1 2 Sandro Montorfano Sandro Montorfano So solo di non sapere La Filosofia secondo me La filosofia secondo me 3 4 Presentazione Sommario I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV Il Le Origini …………………………………….p. 6 Filosofi antichi e Presofisti……………….p. 11 Sofisti e la Crisi………………..……………p. 18 Socrate……………………………………….p. 21 L’influenza di Sparta……………………….p. 28 Platone……………………………………….p. 31 Aristotele e Alessandro…………………...p. 47 L’Età Ellenistica…………………………… p. 66 Cinici e Scettici……………………………..p. 69 L’Epicureismo………………………………p. 72 La Scuola Stoica …………………………..p. 77 L’Eclettismo…………………………………p. 84 Accenni sull’Impero Romano……………p. 89 Neoplatonismo…………………………...p. 93 Click su di una riga per andare alla pagina Ciò che mi spinge a scrivere questi appunti, è il desiderio di verificare la mia capacità di apprendere e di comprendere una materia come la filosofia, che da sempre considero complessa e difficile, ma verso la quale mi sento naturalmente attratto come fonte di sapere ideale, morale e culturale. La scintilla si è accesa improvvisa, quando mi capitò la fortunata occasione, di partecipare ad una lezione su Platone tenuta dal prof. Aldo Rossini presso l’università A.Volta di Como. Fino ad allora l’interesse per una materia come la filosofia, fosse anche solo per curiosità, non mi aveva mai sfiorato ritenendola, inconsciamente, troppo impegnativa per le mie modeste capacità culturali e per il poco tempo disponibile, anche se in fondo la curiosità di sapere di conoscere e capire mi è connaturata. A tale proposito apro una piccola parentesi, ricordando un episodio di quando ero bambino. Un Natale i miei genitori mi regalarono una automobilina di latta, di quelle a molla che si caricano con la chiavetta, ero felice ma non completamente soddisfatto, perché per me era un regalo che giudicavo importante, quindi da giocarci il meno possibile. Naturalmente arrivò il giorno in cui qualcosa si ruppe, forse la molla e quello paradossalmente, fu il momento di vera gioia, anche se ebbi un rimbrotto della mamma per la proverbiale poca cura, perché potevo “guardarci dentro” per vedere e capire come era fatta l’automobilina e soddisfare la mia repressa curiosità per, almeno questo era il mio intendimento intimo, poterla riparare, ciò che feci, avendo come scusante l’impossibilità di usarla in quelle condizioni e nel contempo il piacere di ripristinarla per poterci ancora giocare. (chiudo la parentesi retrospettica) Ora, mutate le condizioni, e trovandomi nella libertà di tempo sufficiente con la disponibilità mentale appropriata, ho Sommario 5 6 Presentazione I Le Origini pensato di annotare ciò che più mi attira e colpisce della materia filosofica, naturalmente senza la pretesa di farne una sintesi scientifica e storica rigorosa, ma semplicemente proporre, gli avvenimenti e i personaggi conosciuti, nel modo in cui io li ho compresi e interpretati, per il piacere di fermare, fissare idee e concetti per poterli consultare ed eventualmente confrontarli o modificarli in un secondo tempo, in ciò servendomi dello schema del corso di filosofia della prof. Cairoli dell’A. Volta; naturalmente con l’ausilio di libri, letture e volumi. E’ con questo spirito che ho cercato di curiosare, intrufolandomi tra la storia, i miti e l’insegnamento dei filosofi, annotandone le frasi, i pensieri, i motti, i concetti particolari che hanno attirato la mia attenzione e ammirazione, anche se forse, non di importanza fondamentale, cercando di seguire una collocazione temporale e storica. Ciò che ne uscirà, sarà per me come la sorpresa nell’uovo di Pasqua, che scoprirò alla fine con piacere, sicuramente con curiosità e interesse. Devo ricordare il grande aiuto ricevuto da Fabio, nell’accompagnarmi e nel motivarmi all’uso del computer, senza il supporto del quale nulla avrei potuto. La mia indagine inizia, naturalmente in forma necessariamente sintetica, intorno al VI sec. a.C., nel periodo mitico dell’Orfismo Pitagorico, quando la storia della Grecia classica inizia con quella fase di grande espansione culturale, economica e civile che raggiungerà il suo massimo con Aristotele intorno al 320 a.C. e con diverse e alterne fortune proseguirà fino ai giorni nostri. Sandro Montorfano In origine il culto di Dioniso, divinità venerata soprattutto dalle popolazioni della Tracia, culturalmente più rozze e quindi considerate barbare dai Greci, ebbe una notevole penetrazione e influenza in tutta la civiltà Greca fin dalle sue origini storiche. Pur non essendo connesso con gli dei dell’Olimpo, Dioniso o Bacco era considerato dalle popolazioni Tracie il dio al quale era associato il culto della fertilità ed a lui erano diretti i riti propiziatori intrisi di profondo misticismo, ma anche di primitiva violenza. Quando si trovò il modo di produrre il vino e se ne scoprì la proprietà inebriante, fu interpretato come un segno divinatorio e si dette il merito appunto a Bacco. In seguito le funzioni e i riti della fertilità furono in un certo senso subordinati alle feste riguardanti l’uva e “la divina follia del vino”. E’ quasi sicuro che questo culto si insediò anche nel resto della Grecia prima dell’inizio dei tempi classici e nonostante le molte possibili contrarietà da parte dell’ortodossia liturgica il culto di Bacco attecchì in profondità. Per comprendere come ciò sia avvenuto bisogna rifarsi all’epoca e alla convulsa crescita della nuova Grecia del VI - V sec. a.C. . Il rapido sviluppo civile e una certa consuetudine al conformismo corrente, in cui la razionalità e la virtù si fanno elementi sgraditi, opprimenti e male sopportati, dalla classe dominante Ateniese sopratutto, crea per reazione, il desiderio e l’aspirazione di ritornare ad un presunto migliore costume di vita primitiva, più istintiva e passionale di quella prevalente imposta. Il rituale bacchico, generando il cosiddetto “entusiasmo”, cioè l’entrata del dio nel suo adoratore attraverso l’ebbrezza del vino e i rituali mistici, procura una forma d’affrancamento dall’oppressione della civiltà, la quale vista come sinonimo di scienza e razionalità, non riusciva a soddisfare appieno i 7 I * Le Origini desideri degli uomini che sentivano il bisogno di passione, d’arte ma anche di religione. Il culto di Dioniso, che nella sua forma originaria e primitiva era per molti aspetti crudele e selvaggio, col tempo subì una riforma di tipo mistico-rituale attribuita ad Orfeo, figura mitologica che per questo, così dice il mito, fu ridotto a pezzi dalle Menadi, (specie di sacerdotesse tradizionaliste custodi del culto). Questa metamorfosi, venne accolta favorevolmente nel suo aspetto più spirituale e mistico, dai filosofi e dai religiosi, avendo acquisito molti elementi di somiglianza con le dottrine provenienti dall’Oriente e dall’Egitto. Gli orfici erano una setta ascetica, credevano nella trasmigrazione dell’anima, aspiravano a divenire puri attraverso i rituali di purificazione, per loro il vino era poco più di un simbolo e l’ebbrezza che cercavano era “l’entusiasmo”, cioè l’unione con il dio e solo in questo modo pensavano di acquistare la conoscenza mistica. Questa miscela di misticismo e ascetismo fu acquisita dalla filosofia Greca e valorizzata soprattutto da Pitagora che fu, oltre che matematico e filosofo, un riformatore dell’orfismo, come Orfeo prima di lui, lo fu della religione di Dioniso. Attraverso il pitagorismo molti elementi orfici furono recepiti da altri filosofi e da Platone in particolare, e da questo in seguito in molta parte della filosofia posteriore. Ovunque si affermò l’Orfismo sopravvissero molti elementi bacchici come il femminismo, che appunto in Platone, si manifestò al punto di dover proclamare l’eguaglianza politica per le donne. Un altro elemento bacchico caratteristico era l’ascetismo e l’importanza data alle forti emozioni, alle passioni violente dalla quale derivò gran parte della tragedia greca. Euripide nelle sue tragedie trattava senza rispetto, quasi con disprezzo, l’uomo giusto, freddo, di specchiata condotta e alla fine lo irrideva in ogni modo, facendolo cadere in disgrazia 8 I * Le Origini dinanzi agli dei come punizione per la sua “empietà”, onorando nel contempo i due più importanti dei dell’orfismo Eros e Bacco. Differenti erano gli approcci concettuali alla religione, principalmente per quanto riguarda la purificazione, che nell’orfismo come abbiamo già detto è una progressiva apertura mistica alla rivelazione divina attraverso riti iniziatici e misterici, nel pitagorismo essa è frutto del sapere e si conquista attraverso la matematica, la musica e l’astronomia. Questa religione, che ebbe il suo massimo sviluppo intorno al VI° secolo a.C. si diffuse in tutta l’Ellade in coincidenza col trasferirsi della scena storica dalla Ionia verso occidente, trasformandosi in maniera diversissima rispetto a quella ionica. In particolare l’adorazione di Dioniso contiene in germe, un modo interamente nuovo di considerare i rapporti dell’uomo con il mondo, tanto che il fenomeno dell’estasi suggerisce ai Greci che l’anima è qualcosa di più di un doppione di se stessi, perché questa mostra “fuori dal corpo” la sua vera natura. Sembrò che tale religione stesse per giungere anche in Grecia allo stadio già raggiunto dalle religioni orientali e cioè divenire religione di stato, ma ciò non avvenne, per merito della proliferazione delle scuole scientifiche. Questa nuova religione, perché tale era per un certo aspetto, anche se per l’altro verso (i riti magici e le credenze) era vecchia quanto l’umanità, raggiunse il suo più alto punto di sviluppo con la fondazione delle “comunità orfiche”. La sede originaria di queste fu l’Attica, ma esse si diffusero con straordinaria rapidità nelle colonie dell’Italia Meridionale e della Sicilia, differenziandosi e assumendo delle caratteristiche nuove e diverse, in cui gli adepti si raccoglievano in gruppi e comunità religiose per onorare il culto di Dioniso, al quale chiunque poteva partecipare per iniziazione. Ora è interessante sottolineare la straordinaria analogia tra le credenze orfiche e quelle dominanti in India 9 I 10 * Le Origini intorno alla stessa epoca, pur sapendo con sufficiente certezza che, non possono esserci stati contatti tra le due culture. Naturalmente non tutti i Greci erano inclini alla religione e al misticismo anzi, un’altrettanta parte di loro, era empirica, razionalistica e desiderosa di raggiungere la conoscenza profonda dei fatti. Nella stessa Atene che, pur aveva posto sotto la protezione della legge e introdotto tra i rituali di Stato la celebrazione dei misteri Aleusini, la dottrina orfica restava circoscritta tra la cerchia ristretta degli iniziati, senza influire minimamente sulla religione di Stato. In generale si può affermare che chi era di temperamento religioso si volgevano all’orfismo, mentre i razionalisti lo disprezzavano. Questa seconda parte della cittadinanza Greca, razionalista e pragmatica, almeno la più colta, andava perseguendo una diversa conoscenza di tipo laico e materialista che si indirizzava allo studio delle leggi che presiedevano l’origine del mondo e la nascita dell’universo e più in generale tutto ciò che era attinente alla fenomenologia della natura. Alcuni di questi pensatori soprattutto quelli di scuola milesia si indirizzarono con grande impegno verso quest’altra scienza, la filosofia cosmologica, rivolgendo la loro attenzione alla natura, ai suoi principi, e a ciò da cui tutte le cose derivano (archè), ricercando, con la sola ragione, la conoscenza totalizzante della realtà. La “filosofia” che non è mito non è religione non è astrologia non è neanche alchimia, anche se in origine tutto o in parte era presente e mescolato, si avvia a diventare scienza. Essa , che è “amore del sapere”, risponde al bisogno innato nell’uomo di conoscere e spiegare il perché delle cose ricercandone i principi generali. Nasce intorno al VI secolo a.C. nelle colonie greche dell’Asia minore e particolarmente a Mileto con Talete, Anassimandro e Anassimene e ad Efeso con Eraclito. In seguito si diffonde anche nelle colonie della Magna Grecia: a Crotone in Calabria con Pitagora, ad Elea in Campania I * Le Origini8 con Parmenide Senofane e Zenone, ad Agrigento in Sicilia con Empedocle. Nel V° secolo infine approda ad Atene all’epoca aurea di Pericle, con Anassagora e i suoi seguaci. Scuola Pitagorica Sommario 11 12 II * Filosofi Antichi e Presofisti II Filosofi Antichi e Presofisti Secondo la tradizione chi ha cercato di dare una risposta razionale sull’origine dell’universo, dei suoi processi di trasformazione per come noi li vediamo, e il loro destino futuro è stato Talete, studioso di geometria, matematica e astronomia vissuto a Mileto intorno al VII e il VI sec. a.C., egli afferma che “principio di tutte le cose è l’acqua”, l’acqua come principio universale in quanto fonte continua di vita. Al pari dell’acqua Talete introduce anche il concetto di anima, vista come soffio vitale in quanto principio di movimento in tutte le cose, in una concezione del tutto nuova rispetto alle conoscenze correnti quando, l’anima era come un altro io che sta in noi. Molti sono gli aneddoti a lui attribuiti, come l’aver previsto un’eclisse di sole avvenuto nel 585 a.C. Recatosi in Egitto calcolò l’altezza delle piramidi, studiò la proprietà della calamita, scoprì il sistema per calcolare la distanza delle navi