senza
che qualche oggetto lo sia, ma esiste anche senza questo o
quell’oggetto, allo stesso modo però un oggetto non può esistere
senza questa o quella qualità (categoria).
Ritornando alla definizione di sostanza Aristotele
distingue la “Forma” che non è la figura esterna dell’oggetto ma
la sua natura intima, l’essenza del medesimo. Per l’uomo la
forma intima o l’essenza è la sua anima, cioè ciò che fa di lui un
56
VII
* Aristotele e Alessandro
essere razionale, per la pianta è la sua anima vegetativa,
come per il cerchio l’essenza è ciò che fa si che esso sia la tal
figura con quella data qualità, ecc. cioè ciò che rende le cose
veramente conoscibili nella loro essenza particolare. La
“Materia” è un altro aspetto importante da cui non si può
prescindere senza annullare le cose stesse in quanto sostanza.
Infine è sostanza anche il “Sinolo” che è l’unione della
materia con la forma, quindi tutto ciò che è concreto è sinolo di
materia e forma. Ciò che fa di un composto qualcosa che non si
risolve nella somma dei suoi elementi componenti è la sostanza,
così ogni realtà ha una natura propria che non risulta
dall’addizione delle sue parti costitutive, ed è diversa da
ciascuno di tutti questi elementi.
Tale natura è la sostanza di quella realtà, il principio
costitutivo del suo essere. Prendiamo per esempio una statua di
marmo in cui il marmo è la materia e la figura fatta dallo
scultore è la forma e così per una sfera di bronzo dove il metallo
è la materia e la sfericità è la forma. La forma ha definito,
delimitato la materia creando una cosa, questa è sostanza. La
forma di una cosa è la sua essenza e la sua sostanza primordiale;
le cose acquistano una realtà con la forma. Quando un uomo
fabbrica una sfera d’ottone, sia la materia sia la forma esistevano
da prima e tutto ciò che egli fa è metterli insieme; l’uomo non
crea la forma più di quanto non crei l’ottone, quindi trae fuori da
qualcosa che c’è un qualcosa che già sussiste dentro di sé; si può
dire pertanto che la sostanza è, non solo la causa dell’essere ma
anche del divenire.
Senza forma la materia è soltanto “potenzialità”, quindi la
materia bruta è concepita come forma in potenza; per esempio
un blocco di marmo è una statua in potenza, significa che da un
blocco di marmo con atti opportuni, si trae una statua, in tal
senso, Aristotele identifica “la materia con la potenza”, che è la
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VII
* Aristotele e Alessandro
possibilità di produrre mutamento o di subirlo, e “la forma
con l’atto”, che è l’esistenza stessa dell’oggetto. L’atto precede
sempre la potenza, perché se è vero che il seme (potenzialmente
pianta) è prima della pianta, ma lo stesso non può essere derivato
che dalla pianta.
Anche per la sostanza l’atto è prima, in quanto l’atto ha già
in sé la forma prima che la sostanza sia tale, come la pianta viene
prima del seme. Questo è quanto ho compreso della “Sostanza”.
Compito della filosofia è di considerare la natura della
sostanza, le sue determinazioni. Ora tutte le sostanze si dividono
in due classi: le sostanze sensibili e in movimento, che
costituiscono il mondo fisico e sensibile che a loro volta si
suddividono in due classi: la sostanza sensibile che costituisce i
corpi celesti, che è ingenerabile e incorruttibile; le sostanze che
costituiscono i quattro elementi del mondo sublunare che sono
generabili e corruttibili. Queste sono l’oggetto di studio della
fisica.
L’altro gruppo di sostanze, quelle immobili e non sensibili,
sono oggetto della teologia o metafisica. L’esistenza di una
sostanza immobile è dimostrata da Aristotele con la necessità di
spiegare la continuità e l’eternità del movimento celeste. Il
movimento continuo, eterno e uniforme del primo cielo deve
avere necessariamente una “Causa Prima” cioè un primo motore
che origina il moto e questo, non può essere mosso da nessun
altro, altrimenti richiederebbe un’altra causa e questa un’altra
ancora e così via all’infinito; dunque deve essere immobile ed
eterno, sostanza e realtà quindi atto e non potenza e poiché la
potenza è materia, esso necessariamente è “atto puro” Dio.
Poiché oltre al primo cielo vi sono i movimenti egualmente
eterni delle altre sfere celesti, vale per questi lo stesso principio
di tanti motori immobili quanti sono i movimenti delle sfere.
Aristotele che come Platone è politeista, ammette così altre
58
VII
* Aristotele e Alessandro
intelligenze motrici, altri dei, ognuna delle quali presiede al
movimento di una determinata sfera celeste, in modo analogo in
cui Dio muove il primo cielo, attirandolo verso se per il fatto di
essere amato, essendo questo il principio primo di ogni
movimento dell’universo, è quindi fine e non causa efficiente,
come l’oggetto d’amore attira a se l’amante. Questo principio dal
quale dipendono il cielo e la natura, è “Vita”.
Nel libro “Dell’ Anima” Aristotele considera l’anima
legata al corpo per cui, sembra, che anch’essa muore con il
corpo. Infatti scrive: “ne consegue senz’ombra di dubbio, che
l’anima è inseparabile dal corpo “ in contrapposizione con la
dottrina platonica-pitagorica della trasmigrazione, ma aggiunge
subito dopo: “o almeno lo sono certe parti di essa”. L’anima è la
sostanza che informa e vivifica un corpo, è la realizzazione
finale della capacità che è propria di un corpo organico, cioè
l’atto o l’attività propria di ogni singolo strumento, per es.
funzione della scure è di tagliare, di uno strumento musicale di
suonare. Corpo ed anima sono messe in relazione come materia
e forma.
L’anima deve essere la forma propria di un corpo materiale
che ha in sé potenzialmente la vita, quindi è sostanza, che è
realtà e così l’anima è la realtà di una materialità corporea,
corrispondente all’essenza nella sua forma definitiva. Il corpo in
quanto strumento ha come sua funzione di vivere e di pensare;
l’atto di questa funzione è l’anima.
Tre sono le funzioni fondamentali dell’anima: “la funzione
vegetativa” che è la potenza nutritiva, accrescitiva e riproduttiva
che è propria di tutti gli esseri viventi; “la funzione sensitiva”
che è caratteristica del mondo animale e comprende la sensibilità
e il movimento; “la funzione intellettiva” che è la capacità di
intendere e di interagire in conseguenza che è specifica
dell’uomo.
59
VII
* Aristotele e Alessandro
Le funzioni più elevate possono supplire a quelle inferiori e
non viceversa. Proseguendo nell’analisi egli, fa una distinzione
tra “anima” e “spirito”, il quale ci viene presentato come più
elevato dell’anima e meno legato al corpo. Dello spirito
Aristotele dice: “il caso per lo spirito è differente; sembra
trattarsi di sostanza indipendente fissata nell’anima ed incapace
di essere distrutta ….sembra un tipo di anima, assai differente,
che si diversifica in quanto è eterno, ….esso solo è capace di
esistenza anche se isolato da tutti gli altri poteri psichici.”.
mentre le altre parti dell’anima, come si è visto, sono incapaci di
esistenza separata dal corpo. L’anima da forma, muove il corpo e
riconosce gli oggetti sensibili, è caratterizzata dalla
autonutrizione, dai sentimenti, dalle sensazioni le quali, se in
atto, coincidono con l’oggetto concreto sensibile, per es. il
suono corrisponde con l’udire il suono, in questo modo si può
dire che senza il senso dell’udito non esisterebbe il suono in atto,
ma solo in potenza. Aristotele dice: “la scienza in atto è identica
al suo soggetto”.
Lo spirito è la parte che capisce le matematiche e la filosofia,
è posseduto solo da una piccola minoranza di esseri viventi, si
rivolge verso oggetti immortali e quindi è anch’esso immortale,
il resto dell’anima non può esserlo.
L’anima è comprensiva di una parte irrazionale e di una
razionale; l’anima razionale (spirito) vive nella contemplazione,
che è la felicità completa dell’uomo, anche se non interamente
raggiungibile, infatti non è in quanto uomo che vivrà cosi, ma in
quanto qualcosa di divino è presente in lui. L’anima irrazionale
distingue un uomo da un altro, mentre quella razionale è divina e
impersonale; l’irrazionale ci divide, il razionale ci unisce. Risulta
pertanto evidente che l’immortalità dello spirito (o ragione) non
è un’immortalità personale, d’ogni singolo uomo, ma è una
partecipazione all’immortalità di Dio.
60
VII
* Aristotele e Alessandro
Per Aristotele “l’etica” è la scienza che riguarda la
condotta dell’individuo e il fine che egli vuole raggiungere. La
moralità è il fare azioni che sono considerate giuste, non in sé,
ma tali da essere più vicine a ciò che è bene per l’uomo. Ogni
azione dell’uomo ha uno scopo o fine, atto al raggiungimento del
“bene” che tende al bene supremo che è la “felicità”. La felicità
essendo un’attività dell’anima può intendersi in diversi modi,
infatti per alcuni può essere piacere e godimento oppure, potere
e onori, per altri possedere ricchezze e beni ecc. sorge allora la
necessità di precisarla perfettamente e che sia riconosciuta e
accettata da tutti come il bene supremo, che si manifesta nel
realizzarsi e perfezionarsi come uomo. Aristotele individua e
indica come comune denominatore la “ragione” la razionalità,
che per l’uomo è il vero carattere distintivo rispetto a tutto
l’universo, per cui la felicità si realizza nel “vivere secondo
ragione”.
La parte irrazionale o appetibile o sensibile, entro certi
limiti può ricevere l’approvazione della ragione quando, la virtù
ricercata, non conduce ad alcuna attività pratica senza l’aiuto dei
sensi; ciò significa che anche i beni materiali hanno la loro utilità
nel conseguimento del bene supremo, anche se è pur vero che
non assicurano la felicità.
La capacità di dominare questa parte dell’anima e la
riduzione di essa ai comandi della ragione è la virtù etica che si
acquisisce con la ripetizione di atti successivi, ossia con
l’abitudine. Molti sono gli impulsi che la ragione deve dominare,
tante quante sono le virtù etiche e poiché tali impulsi tendono
all’eccesso o al difetto, è compito della ragione trovare la giusta
misura, cioè la via di mezzo tra i due eccessi, che non è
mediocrità ma è un valore in quanto vittoria della ragione sugli
istinti.
La principale di tutte le virtù è la “giustizia”, poiché ha la
61
VII
* Aristotele e Alessandro
capacità di un comportamento virtuoso non solo verso se
stessi ma anche in rapporto agli altri. Sul concetto di giustizia è
fondato il “diritto” che Aristotele distingue in privato e pubblico
riferito alla comunità degli uomini verso lo Stato ed è sancito
dalle leggi.
Tra le virtù dianoetiche (consistenti nell’esercitare la
ragione nel miglior modo possibile) si trovano: “la saggezza”
alla quale spetta di determinare il buon uso della ragione nelle
azioni, con la quale è possibile determinare il giusto mezzo e
quindi la capacità di distinguere le azioni buone da quelle
cattive. “La sapienza” che è il grado più alto della scienza, è la
facoltà di chi ha nello stesso tempo scienza e intelligenza, che sa
non solo dedurre dai principi, ma giudicare della verità degli
stessi. Mentre la saggezza concerne il giudizio sulla convenienza
delle cose umane, la sapienza concerne le cose più alte e
universali
Anche “l’amicizia” è conformata all’etica ed è una virtù o
almeno ad essa è strettamente congiunta essendo necessaria alla
vita. Se questa è fondata sull’utile o sul piacere reciproco è
accidentale e viene subito meno quando il piacere o l’utile
vengono meno, viceversa se fondata sul bene e la virtù, diventa
stabile e ferma, perché l’uomo virtuoso si comporta verso
l’amico come verso se stesso, perché “l’amico è un altro se
stesso”. Poiché la virtù come attività propria dell’uomo è la
felicità, la più alta felicità sarà la virtù più alta e questa è la
filosofia, perché sola culmina nella sapienza che è scienza e
intelligenza.
Lo Stato per Aristotele è un organismo naturale, è la forma
più alta di comunità e tende al bene supremo. Esso è il
compimento (telos) di un processo che vede l’uomo aggregarsi
in comunità con al centro la famiglia, più famiglie formano un
villaggio, parecchi villaggi uno Stato, purché siano abbastanza
62
VII
* Aristotele e Alessandro
ampi da essere autosufficienti. Lo Stato per sua natura è
superiore a ognuno rappresentando l’intero, mentre l’uomo o la
famiglia sono solo parti, ciò non significa sottovalutare il ruolo
dell’individuo e della famiglia, ma ognuno può in ugual misura
realizzare il proprio fine facendo parte dello Stato che
analogamente ha come scopo la “buona vita” per i cittadini. Per
ottenere ciò esso si avvale della legge la quale, ha bisogno dello
Stato per la sua esistenza, ma serve a stabilire giusti rapporti tra
gli uomini. Alle leggi sono affidate il compito di ordinare, in
vista del fine comune, la molteplicità dei bisogni e delle attività
all’interno della comunità politica. L’esercizio della giustizia
deve corrispondere alla dottrina della medietà, del giusto mezzo
e viene così indicata e distinta in: “distributiva” dove gli onori le
ricchezze i beni vengano distribuiti tra i membri della
cittadinanza in proporzione ai loro meriti, “commutativa”
quando ristabilisce l’equità tra i cittadini quando sia stata violata,
indipendentemente dai meriti individuali (per es. in caso di danni
o furti subiti o provocati).
Particolare importanza viene data alla famiglia, che
Aristotele vede come cellula fondamentale per la riproduzione
della specie, per tale relazione la donna e i figli sono subordinati
al capofamiglia. Anche come nucleo principale dell’attività
economica e sociale egli giustifica anche la schiavitù come
proprietà del padrone per diritto naturale. Sulla famiglia si
manifesta tutta la diversità con Platone che in più di un punto
viene criticato, a cominciare dall’utopia della famiglia allargata e
il rigetto del concetto dei figli e delle donne in comune,
Aristotele considera più opportuno che ogni capofamiglia pensi
alla propria casa ai propri affari e interessi “privati”.
Rimangono nella scia del maestro i tre tipi di costituzione o
governi: monarchia, aristocrazia, politèia, ai quali corrispondono
le degenerazioni: la tirannide, l’oligarchia, la democrazia
63
VII
* Aristotele e Alessandro
Pur ritenendo buona ognuna delle tre forme di governo egli
tuttavia ritiene migliore quella in cui prevale la classe media, la
politeia, coloro che: “hanno un’educazione più elevata
nell’intelletto e nel carattere, e che hanno soltanto una parte
limitata dei beni materiali”. E’ necessario che a governare siano
posti gli anziani, giacché nessuno si rassegnerebbe a ubbidire
alle leggi, senza avere la prospettiva di giungere in età avanzata
ad una condizione di più alto carisma.
Un governo è buono quando aspira al bene dell’intera
comunità , cattivo quando si preoccupa di se stesso. E’ curioso
notare che in tutti i suoi scritti riguardante la politica, non faccia
alcuna menzione né alla figura di Alessandro Magno, che pure
fu suo allievo, né un accenno alla straordinaria trasformazione
territoriale e politica che, il grande condottiero stava realizzando,
unificando gran parte del mondo. L’intera speculazione è
dedicata alle Città-Stato e non c’è nessuna previsione del loro
imminente declino. Per cui sotto certi aspetti, questa esperienza
ebbe migliore fortuna millecinquecento anni dopo, in Italia
durante il Medioevo nell’età Comunale.
Per concludere il capitolo su Aristotele un breve accenno alla
retorica e alla poetica mi sembra necessario. Sulla retorica che
definisce come l’arte capace di “individuare, intorno a un
argomento dato, ciò che lo rende persuasivo“, afferma che la sua
funzione è quella di mostrare i mezzi che sono adatti a indurre
alla persuasione avendo per oggetto il verosimile, ciò che accade
perloppiù. Il discorso retorico essendo diretto ad uno o più
ascoltatori, che sono il fine stesso del discorso, deve avere come
tale una sua forza, una coerenza logica pari a un discorso
dialettico, ma con una suggestività e una forza psicologica
necessaria a muovere l’interesse e la passione di chi ascolta, per
cui individua tre generi di retorica: quella “deliberativa”, che è
rivolta a cose future e deve persuadere dimostrando che qualcosa
64
VII
* Aristotele e Alessandro
è utile o perniciosa. La “giudiziale” che riguarda fatti
successi in passato e il suo scopo è di accusare o di difendere,
persuadendo che tali fatti erano giusti o ingiusti. La
“dimostrativa” che riguarda il presente, il suo compito è di
lodare o condannare, come vere o false, buone o cattive.
La poetica viene riconosciuta come arte ed è definita da
Aristotele “imitazione” della realtà. Anche per Platone l’arte è
imitazione ma, soprattutto nella tragedia, interessando gli
spettatori alle passioni violente che si agitano sulla scena, svolge
un ruolo negativo incoraggiando tali passioni e allontanando gli
uomini dalla realtà. Per Aristotele invece, ecco un altro punto di
dissenso dal maestro, crede che la tragedia eserciti una funzione
purificatrice e liberi l’anima dello spettatore dalle passioni che
essa rappresenta, e quindi ne identifica un ruolo positivo.
Anche nella musica Aristotele ravvisa lo stesso effetto
positivo, riconoscendo così all’arte in generale, non più il motivo
per considerarla illusoria ma, un mezzo potente di educazione
identificando quella funzione catartica, che le da valore
formativo ed educativo nei confronti dell’uomo. Aristotele fu
senza dubbio l’uomo più importante di Atene del suo tempo.
Fondò la sua scuola in un parco vicino al tempio di Apollo e
insegnò passeggiando su e giù sotto gli alberi. Per le sue
simpatie macedoni coloro che non lo amavano si prendevano
gioco di lui per gli abiti eleganti, i raffinati banchetti e i gioielli
con i quali si adornava. La sua erudizione enciclopedica lo fa
apparire inavvicinabile, egli si interessò a tutte le scienze dando
a ognuna ordine e metodo, dalla logica, alla biologia, alla fisica,
alla metafisica, alla politica, con la quale non ebbe fortuna
capitando nell’epoca di Filippo e Alessandro che ne ribaltarono
le condizioni preesistenti. Il fatto che la sua teoria fisica sia stata
interpretata con uno sfondo teologico e le sue convinzioni
scientifiche divenute, successivamente, ortodossia e difese come
Sommario
65
VII
66
* Aristotele e Alessandro
VIII
dogmi, gli hanno procurato una cattiva reputazione presso
gli scienziati di questi ultimi secoli. Ciò avvenne non per sua
colpa ma perché con lui, termina il migliore periodo creativo,
esplorativo ed evolutivo del pensiero greco classico. E’ risaputo
che dopo la sua morte, la sua autorità crebbe fino a divenire
indiscussa per tutto un lunghissimo periodo, in parallelo quasi
con il nascere e crescere dell’autorità della Chiesa, divenendo
sfortunatamente un serio ostacolo al progresso scientifico e
filosofico, salvo rare eccezioni, tanto che passarono duemila
anni prima che nascessero dei geni che fossero, all'incirca, suoi
pari..
L’Età Ellenistica
Per la maggior parte degli storici, con la morte di
Alessandro Magno si chiude il periodo della Grecia Classica,
caratterizzato dalle libere Città-Stato, (della libertà e del
disordine), e si apre il periodo detto “ellenistico” caratterizzato
prima dalla dominazione macedone, che si protrae fino
all’annessione romana dell’Egitto e in seguito all’incontro con il
mondo romano.
La travolgente marcia di espansione di Alessandro, portò
il mondo di allora in meno di dieci anni ad abbattere tutte le
frontiere verso Est, fino all’oceano Indiano spalancando le porte
d’Oriente all’iniziativa greca, la quale vi si riversò con impeto
travolgente. Le antiche e nuove culture, le religioni orientali, il
Buddismo, lo Zoroastrismo, la scienza Babilonese, l’Impero
Persiano con le sue ricchezze fino all’Egitto, tutto divenne
accessibile ai greci. Benché il suo esercito fosse composto
principalmente da macedoni e che le Città greche fossero
sottomesse da lui con la forza, egli si considerò al principio
come il campione dell’ellenismo. Gradualmente però, man mano
che le conquiste si susseguirono, dovette promuovere verso le
popolazioni asservite una politica di amichevole fusione con i
conquistatori greci che affluivano al seguito dell’esercito.