dal porto e Platone, oltre due secoli dopo, lo colloca al primo posto tra i sette sapienti. Per Anassimandro invece, principio di tutte le cose è “l’àperion”, termine che significa inesauribile, infinito, indefinito, cioè quel che non può essere attraversato da una parte all’altra fino alla fine. Immagina essere una sostanza infinita, eterna e senza età e che “abbraccia tutti i mondi”, infatti egli crede che il nostro mondo sia uno fra molti. Questa sostanza primigenia, contiene tutto ciò che esiste in forma inerte, come un particolare magma e diverranno sostanze e forme a noi famigliari quando, con il movimento di cui l’àperion è naturalmente dotato, causa il distacco dei “contrari”. A questo proposito fa una importante affermazione: “da quello onde viene la nascita delle cose, in quello va anche la loro morte secondo la necessità, poiché essi pagano a vicenda la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Questa idea della giustizia suggerisce che c’è una regola di “alternanza”, nel mondo finito, per cui vi è un tempo entro il quale tutto viene riequilibrato. Ragione di tale dinamica è che: ogni elemento essendo un contrario, sussiste proprio in virtù del suo opposto ed è da questa relazione che trae vita e senso. Se un contrario si assolutizzasse sopprimerebbe l’altro impedendo a questo di sussistere, ecco perché Anassimandro rifiuta l’idea di Talete, che sia l’acqua l’elemento principe e base di tutto, perché se così fosse avrebbe superato ogni altro elemento. Egli prospettò per primo l’ipotesi evoluzionistica dicendo che l’uomo discendeva dai pesci. Anassimene è l’altro grande di Mileto, visse probabilmente tra il 588 e il 528 a.C. fu allievo di Anassimandro, egli identificò l’àperion “nell’aria” che “da essa vengono le cose che si producono, quelle che si sono prodotte, e quelle che si produrranno, gli dei e le cose divine”. L’aria ha parecchie caratteristiche in comune con l’àperion: è inafferrabile, è inesauribile, è invisibile ed è sempre in movimento. L’anima è aria; il fuoco è aria rarefatta; condensandosi diventa acqua; e ancora più condensata diventa terra e poi pietra; egli immagina la terra piatta e rotonda tutta circondata dall’aria che la tiene insieme. Anassimene ebbe una notevole influenza su Pitagora e su gran parte della successiva speculazione. La scuola di Mileto è importante non per i risultati che raggiunse, ma per ciò che tentò. Le speculazioni dei tre di Mileto vanno riguardate come ipotesi scientifiche e mostrano raramente, indebite intrusioni di desideri antropomorfi e di idee morali. Pitagora, nato nel 570 a.C. a Samo isola dell’Egeo, lasciò la città in seguito alla caduta del tiranno Policrate, si trasferì a Crotone nel 530 a.C. dove fondò la sua scuola. E’ difficile distinguere le dottrine di Pitagora, da quelle dei suoi discepoli, dato che la sua scuola si presenta più che altro come una 13 II * Filosofi Antichi e Presofisti associazione religiosa, ascetica e mistica, per cui si parla più precisamente di “scuola pitagorica” la quale sottolinea il legame esistente tra pitagorismo e orfismo, già accennato, con diversi punti di relazione evidenti ma anche di separazione. Se i filosofi di Mileto avevano cercato il principio della natura in una sostanza particolare l’attenzione dei pitagorici si rivolge principalmente alla forma e trovano nel numero l’elemento di somiglianza in quanto tutte le cose sono limitate , cioè misurabili; per cui la misura e quindi il numero è il loro modo essenziale di essere. Studiando l’armonia musicale e le sue regole, osservando il moto regolare dei fenomeni dell’universo, probabilmente i pitagorici giunsero ad attribuire al numero la funzione di archè (origine e causa di tutte le cose). Essi facendo corrispondere ad ogni numero una figura determinata si spinsero a trovare corrispondenze magico-religiose tra alcuni numeri e i fenomeni più diversi della vita come, la giustizia il quattro e il nove, il matrimonio il cinque, la perfezione il dieci , ecc.. dando ai numeri dispari tutte le determinazioni positive, quelli pari le determinazioni negative. Da queste opposizioni scaturisce poi l’armonia universale di tutte le cose, che trova nella musica la sua espressione più alta. Si apre cosi per i pitagorici l’universo, diventando comprensibile al pensiero e aperto alla conoscenza attraverso il numero. La visione filosofica rappresentata da Eraclito (nato ad Efeso in Lidia intorno al 500 a.c.) è caratterizzata dal persistente conflitto, dal continuo mutamento che sconvolge l’ordine del mondo e mette in contrapposizione uomini e dei, città e tempio, potere e sapere. Egli dalla sua prospettiva materialistica e non mistica individua nel fuoco i caratteri essenziali della realtà “eternamente vivente che si accende con misura e con misura si spegne”. Il fuoco è elemento sempre vivo, in perenne movimento, capace di 14 II * Filosofi Antichi e Presofisti trasformare ogni cosa e più dell’aria, è adatto a spiegare il divenire universale in quanto la fiamma che pare qualcosa di stabile, in realtà è in continuo flusso. Il cosmo viene mantenuto in equilibrio da un’armonia di tensioni contrapposte e ogni fattore ha il suo contrario pur essendo identico, proprio come salita e discesa sono aspetti diversi della stessa strada. L’uomo, essendo impossibilitato ad elevarsi alla verità, a causa dell’inaffidabilità dei suoi sensi, deve continuamente ricercarla col pensiero e l’intelligenza (logos) dentro di se e solo chi se ne è impadronito può ritenersi saggio. La realtà appare in continuo divenire, tutto passa e nulla rimane, “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume perché sempre nuove acque scorrono intorno a te”. “L’unità è formata da contrari e i contrari sono tali nell’unità che li lega”. Con Parmenide si ebbe una diversa fase della speculazione filosofica. Nacque ad Elea intorno al 540 a.C. formulò ottime leggi per la sua città e fu molto onorato dai suoi cittadini. Egli individua due aspetti diversi della conoscenza dell’uomo: “Il pensiero” cioè ciò che è, e “l’apparenza” che è ciò che si percepisce attraverso i sensi. Tre sono i principi basilari della verità: la realtà, il pensiero e il linguaggio; solo scomponendo la “realtà” e quindi col “pensiero” si giunge alla conoscenza che è espressa col “linguaggio”. L’essere “è” perché non è possibile che non “sia”, non esiste il non essere perché non può esistere ciò che non “è”. Questa è la dottrina Parmenidea. Solo col pensiero “l’essere” è conoscibile e solo ciò che “è” può essere pensato. E’ nel linguaggio però che l’essere trova la sua più adeguata espressione. Si è chiesto: cos’è l’essere? Parmenide precisa che: “è ciò che non nasce e non muore, vive in un eterno presente, è unico, immobile, continuo simile a una sfera” Su queste basi, altri pensatori, suoi allievi e non, si sono cimentati nella ricerca e nell’analisi portando alle estreme 15 II * Filosofi Antichi e Presofisti conseguenze il discorso parmenideo, con conclusioni assolutamente contrapposte. Zenone, concittadino e tenace difensore della tesi del maestro nacque verso il 489 a.C. Egli, a chi ritiene assurda in nome della testimonianza dei sensi, l’immutabilità, contrappone l’unità e l’indivisibilità dell’essere con ben 40 paradossi (argomenti contro l’opinione comune) tendenti a dimostrare per assurdo, la fragilità delle tesi contrarie a quelle eleatiche. Sono noti il paradosso contro il movimento “Achille e la tartaruga” in cui se la tartaruga parte favorita anche di un solo passo Achille “piè veloce” non la raggiungerà mai in quanto dovrà percorrere lo spazio che ha gia percorso la tartaruga, ma questa a sua volta Zenone di Elea avrà fatto un tratto fino a S1 e quando Achille avrà raggiunto il punto S1 essa avrà raggiunto il punto S2, e cosi via all’infinito. Altro esempio è quello della freccia che, scagliata contro un bersaglio, rimane immobile infatti, in ogni istante di tempo che la freccia occupa uno spazio determinato uguale a se stessa è in posizione di riposo per cui, sommando la totalità di istanti che la freccia si trova in riposo essa pur movendosi per i nostri sensi sarà sempre ferma e ciò è un assurdo. Quindi sia nel primo che nel secondo esempio, si dimostra che la molteplicità e la divisibilità contrastano con la logica. Per questi argomenti chiamati sofismi o cavilli Zenone fu definito inventore 16 II * Filosofi Antichi e Presofisti della dialettica, intesa come arte della confutazione Melisso fu un strenuo difensore della dottrina parmenidea e in polemica contro Empedocle e Leucippo, la sviluppa ulteriormente affermando che l’essere uno e immobile si contrappone al molteplice e al cambiamento, i quali rappresentano la sfera dell’apparente. Egli polemizza di preferenza contro il mutamento “se l’essere mutasse anche solo di un capello ogni diecimila anni, andrebbe interamente distrutto nella totalità del tempo” e ne sottolinea “l’incorporeità “. “Se è (l’essere) bisogna necessariamente che sia uno; ma se è uno non può aver corpo, perché se avesse corpo avrebbe parti e non sarebbe più uno”. La negazione della corporeità nella dottrina parmenidea è implicita come la negazione della molteplicità e del mutamento e nel rifiuto dell’esperienza sensibile come via di accesso alla verità. Questa tesi però non consente di spiegare la realtà sensibile della molteplicità e del cambiamento che pur esiste, quindi bisogna conciliare in qualche modo questo fatto con il principio parmenideo. La soluzione viene trovata da Empedocle nella combinazione dei quattro elementi (radici) fuoco, aria, acqua, terra, che essendo increati, indistruttibili, indivisibili e sempre uguali a se stessi, nel senso che anche se divisibili in parti solo per quantità, ognuna presenta ancora immutate le qualità del tutto e quindi è priva di molteplicità. Ognuna delle radici è in se stessa completa e omogenea, non nasce e non muore, ma il combinarsi e il dividersi degli elementi produce l’apparenza di tutte le cose, nascita come mescolanza, morte come separazione. Anche Anassagora, amico e consigliere di Pericle, cerca di conciliare la tesi eleatica con la ricerca sul mondo fisico iniziata dagli Ioni, e come Empedocle in Sicilia anch’egli sostiene che nulla nasce e nulla perisce, all’interno del mondo sensibile ma tutto si trasforma. Elementi costituenti qualsiasi cosa sono, i Sommario 17 II 18 * Filosofi Antichi e Presofisti III “semi” infiniti per numero e qualitativamente presenti: “in tutto c’è il tutto e tutte le cose sono in tutto”. Ogni cosa ha qualità manifeste e qualità nascoste (sotto forma di semi), in tal senso sono presenti anche nelle parti in cui le cose vengano eventualmente divise, così proprio perché hanno qualcosa in comune possono trasformarsi le une nelle altre avendo ogni cosa parte di ogni altra. Per Anassagora la conoscenza avviene tramite la memoria, l’esperienza, il sapere e la tecnica Sofisti e la Crisi Intanto con lo sviluppo dei traffici e dei commerci Atene si avvia a divenire il centro d’attrazione culturale più importante della Grecia. Sempre più pensatori e maestri di diritto affluiscono in città provenienti da ogni parte del vasto mondo Ellenico, grazie alla mentalità cosmopolita dei suoi abitanti e alla loro ricchezza, tanto da divenire anche per i secoli successivi lo stato Greco più rappresentativo di tutto il Mediterraneo. In queste condizioni di grande fermento economico e culturale la popolazione prese coscienza della necessità di un nuovo assetto politico, più democratico e quindi la necessità di formare una classe dirigente preparata per le nuove realtà. Nacquero cosi le scuole di pensiero, i cui maestri chiamati Sofisti insegnavano, a pagamento, la matematica, la filosofia e l’arte di ben parlare in pubblico, tanto da divenire molto ricercati fra i rampolli delle famiglie altolocate. Tra questa schiera d’insegnanti per la maggior parte mestieranti di professione, non raramente si trovavano dei veri filosofi e pensatori originali che si contornavano di giovani allievi desiderosi di apprendere l’arte della politica, della facile oratoria e della retorica allo scopo di conquistare il consenso popolare. Il merito principale dei Sofisti fu di operare una vera e propria rivoluzione filosofica spostando l’oggetto dell’indagine dalla natura, sull’uomo, cioè dal macrocosmo al microcosmo. Questa fu anche conseguenza delle difficoltà di sperimentare, con strumenti oggettivi e inconfutabili, le intuizioni percettive sulla fenomenologia della natura, oltre al mutato contesto storico e politico che l’Atene di Pericle, avviandosi decisamente verso la democrazia, impose, segnando il definitivo tramonto del vecchio regime aristocratico 19 III * Sofisti e la Crisi Oltre all’oggetto cambia anche il metodo della ricerca, non più deduttivo ma induttivo cioè, non più individuato il principio da cui le cose hanno origine, dedurne la spiegazione della realtà; ma raccogliere tutta una serie di fatti reali e concreti concernente l’oggetto da indagare e trarre da questi elementi, lo scopo dell’indagine. Per ultimo oltre all’oggetto e al metodo cambia anche il fine cioè non più la ricerca della verità oggettiva e assoluta ma la capacità di creare una verità che non possa essere confutata e che si adatta al fine dell’indagine sull’oggetto. Convinto assertore del potere enorme della retorica fu Protagora che esprime