Questo, non potendo occupare con la forza un territorio
troppo vasto (per motivi tattici e di rapida manovrabilità era
relativamente poco numeroso), ad ogni successiva campagna di
conquista, si rendeva necessaria una conciliazione con i popoli
conquistati. Questi Stati, regni, o imperi orientali erano già
abituati ad avere un capo di origine divina e per Alessandro non
fu per nulla difficile assumersene la rappresentanza, infatti in
Egitto godette degli onori che gli furono riservati, come
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VIII * L’Età Ellenistica
successore dei Faraoni e in Persia come Grande Re; del
resto la sua ascesa fu talmente miracolosa che può ben aver
creduto di essere figlio del dio. Purtroppo alla sua morte non
lasciò eredi né designò successori e il suo effimero ma vasto
impero se lo divisero le famiglie di tre generali. Ai discendenti di
Antigono toccò la parte Europea, ai Tolemeo l’Egitto e dopo
molte battaglie, Seleuco conquistò l’Asia.
Durante il periodo ellenistico la filosofia, anche se in
misura minore rispetto al periodo di Platone e Aristotele, ha
avuto uno sviluppo importante, grazie alla fondazione di nuove
scuole e all’affermazione di nuove dottrine le quali hanno avuto
grande influenza sul pensiero filosofico per i secoli successivi.
Le più importanti furono la cinica, l’epicurea e la stoica alle
quali si affiancarono altre dottrine di tipo mistico o più
propriamente scientifiche.
Nella scienza e nella matematica, il lavoro compiuto in
questo periodo è il meglio che sia mai stato realizzato dai Greci,
soprattutto grazie ai Tolemei in Egitto che furono grandi
mecenati, attirando nella loro capitale i migliori scienziati
dell’epoca, avendo costruito e messo a disposizione la migliore
biblioteca di quel tempo e non solo, tanto che fino alla caduta di
Roma le scienze e la matematica in particolare furono
principalmente alessandrine.
La conquista macedone, la fine della potenza navale e
militare di Atene e il conseguente rivolgimento della vita civile e
sociale in tutta la Grecia crea anche nella ricerca filosofica un
grande cambiamento che trova la sua espressione più importante
all’interno del “problema morale” ed etico.
Nel periodo che va da Socrate ad Aristotele la ricerca si è
indirizzata verso la realizzazione teoretica dell’essere, intesa
come unità tra scienza e virtù tra pensiero e vita che vede in
Aristotele l’incarnazione più alta, della vita teoretica nell’uomo.
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VIII * L’Età Ellenistica
Questo equilibrio tra scienza e virtù viene rotto per la
prima volta dai Cinici: i quali accentuano l’attenzione verso la
virtù in danno della scienza. Compito immediato e urgente
diventa l’orientamento morale a scapito e subordinando l’aspetto
teoretico.
La filosofia rimane ancora ricerca; ma la metafisica passa
in secondo piano, e l’etica, divenuta più individualista, acquista
un’importanza vitale, non avendo più il contraltare nel pilastro
della scienza.
Sommario
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IX * Cinici e Scettici
IX
Cinici e Scettici
Antistene, già discepolo di Socrate al tempo di Platone del
quale era più vecchio di una ventina di anni fu una figura
notevole di maestro e pensatore. In gioventù con i suoi compagni
frequentò l’aristocrazia ateniese, non mostrando mai alcun
biasimo nei confronti della bella vita. Oramai in età matura, però
qualcosa (forse la sconfitta di Atene, o la morte di Socrate, o
altro) gli fece mutare opinione e atteggiamento, cominciò a
disprezzare la vita che fino ad allora non aveva disdegnato.
Cambiò stile e comportamento, si vestì dimessamente, prese a
predicare per le strade con linguaggio semplice e accessibile per
il “ritorno ad uno stile di vita più naturale” nel quale mostrava di
credere con molta fede. Non ci doveva essere governo, né
proprietà privata né matrimonio, né religione, condannò la
schiavitù. Non era un asceta, ma disprezzava il lusso e la ricerca
ostentata del piacere.
La fama acquisita, fu però superata dal suo allievo
Diogene, nativo di Sinope sul mar Nero, il quale decise di vivere
da nomade, contro tutte le convenzioni di usi, di religione, di
vestiario, di cibo, di abitazione, facendo vita da mendicante; gli
aneddoti parlano di una botte come dimora. Anche Alessandro
Magno incontrandolo un giorno a Corinto gli domandò se c’era
qualcosa che potesse fare per lui “si” rispose “togliti davanti che
mi fai ombra”. Proclamò la fratellanza di tutta la razza umana
con gli animali. Aveva una passione per la “virtù” nei confronti
della quale i beni terreni non contavano nulla. Cercava la virtù e
la libertà morale nell’affrancamento dai desideri: “rimani
indifferente ai beni che la fortuna ti ha accordato e ti
emanciperai dal timore”. Era questo l’aspetto della sua dottrina,
che benché contemporanea alla scuola Aristotelica, come
spirito appartiene già all’età ellenistica Nell’epoca in cui le
ambizioni, le ricchezze, il potere, vengono messi al servizio dei
padroni o dei re del momento, il modo di vita del cinico; barba
lunga e incolta, vestito di una rozza coperta, che predica con un
linguaggio pungente, sarcastico, privo di retorica, propugnando
un ideale virtuoso di distacco dai piaceri e dalla mondanità,
contro la falsità e il lusso sfrenato, diventa un’attrazione quasi
folcloristica in alcuni ambienti, ma in altri suscita grande
interesse e adesione tanto che, ad Alessandria diviene una moda
atteggiarsi a cinico, proponendo ciò che in questa dottrina c’è di
meglio, la virtù e la libertà morale nell’affrancamento dal
desiderio.
Parte di tale dottrina verrà ripresa in seguito anche dallo
stoicismo pur senza rifiutare i vantaggi di una vita agiata. Con il
passare del tempo il cinismo si trasforma: perde quella carica di
ascetismo e, oramai volgarizzato, fa suo una certa negazione
radicale nei confronti della verità formulando una nuova
dottrina: “lo scetticismo”, che ebbe in Pirrone, generale
dell’esercito macedone, il fondatore. Durante le campagne
militari egli si era spinto fino all’India da dove probabilmente
venne in contatto con quelle religioni mistiche e al suo ritorno,
ritiratosi a Elide sua città natale, ebbe modo di accostarle al
cinismo sviluppando una nuova dottrina. In essa non c’è molto
di nuovo se non una certa formalizzazione e sistemazione nei
riguardi dello scetticismo morale e logico, in aggiunta a quello
riguardante i sensi che da sempre aveva arrovellato il pensiero
dei filosofi greci sin dai tempi antichi. Sosteneva la mancanza di
una “base razionale” per preferire un genere di azione ad
un’altra, per cui è inutile preoccuparsi del futuro che è
completamente incerto, ma vale la pena di godersi il presente.
Lo scetticismo come filosofia non è il dubbio semplicemente,
Sommario
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IX * Cinici e Scettici
X
ma il dubbio dogmatico: “nessuno sa e nessuno può mai
sapere”; se il fine della vita umana è la felicità, questa non potrà
essere raggiunta attraverso la conoscenza, ma anzi,
riconoscendone l’impossibilità di pervenire ad essa, si dovrà
concludere
che,
l’unico
atteggiamento
possibile
è
“l’indifferenza”
Sesto Empirico si propone come figura di spicco di questa
dottrina che si sostanzia nella sospensione del giudizio (epoché)
e nella ricerca continua di una verità inarrivabile, pur senza
prospettare l’affermarsi di alcuna verità.
L’Epicureismo
Epicuro nacque a Samo (probabilmente) intorno al 342-1
a.C. A diciotto anni dopo la morte di Alessandro andò ad Atene
da dove si allontanò per motivi di famiglia. Fu allievo di
Nausifane, (contro il quale manifestò sempre disprezzo), un
seguace di Democrito. Nel 311 fondò la sua prima scuola e nel
307 si stabilisce definitivamente alla periferia ad Atene, lontano
dalla vita tumultuosa della città, in un edificio con giardino dove
insegna ad una comunità di discepoli e amici che si accrebbe
anche dei loro schiavi, figli ed etére, naturalmente suscitando
scandalo e dicerie, a quanto pare infondate, da parte dei suoi
nemici. La vita della comunità trascorreva molto semplicemente,
con pasti frugali a base di pane e acqua, in parte per principio, ed
in gran parte per mancanza di denari, dovendo dipendere per il
sostentamento da contributi volontari il più delle volte in derrate.
La filosofia di Epicuro come tutte quelle della sua epoca,
aveva lo scopo di assicurare la tranquillità individuale. Egli
considera il piacere essere il “bene” e il mezzo per sfuggire il
dolore. “Il piacere è il principio e la fine della vita beata” scrive
Diogene Laerzio che della dottrina di Epicuro fu la principale
autorità. Nello scritto “Sul fine” Epicuro afferma:”non so come
concepire il bene, se elimino i piaceri del gusto, i piaceri
dell’amore, quelli della vista e dell’udito”, e ancora “principio e
radice di tutto il bene è il piacere dello stomaco, e la saggezza e
la cultura vanno riferiti ad esso”
Coerentemente con questa visione materialistica la base del
sapere epicureo è la “sensazione”, che l’essere, coglie in modo
infallibile e solo essa può essere oggettiva. Poiché la sensazione
non può mai fallire, nel caso di errore, è all’uomo e al suo
intelletto che va attribuito, perché questo falsifica con
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X
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* L’Epicureismo
X
* L’Epicureismo
.
supposizioni, pregiudizi e avventate previsioni il giudizio.
Caratteristica della sensazione è l’evidenza immediata, che è
data sempre dall’azione diretta che le cose esercitano sul nostro
animo, il quale non può mai errare perché accoglie come vero
solo ciò che è evidente. L’errore invece è frutto dell’opinione,
esso nasce dal ragionare e quindi non è qualcosa d’immediato
La fisica epicurea è una ripresa dell’atomismo democriteo
pertanto di tipo materialistico. La realtà è costituita da due
elementi essenziali: i “corpi” e il “vuoto”. L’esistenza dei corpi è
provata dai sensi, l’esistenza del vuoto è provata dal movimento.
La realtà è “infinita” quindi infiniti devono essere ciascuno dei
suoi principi costitutivi cioè infinita dovrà essere la moltitudine
dei corpi e infinita l’estensione del vuoto. Per quanto riguarda i
corpi essi possono essere “composti” oppure “semplici e
indivisibili” (atomi), caratterizzati, questi ultimi, dalla figura, dal
peso e dalla grandezza.
Per il discorso del vuoto e del movimento a differenza degli
atomisti antichi, per i quali il movimento era costituito dal
volteggiare degli atomi nel vuoto in tutte le direzioni, per
Epicuro, il peso degli atomi causa un movimento rettilineo
velocissimo verso il basso, nel vuoto infinito, questo è uguale
per tutti anche se di peso differente. Per permettere agli atomi di
incontrarsi e formare la realtà che conosciamo, viene introdotto
il concetto di “deviazione” (clinamen) dalla linea retta di caduta
che questi, verrebbero a subire in modo casuale, per un intervallo
minimo, in un punto qualsiasi dello spazio, in ogni momento del
tempo, onde potersi fondere con gli altri atomi.
Ne consegue che, a differenza di Democrito il quale
riteneva il mondo sorto per necessità (destino), per Epicuro il
mondo è frutto della casualità, essendo accidentale l’accadere
del “clinamen”.
Nello spazio e nel tempo i mondi sono infiniti e possono
essere uguali o diversi dal nostro, essi nascono e muoiono
infinite volte, ma il tutto non muta perché gli atomi non mutano
e sempre compiute rimangono le possibili combinazioni.
In quanto agli dei, necessariamente esistono vivono negli
spazi tra mondo e mondo e non si occupano né del nostro mondo
né di noi. Se il male continua a esistere nel mondo, si chiede
Epicuro, “significa che gli dei sono malvagi o impotenti”? La
sua risposta è che non sono né l’uno né l’altro, ma
semplicemente essi vivono in un mondo beato senza curarsi
degli uomini. Da ciò è valsa l’idea che gli epicurei non avevano
alcun interesse per gli dei e per questo spesso vennero accusati
di ateismo.
Anche l’anima è un agglomerato di atomi leggeri diffusi in
tutto il corpo, come pure la sua parte irrazionale che è il
principio della vita, come fosse un soffio caldo. Con la morte gli
atomi si separano, si disperdono, naturalmente sopravvivono ma
non essendo legati al corpo decade la loro capacità di sensazione
corporea, per cui “la morte è niente per noi, perché ciò che si
dissolve non da sensazioni e ciò che non prova sensazione è
niente”.
Abbiamo detto in precedenza che per Epicuro, il bene rende
felici, e questo bene è il piacere il quale può essere: assenza del
dolore corporeo (aponia), o mancanza di turbamento dell’anima
(atarassia). Questa diversità di giudizio crea la necessità di
distinguere tra:
1. piaceri naturali necessari: sono quelli strettamente legati
alla conservazione dell’individuo; mangiare, bere, riposare, ecc.
Questi piaceri vanno comunque soddisfatti, perché per loro
natura hanno il preciso scopo di eliminare il dolore, e la non
soddisfazione arreca dolore.
2. piaceri naturali non necessari: sono quelli che
costituiscono i desideri e le golosità superflue dei piaceri
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X
76
* L’Epicureismo
X
* L’Epicureismo
.
.
necessari. Sono i piaceri della tavola, del ben vestire ecc.
essi potrebbero però provocare un danno.
3. i piaceri non naturali e non necessari: sono i piaceri
“vani” sorti cioè dalle vane opinioni dell’uomo. “Vanitosi”, sono
i piaceri legati al desiderio di ricchezza, al potere, agli onori.
Questi non tolgono i dolori del corpo e in più arrecano
turbamento e danno, sia allo spirito che all’anima. Riassumendo
per essere felici bisogna, soddisfare i piaceri del primo gruppo,
limitare con oculatezza il secondo e rifuggire i piaceri del terzo.
La sostanza del problema è: per ogni desiderio bisogna chiedersi
se l’appagarlo porta un bene o un vantaggio migliore o peggiore
del non appagarlo.
Questo calcolo può essere valutato solo dalla “saggezza” la
quale è ancora più preziosa della filosofia, perché da essa
nascono tutte le altre virtù e lei sola può far si che l’uomo basti a
se stesso, con la scelta e la limitazione dei bisogni e quindi il
raggiungimento dell’atarassia e dell’aponia. Epicuro afferma
esplicitamente: “non è vero che solo la gioia della mente è un
bene; giacché la mente si rallegra nella speranza dei piaceri
sensibili, nel cui godimento la natura umana può liberarsi dal
dolore”. Questa è la tesi fondamentale della sua dottrina che fa
della sensazione il canone basilare della vita dell’uomo, per cui
il piacere, se non violento ma rettamente inteso, è a disposizione
di tutti.
Questo però non deve trarre in inganno e confondere la
dottrina di Epicuro con un volgare edonismo; ciò sarebbe in
netto contrasto con il culto dell’amicizia che fu una caratteristica
peculiare della dottrina e della condotta pratica degli epicurei.
L’etica Epicurea, con vari alti e bassi, durò sei secoli, tra la
fine della Grecia classica e il tramonto dell’impero di Roma,
essa propone e delinea una nuova figura di pensatore non più il
filosofo-re di Platone, né il filosofo-scienziato di Aristotele, ma
il “saggio” dell’età ellenistica, il quale consiglia: “vivi
nascosto”, riferito alla vita pubblica e sociale,
“rimani
insensibile alle passioni, e preoccupati solo della tua felicità
individuale”, riferito alla vita privata, anche se può cadere
nell’individualismo e nell’egoismo.
Sommario
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XI
* La Scuola Stoica
XI
La scuola stoica
Tra le scuole post-aristoteliche che, dal punto di vista
storico e filosofico ebbe, più di ogni altra, un’influenza decisiva
nel periodo Ellenistico, è senza dubbio quella “stoica”.
L’insegnamento del suo fondatore Zenone, è una combinazione
tra materialismo di derivazione eraclitea e cinismo. Quando,
dopo alcuni secoli, le correnti neoplatoniche fecero proprie
molte delle sue dottrine fondamentali, lo stoicismo subì un
graduale cambiamento nella parte materialista tanto, che ne
rimase solo una piccola traccia dell’originale. Ciò che invece
rimase pressoché inalterata fu l’etica, e questo dà la misura della
minore importanza data agli altri aspetti dallo stoicismo, e spiega
anche la sua lunga storia.
Zenone nacque a Cizio nell’isola di Cipro intorno al 336
a.C. a 22 anni venne ad Atene e si entusiasmò delle letture
socratiche e si fece allievo di Cratete vedendo in lui un nuovo
Socrate. Intorno al 300 fondò la sua scuola che si chiamò Stoica.
Ebbe una notevole produzione letteraria andata quasi totalmente
distrutta o dispersa e con essa gran parte del lavoro dei suoi
allievi e successori.
Solo di Seneca, di Epitteto e dell’imperatore Marco
Aurelio vissuti in epoca romana nel I e II secolo d.C. ci
rimangono opere complete di scuola stoica.
Zenone concepisce la filosofia come “arte del vivere”
minimizzando la parte metafisica, come Epicuro, ma del quale
non accetta la riduzione dell’uomo e del mondo a un
agglomerato di atomi, né identifica il bene dell’uomo nel
piacere. Motto dello stoicismo è “vivere conformemente al
logos” (secondo ragione, le leggi naturali del cosmo), come arte
di organizzare la vita secondo natura, respingendo tutte le
lusinghe provenienti sia dall’interno che dall’esterno dell’uomo,
specificando il modo di pensare e di agire.
All’origine del mondo c’è il fuoco o più propriamente un
“vento caldo” (pneuma); poi gradatamente compaiono gli altri
elementi naturali, aria, acqua, terra, ecc. dopo di che, il processo
cosmico progressivamente si corrompe con il crescente distacco
della civilizzazione dalla natura, fino a che tutto ha termine nel
rogo del mondo, in cui l’universo purifica se stesso per
ricominciare da capo con un nuovo ciclo all’infinito. Tutto ciò
con una certa armonia, perché la decadenza e il distacco dalla
natura è un fenomeno collaterale al processo cosmico.
Zenone non crede che esista il caso, ma che lo svolgersi del
mondo segua una precisa legge naturale, stabilita da un
Legislatore che predispone tutto fino all’ultimo dettaglio, con
mezzi naturali, compresi gli scopi riguardanti la vita stessa
dell’uomo. Questo Supremo Potere chiamato Dio o Zeus o altro,
non è separato dal mondo ma è l’anima stessa del mondo ed
ognuno di noi possiede una parte del Fuoco Divino, e tutte le
cose fanno parte di un unico sistema, chiamato “natura”, tale
sistema è retto da due principi: uno “passivo”, che è la materia e
l’altro “attivo”, che è la forma e l’uno e l’altro sono inseparabili.
Poiché Dio è il principio attivo ed è inseparabile dalla
materia e questa dalla forma, ne consegue che Dio è tutto e in
tutto e coincide con il cosmo (panteismo). Il mondo e le cose
sono nate dall’unica materia-sostrato chiamata “ragione
seminale” del mondo, perché contiene delle intelligenze
particolari che costituiscono i semi, i germi da cui si sviluppano
necessariamente le varie cose. L’uomo occupa una posizione
privilegiata nell’universo in quanto più di ogni altro partecipa
del Logos divino essendo costituito di corpo e anima che è una
parte di Dio ed è fatta di fuoco e nella sua parte dominante è
“ragione”.