molto bene il suo pensiero in questa frase: “L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono”. Tutte le opinioni hanno uguale valore quindi non vi sarebbero opinioni false e in genere non vi sarebbe mai l’errore, diventa palese che se accostiamo ciò al campo politico si deve affermare che entra di prepotenza la prospettiva relativista. Il criterio che determina il valore di un’opinione rispetto ad un’altra è la sua utilità e quindi, è sapiente colui che induce negli altri opinioni migliori cioè più utili. Per Gorgia allievo di Protagora il linguaggio ha due funzioni principali una distruttiva la “dialettica” e una costruttiva la “retorica”. In contrapposizione netta con il suo maestro egli afferma che: ”Nulla esiste perché non generato e quindi infinito e se è infinito non è in nessun luogo. Se anche qualcosa esistesse non sarebbe conoscibile in quanto, sarebbe necessario che ciò che noi pensiamo, esista per il semplice fatto che lo pensiamo, ma anche ciò, non ci assicura che esiste davvero. Se poi fosse anche riconoscibile non sarebbe comunicabile, poiché il linguaggio non può tradurre altro che ciò che i sensi (vista, udito ecc.) rivelano, che però è solo l’apparenza soggettiva esterna dell’essere, 20 III * Sofisti e la Crisi perciò non si può provare l’esistenza di ciò che non è, né conosciuto né comunicato” Di Gorgia va ricordato lo scritto “Encomio di Elena” nel quale contro tutta la tradizione, difende a spada tratta la non colpevolezza di Elena per il suo tradimento e la conseguente guerra di Troia. Sia che essa si fosse invaghita di Paride per volontà degli dei, o per una trappola delle circostanze, o per la forza irrefrenabile della passione essa è comunque vittima del caso o degli dei per cui non colpevole, essendo la vita non guidata dalla logica ma dalle circostanze contingenti e dalle passioni. Concludendo si può affermare che per Gorgia tutto è falso perché su tutto domina il non essere, l’illusione e l’apparenza. Molti altri furono i Sofisti che dibatterono il tema del valore delle leggi e della loro natura, ma a poco a poco con la crisi della polis e di Atene in particolare, anche la sofistica entrò inesorabilmente in crisi a causa delle tensioni negative cresciute in se stessa, nate dalla esasperata speculazione di quei principi innovatori che pure aveva introdotto, rivelatisi però capaci solo di critica ai valori e alle credenze tradizionali, ma incapace di suggerire soluzioni nuove per una convivenza effettivamente praticabile. Anche in ambito puramente filosofico non si seppero sviluppare quelle intuizioni fondamentali, come l’autonomia del logos (ragionamento), o la critica delle verità assolute, con la necessità di rapportarle agli interessi veri e concreti dell’uomo, e tutto cadde presto in una pura serie di futili e inutili paradossi e insignificanti dispute verbali. Sommario 21 22 IV * Socrate IV Socrate Socrate che pure nacque e visse in quegli anni di grande fermento ebbe sempre una posizione di forte critica verso l’esasperazione della sofistica e pur adottandone il metodo e il tema si rifiutò di ridurre la sua analisi a pura retorica tentando di andare oltre il relativismo gnoseologico (della conoscenza) aiutando l’uomo a maturare le verità comuni cioè valide per tutti e capaci di avvicinare gli uni agli altri . Il suo motto “Conosci te stesso” è l’indice del modo di concepire la filosofia come esame e ricerca in se stessi. Busto di Socrate Chi fu Socrate non si sa con certezza, perché non lasciò nessun scritto e ciò che sappiamo è opera di scrittori suoi allievi o a lui contemporanei per cui ognuno lo descrisse secondo la propria sensibilità o interesse tanto che alcuni, descrivendo con occhio poco benevolo il suo vissuto quotidiano, ne sottolineò gli aspetti tutt’altro che esemplari fino a identificarlo come un tipo, a dir poco bizzarro e poco raccomandabile, che di lavorare non aveva gran voglia preferendo vagabondare per la città scherzando e chiacchierando alla buona con bottegai e commercianti sempre pronto a far baldoria, alzare il gomito e fare allegre scampagnate al Partenone con i suoi allievi, si diceva avesse anche dei debiti. Vestiva sempre con lo stesso chitone tutto sgualcito e rattoppato sempre a piedi nudi sia d’estate che d’inverno e anche se invitato nelle case signorili oramai nessuno più si meravigliava. Pure la moglie Santippe che aveva sposato in età avanzata si lamentava che non si lavava mai e che trascurava casa e famiglia e quando questa, esasperata lo denunciò lui difese le buone ragioni di lei e davanti ai suoi allievi indignati affermò che come moglie aveva perfettamente ragione e che avrebbe meritato un marito migliore di lui. Una volta assolto, riprese tranquillamente le sue abitudini extradomestiche, come sempre frequentando il salotto intellettuale di Aspasia e non solo ma anche bordelli di bassa reputazione. Non risulta avesse frequentato scuola alcuna, viaggiò molto poco fu certamente influenzato dall’insegnamento di Anassagora attraverso Archelao suo maestro, quasi sicuramente conobbe di persona Zenone dalla cui dialettica attinse parecchio ma di altre conoscenze dirette con filosofi del tempo descritti da Platone probabilmente non ve ne furono. Del resto il metodo che Socrate adottò per la sua formazione culturale fu esclusivamente la meditazione e la conversazione con chiunque si trovasse a colloquiare, e i temi che si era proposto di analizzare cioè cos’è il bene e qual è il regime politico adatto a perseguirlo, escludeva per principio la consultazione scolastica Ciò non di meno da questa allegra brigata di compagni di merende uscirono grandi come Platone, Aristotele, Euclide, Aristippo, un avventuriero in politica come Alcibiade, perfino un generale e storico come Senofonte. Figlio di uno scalpellino, Socrate non si impegnò mai a continuare il mestiere paterno preferendo ispirarsi al mestiere 23 IV * Socrate della madre che faceva la levatrice aiutando cioè i suoi allievi a partorire giustizia e verità, almeno questo era il suo intento. Fino a circa quarant’anni non se ne sa nulla di lui, (nacque ad Atene intorno al 470/69 a.c.) e solo intorno al 430 a.C. nella commedia di Aristofane “le Nuvole”, una satira politica contro i sofisti che in quel tempo spopolavano ad Atene, è menzionato per la prima volta Socrate come il simbolo di un certo tipo di intellettuale innovatore, sofista, anzi dei peggiori, che con i suoi discorsi corrompe i giovani dabbene negando gli dei patri. Poi si sa che partecipò alla campagna di Potidea, in Tracia, e ritornò ad Atene nel 428 a.c. partecipò alla guerra contro i Beoti nel 424 a.c. ancora nel 422 combatte ad Anfiboli e nel 421 tornò ad Atene, pare che in questi anni tra il 420 e il 415 a.C. sposò Santippe dalla quale ebbe tre figli, nel 405 fu eletto membro del Consiglio dei cinquecento e nel 404 a.C. si oppose a rischio della vita al volere di Crizia capo del governo dei trenta Fondamento della sua filosofia è la piena consapevolezza di non conoscere nulla e quindi la necessità di porsi dinnanzi all’oggetto da indagare ricercandone la verità e il bene di volta in volta mediante l’analisi, la meditazione e il confronto. Per rispondere a questa necessità, il metodo socratico si articola in due parti; una distruttiva formata dall’ironia e una parte costruttiva formata dalla maieutica, i due momenti si comprendono e si implicano a vicenda. La maieutica è l’arte (il mestiere) che la levatrice usa per aiutare le donne a partorire e che similmente Socrate usa, con le sue domande pungenti, stimolando il ragionamento, aiutano a portare alla luce la verità, operazione questa però che costa fatica e sforzo, dovendosi svolgere in comune, infatti diceva che la verità è di tutti, ma la ricerca è dei singoli. Sotto l’incalzare del domandare Socratico: Cosa è?…Che cosa intendi per?… Che significa ciò?…viene 24 IV * Socrate messo a nudo tutto il falso sapere e tutta la presunzione di conoscenza costringendo a uno sforzo di ricerca e di analisi profonda. L’ironia dunque è la messa in discussione delle proprie certezze delle proprie convinzioni morali dei propri pregiudizi. La maieutica è la parte costruttiva in cui con sforzo e fatica attraverso la discussione è portata alla luce la verità quella che ognuno ha ricercato e trovato in se stesso. Sottolinea Socrate, ciò non è possibile a tutti, ma solo a chi è in stato di gravidanza, cioè chi ha la capacità e il coraggio di ripensarsi, di mettersi in discussione. Per Socrate non c’è il bene e neppure il male acquisito ma importante è il saper operare bene, rispecchiandosi negli altri e ricercando ragionevolmente ogni volta verità e giustizia, con la coscienza che la scelta fatta è la stessa che ogni uomo, trovandosi nella medesima circostanza e a parità di condizione, avrebbe operato. Si può immaginare che il suo modo di comportarsi, un po’ insolente ed irriverente, a molte persone di rango, non stava bene sentirsi messi in discussione, si fece quindi dei nemici in coloro che vedevano in lui un pericolo per l’ordine costituito. Alcuni membri della classe dirigente Ateniese lo denunciarono presso il tribunale, accusandolo di corrompere i giovani, di non riconoscere gli dei della città e di averne introdotti degli altri. La pena richiesta era la morte, e purtroppo per Socrate il verdetto gli fu sfavorevole e venne condannato. Si può ragionevolmente pensare che le ragioni vere della condanna vadano ricercate al di fuori delle accuse medesime, in un odio profondo che covava da tempo nei suoi confronti. Socrate si era attirato un profondo risentimento e una notevole ostilità personale da parte dell’elite Ateniese la quale non sopportava più di essere criticati da un personaggio le cui domande impertinenti e la grande popolarità che suscitava tra i 25 IV * Socrate cittadino comuni e i giovani, impediva loro di dormire sonni tranquilli e fare gli affari loro, con in più i giovani che si opponevano ai padri e alle vecchie tradizioni. A Platone, suo allievo devoto, (che pure era presente) il processo deve essere sembrato un’ingiustizia e un crimine contro la verità e disgustato se ne andò da Atene per parecchi anni. Tutta la vita di Socrate al servizio della filosofia per la ricerca della virtù e del bene, lo troviamo concentrato nelle pagine “dell’Apologia di Socrate” scritta alcuni anni dopo la morte, da Platone in ricordo del maestro, essa racconta ciò che di quel processo gli era rimasto impresso. Senza dubbio quest’opera fu scritta per essere rappresentata e vista in chiave storica anche se filtrata da chi, tra i suoi allievi fu il migliore. Ciò che emoziona nell’Apologia sono le argomentazioni, i concetti, le idee e quella incrollabile fede nelle leggi e nella giustizia che Socrate rivolgendosi prima agli Ateniesi, poi ai giudici e agli amici esprime con una forza morale tale che solo chi ha una forte coscienza della verità può esprimere. Mi piace ricordare: rivolgendosi al pubblico presente al processo “O cittadini Ateniesi, v’amo con tutta l’anima, ma più che a voi vorrò obbedire al dio e fintanto che abbia respiro, fin tanto che possa farlo non desisterò mai di occuparmi di filosofia e dal dare consigli e dall’istruire chiunque di voi, sempre che n’abbia occasione, parlando a voi come soglio”…Rivolto a coloro che lo hanno accusato “Così ora io me ne vado, condannato da voi; e loro, invece, dalla verità: io, alla pena di morte , loro a rispondere di malvagità e d’ingiustizia. Io starò alla mia pena essi alla loro. E forse bisognava che la cosa andasse proprio così e credo che ognuno abbia avuto una giusta mercede”…E rivolgendosi ai giudici “Ma anche a voi è necessario o giudici guardare con fiducia alla morte e fermare il vostro pensiero in questa verità sola, che ad un giusto non è possibile accada male alcuno, né in vita, né dopo morte, perché 26 IV * Socrate su lui vigilano gli dei” Infine rivolto agli amici “Ma è già l’ora di andare: io a morire, e voi, invece, a vivere. E chi di noi vada a miglior destino, ignoto è a tutti, tranne che al dio”. Fino al giorno della sua morte fu circondato da amici e allievi, per tutti ebbe parole di consolazione. Morte di Socrate Von Humboldt diceva che gli uomini grandi e straordinari sono quelli che incarnano un’idea e la portano a compimento. E l’idea di fondo che Socrate ha portato a compimento consiste nella scoperta dell’essenza dell’uomo e della correlata fondazione della “filosofia morale”. E Camus asseriva “Perché Sommario 27 IV 28 * Socrate V L’Influenza di Sparta un pensiero cambi il mondo bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che cambi in esempio.” E Socrate è stato veramente l’“esempio”, un modello per eccellenza proprio come lo vide e lo rappresentò Platone. Se ciò che scrisse sulla filosofia socratica sia la verità storica noi non possiamo sapere né tanto né poco ma è comunque, il ritratto più completo e convincente che ci rimane. Restano comunque a noi le sue tesi generali: “il conosci te stesso” “la vita senza ricerca non è degna di essere vissuta dall’uomo” “l’ironia e la maieutica” “la via della virtù e del sapere” “non so nulla se non il fatto di sapere che non so”. Sotto la sua apparente modestia covava un orgoglio e una fede profonda nella validità di ciò in cui credeva e insegnava. Coraggioso com’era, il sacrificio della vita non gli parve gran che, avendo intuito che con