Gli Stoici non negano i mali del mondo, ma anzi li
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XI
* La Scuola Stoica
ritengono necessari per l’esistenza del bene in quanto
questo è il contrario di quelli; “bisogna che gli uni siano
sostenuti dagli altri perché entrambi possano sussistere”. Poiché
il pensiero si manifesta attraverso il linguaggio e questo agisce
sul pensiero e lo influenza, per esprimere la verità del Logos è
necessario un linguaggio semplice e senza equivoci. Da qui la
centralità che la logica assume nello stoicismo. Come per
Epicuro anche per gli stoici la base della conoscenza è la
sensazione. Di fronte agli oggetti che stimolano i nostri sensi
non siamo nella condizione di libertà perché subiamo
passivamente tale presenza; la libertà si esprime solo, di fronte
alla rappresentazione che si forma in noi dell’oggetto, dando o
non dando l’assenso con la nostra razionalità (logos). Il
ricevente una rappresentazione determinata, per esempio sentire
il dolce, non dipende da colui che la riceve, ma dipende
dall’oggetto dal quale la rappresentazione deriva, l’assentire o il
dissentire a tale figurazione attraverso il logos è invece sempre
atto libero.
L’assenso costituisce il giudizio, il quale si definisce
appunto o come approvazione, o come dissenso, o come
sospensione (epoche) cioè rinuncia provvisoria ad assentire o
dissentire. Sesto Empirico testimonia che gli Stoici, posero il
criterio della verità non, nella “rappresentazione comprensiva o
concettuale” , ma nella “rappresentazione concettuale che non
abbia nulla contro di sé”; perché si da il caso di rappresentazioni
che non siano degne di fede per le circostanze che vengono
ricevute, quindi solo quando non c’è nulla contro di sé si impone
con la propria forza, costringendo il soggetto conoscente
all’assenso.
Per quanto riguarda l’origine della conoscenza si deve dire
che lo stoicismo è “empirismo” fondando la conoscenza umana
sull’esperienza, la quale lascia un’impronta della
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XI
* La Scuola Stoica
rappresentazione impressa nell’anima, che scomparendo
determina il ricordo e più ricordi della stessa specie
costituiscono l’esperienza.
L’etica degli Stoici è sostanzialmente, la teoria nell’uso
della ragione al fine di stabilire un accordo tra la natura e
l’uomo. Zenone afferma che il fine dell’uomo è l’accordo con se
stesso, cioè “vivere secondo una ragione unica ed armonica”;
“vivere secondo natura”. La natura è l’ordine razionale, perfetto
e necessario, è il destino o Dio stesso. L’azione che si prospetta
conforme all’ordine razionale è il “dovere”: quindi
fondamentalmente la nozione del dovere , diventa per la prima
volta, negli Stoici, principio fondamentale dell’etica. Il dovere è
l’azione, la cui scelta può essere razionalmente giustificata e può
essere doverosa, o contraria al dovere, oppure né doverosa né
contraria al dovere. Sono doverose quelle che la ragione
consiglia di compiere come onorare i genitori, gli amici, i
congiunti, ecc. contro il dovere sono quelle che la ragione
consiglia di non fare. Né doverose, né contrarie al dovere sono
quelle che la ragione né consiglia né vieta quindi quelle che non
arrecano danno o dolore. Tuttavia il dovere non è il bene. Il bene
comincia ad esserci quando la scelta consigliata dal dovere viene
ripetuta e consolidata, fino a diventare una disposizione
nell’uomo, che se uniforme e costante è virtù, ed essa sola è
l’unico bene, ed è peculiare a chi è sapiente perché solo lui
possiede la conoscenza dell’ordine cosmico.
La virtù presa come bene assoluto, che costituisce
nell’uomo la realizzazione dell’ordine razionale, portò gli Stoici
a formulare un’altra dottrina tipica della loro etica; quella delle
cose “indifferenti". Se la virtù è il solo bene si devono
propriamente dire beni la sapienza, la giustizia, la saggezza, ecc.,
e mali i loro contrari; analogamente non sono né bene né mali
ciò che non costituisce virtù come la vita, la salute, il piacere, la
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XI
* La Scuola Stoica
ricchezza, la bellezza, ecc., e tutti i loro contrari. Queste
sono pertanto “indifferenti”. Nel dominio di queste cose
indifferenti, alcune sono degne di essere scelte come la bellezza,
la salute, la vita ecc., altre no, quindi non solo i beni assoluti
sono degni di essere scelti ma vi sono altre cose che, pur non
essendo beni assoluti, sono tuttavia degni di preferenza, per
indicare i quali gli Stoici hanno adoperato la parola “valore”, che
vuole significare “ogni contributo ad una vita conforme a
ragione”, o più in generale “ciò che è degno di scelta”.
Fa parte integrante dell’etica Stoica, la negazione totale
“dell’emozione”, che rappresenta una vera e propria malattia,
dalla quale solo il sapiente è immune. La condizione del sapiente
è quindi l’indifferenza ad ogni emozione, ”l’apatia”. Lo stoico è
sempre distaccato dagli altri, per lui non esiste compassione,
pietà, misericordia, verso alcuno e non è certo un entusiasta della
vita, come l’epicureo.
Ciò che si chiama “giustizia” è l’azione della stessa ragione
divina, che dirige la comunità umana. La legge che si ispira alla
ragione divina è la legge naturale della comunità umana; una
legge perfetta, riconosciuta da tutti i popoli non suscettibile di
correzioni e cambiamenti, viene così espressa da Cicerone in una
pagina famosa: “Vi è certo una vera legge, la retta ragione
conforme a natura, diffusa fra tutti, costante, eterna, che con il
suo comando invita al dovere e con il suo divieto distoglie dalla
frode… Essa non sarà diversa a Roma o ad Atene o dall’oggi al
domani ma come unica, eterna, immutabile legge, governerà tutti
i popoli e in ogni tempo”. Questi concetti stoici sono alla base
della teoria del diritto naturale e fondamento della dottrina del
diritto. L’uomo conformandosi alla legge diventa allora cittadino
del mondo (cosmopolita) perché indirizza le azioni secondo
natura, conforme alla quale tutto il mondo si governa
82
XI
* La Scuola Stoica
Il sapiente non appartiene quindi a questa nazione o a
quella città ma a tutto il mondo, nel quale tutti gli uomini sono
cittadini liberi, in quanto la schiavitù, imposta dall’uomo
sull’uomo, per gli Stoici, è malvagità. Questa uguaglianza
naturale è alla base della concezione stoica: ogni essere umano,
indipendentemente dalla situazione in cui si trova, ha la
possibilità di migliorare se stesso, ciò significa diventare saggi, e
quindi padroni di se stessi.
Essere saggi per Zenone significa “essere in armonia”
prima di tutto con se stessi e in tal modo con la ragione. Cleante
e Crisippo che successero a Zenone alla guida della scuola di
Atene modificarono l’espressione in “ essere in armonia con la
Sommario
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XI
* La Scuola Stoica
84
.
XII
L’eclettismo
natura” cambiando in tal modo anche il significato di questa
frase, con la quale i cinici si erano serviti con una certa anarchia.
Anche se questi ideali non si realizzarono nemmeno nel periodo
in cui fu imperatore Marco Aurelio, che dello stoicismo fu
seguace, sicuramente influirono positivamente sulla legislazione
di quell’epoca particolarmente nei confronti delle donne e degli
schiavi..
Qualcuno ha definito lo stoicismo come “ un modo di
pensare, che più di altre filosofie ne sottolinea l’importanza del
modo di pensare”. Ciò significa che ognuno deve cominciare con
se stesso e da se stesso, a operare, per quanto possibile, per
migliorare il mondo.
Anche il cristianesimo che quasi inosservato nacque
proprio nel mezzo di questo periodo, al tempo di Seneca, nella
sua concezione morale non mancò di subirne l’influenza e di
recepire molti degli insegnamenti della dottrina stoica, pur in una
visione del tutto nuova e metafisica, favorendo la rottura
definitiva fra la concezione primitiva della realtà e la moderna
scienza della natura e della storia
Le tre grandi scuole postaristoteliche, stoicismo,
epicureismo e scetticismo, pur nella diversità di presupposti
teoretici mostrano una fondamentale concordanza nelle
conclusioni pratiche. Tutte tre ritengono che il fine dell’uomo
debba essere la felicità, che si realizza con il soddisfacimento dei
bisogni primari, nella mancanza di turbamento e
nell’eliminazione delle passioni; ponendo l’ideale del saggio
nell’indifferenza rispetto alle emozioni e ai turbamenti materiali
e naturali della vita. Questa concordanza sul terreno pratico,
porta a smussare le rispettive posizioni teoretiche e consigliare di
trovare un terreno di incontro intorno al quale i tre indirizzi
possano conciliarsi e riconoscersi
Il terreno d’incontro sulle verità fondamentali, che già
sussistono nell’uomo prima e indipendentemente da ogni ricerca,
lo si è trovato unificando e armonizzando le rispettive posizioni
in una forma “eclettica”, che sappia assumere criteri comuni e
condivisi per meglio adattarsi alla mutata situazione culturale e
politica conseguente ai nuovi cambiamenti storici.
Dopo la conquista da parte dei Romani della Macedonia
(168 a.C.) la Grecia di fatto divenne una provincia del vasto
impero forte militarmente, ma che sotto il profilo culturale e
scientifico, era di gran lunga arretrato. Roma di ciò si rese
immediatamente conto e si predispose ad accogliere con favore
le nuove filosofie, pur se queste dovettero gradualmente adattarsi
alla diversa mentalità romana, più pratica e meno teoretica,
divenendone in breve un elemento essenziale della sua cultura.
Nasce così la necessità di scegliere tra le dottrine delle
varie scuole quegli elementi che più di altri si avvicinano e
possono fondersi in un corpo unico, che trovi un valido appoggio
nella nuova mentalità, la quale mostra poco interesse per i
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XII
86
* L’Eclettismo
problemi etici e politici, ma maggiore apertura per quelli
giuridici.