la morte si sarebbe assicurato per il futuro il successo della sua missione. Dopo la sua morte, gli allievi rimasero in pochi e le forze più giovani si dispersero, ma la sua eredità non tardò a dare frutti copiosi perché proprio allora la contemplazione filosofica raggiunse il suo massimo. Tra i numerosi pensatori allievi di Socrate che si distinsero troviamo nomi come Senofonte, Aristippo, Antistene e Platone che fu senza dubbio il più grande di tutti. Prima di affrontare il pensiero platonico credo sia utile richiamare l’attenzione sulla civiltà Spartana che tanta influenza ebbe nella maturazione della filosofia di Platone e dei secoli che seguirono. Sparta ebbe una doppia influenza sul pensiero greco, una come realtà e una come mito, l’una e l’altra ugualmente importanti. Fu la realtà della guerra che vinse contro Atene e il mito delle sue leggi che influenzarono non poco i filosofi del tempo e successivi Sparta era la capitale della Laconia regione a sud est della penisola del Peloponneso, abitata dai Dori, popolazione dominante, proveniente da nord al tempo delle invasioni appunto doriche che avevano sottomesso e ridotto in schiavitù le popolazioni locali chiamati Iloti. Occupazione principale e unica per legge degli spartani era la guerra, mentre la terra che era suddivisa tra loro in lotti, passava di mano da padre in figlio, pur rimanendo di proprietà dello Stato. Il compito di coltivarla, trattandosi di un lavoro considerato umiliante, era prerogativa degli Iloti i quali all’epoca del raccolto versavano una certa quantità di derrate al padrone e l’eccedente era trattenuto; per quanto riguarda l’aristocrazia questa aveva delle tenute proprie. Si è detto che per gli spartani la guerra era la principale occupazione e allo scopo, già dai primi anni di vita venivano inviati per l’addestramento in un'unica grande scuola fino all’età di venti anni con l’obbiettivo di renderli arditi, sottomessi alla disciplina e indifferenti alla sofferenza fisica. Dopo i venti anni iniziava il vero servizio militare e solo dopo i trenta si diventava un cittadino veramente libero. Era volontà dello Stato che ogni cittadino non fosse né troppo povero né troppo ricco e 29 V * L’Influenza di Sparta nessuno tenesse oro o argento tant’è che la semplicità spartana divenne proverbiale. Anche per le donne la vita era diversa da tutte le altre greche del tempo e già da ragazze partecipavano all’addestramento con i ragazzi, alla corsa, alla lotta, al lancio dei dardi allo scopo di irrobustirsi per meglio sopportare la fatica della gravidanza e partorire figli sani e robusti per lo Stato. La costituzione spartana si pensa sia stata scritta da Licurgo che formulò le sue leggi intorno al 885 a.C. In realtà il sistema si formò gradualmente prima di altri e Licurgo, con ogni probabilità, fu soltanto un personaggio mitico, ciò non di meno Sparta acquistò presso gli altri greci una fama e un’ammirazione sorprendenti se si pensa che dopo il VII secolo a.C. cessò di contribuire alla civiltà e alla grandezza del mondo greco cristallizzandosi in sé stessa Il cittadino greco comune, percepiva Sparta come una città d’altri tempi con gente semplice buona coraggiosa non guastata dalla sfrenata ricchezza e, a un filosofo come Platone, che indagava intorno alle scienze politiche, sembrava la società più vicina all’ideale. La costituzione rimasta praticamente immutata per secoli avrebbe permesso una straordinaria stabilità politica e suscitato grande ammirazione nel resto della Grecia soggetta a continue rivoluzioni e capovolgimenti. Tale risultato fu indubbiamente in parte dovuto al pieno successo del loro principale obbiettivo quello di aver creato una vera classe di guerrieri che per un lungo periodo dominarono sul campo fino al 371 a.C., quando per mano dei Tebani furono sconfitti a Leuttra, ponendo fine alla loro grandezza militare. Naturalmente se la teoria fu molto apprezzata, la realtà spartana era molto diversa almeno secondo alcuni storici e scrittori, da Erodono ad Aristotele, che descrissero gli spartani come uomini facilmente corruttibili, vendicativi ed avari non di 30 V * L’Influenza di Sparta rado il nemico di oggi diventava alleato nelle guerre successive, ma forse ciò era per tutti così. Per quanto riguarda le donne a loro era imputato di fare una vita libertina di ostentare lusso e ricchezze in antitesi con la fama di donne caste, fedeli e temperanti. Ciò che più di ogni altro, per i greci comuni, risultava insopportabile era l’influenza che queste esercitavano a vari livelli, sul potere politico ed economico, per cui i maligni additarono in ciò, la riduzione quantitativa nell’impegno procreativo. Probabilmente tutte le critiche avanzate nei confronti della legislazione, della cultura e della politica spartana hanno un fondamento di verità, ma ciò che rimase nella mente della gente per molti secoli fu la mitica Sparta delineata da Plutarco e l’idealizzazione filosofica che ne fece Platone nella “Repubblica”. Il mito di Sparta diffuso tra i lettori medioevali e moderni, è soprattutto quello descritto da Plutarco: e fu proprio verso i suoi scritti e al suo pensiero che, nel bene o nel male, si indirizzarono, quegli uomini che dopo il Rinascimento si aprirono alle libertà politiche, come i liberali inglesi e francesi del XVIII secolo, come per i fondatori degli Stati Uniti, fino ai romantici della letteratura tedesca. L’influenza che il mito Spartano ebbe sulle opere di Platone, che è il vero motivo per cui ne abbiamo accennato, lo si potrà vedere in seguito quando si affronteranno i vari argomenti, anche se non bisogna dimenticare, che sempre di mito si tratta. Sommario 31 32 VI * Platone VI Platone Platone nasce ad Atene intorno al 427 a.C. da famiglia nobile e di antica origine, sembra risalente a Solone. In gioventù conosce la filosofia eraclitea attraverso Cratilo suo maestro, ma poi incontra Socrate e subito diventa suo discepolo, siamo intorno al 407 a.C. Per varie vicissitudini di famiglia si trovò implicato negli avvenimenti seguiti alla caduta di Pericle, all’oligarchia di Crizia e la fine del governo dei trenta. La restaurazione della democrazia condanna Socrate nel 399 a.c. Tutto questo non v’è dubbio che lo sconvolse: si rifugiò prima a Megara, poi a Cirene e infine in Egitto dove si applicò alla matematica e alla teologia. Tornò poi ad Atene nel 395 ma di nuovo si allontanò per andare a Taranto a studiare filosofia pitagorica, e li conobbe Dione che lo presentò a Dioniso il tiranno di Siracusa, ma questi non amava gli intellettuali e dopo un furioso litigio lo scacciò dalla città, vendendolo come schiavo a Egina. Fu riscattato da Anniceri di Cirene per tremila dracme rifiutandosi in seguito di farseli restituire dal filosofo che nel frattempo le aveva raccolte tra gli amici; così usò quel capitale per fondare l’Accademia la sua scuola. Quando a Siracusa andò al potere Dioniso figlio, Platone viene di nuovo invitato per collaborare alla costruzione della repubblica dell’Uguaglianza che presupponeva un governo autoritario guidato da un refilosofo sulla falsariga di una nuova Sparta ma il tentativo fallì e non se ne fece nulla; deluso ritornò ad Atene dove continuò ad insegnare e a scrivere fino alla morte in tarda età. Forse il senso della vita di Platone sta nel progetto unitario di congiungere in un disegno unico potere e sapere, filosofia, scienza e politica. Tutto nasce dalla traumatica esperienza della vicenda di Socrate la cui morte è vista come un crimine commesso dalla Città. Come ha potuto il Male vincere sul Bene, la Menzogna sulla Verità, l’Ingiustizia sulla Giustizia? Cos’è allora la Verità, il Bene, la Giustizia?, Esistono veramente, o sono solo parole alle quali attribuire il significato che più conviene, come volevano i Sofisti? Come queste, possano essere incarnati nell’individuo e nella Città? Quando cioè è possibile definire uno Stato buono, giusto e vero? E’ rispondendo a queste domande che Platone porta avanti un lavoro di fondazione, per una rinnovata filosofia che si intreccia con i problemi etico-politici da un lato e scientifici dall’altro, che sappia riassumere e nel contempo superare la tradizione filosofica-culturale greca. Il metodo che diede ai suoi scritti fu quello dialogante tipicamente socratico: il protagonista principale è Socrate che discute con i suoi interlocutori chiamando in causa indirettamente il lettore che avrà la funzione di trarre le soluzioni, “maieuticamente”. Pertanto, Socrate da persona storica diventa personaggio, dando voce al pensiero dell’autore stesso, cioè a Platone. L’altra peculiarità in Platone è il recupero, unitamente con alcune tesi dell’orfismo e del pitagorismo, del mito, con la funzione di evidenziare quanto anche la cultura antica e mitica sia raggiungibile per via logica e scientifica. La prima riflessione che affrontiamo su Platone è presentata nei libri della Repubblica ed è illustrata con il famoso mito della caverna nella quale è esposta la sua dottrina epistemologica. Degli esseri umani vivono da sempre in una caverna seduti e incatenati impossibilitati a girare la testa, lo sguardo fisso rivolto verso la parete di fondo senza poter comunicare tra loro. Al di la dell’ampio ingresso da dove entra la luce, che i prigionieri non hanno mai visto direttamente, si muovono delle persone affaccendate alle loro occupazioni che proiettano le loro ombre sul fondo della caverna, per cui i prigionieri vedono solo le 33 VI * Platone ombre delle persone in movimento e naturalmente credono che ciò sia la realtà del mondo. Ora immaginiamo che un prigioniero riesca a liberarsi e a fuggire verso la luce e pur rimanendone abbagliato, dopo un certo tempo di assuefazione, vede direttamente i suoi compagni e la realtà di ciò che prima vedeva solo come ombre mobili e si rende conto di quanto sia stato ingannato fino a quel momento. Nella allegoria i prigionieri sono coloro che sono privi della filosofia, della vera conoscenza, per cui vedono solo le false apparenze perché impossibilitati alla visione della luce della verità, a causa delle cattive abitudini e delle passioni Chi riesce con la perseveranza a liberarsi e a uscire dalla grotta, che rappresenta il mondo sensibile, è invaso dalla luce della filosofia e seppur dopo un momento di adattamento si troverà ad apprezzare la vera realtà, il bene e percepirà in quale inganno aveva vissuto e se filosofo, sentirà il dovere pressante di rendere consci anche gli altri della verità, e mostrare loro la strada per conseguirla. Naturalmente troverà molta difficoltà nel persuaderli perché venendo dalla luce piena si muoverà con difficoltà nella penombra della caverna e per questo apparirà agli occhi dei prigionieri più stupido e ridicolo, poiché essi, abituati da sempre alla penombra falsa dell’apparenza, negano la realtà della luce e tributeranno onori a chi tra loro saprà meglio vedere tra le ombre. Il mito della caverna vuole focalizzare la necessità e l’importanza fondamentale dell’educazione alla filosofia perché essa sola è la sorgente della verità e del bene. Fondamentale per Platone è il ritorno alla caverna come educazione per il filosofo perché lo costringe a riconsiderare e a rivalutare il mondo umano cioè delle ombre, alla luce di quanto ha acquisito fuori da esso, cioè della verità. Solo quando si sarà abituato all’oscurità della caverna conoscerà meglio dei compagni, la natura e i caratteri e 34 VI * Platone sarà allora pronto a dare ciò che di vero ha conosciuto: la bellezza, la giustizia, il bene. Ritornare alla caverna è mettere a disposizione della comunità tutta la conoscenza acquisita sapendo che quel mondo, per quanto inferiore, è il mondo che vale la pena illuminare ed è quindi un dovere di giustizia per il filosofo obbedire al vincolo che lo lega all’umanità.. Politici e governanti saranno capi ciechi di cittadini ciechi finché resteranno legati al mondo delle ombre dell’immaginazione, della credenza e del pregiudizio, credo che fosse questo, ciò che Platone ha inteso insegnare con il mito della caverna. Se per le prime scuole filosofiche l’anima era considerata aria, fuoco, o atomi ecc. per Platone l’anima è l’elemento più prezioso in possesso dell’uomo, ed è distinta dal corpo anche se può subirne qualche influenza. L’anima si compone di tre parti, o funzioni, o principi, o forme: la parte razionale che rappresenta la più alta facoltà è immortale e simile a dio è localizzata nella testa; la parte coraggiosa è la più nobile, sebbene si trovi anche negli animali, naturale alleata della ragione è localizzata nel petto, la parte concupiscibile rappresenta i desideri del corpo e si trova nel ventre. Per meglio comprendere il concetto e la sua natura Platone crea il “ mito dell’auriga”. Questa (l’anima) è simile a una coppia di cavalli alati guidati da un auriga raffigurante l’elemento razionale.Il primo cavallo è buono e rappresenta il coraggio, la modestia, l’onore ed è naturale alleato della ragione; l’altro è bizzarro focoso e difficile da domare e rappresenta l’elemento istintivo. Il cavallo buono obbedisce con facilità agli ordini dell’auriga il quale indirizza il carro verso il cielo e verso la regione della “vera sostanza” che è l’oggetto della scienza e può essere contemplata da quella guida dell’anima che è la ragione. 