Dopo il felice incontro con la sapienza mistica orientale,
tipica del periodo delle campagne di Alessandro, l’eclettismo,
diventa il terreno sul quale si incontrano, si confrontano e si
scontrano le scuole e le dottrine filosofiche di cultura ellenistica
con la cultura e la tradizione latina. Roma, quale capitale
dell’impero, (con la conquista di Siracusa e la distruzione di
Cartagine, le due città-Stato che dominavano il Mediterraneo
occidentale), diventa la padrona del mondo e si appresta a
imporsi come nuovo polo intellettuale, dopo Atene oramai
decaduta e Alessandria resa oramai in condizione di vassallaggio
con l’Egitto. L’indirizzo eclettico si manifestò per primo nella
scuola stoica con Boeto di Sidone e più decisamente con
Panezio di Rodi vissuto tra il 185 e il 109 a.C. circa.
Le sue dottrine, nella forma più ampia, data da lui e dal suo
successore Posidonio, erano più politiche e meno vicine a quelle
ciniche dei primi stoici, e ciò si rivelò come un forte richiamo tra
i più seri e colti romani. Lo stoicismo del periodo romano pur
nel suo indirizzo eclettico, mostra già in modo evidente un
carattere che in seguito risulterà preminente: l’emergente
interesse religioso.
Nella concezione stoica del saggio, che è autosufficienza
nella ricerca della verità, si comincia a intravedere ciò che noi
chiamiamo autocoscienza o introspezione. Per giungere a Dio e
conformarsi alla sua legge, il saggio non ha bisogno di guardare
fuori di se, ma guardare in se stesso. Questo ritorno a se stesso
degli Stoici romani diventerà in seguito uno dei temi centrali e
dominanti del neoplatonismo.
Tra i numerosi stoici di indirizzo eclettico in età imperiale
gli unici che presentano una propria personalità filosofica sono i
già citati, Seneca, Epitteto, Musonio e l’imperatore
Marc’Aurelio.
XII
* L’Eclettismo
Lucio Anneo Seneca nato in Spagna a Cordova, nei primi
anni d.C.. fu per lungo tempo maestro e consigliere di Nerone, ci
ha lasciato numerosi scritti di carattere morale e religioso, e una
miriade di notizie sullo stoicismo e l’epicureismo.
Egli insiste sul carattere pratico della filosofia, la quale,
”insegna a fare, non a dire”. La non conoscenza dell’uomo dei
fenomeni fisici sono la causa principale dei suoi timori; la
grandezza
Lucio Anneo Seneca
del
mondo
insegna all’uomo a
riconoscere
la
propria piccolezza.
Sono evidenti in lui
l’interesse
preminente per la
fisica, vista dal punto
morale e religioso.
Per ciò che concerne
l’anima egli si ispira
a
Platone
considerando
il
rapporto con il corpo
come
prigione
dell’anima, la quale
sarà libera solo il
giorno della morte
del corpo.
Seneca è molto
lontano
dal
rigorismo stoico, ed
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XII
* L’Eclettismo
è convinto che c’è sempre una opposizione tra ciò che
l’uomo deve essere e ciò che è di fatto, perché l’oscillazione tra
il bene e il male è propria dell’uomo. La sua massima
fondamentale è la parentela universale tra gli uomini “noi siamo
tutti membra di un gran corpo. La natura ci generò parenti
dandoci una stessa origine e uno stesso fine”.
La sua dottrina è uno stoicismo eclettico a sfondo religioso,
che le da un suo carattere originale, alcuni concetti della quale
sono vicini al cristianesimo, tanto da far nascere la leggenda che
Seneca abbia avuto contatti con S. Paolo. Morì nel 65 d.C. per
ordine di Nerone suo allievo, sospettato di cospirazione.
Anche nell’Accademia, dopo l’indirizzo scettico prevalso
con Carneade e i suoi successori, vengono accolte le modifiche
in senso eclettico con Filone di Larissa, intorno alla seconda
metà del I° sec. a.C. e con alcune differenziazioni con il suo
successore Antioco di Ascalona che fu maestro di Cicerone.
Molti furono gli scritti filosofici di Cicerone che deve la sua
importanza, non all’originalità del pensiero, ma alla sua capacità
di esporre e spiegare in forma chiara le dottrine di filosofi
contemporanei e precedenti. Egli stesso riconosce la dipendenza
dalle fonti greche per i suoi scritti: “mi costano poca fatica,
perché di mio ci metto solo le parole, che del resto non mi
mancano”. Come Antioco, egli ammette quale criterio di verità il
consenso comune dei filosofi, tale consenso si spiega con la
presenza in ognuno delle nozioni innate, simili alle anticipazioni
dello stoicismo. Nella fisica, rigetta la concezione meccanica che
il mondo possa essersi formato in virtù di forze cieche come per
gli Epicurei. Quanto a risolvere positivamente il problema, lascia
in sospeso il giudizio, ritenendolo impossibile. Riconosce
l’esistenza di Dio, ma evita di affrontare i problemi metafici che
sono inerenti a tali affermazioni.
Nella scuola peripatetica l’eclettismo non si è mai radicato
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XII
* L’Eclettismo
profondamente anche se non mancano riformatori come
Andronico da Rodi, famoso per aver iniziato a commentare le
opere del maestro. In seguito tutti i peripatetici seguirono questa
linea fino all’esegeta per eccellenza di Aristotele, Alessandro di
Afrodisia. Tra gli eclettici peripatetici si ricorda il grande
astronomo Claudio Tolomeo, la cui speculazione sul platonismo
e la dottrina pitagorica intorno ai numeri hanno avuto grande
rilievo; il medico Galeno, grande autorità della medicina fino
all’età moderna, che accanto alle quattro cause aristoteliche,
materia, forma, causa efficiente e causa finale, ne assunse una
quinta, la causa strutturale, cioè lo strumento per il quale le altre
quattro operano.
La scuola cinica già dalla prima metà del III° secolo a.C. si
caratterizzò con quel genere letterario detto “diatribe”, specie di
prediche moraleggianti di tono sarcastico, arricchite da artifici
retorici per aumentarne l’efficacia, contro le opinioni e i costumi
dominanti. Nelle satire scritte da Menippo di Gadara, si
rappresentano scene burlesche nelle quali vengono presi di mira
scettici ed epicurei. In seguito però perdette la sua autonomia
fondendosi con la scuola stoica, anche se sopravvisse in vari
modi fino al V° sec. d.C.
Solo l’epicureismo non venne influenzato dall’eclettismo
rimanendo fedele alla dottrina del maestro e con Lucrezio e i
suoi successori continuò per alcuni secoli, con alterne fortune, a
indicare come unica salvezza per l’uomo, l’arte di appartarsi
dalla vita politica e dalle passioni umane, chiusi in una tranquilla
vita privata.
Sommario
89
XIII
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XIII
* Accenni sull’Impero romano
Accenni sull’Impero romano
Credo sia utile al prosieguo delle nostre riflessioni una
breve discontinuità rispetto al tema della filosofia, spostando
l’attenzione sulla storia politica del tempo, con lo scopo, di
meglio definire il contesto e le diverse modalità
di
interpretazione, del pensiero filosofico nel periodo dell’impero
romano e successivo avendo presente l’importanza e l’influenza
che questi fatti hanno avuto, nel bene o nel male, sulla storia
della filosofia sino ai giorni nostri. Gli avvenimenti storici che
seguirono alla morte di Alessandro hanno portato un tale
rivolgimento culturale da provocare una serie di trasformazioni e
cambiamenti che avviarono la civiltà classica verso la modernità.
L’era Ellenistica prima, il periodo alessandrino poi, ricco di
cultura e grandi fermenti, e infine l’età imperiale romana
prepararono e posero le condizioni per il manifestarsi e
diffondersi del Cristianesimo, che se pure come religione, si
avvalse e in molti punti si riconobbe, nella felice mescolanza
della cultura greca classica, dell’ascetismo mistico orientale e
del pragmatismo occidentale romano, che se dal canto suo, non
ha apportato alcun pensiero culturale né importante né profondo,
ha saputo, costruendo buone strade, buoni codici legislativi e con
un esercito efficiente, garantire, un lungo periodo di pace
relativa, e stabilità politica, dall’incoronazione di Augusto (30
a.C.) fino al III° secolo d. C., abituando tutti i popoli coinvolti,
all’idea di essere parte di un'unica civiltà, legata ad un unico
governo globale.
A ciò si giunse dopo una serie di guerre civili, iniziate al
tempo dei Gracchi, intorno alla seconda metà del II secolo a.C.,
alle quali seguirono delle guerre di conquista, sfociate infine con
in una tirannia.
Augusto, figlio adottivo di Giulio Cesare, mise fine alle
contese e praticamente alle guerre di conquista, con una
vittoria sui suoi competitori così totale che non ne rimase alcuno
a contendergli il potere.
Per tutti fu motivo di grande soddisfazione scoprire che il
periodo delle guerre civili era finito e con Augusto il mondo
antico, per la prima volta dall’inizio della civiltà greca, godette
di quella pace e sicurezza che ne Atene ne Alessandro e neppure
Roma prima di lui erano riusciti a realizzare. Merito principale
di Augusto fu quello di aver organizzato l’amministrazione delle
province tenendo in qualche conto anche il benessere del popolo
che lo contraccambiò deificandolo, non solo dopo la morte ma
con spontaneità, anche in vita, sopratutto nelle province. Alla
morte (14 d.C.), la macchina amministrativa continuò a
funzionare in maniera soddisfacente, nonostante i successori si
abbandonarono ad ogni sorta di crudeltà, contro i possibili
competitori alla porpora, estendendo il malgoverno alle
province. Un periodo migliore si ebbe con Traiano nel 98 d.C. e
proseguì fino alla morte di Marc’Aurelio (l’imperatore filosofo)
nel 180 d.C. Quando l’esercito, dopo di lui, conquistò il potere,
si verificò uno spaventoso disastro, in quanto questo imponeva a
suo piacimento gli imperatori in cambio di favori, ricompense e
potere, cessando nel contempo di essere una effettiva forza
difensiva. Davanti a un esercito incapace ormai di assicurare la
difesa dei confini, a causa di interessi particolari, le popolazioni
barbare, da est e da nord, ebbero facile accesso al territorio
romano, che invasero e saccheggiarono a più riprese.
Sotto questa pressione, anche il sistema fiscale decadde, le
risorse ebbero un tracollo e parallelamente aumentarono le spese
per una guerriglia inconcludente. Anche la popolazione diminuì
fortemente a causa delle pestilenze. Queste furono le prime
avvisaglie del crollo del troppo vasto impero, ritardato, da due
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XIII
* Accenni sull’Impero romano
imperatori energici: Diocleziano (284-305), Costantino
(312--337), al quale si deve la divisione dell’impero in orientale
e occidentale, tracciando la linea di confine circa, tra le
popolazioni di lingua greca e latina.
Costantino fissò anche la capitale orientale a Bisanzio,
rinominata Costantinopoli e fu l’imperatore che ebbe l’intuito e
la fortuna, di imporre il Cristianesimo come religione di stato,
anche perché un forte numero di suoi soldati erano cristiani, e
molti provenivano dalle tribù barbare. Quando nel V° secolo i
Germani, annientarono l’impero di occidente, il prestigio oramai
acquisito dalla nuova religione, li spinse ad adottare il
Cristianesimo, conservando per l’Europa, quel tanto dell’antica
civiltà greca che dalla Chiesa era stato conservato.
Dal momento della separazione i due imperi seguirono
storie e vicissitudini diverse fino a divenire due entità differenti
l’una giudaico-cristiana l’altra araba-musulmana. L’impero di
Oriente, pur diminuendo in dimensioni sopravisse fino al 1453,
quando i Turchi conquistarono Costantinopoli.
Le province romane dell’est e l’Africa mediterranea, dopo il
VII° secolo vennero presto assorbite dagli arabi di religione
maomettana, i quali mantennero la civiltà di coloro che avevano
conquistato conservando la letteratura greca e tutto quanto
sopravviveva della civiltà non latina.
L‘adozione del Cristianesimo, da parte di Costantino fu un
successo per certi aspetti insperato, tant’è che i molti tentativi
fatti con altre religioni pagane, dai suoi predecessori, fallirono.
Le religioni tradizionali della Grecia e di Roma erano
adatte per uomini interessati alla vita terrena, che speravano
nella felicità in terra. Ma il periodo è di grande decadenza e la
debolezza del mondo romano, avviato oramai verso il declino,
indirizza gli uomini e in genere, l’orientamento filosofico, verso
forme consolatorie ultraterrene, che il mondo orientale aveva già
92
XIII
* Accenni sull’Impero romano
conosciuto e sviluppato con successo sotto forma di
speranza nell’aldilà.
Il Cristianesimo, che al suo apparire fu scambiato per una
qualsiasi delle tante sette giudaiche, dopo la rivolta antiromana
culminata con la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., si
mostrò con la propria fisionomia monoteista e universale, al
confronto diretto con il mondo decadente pagano, accogliendo e
accettando, della cultura ellenistica propria dell’età imperiale,
quanto di meglio questa potesse offrire.
Sommario
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XIV
* Il Neoplatonismo
XIV
Il Neoplatonismo
L’accentuarsi del carattere metafisico della filosofia nel
periodo romano, trova la sua espressione in un insieme di
elementi religiosi impliciti nella storia del pensiero greco, dalla
religione dei misteri, al pitagorismo, al platonismo; poi nelle
filosofie che si connettono direttamente alle religioni orientali,
cercando di ricondurre ad esse lo stesso pensiero greco (filosofia
greco-giudaica). L’espressione più alta di questo orientamento è
il neoplatonismo, che ha avuto il suo massimo rappresentante in
Plotino
Voglio introdurre l’argomento esaminando con una breve
esposizione, il mutamento graduale del pensiero filosofico dal I
sec. a.C. al III sec. d.C., cercando di seguirne (per quanto
possibile e per come ho compreso) lo svolgersi cronologico,
della cultura e della storia, trattandosi di un periodo, di grandi
mutamenti e rivolgimenti storici e dottrinali, che hanno aperto la
strada al Cristianesimo e alla storia della filosofia moderna
occidentale e non solo, fino ai nostri giorni .
Nella Grecia antica, la ricerca filosofica, della quale
Socrate è il simbolo e Platone il fondatore dell’ordinamento
teoretico, nacque come volontà di liberarsi dalla tradizione, dai
costumi e dalle opinioni prestabilite: “l’uomo non ha bisogno di
ricevere la verità dalla tradizione perché essa è affidata alla sua
ragione”.
In seguito, con la prevalenza dell’interesse religioso sulla
ricerca scientifica, la tradizione riprende i suoi diritti, che le
derivano da una sapienza originaria e trascendente che nel corso
degli ultimi secoli aveva smarrito: “la verità è frutto di una
rivelazione originaria di cui la tradizione ne è garante”. Da qui la
tendenza di questo periodo (età alessandrina), da parte della
cultura dominante, a produrre scritti di falsa o dubbia
attribuzione, atti a testimoniare credenze dell’antichità, e
conferire ad esse la garanzia della tradizione.
La riviviscenza della filosofia pitagorica nel I secolo a.C. si
manifesta con la fioritura di scritti pitagorici falsamente attribuiti
a Pitagora, tutti caratterizzati dal riconoscimento di una
separazione totale tra Dio e il mondo, che porta con sé la
necessità di supporre divinità inferiori che facciano da tramite tra
Dio e il mondo stesso. E’ comune negli scritti ermetici (Ermete
Trismegisto I sec. d.C.) la difesa incondizionata del paganesimo
e delle religioni orientali e l’ostilità per il Cristianesimo.
I neopitagorici sostengono la preesistenza dei numeri, che
sono i modelli in conformità dei quali tutte le cose sono state
ordinate. Principio della creazione è l’Uno identificato con la
divinità o la ragione, la dualità è identificata con la materia. La
dottrina di Numenio di Apamea in Siria (I sec. d.C.) è un
miscuglio di elementi pitagorici e platonici; molto interessante è
la separazione delle tre divinità: il primo dio è puro intelletto e re
dell’universo, il secondo è il demiurgo che manipola la materia
ed è il principio del divenire, il terzo è il mondo creatura del
demiurgo.
E’ in questa conciliazione dei concetti platonici del bene
supremo e del demiurgo con il concetto aristotelico del Dio
come puro intelletto, a presentare caratteristiche che saranno
comuni nella speculazione di questo periodo: il sincretismo
greco-orientale, l’intesa tra Pitagora e Platone, la credenza di
divinità intermedie tra Dio e il mondo, l’opposizione tra spirito e
materia tra bene e male.
Del platonismo medio nella seconda metà del I sec. d.C.,
degno di nota è Plutarco di Cheronea che svolse la sua attività
scientifica ad Atene. Molte sono le opere che ci sono rimaste di
commento a Platone, di fisica, di etica, di psicologia, di religione
e pedagogia, famose sono le “vite parallele” di Greci e Romani.
Come speculazione, egli ritiene impossibile che il mondo derivi
95
XIV
* Il Neoplatonismo
da una causa unica, perché se ciò fosse, il male non
dovrebbe esistere, essendo Dio solo causa di bene, per cui l’altra
causa, che non può essere la materia, la indica come una forza
indeterminata e indeterminabile, che Dio all’atto della creazione
assoggetta, pur rimanendo sempre presente nel mondo come
motivo di ogni imperfezione. Plutarco accetta la divisione
platonica dell’anima in: intellettiva o razionale, irascibile e
appetitiva, anche se in altre parti, combina queste con la
divisione aristotelica. Per ciò che riguarda l’etica, segue
prevalentemente Aristotele. La ragione pratica ha il compito di
moderare gli impulsi irrazionali dell’anima onde poter trovare il
giusto mezzo tra l’eccesso e il difetto. Plutarco ha un’importanza
superiore alla sua opera speculativa, per aver saputo portare a
conoscenza di tutto l’occidente, le dottrine fondamentali della
filosofia greca, meglio che attraverso le opere originali.
In altra parte avevamo già parlato, di quanto la filosofia
greca abbia assorbito e contemporaneamente ceduto parte delle
proprie dottrine e del proprio sapere, solidarizzando e
fondendosi insieme alla tradizione religiosa orientale e giudaica
in particolare. Tra le numerose comunità che popolano il
territorio della Palestina intorno al I sec. d.C. la setta degli
Esseni mostra una profonda affinità con il neopitagorismo e
platonismo, tanto da far supporre che essa abbia avuto delle
influenze molto strette con i misteri orfico-pitagorici. Questa
setta era costituita da varie tribù che praticavano una severa
disciplina e un certo numero di regole ascetiche.
La loro dottrina era codificata nel Vecchio Testamento che
interpretavano secondo una tradizione che risaliva fino a Mosè.
Quasi tutte le loro credenze si ritrovano nel neopitagorismo e nel
medio platonismo del tempo, come: la preesistenza e
l’immortalità dell’anima, una nuova vita dopo la morte,
ammettevano le divinità intermedie o demoni e la possibilità di
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XIV
* Il Neoplatonismo
profetizzare il futuro; questo a riprova, di quanto
nell’epoca immediatamente precedente l’avvento del
Cristianesimo, la diffusione di una filosofia greco-giudaica a
carattere religioso, trova terreno fertile per la nascita, la
propagazione e lo sviluppo.
Un altro anello della catena utile, almeno a mio giudizio,
allo svolgersi della nostra analisi verso il neoplatonismo, è
Filone di Alessandria, “il giudeo”, vissuto a cavallo tra l’ultimo
secolo e il primo dell’era volgare, fu ambasciatore dei Giudei a
Roma, al tempo di Caligola (40 d.C.). Egli esprime grande
venerazione verso le Sacre Scritture e verso Mosè in particolare,
dall’altro lato è anche grande ammiratore dei filosofi classici
greci, ritenendo che la verità espressa da essi, sia la stessa
contenuta nei libri Sacri.