35 VI * Platone Ma questa sostanza che comprende la totalità di tutte le idee può essere contemplata solo per poco a causa dell’altro cavallo che tira verso il basso e ubbidisce principalmente all’istinto e deve essere tenuto a freno con la frusta. L’anima dunque riesce a contemplare la sostanza dell’essere in misura maggiore o minore; quando questa si appesantisce perde le ali e s’incarna, va a vivificare il corpo di un uomo che sarà tale quello che essa lo rende, secondo che abbia ammirato di più o di meno la sostanza L’anima umana, che per sua natura è immortale in quanto ingenerata, è, come le idee, invisibile e quindi presumibilmente anch’essa indistruttibile e come tale ha il principio della vita, partecipando della quale non può morire col corpo, ma all’avvicinarsi della morte si stacca e si allontana senza subire danni e conservando la sua intelligenza. Infatti movendosi da sé può viaggiare e reincarnandosi in altri corpi (metempsicosi) percorrere tutti i gradi della gerarchia fino a giungere alla bellezza suprema. L’anima incarnata risveglia il ricordo della vera sostanza proprio con la bellezza, che per la sua luminosità è riconosciuta subito dall’uomo, essa si fa mediatrice tra questi e il mondo delle idee e al suo richiamo l’uomo risponde con l’amore. E’ la volontà di imparare che crea tra l’uomo e l’essere in sé e tra gli uomini associati nella comune ricerca, un rapporto che impegna la volontà nella sua totalità. Questo rapporto è definito da Platone come amore (Eros). Solo se l’amore non richiede di rimanere attaccato alla bellezza corporea, pretendendone di godere solo di essa, è realizzato e sentito nella sua vera natura, allora l’Eros si fa guida dell’anima verso il mondo dell’essere e in questo caso, i suoi caratteri passionali non vengono meno ma sono subordinati e fusi nella ricerca rigorosa dell’essere in sé, l’idea. L’Eros diventa allora procedimento razionale di convincimento, dialettica. La 36 VI * Platone dialettica è la vera arte della persuasione, la vera retorica, che non è una tecnica alla quale sia indifferente la verità come volevano i Sofisti, ma scienza dell’essere in sé, e scienza dell’anima e come tale distingue le varie specie dell’anima e per ognuna trova la via appropriata per persuaderla e condurla all’essere. Platone sintetizza il concetto in: “l’amore desidera qualcosa che non ha, ma del quale ha bisogno, ed è quindi mancanza; come tale desidera la bellezza che non ha, aspira alla sapienza che non possiede quindi è filosofo mentre sapienti sono solo gli dei”. L’amore è desiderio di bellezza, la quale rende felici. L’uomo che è mortale desidera rigenerarsi nella bellezza, che è l’oggetto dell’amore, lasciando dopo di sé un essere che gli assomigli. L’Eros si esprime in diversi caratteri subordinati e accessori dell’amore: si rivolge ai corpi, alle anime, o come forza cosmica, determina l’armonia e la proporzione di tutti i fenomeni sia umani che celesti. Naturalmente anche la bellezza ha diversi gradi ai quali l’uomo può sollevarsi attraverso un lungo cammino, che passa dall’amare un bel corpo, a quello dell’amore per la bellezza materiale, l’amore per la bellezza delle istituzioni, delle leggi, delle scienze e al di sopra di tutto, l’amore per la bellezza in sé, che è eterna, perfetta, sempre uguale a se stessa e fonte di ogni altra bellezza. Uno degli argomenti più discussi e studiati di Platone è sull’origine dell’universo, la cosmogonia. Questo tema viene da lui proposto nel Timeo uno delle opere più studiate e che hanno maggiormente influenzato filosofi e studiosi successivi. Timeo quale astronomo pitagorico, conoscitore delle leggi che governano l’universo, all’inizio della sua riflessione si pone delle domande: “Cos’è ciò che è sempre ma non ha origine?” E di seguito: “cos’è ciò che diviene sempre ma non è mai?” Il 37 VI * Platone primo, è il mondo delle idee sempre uguale a se stesso e lo si può conoscere solo tramite la ragione e il pensiero razionale; il secondo è il mondo materiale, sensibile, soggetto al divenire, sempre in trasformazione a causa del suo nascere e perire, quindi conoscibile solo come opinione probabile, verosimile, ma non assolutamente scientifica. Posta questa premessa se ne deduce che l’universo ha avuto una nascita, infatti è visibile ha una consistenza corporea è percepito dai sensi e avrà un divenire, ciò necessariamente è dovuto ad una causa. L’Artefice, probabilmente, (così dice Timeo) fece tutto ciò perché era buono, non conosceva invidia ed essendo libero da essa, volle che tutto nascesse simile a lui, secondo il suo modello che è eterno, in forma però sensibile e visibile, dando ordine, forma e potenza alla materia che aveva a disposizione, ma che si muoveva con grande disordine. Pensò fosse meglio dare alle cose l’intelligenza e mise questa nell’anima perché la guidasse. Perciò il mondo è stato plasmato dal Demiurgo guardando al modello eterno delle idee, dotato di corpo anima e intelligenza in modo che l’opera si mostrasse ottima e bellissima. Affinché fosse simile a lui anche nell’unicità egli lo creò come un unico essere che racchiudesse al suo interno tutte le singole specie conoscibili, a lui naturalmente affini e questo fu l’unico cielo esistito, che esiste e che esisterà. Lo fece come un globo perché l’uguale è migliore del disuguale e solo la sfera ha la medesima forma in ogni sua parte; le diede il movimento rotatorio perché è il più perfetto e l’unico moto che non ha bisogno di mani o gambe per spostarsi. Volendo renderlo ancora più somigliante all’ideale che è eterno il Demiurgo generò il tempo quale mobile immagine dell’eternità, che con il suo succedersi di giorni, mesi e anni ne riproduce l’ordine immutabile. Il cielo e il tempo ebbero inizio nello stesso istante e con il 38 VI * Platone movimento degli astri e il succedersi dei giorni e delle notti si posero le premesse perché gli animali avessero la cognizione del tempo e la nozione del numero e si potesse così imparare l’aritmetica e da questa derivò la filosofia. In questa parte è da notare l’evidente formulazione della struttura del cosmo in forma pitagorica, infatti la sua costruzione risulta essere di tipo matematico e gli elementi saranno poi ridotti a poche figure geometriche essenziali che sono poi rese a loro volta in numeri i quali saranno gli schemi strutturali del mondo, “la sintassi del mondo” cioè il codice di interpretazione di ciò che esiste. La “teoria delle forme o idee” da Platone è così precisata: “l’oggetto della vera conoscenza deve essere permanente, immobile, frutto dell’intelligenza e deve comunque riferirsi agli oggetti reali” Egli afferma che quando una pluralità di oggetti individuali ha un nome comune, questa ha una corrispondenza con un’idea. Il Bene, il Vero, il Bello sono essenze in sé trascendenti e fonte dei nostri concetti e le accomuna “nell’Idea del Bene”. Per Idea intende ciò a cui il pensiero si rivolge quando pensa, cioè qualcosa che è, e non solo una rappresentazione mentale, essa è la forma interiore, l’essenza stessa della cosa. Con la dottrina delle Idee Platone si contrappone almeno a due forme pericolose di relativismo quello sofistico-protagoreo che facendo del soggetto il criterio e la misura di verità delle cose riduce ogni azione o realtà a qualcosa di puramente soggettivo; e quello eracliteo che proclamando la perenne mobilità di tutte le cose rende inafferrabile, intelleggibile e inconoscibile ogni cosa perché se tutto muta e nulla sta fermo non è possibile nessuna conoscenza e ogni giudizio sarebbe privo di senso. Egli afferma che l’Idea è stabile, è assoluta, non è manipolabile a piacimento attribuendo ad essa gli stessi caratteri Parmenidei, è in sé e per sé, è semplice e imperitura ed è sempre 39 VI * Platone identica a se stessa, si distingue dalle cose sensibili, che però, di essa partecipano Platone attribuisce alcune determinazioni fondamentali alle idee: 1° le idee sono gli “oggetti” specifici della conoscenza razionale; come tali sono enti o sostanze nettamente distinte dalle cose sensibili, per poterle esaminare, occorre che l’anima sia distolta dall’indagine fatta con gli occhi, superando l’ostacolo dei sensi, in modo che si possa concentrare e raccogliere tutta l’attenzione sull’essere in sé, in questo distinguendosi nettamente dai Sofisti che fermano l’analisi alle sole apparenze, ponendo l’idea, l’essere in sé, come oggetto proprio della ragione. Busto di Platone 40 VI * Platone 2° Le idee sono “criteri” di giudizio delle cose naturali; per giudicare se due cose sono uguali ci serviamo dell’idea uguaglianza che è perfetta ed a questa, si adeguano i giudizi verso gli uguali sensibili che sono più o meno imperfetti, ecco che allora le idee stesse diventano criteri di valutazione ed esse stesse valori. 3° Le idee sono “causa” delle cose naturali; per spiegare questa dottrina Platone si rifà ad Anassagora vale a dire: l’Intelletto è la causa ordinatrice di tutte le cose, pertanto, riconosce alla Ragione, all’Idea, la supremazia nel creare l’ordine alle cose e quindi, essendo questa “l’ottimo e l’eccellente” non può essere che lei la causa delle cose stesse. In conclusione le idee sono nel contempo criteri di valutazioni e causa delle cose naturali, nell’una e nell’altra loro funzione sono le ragioni delle cose. Diversi sono i tipi di idee, idee-valori, che sono i supremi principi etici, estetici o politici, idee-matematiche corrispondenti alle entità di tipo matematico e geometrico, il quadrato, il cerchio, il numero, ecc; nella realtà noi non troviamo mai l’uguaglianza perfetta di cui parla la matematica, ma solo copie imperfette, ma esistono anche le Idee corrispondenti a ognuna delle realtà. Platone afferma che le idee sono l’oggetto di studio per la scienza, come la verità, che non può essere raggiunta con i sensi ma solo con la ragione, la quale sola sa coglie le cose come realmente sono, mentre ciò che cade sotto l’analisi dei nostri sensi sono oggetto del divenire, “l’opinione”, che sta in mezzo tra la conoscenza e l’ignoranza. Opinione e Scienza costituiscono l’intero campo della conoscenza umana. Il fatto che un uomo possa giudicare di cose più o meno uguali, belle o meno belle, implica la conoscenza di un modello, (ecco la reminiscenza, una prova dell’immortalità dell’anima) che è la bellezza assoluta, cioè l’idea-valori della Bellezza. Nella loro 41 VI * Platone molteplicità le idee costituiscono un ordine gerarchico piramidale con le idee-valori in cima e l’idea del Bene al vertice che è il Valore supremo e la Perfezione massima di cui le altre idee sono imitazione e riflesso. E’ con l’educazione che l’uomo passa dalla considerazione del mondo sensibile al mondo dell’essere, per andare gradualmente a scorgere il punto più alto dello stesso, che è il Bene. Il Bene è paragonato al sole che rende gli oggetti tutti visibili e quindi fonte del loro valore e della loro bellezza e sorgente di vita per ciò che sulla terra vive. A preparare l’uomo alla visione del Bene contribuiscono le scienze che hanno per oggetto quegli aspetti dell’essere che sono più vicini al bene: L’aritmetica, la geometria l’astronomia, la musica. Tutti i temi fondamentali riguardanti lo Stato ideale, il modello al quale ogni Stato dovrebbe cercare di conformarsi è delineato da Platone nella Repubblica. Egli è profondamente convinto che la politica è una scienza, che l’uomo di Stato deve sapere che cos’è lo Stato, quale è il principio fondante e quali sono gli scopi di una comunità politica. Lo Stato esiste per sopperire alle necessità degli uomini i quali necessitano di aiuti e di cooperazione. Il luogo che meglio si presta per tutelarsi da elementi negativi esterni è la città. Il principio fondante, valido per i cittadini e per lo Stato è la Giustizia. Nessuna comunità umana può sussistere senza Giustizia, la quale è condizione fondamentale della nascita e della vita dello Stato. La città ha anche uno scopo economico, è centro di scambi e di commerci e il luogo dove si svolge principalmente la vita associativa culturale e politica. Ogni individuo, per diverse e differenti doti naturali e individuali, può concorrere per servire la comunità nelle diverse occupazioni a lui più congeniali. Si vengono a delineare così le tre classi sociali che compongono lo Stato e a ognuna di queste corrispondono le tre parti dell’anima 42 VI * Platone dell’uomo. Alla classe dei governanti o Reggitori, la cui virtù è la sapienza, appartengono quelle persone che più di altre hanno saputo contemplare e conoscere il Bene, le loro virtù sono la sapienza e la saggezza, ciò è sufficiente perché tutto lo Stato sia saggio. La seconda è quella dei guerrieri o custodi, nei quali prevale la parte irascibile o volitiva dell’anima, a questa appartengono uomini in cui prevale la forza, il coraggio e la disciplina, pronti a intervenire nella difesa dai pericoli interni e esterni secondo necessità e a controllare che ognuno compia il proprio dovere. Infine la terza classe in cui negli uomini prevale la parte dell’anima concupiscibile, formata da mercanti, contadini, artigiani ecc. è quindi la classe di tutta la popolazione dedita alle arti e mestieri, essa è buona quando, vi predomina la temperanza, la quale comanda con la disciplina sui piaceri e i desideri materiali e sa creare, custodire e amministrare le ricchezze e i beni, che non dovranno essere né pochi né troppi e sottomettersi in modo conveniente alle classi superiori. La Giustizia comprende tutte tre le classi e si realizza in ciascun cittadino, che attende ai compiti propri che gli competono, perché questi sono parimenti importanti e necessari per la comunità. Essa garantisce l’unità e la forza dello stato, ma anche l’unità e l’efficienza dell’individuo. Per attuare la Giustizia nello Stato sono necessarie due condizioni, la prima è l’eliminazione della ricchezza e della povertà che rendono impossibile all’uomo attendere al proprio compito. Per Platone le due classi superiori quella dei governanti e dei guerrieri non devono possedere nulla né avere compenso alcuno al di fuori del necessario per vivere; i mezzi di produzione e di distribuzione sono lasciati nelle mani di chi già li possiede, anche per gli artigiani vale il diritto di proprietà. 43 VI * Platone La seconda condizione è l’abolizione della vita famigliare, dovuta alla partecipazione a pieno diritto alla vita pubblica della donna, in perfetta uguaglianza con gli uomini, a parità di condizione e capacità. I rapporti uomo donna sono stabiliti dallo Stato secondo necessità e i figli vengono allevati e educati dallo Stato che diventa tutto una grande famiglia. Queste sono le due condizioni che rendono possibile uno stato secondo Giustizia, sempre che la guida sia posta nelle mani dei filosofi. In questa situazione ideale, la Giustizia diventa una disposizione intima dell’anima per cui ognuno svolge il proprio mestiere nell’interesse generale e per il bene di tutta la comunità. Far parte di una classe non è una condizione di sottomissione o di privilegio ma dipende dalla propria indole, per di più vi è la possibilità di passaggio in altre classi. Il lavoro non è visto come fatica, dolore, schiavitù o sfruttamento a favore della classe dominante e ciò perché ai reggitori e ai custodi è vietato il possesso di ogni proprietà privata anzi il loro titolo di comando è dato dall’assenza di ricchezza. Risulta evidente che lo stato teorizzato è l’aristocratico il cui governo guidato dai migliori è quello che appare il più perfetto Le altre forme di stato sono quindi degenerazioni di questa e sono in ordine decrescente secondo l’ideale: la Monarchia governo di uno solo fondato sull’onore e sul prestigio conseguito con la proprietà di vasti territori. Oligarchia governo di pochi fondato sul censo in cui comandano i ricchi. La democrazia governo di tutti fondato sulla libertà di ognuno di proporre ciò che vuol fare. Infine la peggiore è la Tirannide governo di uno o più uomini fondato sulla conquista del potere con la forza e la violenza, molto spesso a seguito di un governo democratico guastato dall’eccessiva libertà. Il modello di Stato ideale proposto da Platone risulta evidentemente in molte parti fortemente criticabile soprattutto ai 44 VI * Platone nostri giorni ravvisando, per alcuni filosofi e studiosi moderni, un modello di comunismo platonico per alcuni e un totalitarismo fortemente autoritario per altri, fino a voler (K. Popper) considerare Platone come il maggior teorico di una società chiusa, autoritaria e dispotica fondata sulla premessa di una verità assoluta che viene imposta con la forza a coloro che non intendono riconoscerla. Abbiamo parlato precedentemente di uomini di Stato e delle qualità specifiche che questi debbono possedere: Platone addita questa qualità nella “misura”, cioè la capacità di evitare l’eccesso o il difetto, ma cercare e trovare la giusta via di mezzo. In questa fase di ricerca e in particolare con l’opera le “Leggi”, Platone corregge alcune posizioni espresse in precedenti scritti riconoscendo che anche uno Stato ben ordinato deve essere guidato dalle leggi, compito delle quali è promuovere le virtù, non solo il coraggio, perché tutte sono necessarie alla vita dello Stato. La Legge deve avere principalmente una funzione educativa nei confronti della comunità, correttiva e di indirizzo nei confronti degli individui, essa trova un sostegno fondamentale nella religione come forza di coesione sociale e stabilità politica tanto, da giudicare l’ateismo come un cancro per la comunità politica. Rispetto alla “Repubblica” si notano altre diversità non trascurabili: non esiste più la rigorosa suddivisione in classi; anche i filosofi non sono più i reggitori unici; il governo diventa un misto di aristocrazia e di democrazia anche se rimane un forte controllo statale; viene di nuovo ammessa la famiglia e la proprietà privata; la classe dei guerrieri viene sostituita da una milizia cittadina. Con questa nuova impostazione dello Stato, Platone riconsidera criticamente l’educazione statale dorica, che fino ad allora non aveva disdegnato come modello. Il suo dissenso si volge verso quella virtù “il coraggio” che, 45 VI * Platone se solo, diventa politica di guerra e di conquista, danneggiando sia la città che l’individuo, per cui l’arte del governo, va indirizzata anche verso le altre virtù. La politica diventa educativa e quindi “esercizio di virtù”, che, regolata dalla legge, viene custodita per essere rispettata e divulgata. La legge diviene il presidio della vita Statale, dato che sono i vizi interni e l’uso improprio unilaterale della libertà e dell’autorità, che conducono lo Stato alla rovina e non tanto la potenza e la forza degli altri Stati. In tale situazione diventa allora necessaria una costituzione, che contemperi le opposte esigenze e assicuri uguaglianza e obbedienza alla legge e comuni diritti dinanzi allo Stato e ciò, si ha quando i governanti sono i servitori della legge, ed hanno il dominio del dio come fondamento, prescindendo dalla superstizione e dall’indifferenza. Con questo ultimo scritto, Platone ha dato una svolta di grande realismo alla sua opera, rendendo lo Stato più vicino alla possibilità concreta di attuazione, in contrasto con l’ideale morale e speculativo precedente, nel quale spesso la formulazione di Stato perfetto era apparsa irrealizzabile, illusoria e innaturale. Non occorre che uno Stato come quello delineato da Platone, sia storicamente e concretamente realizzabile: il filosofo ha inteso prospettare un esempio per guidare l’uomo di Stato a vivere in conformità con esso, conscio che la politica è scienza e chiunque voglia operare per lui nella Giustizia, deve rivolgere lo sguardo verso tale modello. E’ difficile pensare ai nostri giorni, che un simile stato si realizza, ma a quei tempi una tale Repubblica forse si poteva realmente costituire. Molti dei regolamenti, che ai nostri occhi possono sembrare del tutto inattuabili, erano già da tempo in vigore a Sparta, in precedenza già Pitagora aveva tentato il governo dei filosofi. Quando Platone venne a visitare la Sicilia e l’Italia 46 VI * Platone meridionale, a Taranto il filosofo pitagorico Archita aveva una notevole influenza politica. Le colonie a quei tempi, erano libere dal controllo della madre patria e per un gruppo di platonici sarebbe stato molto facile fondare una loro città Stato magari sulle coste della Spagna o della Gallia. Sfortunatamente per Platone il caso lo condusse a Siracusa in un momento di disperate guerre con Cartagine e in tale situazione un filosofo non poteva certo ottenere grandi risultati. D’altra parte, solo una generazione dopo con il sorgere della potenza Macedone di Filippo, tutti i piccoli Stati si resero inutili e antiquati mettendo in luce, la futilità della costituzione in miniatura prospettata da Platone, per cui anche volendo non si ebbe più la possibilità né di sperimentarla né di attuarla. Sommario 47 48 VII * Aristotele e Alessandro VII Aristotele e Alessandro La crisi istituzionale delle polis, causata dalla crescente importanza della Macedonia di Alessandro, provoca nel cittadino Ateniese la perdita della passione politica, sentendosi oramai inglobato suo malgrado in un organismo in cui non recita più da attore ma solo da spettatore. E’ in questo mutato clima politico che la filosofia Aristotelica, rivolgendo la sua attenzione soprattutto verso temi metafisici e conoscitivi, trova lo spazio nel nuovo e differente tessuto socio-politico. Aristotele nacque a Stagira in Tracia intorno al 384-383 a.C. entrò come allievo nella scuola di Platone all’età di 17 anni e vi rimase per una ventina di anni fino alla morte del maestro intorno al 348-347. Lasciata l’Accademia accompagnato da Senocrate si reca ad Asso nella Troade dove esisteva una comunità filosofico-politica e li rimase per tre anni, dopo di che per vari motivi si reca a Mitilene e ci rimane probabilmente fino al 342, quando è chiamato da Filippo Re di Macedonia per educare il figlio Alessandro. In questo periodo di permanenza tra Asso e Metilene, inizia il suo distacco dalla dottrina del maestro e compone il primo dialogo “Sulla Filosofia” nel quale avanza la critica alle idee-numeri. Come maestro di Alessandro, che allora aveva 13 anni, certamente ebbe grande influenza formativa, alimentando la speranza di unificazione di tutta la Grecia, convinto della superiorità della sua cultura e della possibilità di dominare il mondo con una forte unità politica. Come educatore si possono invece avanzare seri dubbi sulle sue capacità, visto il poco edificante carattere dell’allievo arrogante, crudele, vendicativo, ambizioso, che probabilmente, mal sopporta sia la scuola sia il maestro e verso il quale, è possibile immaginare, nutre la poco consolante nomea di vecchio pedante, messogli a guardia dal padre, con il quale ha forti dissensi, nella speranza di impedirgli di combinare guai. Quando Alessandro è nominato reggente (340 circa) abbandona gli studi (16 anni) e inizia la carriera militare con grande successo e alla morte del padre gli succede sul trono (aveva 20 anni). Proseguendo l’opera di espansione oltre i propri Alessandro Magno 49 VII 50 * Aristotele e Alessandro confini, pensò all’unificazione dei popoli orientali e ne adottò le loro forme di sovranità e di governo. Fu allora che Aristotele ritenendo ultimato il suo compito di educatore, lascia la Macedonia e ritorna ad Atene (335 circa) dove fonda il “Liceo” la sua scuola, celebrato come maestro di vita spirituale, scienziato e filosofo. Alla morte di Alessandro nel 323 seguirono dei rivolgimenti politici nei quali fu coinvolto come partigiano del re e per evitare guai peggiori fugge da Atene e rientra in Eubea patria della madre e qui rimane fino alla morte avvenuta poco dopo quella del suo protettore, all’età di 63 anni nel 322-321 a.C. La filosofia di Aristotele risente di questo clima politico oramai mutato e la sua attenzione è rivolta soprattutto verso temi etici e conoscitivi e non più connessi con la partecipazione attiva della vita politica. Rispetto alla filosofia di Platone egli lascia cadere l’elemento mistico-religioso derivante dall’orfismo rendendo il discorso filosofico più rigido e mostrando maggior interesse per le scienze naturali che per la matematica, diversamente dal maestro, che presenta un discorso sempre aperto inteso come ricerca continua senza fine. Aristotele dà una sistemazione rigorosa alle acquisizioni raggiunte dal pensiero, tende cioè ad una classificazione, sia dei temi che dei problemi secondo la natura, con criteri atti a risolvere tali differenti questioni e dando, per primo, l’avvio ad un sistema di analisi ben delineato in ogni sua parte: logica, fisica, metafisica, politica, psicologia, etica, ecc. Anche il filosofo è visto solo come scienziato e professore dedito alla ricerca e all’insegnamento, in antitesi al filosofo “platonico” legislatore e reggitore di Stato-città. Riguardo la sua visione globale del mondo, egli lo intende da una prospettiva orizzontale, diviso in settori “regioni” ognuna con la propria regola e il proprio metodo. Aristotele distingue le VII * Aristotele e Alessandro scienze in: pratiche, poietiche, teoretiche. Le scienze pratiche riguardano le azioni che iniziano e terminano nel soggetto stesso e sono le azioni morali, l’etica. Le poietiche riguardano le azioni che iniziano nel soggetto ma producono il loro effetto fuori da esso come le arti, i mestieri ecc. Le scienze teoretiche che non riguardano ne l’azione, né la produzione, ma la contemplazione; esse sono: la fisica che studia la sostanza sensibile, il movimento, la forma, ecc.; la matematica che considera le lunghezze e i piani nella loro quantità; la metafisica che studia l’essenza ultima ed è quindi la scienza divina. Nella classificazione delle scienze, Aristotele non colloca la logica, in quanto non è scienza sostanziale, ma fa parte della cultura generale che ognuno deve possedere prima di ogni altra scienza quindi, è lo strumento che ogni persona che voglia fare della scienza deve esserne fornito, essa è, tecnica dimostrativa, per l’introduzione al ragionamento corretto. La logica è analisi del pensiero che pensa la realtà, la riproduce concettualmente in sé e nel giudizio vero, formulando asserzioni verificabili nel mondo esterno. In sintesi, per Aristotele, è un’analisi del pensiero umano nel suo rapporto con la realtà, benché egli ammette che, non tutte le cose esistono nella realtà extra mentale, nella stessa forma in cui, il pensiero le concepisce. I modi con cui noi pensiamo le cose in forma logica sono le “categorie”, che Aristotele ha individuato in dieci, ma esse sono nel contempo i modi secondo i quali le cose esistono effettivamente.Esse sono: Sostanza: Quantità: Qualità: Relazione Luogo uomo, cavallo, ecc… lungo, grande, ecc… bianco, di che cosa è… di chi, maggiore ecc… nel tal posto ecc… 51 VII * Aristotele e Alessandro Tempo Stato Possesso Attività, l’Agire Passività, il Subire l’altro giorno, ieri,ecc… in piedi, giace, ecc… con scarpe, ecc… taglia, brucia ecc… è tagliato, è bruciato ecc… Questo elenco di categorie, o predicati, o attributi, che costituisce un piano ordinato dei tipi fondamentali di concetti che regolano la conoscenza scientifica, è una classificazione dei modi con cui noi pensiamo l’essere in quanto è realizzato. Le categorie hanno quindi sia un aspetto logico che un aspetto ontologico, (nella sua totalità, nei suoi principi primi della realtà) in quanto un essere non può esistere solo come sostanza pura, ma necessariamente deve essere comprensivo anche di predicati. Per es. un cigno non è solo “sostanza” ma ha quantità, ha qualità (colore) ha uguaglianza o diversità rispetto ad altri cigni o ad altre sostanze, si trova in qualche posto necessariamente in un certo tempo preciso, in un determinato stato e agisce o subisce un’azione. Risulta chiaro che i predicati sono i supremi generi ai quali viene rapportato ogni termine risultante dalla scomposizione della proposizione (immagine o pensiero). Per Aristotele, il ragionamento tipico è quello deduttivo cioè il sillogismo: un discorso in cui poste alcune affermazioni, necessariamente ne conseguono altre. Un sillogismo è un ragionamento che si compone principalmente di tre parti, una premessa maggiore, una premessa minore e una conclusione. Nelle due premesse compare sempre il termine medio, che è quello che stabilisce il rapporto di assegnazione di entrambi i termini da confrontare, e mai nella conclusione. Es. trovare un termine “medio” tra Socrate e mortale. Esaminando tra le categorie che si possono riferire al soggetto Socrate e i soggetti cui spetta l’attributo mortale, si trova il termine uomo 52 VII * Aristotele e Alessandro che è presente in entrambi i casi. Infatti si può enunciare che: ogni uomo è mortale e si può dire che Socrate è un uomo, da ciò ne consegue che “Socrate è uomo mortale”. Nell’esame della teoria del sillogismo mi fermo qui, confessando se mai ce ne fosse bisogno, la mia scarsa formazione intellettuale, per non averne ben compreso, né l’importanza, né l’utilità, né la praticità. Non mi conforta in questo, ma mi consola, il giudizio di un grande filosofo del novecento B. Russell che a proposito della dottrina formale del sillogismo diceva che “nella pratica, non ha importanza alcuna e chi oggi desideri imparare la logica, perderà il suo tempo leggendo Aristotele o i suoi discepoli” Aristotele Per Aristotele la filosofia essendo scienza obbiettiva, deve organizzarsi conformemente con tutte le altre scienze avendo però un oggetto proprio che la caratterizzi rispetto alle altre scienze e nel contempo le dia il primato che le spetta. Proprio per rispondere a questa necessità Aristotele affronta la sua Metafisica prospettando due punti di vista che si intrecciano nell’analisi dell’oggetto, segnando due tappe stampa 53 VII * Aristotele e Alessandro fondamentali dell’evoluzione filosofica aristotelica. La prima è la scienza che ha per oggetto l’essere immobile e trascendente, il motore o i motori dei cieli, ed è quindi teologia, che studia la realtà più alta, quella divina. Ma questa sola filosofia così intesa, manca di universalità, venendo meno al compito di costituire il fondamento della casa delle scienze nel loro insieme e di giustificarne l’interesse rivolto alla ricerca verso qualsiasi oggetto. Nasce così l’esigenza, che introduce al secondo punto, di indagare tutta la realtà nella sua molteplicità, che si concretizza nell’aspetto globale e omnicomprensivo, e non solo di una realtà particolare (la teologia) anche se la più elevata. L’insieme dell’essere è diviso in singole scienze, ognuna delle quali considera un aspetto particolare di esso, ma è solo la filosofia che considera l’essere nella sua totalità tralasciando tutte le particolarità, quindi è questo l’oggetto nella sua universalità, alla base della ricerca metafisica, questa è la risposta alla domanda posta all’inizio. Penso che la vera scoperta di Aristotele, sia stata l’aver posto in primo piano la “scienza dell’essere in quanto essere”, consentendo non solo di giustificare il lavoro delle singole scienze ma dando alla filosofia, la piena autonomia e la massima universalità, presupposto indispensabile di ogni ricerca, non più soltanto come teologia, ma divenendo questa soltanto una sua parte. La metafisica è la scienza del perché ultimo di tutte le cose, delle ragioni supreme è perciò scienza superiore a tutte le altre, è la conoscenza delle ragioni o dei principi che fondano la realtà e l’essere nella loro totalità. La superiorità della metafisica, secondo Aristotele si esprime non perché serve a qualcosa, ma paradossalmente, proprio perché non serve a nulla in particolare, infatti, non essendo finalizzata all’attuazione né di 54 VII * Aristotele e Alessandro scopi empirici, né verso realizzazioni pratiche è scienza libera per eccellenza, avendo in se medesima il suo scopo, che prescindendo da ogni utilità, soddisfa l’esigenza dell’uomo dal bisogno profondo e dalla necessità di conoscenza che prorompe dalla sua natura. L’oggetto della scienza può essere o possibile o necessario. Il possibile è ciò che, indifferentemente può essere in un modo o in un altro, sono le scienze poietiche, che iniziano nel soggetto ma producono il loro effetto fuori dal soggetto stesso, come le arti, la produzione, le scienze tecniche, i mestieri, il guarire, il costruire ecc. anche la politica e l’etica sono scienze del possibile e si dicono pratiche. Il necessario è ciò che non può essere in modo diverso da quello che è, sono le scienze speculative o teoretiche e riguardano né la produzione né l’azione, ma la contemplazione, il puro conoscere come tale, e sono: la fisica: che studia la sostanza sensibile, ossia ciò che ha la capacità di movimento ed è ricerca di sostanza e forma, quindi qualitativa; la matematica: che considera le cose come aventi lunghezze e piani e di questi valuta le proprietà, perciò nelle matematiche le quantità sono considerate per astrazione dal pensiero, che può studiare le cose in certi aspetti, prescindendo da altri; la metafisica: che è la scienza per eccellenza, la forma di conoscenza più alta che assume a oggetto della sua considerazione tutto l’essere in quanto tale e come le altre scienze, procede nell’analisi per astrazione spogliando l’essere da tutte le determinazioni particolari (quantità, movimento, ecc.). Come si può constatare anche l’essere è partecipe delle categorie di cui abbiamo parlato nella logica, pertanto esso assume tanti significati, quante sono le categorie che rappresentano le caratteristiche fondamentali e strutturali dell’essere. Poste queste premesse il problema della scienza è, come sia possibile ridurre i diversi significati dell’essere in un 55 VII * Aristotele e Alessandro unico significato fondamentale, onde poter riconoscere un principio che garantisca stabilità e uniformità all’oggetto indagato perché questa unità non sia accidentale, ma intrinseca e necessaria per essere oggetto di scienza Se la metafisica è scienza delle cause e dei principi dell’essere, necessariamente, è scienza delle cause e dei principi della sostanza in quanto l’essere fondamentalmente, è sostanza, quindi si riduce in ultima analisi, ai modi di essere della sostanza stessa. Risulta evidente che tra le categorie questa è la più importante, in quanto condiziona e fa “essere” le altre, tanto che volendola togliere, con ciò stesso si toglierebbe ogni altra categoria. Con ciò è palese che alla domanda “cos’è l’essere?” bisognerà rispondere prima a “cos’è la sostanza?” Con il concetto di “sostanza” Aristotele definisce sia la forma, sia la materia, o insieme di materia e forma (sinolo) seppure a vario titolo. La sostanza è la causa prima e l’essere proprio di ogni realtà determinata. Ciò che è indicato da un nome proprio è sostanza (sole, luna, Francia, ecc.) mentre ciò che è indicato da un aggettivo o dal nome della classe è un “universale” (cane, gatto, uomo, ecc.) Un universale non è una sostanza, perché è comune e si riferisce a più di una cosa, mentre la sostanza è ciò che è peculiare ad essa e non appartiene a nient’altro. Un universale non può esistere di per se stesso, ma solo nelle singole cose. La qualità di essere rosso non può esistere senza che qualche oggetto lo sia, ma esiste anche senza questo o quell’oggetto, allo stesso modo però un oggetto non può esistere senza questa o quella qualità (categoria). Ritornando alla definizione di sostanza Aristotele distingue la “Forma” che non è la figura esterna dell’oggetto ma la sua natura intima, l’essenza del medesimo. Per l’uomo la forma intima o l’essenza è la sua anima, cioè ciò che fa di lui un 56 VII * Aristotele e Alessandro essere razionale, per la pianta è la sua anima vegetativa, come per il cerchio l’essenza è ciò che fa si che esso sia la tal figura con quella data qualità, ecc. cioè ciò che rende le cose veramente conoscibili nella loro essenza particolare. La “Materia” è un altro aspetto importante da cui non si può prescindere senza annullare le cose stesse in quanto sostanza. Infine è sostanza anche il “Sinolo” che è l’unione della materia con la forma, quindi tutto ciò che è concreto è sinolo di materia e forma. Ciò che fa di un composto qualcosa che non si risolve nella somma dei suoi elementi componenti è la sostanza, così ogni realtà ha una natura propria che non risulta dall’addizione delle sue parti costitutive, ed è diversa da ciascuno di tutti questi elementi. Tale natura è la sostanza di quella realtà, il principio costitutivo del suo essere. Prendiamo per esempio una statua di marmo in cui il marmo è la materia e la figura fatta dallo scultore è la forma e così per una sfera di bronzo dove il metallo è la materia e la sfericità è la forma. La forma ha definito, delimitato la materia creando una cosa, questa è sostanza. La forma di una cosa è la sua essenza e la sua sostanza primordiale; le cose acquistano una realtà con la forma. Quando un uomo fabbrica una sfera d’ottone, sia la materia sia la forma esistevano da prima e tutto ciò che egli fa è metterli insieme; l’uomo non crea la forma più di quanto non crei l’ottone, quindi trae fuori da qualcosa che c’è un qualcosa che già sussiste dentro di sé; si può dire pertanto che la sostanza è, non solo la causa dell’essere ma anche del divenire. Senza forma la materia è soltanto “potenzialità”, quindi la materia bruta è concepita come forma in potenza; per esempio un blocco di marmo è una statua in potenza, significa che da un blocco di marmo con atti opportuni, si trae una statua, in tal senso, Aristotele identifica “la materia con la potenza”, che è la 57 VII * Aristotele e Alessandro possibilità di produrre mutamento o di subirlo, e “la forma con l’atto”, che è l’esistenza stessa dell’oggetto. L’atto precede sempre la potenza, perché se è vero che il seme (potenzialmente pianta) è prima della pianta, ma lo stesso non può essere derivato che dalla pianta. Anche per la sostanza l’atto è prima, in quanto l’atto ha già in sé la forma prima che la sostanza sia tale, come la pianta viene prima del seme. Questo è quanto ho compreso della “Sostanza”. Compito della filosofia è di considerare la natura della sostanza, le sue determinazioni. Ora tutte le sostanze si dividono in due classi: le sostanze sensibili e in movimento, che costituiscono il mondo fisico e sensibile che a loro volta si suddividono in due classi: la sostanza sensibile che costituisce i corpi celesti, che è ingenerabile e incorruttibile; le sostanze che costituiscono i quattro elementi del mondo sublunare che sono generabili e corruttibili. Queste sono l’oggetto di studio della fisica. L’altro gruppo di sostanze, quelle immobili e non sensibili, sono oggetto della teologia o metafisica. L’esistenza di una sostanza immobile è dimostrata da Aristotele con la necessità di spiegare la continuità e l’eternità del movimento celeste. Il movimento continuo, eterno e uniforme del primo cielo deve avere necessariamente una “Causa Prima” cioè un primo motore che origina il moto e questo, non può essere mosso da nessun altro, altrimenti richiederebbe un’altra causa e questa un’altra ancora e così via all’infinito; dunque deve essere immobile ed eterno, sostanza e realtà quindi atto e non potenza e poiché la potenza è materia, esso necessariamente è “atto puro” Dio. Poiché oltre al primo cielo vi sono i movimenti egualmente eterni delle altre sfere celesti, vale per questi lo stesso principio di tanti motori immobili quanti sono i movimenti delle sfere. Aristotele che come Platone è politeista, ammette così altre 58 VII * Aristotele e Alessandro intelligenze motrici, altri dei, ognuna delle quali presiede al movimento di una determinata sfera celeste, in modo analogo in cui Dio muove il primo cielo, attirandolo verso se per il fatto di essere amato, essendo questo il principio primo di ogni movimento dell’universo, è quindi fine e non causa efficiente, come l’oggetto d’amore attira a se l’amante. Questo principio dal quale dipendono il cielo e la natura, è “Vita”. Nel libro “Dell’ Anima” Aristotele considera l’anima legata al corpo per cui, sembra, che anch’essa muore con il corpo. Infatti scrive: “ne consegue senz’ombra di dubbio, che l’anima è inseparabile dal corpo “ in contrapposizione con la dottrina platonica-pitagorica della trasmigrazione, ma aggiunge subito dopo: “o almeno lo sono certe parti di essa”. L’anima è la sostanza che informa e vivifica un corpo, è la realizzazione finale della capacità che è propria di un corpo organico, cioè l’atto o l’attività propria di ogni singolo strumento, per es. funzione della scure è di tagliare, di uno strumento musicale di suonare. Corpo ed anima sono messe in relazione come materia e forma. L’anima deve essere la forma propria di un corpo materiale che ha in sé potenzialmente la vita, quindi è sostanza, che è realtà e così l’anima è la realtà di una materialità corporea, corrispondente all’essenza nella sua forma definitiva. Il corpo in quanto strumento ha come sua funzione di vivere e di pensare; l’atto di questa funzione è l’anima. Tre sono le funzioni fondamentali dell’anima: “la funzione vegetativa” che è la potenza nutritiva, accrescitiva e riproduttiva che è propria di tutti gli esseri viventi; “la funzione sensitiva” che è caratteristica del mondo animale e comprende la sensibilità e il movimento; “la funzione intellettiva” che è la capacità di intendere e di interagire in conseguenza che è specifica dell’uomo. 59 VII * Aristotele e Alessandro Le funzioni più elevate possono supplire a quelle inferiori e non viceversa. Proseguendo nell’analisi egli, fa una distinzione tra “anima” e “spirito”, il quale ci viene presentato come più elevato dell’anima e meno legato al corpo. Dello spirito Aristotele dice: “il caso per lo spirito è differente; sembra trattarsi di sostanza indipendente fissata nell’anima ed incapace di essere distrutta ….sembra un tipo di anima, assai differente, che si diversifica in quanto è eterno, ….esso solo è capace di esistenza anche se isolato da tutti gli altri poteri psichici.”