Filone giunse a questa convinzione, interpretando in modo
allegorico le dottrine del Vecchio Testamento adattati ai concetti
della filosofia greca, ne risulta alla fine una forma di platonismo
riferito a Platone ed a Pitagora. Fondamentale per la sua
speculazione sono: la trascendenza assoluta di Dio rispetto a
tutta la conoscenza dell’uomo; la dottrina del logos, come
tramite tra Dio e l’uomo; il fine dell’uomo determinato come
l’unione con Dio. Nella sua perfezione assoluta “Dio è”, e non
“cosa è”. A Lui appartengono “la bontà e il potere”, delle quali è
rispettivamente, Dio e Signore. Tra queste due potenze c’è la
terza, conciliatrice d’entrambe, “la Sapienza, il Logos” che è la
rappresentazione più perfetta di Lui. Il Logos è quindi il tramite
della creazione del mondo, creato da Dio prima come modello
perfetto non sensibile, perciò simile a Lui, poi, servendosi di una
materia originariamente indeterminata ma appositamente
approntata precedentemente, diede a questa, forma e qualità
secondo il modello non sensibile.. Il logos è la sede delle idee,
ed è attraverso loro che Dio ordina e plasma la materia, le
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XIV
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* Il Neoplatonismo
idee quindi sono concepite come forze, perché per il loro
tramite la materia viene plasmata.
E’ dalla materia che scaturiscono le imperfezioni del
mondo. Il fine dell’uomo è il ricongiungimento con Dio. Per
questo, l’uomo in primis, deve liberarsi dalla sensibilità e dai
vincoli con il corpo, liberandosi anche dalla ragione, aspettando,
in una condizione di furore mistico, che la grazia divina lo
sollevi fino alla visione di Dio. Una condizione simile si era già
incontrata e prospettata, parecchi secoli prima, al tempo
dell’orfismo-pitagorico.
Il neoplatonismo è l’ultima manifestazione del platonismo
nel mondo antico. Esso riassume le tendenze e gli indirizzi più
pregnanti dell’orientamento religioso, connaturati nella filosofia
greca e alessandrina dell’ultimo periodo.
Elementi pitagorici, aristotelici e stoici vengono fusi con il
platonismo, in una vasta sintesi che influenzerà tutto il corso del
pensiero cristiano e medioevale, e attraverso esso, anche il
pensiero moderno. L’atteggiamento religioso sottintende che la
verità in quanto tale non va ricercata, perché essa è rivelata e
viene garantita dalla tradizione. Tale verità però va spiegata per
essere compresa e difesa, e a questo scopo, si serve della
filosofia che meglio di altre si presta a tale scopo, nel caso del
Cristianesimo è il platonismo. In questo modo però il
neoplatonismo non ha nulla o molto poco in comune con il
platonismo originale ed autentico, ma assume una confusa
mescolanza di altri elementi dottrinali atti a giustificare un
atteggiamento religioso.
La figura di maggior spicco del neoplatonismo è senza
alcun dubbio Plotino nato in Egitto nel 203 d.C. e morto in
Campania nel 269-70 all’età di 66 anni. Di ritorno da una
spedizione militare in estremo oriente, alla quale partecipò per
conoscere le dottrine orientali, si stabili a Roma, dove fondò una
XIV
* Il Neoplatonismo
sua scuola, ottenendo una discreta popolarità.
L’importanza storica di Plotino è dovuta alla riproposta della
filosofia di Platone in una chiave nuova in cui, elementi desunti
da Aristotele, dagli stoici, dalla religione ebraica e forse anche
dal cristianesimo, ne risulta una sintesi originale ma
profondamente mutata del pensiero platonico.
Di questa nuova formulazione del platonismo i primi
teologi cristiani se ne avvalsero con grande abbondanza tanto
che Dean Inge, nel suo libro su Plotino, sottolinea quanto il
Cristianesimo gli debba: “Il platonismo”, dice, “fa parte vitale
Plotino
Filosofo
della struttura teologica
cristiana, con la quale, nessun
altra filosofia può venire a
contatto senza scontrarsi; c’è
una assoluta impossibilità di
separare il platonismo dal
Cristianesimo, senza mandare
in pezzi il Cristianesimo”.
Sant’Agostino riferendosi a
Plotino ne parla come di un
uomo in cui: ”Platone viveva
ancora”. L’importanza storica
di Plotino, è stato l’aver
operato un elaborato di ciò
che sarebbero stati, il
Cristianesimo medioevale e
la teologia cattolica. La
dottrina di Plotino, che detto
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XIV
* Il Neoplatonismo
per inciso era pagano, riproponendo il pensiero greco di
Platone, presenta la filosofia come l’unica suprema forma di
conoscenza e di sapienza umana, in contrasto con il
Cristianesimo perché fede, e il suo fondamentale dogma,
l’incarnazione (il logos fatto carne). Superando l’antico dualismo
platonico-aristotelico, (idea-materia) (Dio-materia) Plotino
afferma che Dio è al di là dell’essere, della sostanza, della
materia, Egli è trascendente, rispetto a tutte le cose, è infinito,
proprio perché a Lui non si addice alcuna determinazione finita,
l’Uno è ineffabile, poiché qualunque parola si pronunci, si
sarà sempre espresso un “qualche cosa di determinato”; pertanto
può essere espresso soltanto con definizioni prevalentemente
negative.
Con il termine “Uno” non si intende il termine
matematico, ma è l’Uno in sé, cioè l’esclusione del molteplice, il
“bene” assolutamente trascendente, l’Uno come causa di sé,
perché, autocreandosi liberamente, necessariamente si espande
essendo infinita potenza e, come il sole emana da sé il calore in
ogni direzione senza modificarsi, così l’Uno, irradiando da sé
tutte le cose, non ne risulta in alcun modo modificato o sminuito.
Questo processo di emanazione è un processo “necessario e
involontario” non potendo fare a meno di produrre cose quindi,
non è un atto creativo che è sempre libero e volontario. Per poter
svolgere una funzione di mediazione tra l’Uno e la molteplicità
del mondo sensibile, Plotino pensa ad altri due tipi di sostanza,
ad altri due modelli per svolgere questa funzione: “l’intelletto” e
“l’anima del mondo”, e attraverso loro, stabilire una continuità
tra l’Uno e tutte le sue creature. L’Intelletto, che è emanazione e
immagine dell’Uno, pensandosi, da origine all’Anima del
mondo, la quale a sua volta è immagine dell’intelletto.
All’estremo limite dell’emanazione sta la materia intesa come
ricettacolo di tutte le forme, essa si identifica con il male, cioè il
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XIV
* Il Neoplatonismo
non essere, che pertanto è privazione di realtà e di bene.
Trascorrendo da immagine a immagine, l’emanazione subisce un
processo di degradazione, come la luce è meno luminosa nella
misura in cui si allontana dalla sorgente, ciò che emana da Dio,
non può avere né la sua unità né la sua perfezione, ma procede
sempre più verso l’imperfezione e la molteplicità.
Per Plotino il concetto di coscienza diventa centrale e
dominante, come già si era presentata per gli stoici. Essa è
l’atteggiamento di colui che non ha bisogno di guardare fuori da
sé ma; “ ritorna in se stesso” “rientra nell’interiorità” “riflette su
di sé”, “il saggio” dice Plotino “trae da se stesso ciò che rivela
agli altri … e rivolgendosi a se trova in sé tutte le cose”; sono
tutte sue espressioni per indicare la coscienza come
introspezione. Con il ritorno in se stesso l’uomo inizia un
itinerario per il percorso di ritorno a Dio, le cui tappe
proseguono con la liberazione da ogni dipendenza esteriore dal
corpo, purificandosi mediante le virtù, che sono vie di
liberazione dall’esteriorità.
Con la sapienza e l’intelligenza, l’anima dell’uomo si
abitua ad operare senza l’aiuto dei sensi, la temperanza lo libera
dalle passioni, con il coraggio non teme di separarsi dal corpo,
con la giustizia fa sì che a comandare siano la ragione e
l’intelletto. Anche nella musica, nell’amore, nella filosofia,
l’anima trova le vie positive per il ritorno a Dio. La condizione
che precede il ritorno dell’anima non può essere l’intelligenza,
perché questa è condizionata dal dualismo, del soggetto che
pensa e dell’oggetto pensato, mentre Dio è unità assoluta, ma
culmina con l’estasi in uno slancio d’amore, nell’unione mistica
con Dio.
La filosofia di Plotino incoraggia gli uomini a guardare in
se stessi perché è dentro di noi che si trova l’Uno, mentre
guardando fuori si vedono le imperfezioni del mondo sensibile.
101
XIV
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* Il Neoplatonismo
Questo atteggiamento, tutto interiore e individuale, lo si
può riscontrare in forma dottrinale, anche in filosofi precedenti,
come Protagora, Socrate, Platone, negli epicurei, come negli
stoici, ma per tutto questo tempo la curiosità per le scienze non
venne meno, ma continuò a suscitare grande interesse.
Successivamente però, la scienza non venne più coltivata
perché stimata più importante la virtù, non come concepita da
Platone cioè, una possibilità per la conoscenza sulla via delle
conquiste del pensiero, ma, nei secoli successivi, in senso
sempre più limitata alla sola volontà virtuosa.
Plotino sotto questo aspetto è contemporaneamente una
fine ed un principio, una fine per ciò che riguarda i Greci, ed un
principio per quanto riguarda il Cristianesimo. Per il mondo
antico, esasperato da secoli di disillusioni, la sua dottrina che
non era certo stimolante, poteva essere accettabile e consolatoria.
Per il rude mondo barbarico che avanzava, in cui l’energia
sovrabbondante aveva bisogno di essere arginata e regolata, ciò
che del suo insegnamento venne recepito, ebbe un effetto
benefico su un male da contrastare, la brutalità.
Il compito di raccogliere e trasmettere ciò che sopravvisse
della filosofia di Plotino e del neoplatonismo fu assolto dai
filosofi e uomini di cultura cristiani dell’ultimo periodo
dell’impero Romano.
INDICE
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
Le Origini …………………………………….p. 5
Filosofi antichi e Presofisti……………….p. 10
Sofisti e la Crisi………………..……………p. 17
Socrate……………………………………….p. 20
L’influenza di Sparta……………………….p. 27
Platone……………………………………….p. 30
Aristotele e Alessandro…………………...p. 46
L’Età Ellenistica…………………………… p. 65
Cinici e Scettici……………………………..p. 68
L’Epicureismo………………………………p. 71
La Scuola Stoica …………………………..p. 76
L’Eclettismo…………………………………p. 83
Accenni sull’Impero Romano……………p. 88
Il Neoplatonismo…………………………...p. 92