. mentre le altre parti dell’anima, come si è visto, sono incapaci di esistenza separata dal corpo. L’anima da forma, muove il corpo e riconosce gli oggetti sensibili, è caratterizzata dalla autonutrizione, dai sentimenti, dalle sensazioni le quali, se in atto, coincidono con l’oggetto concreto sensibile, per es. il suono corrisponde con l’udire il suono, in questo modo si può dire che senza il senso dell’udito non esisterebbe il suono in atto, ma solo in potenza. Aristotele dice: “la scienza in atto è identica al suo soggetto”. Lo spirito è la parte che capisce le matematiche e la filosofia, è posseduto solo da una piccola minoranza di esseri viventi, si rivolge verso oggetti immortali e quindi è anch’esso immortale, il resto dell’anima non può esserlo. L’anima è comprensiva di una parte irrazionale e di una razionale; l’anima razionale (spirito) vive nella contemplazione, che è la felicità completa dell’uomo, anche se non interamente raggiungibile, infatti non è in quanto uomo che vivrà cosi, ma in quanto qualcosa di divino è presente in lui. L’anima irrazionale distingue un uomo da un altro, mentre quella razionale è divina e impersonale; l’irrazionale ci divide, il razionale ci unisce. Risulta pertanto evidente che l’immortalità dello spirito (o ragione) non è un’immortalità personale, d’ogni singolo uomo, ma è una partecipazione all’immortalità di Dio. 60 VII * Aristotele e Alessandro Per Aristotele “l’etica” è la scienza che riguarda la condotta dell’individuo e il fine che egli vuole raggiungere. La moralità è il fare azioni che sono considerate giuste, non in sé, ma tali da essere più vicine a ciò che è bene per l’uomo. Ogni azione dell’uomo ha uno scopo o fine, atto al raggiungimento del “bene” che tende al bene supremo che è la “felicità”. La felicità essendo un’attività dell’anima può intendersi in diversi modi, infatti per alcuni può essere piacere e godimento oppure, potere e onori, per altri possedere ricchezze e beni ecc. sorge allora la necessità di precisarla perfettamente e che sia riconosciuta e accettata da tutti come il bene supremo, che si manifesta nel realizzarsi e perfezionarsi come uomo. Aristotele individua e indica come comune denominatore la “ragione” la razionalità, che per l’uomo è il vero carattere distintivo rispetto a tutto l’universo, per cui la felicità si realizza nel “vivere secondo ragione”. La parte irrazionale o appetibile o sensibile, entro certi limiti può ricevere l’approvazione della ragione quando, la virtù ricercata, non conduce ad alcuna attività pratica senza l’aiuto dei sensi; ciò significa che anche i beni materiali hanno la loro utilità nel conseguimento del bene supremo, anche se è pur vero che non assicurano la felicità. La capacità di dominare questa parte dell’anima e la riduzione di essa ai comandi della ragione è la virtù etica che si acquisisce con la ripetizione di atti successivi, ossia con l’abitudine. Molti sono gli impulsi che la ragione deve dominare, tante quante sono le virtù etiche e poiché tali impulsi tendono all’eccesso o al difetto, è compito della ragione trovare la giusta misura, cioè la via di mezzo tra i due eccessi, che non è mediocrità ma è un valore in quanto vittoria della ragione sugli istinti. La principale di tutte le virtù è la “giustizia”, poiché ha la 61 VII * Aristotele e Alessandro capacità di un comportamento virtuoso non solo verso se stessi ma anche in rapporto agli altri. Sul concetto di giustizia è fondato il “diritto” che Aristotele distingue in privato e pubblico riferito alla comunità degli uomini verso lo Stato ed è sancito dalle leggi. Tra le virtù dianoetiche (consistenti nell’esercitare la ragione nel miglior modo possibile) si trovano: “la saggezza” alla quale spetta di determinare il buon uso della ragione nelle azioni, con la quale è possibile determinare il giusto mezzo e quindi la capacità di distinguere le azioni buone da quelle cattive. “La sapienza” che è il grado più alto della scienza, è la facoltà di chi ha nello stesso tempo scienza e intelligenza, che sa non solo dedurre dai principi, ma giudicare della verità degli stessi. Mentre la saggezza concerne il giudizio sulla convenienza delle cose umane, la sapienza concerne le cose più alte e universali Anche “l’amicizia” è conformata all’etica ed è una virtù o almeno ad essa è strettamente congiunta essendo necessaria alla vita. Se questa è fondata sull’utile o sul piacere reciproco è accidentale e viene subito meno quando il piacere o l’utile vengono meno, viceversa se fondata sul bene e la virtù, diventa stabile e ferma, perché l’uomo virtuoso si comporta verso l’amico come verso se stesso, perché “l’amico è un altro se stesso”. Poiché la virtù come attività propria dell’uomo è la felicità, la più alta felicità sarà la virtù più alta e questa è la filosofia, perché sola culmina nella sapienza che è scienza e intelligenza. Lo Stato per Aristotele è un organismo naturale, è la forma più alta di comunità e tende al bene supremo. Esso è il compimento (telos) di un processo che vede l’uomo aggregarsi in comunità con al centro la famiglia, più famiglie formano un villaggio, parecchi villaggi uno Stato, purché siano abbastanza 62 VII * Aristotele e Alessandro ampi da essere autosufficienti. Lo Stato per sua natura è superiore a ognuno rappresentando l’intero, mentre l’uomo o la famiglia sono solo parti, ciò non significa sottovalutare il ruolo dell’individuo e della famiglia, ma ognuno può in ugual misura realizzare il proprio fine facendo parte dello Stato che analogamente ha come scopo la “buona vita” per i cittadini. Per ottenere ciò esso si avvale della legge la quale, ha bisogno dello Stato per la sua esistenza, ma serve a stabilire giusti rapporti tra gli uomini. Alle leggi sono affidate il compito di ordinare, in vista del fine comune, la molteplicità dei bisogni e delle attività all’interno della comunità politica. L’esercizio della giustizia deve corrispondere alla dottrina della medietà, del giusto mezzo e viene così indicata e distinta in: “distributiva” dove gli onori le ricchezze i beni vengano distribuiti tra i membri della cittadinanza in proporzione ai loro meriti, “commutativa” quando ristabilisce l’equità tra i cittadini quando sia stata violata, indipendentemente dai meriti individuali (per es. in caso di danni o furti subiti o provocati). Particolare importanza viene data alla famiglia, che Aristotele vede come cellula fondamentale per la riproduzione della specie, per tale relazione la donna e i figli sono subordinati al capofamiglia. Anche come nucleo principale dell’attività economica e sociale egli giustifica anche la schiavitù come proprietà del padrone per diritto naturale. Sulla famiglia si manifesta tutta la diversità con Platone che in più di un punto viene criticato, a cominciare dall’utopia della famiglia allargata e il rigetto del concetto dei figli e delle donne in comune, Aristotele considera più opportuno che ogni capofamiglia pensi alla propria casa ai propri affari e interessi “privati”. Rimangono nella scia del maestro i tre tipi di costituzione o governi: monarchia, aristocrazia, politèia, ai quali corrispondono le degenerazioni: la tirannide, l’oligarchia, la democrazia 63 VII * Aristotele e Alessandro Pur ritenendo buona ognuna delle tre forme di governo egli tuttavia ritiene migliore quella in cui prevale la classe media, la politeia, coloro che: “hanno un’educazione più elevata nell’intelletto e nel carattere, e che hanno soltanto una parte limitata dei beni materiali”. E’ necessario che a governare siano posti gli anziani, giacché nessuno si rassegnerebbe a ubbidire alle leggi, senza avere la prospettiva di giungere in età avanzata ad una condizione di più alto carisma. Un governo è buono quando aspira al bene dell’intera comunità , cattivo quando si preoccupa di se stesso. E’ curioso notare che in tutti i suoi scritti riguardante la politica, non faccia alcuna menzione né alla figura di Alessandro Magno, che pure fu suo allievo, né un accenno alla straordinaria trasformazione territoriale e politica che, il grande condottiero stava realizzando, unificando gran parte del mondo. L’intera speculazione è dedicata alle Città-Stato e non c’è nessuna previsione del loro imminente declino. Per cui sotto certi aspetti, questa esperienza ebbe migliore fortuna millecinquecento anni dopo, in Italia durante il Medioevo nell’età Comunale. Per concludere il capitolo su Aristotele un breve accenno alla retorica e alla poetica mi sembra necessario. Sulla retorica che definisce come l’arte capace di “individuare, intorno a un argomento dato, ciò che lo rende persuasivo“, afferma che la sua funzione è quella di mostrare i mezzi che sono adatti a indurre alla persuasione avendo per oggetto il verosimile, ciò che accade perloppiù. Il discorso retorico essendo diretto ad uno o più ascoltatori, che sono il fine stesso del discorso, deve avere come tale una sua forza, una coerenza logica pari a un discorso dialettico, ma con una suggestività e una forza psicologica necessaria a muovere l’interesse e la passione di chi ascolta, per cui individua tre generi di retorica: quella “deliberativa”, che è rivolta a cose future e deve persuadere dimostrando che qualcosa 64 VII * Aristotele e Alessandro è utile o perniciosa. La “giudiziale” che riguarda fatti successi in passato e il suo scopo è di accusare o di difendere, persuadendo che tali fatti erano giusti o ingiusti. La “dimostrativa” che riguarda il presente, il suo compito è di lodare o condannare, come vere o false, buone o cattive. La poetica viene riconosciuta come arte ed è definita da Aristotele “imitazione” della realtà. Anche per Platone l’arte è imitazione ma, soprattutto nella tragedia, interessando gli spettatori alle passioni violente che si agitano sulla scena, svolge un ruolo negativo incoraggiando tali passioni e allontanando gli uomini dalla realtà. Per Aristotele invece, ecco un altro punto di dissenso dal maestro, crede che la tragedia eserciti una funzione purificatrice e liberi l’anima dello spettatore dalle passioni che essa rappresenta, e quindi ne identifica un ruolo positivo. Anche nella musica Aristotele ravvisa lo stesso effetto positivo, riconoscendo così all’arte in generale, non più il motivo per considerarla illusoria ma, un mezzo potente di educazione identificando quella funzione catartica, che le da valore formativo ed educativo nei confronti dell’uomo. Aristotele fu senza dubbio l’uomo più importante di Atene del suo tempo. Fondò la sua scuola in un parco vicino al tempio di Apollo e insegnò passeggiando su e giù sotto gli alberi. Per le sue simpatie macedoni coloro che non lo amavano si prendevano gioco di lui per gli abiti eleganti, i raffinati banchetti e i gioielli con i quali si adornava. La sua erudizione enciclopedica lo fa apparire inavvicinabile, egli si interessò a tutte le scienze dando a ognuna ordine e metodo, dalla logica, alla biologia, alla fisica, alla metafisica, alla politica, con la quale non ebbe fortuna capitando nell’epoca di Filippo e Alessandro che ne ribaltarono le condizioni preesistenti. Il fatto che la sua teoria fisica sia stata interpretata con uno sfondo teologico e le sue convinzioni scientifiche divenute, successivamente, ortodossia e difese come Sommario 65 VII 66 * Aristotele e Alessandro VIII dogmi, gli hanno procurato una cattiva reputazione presso gli scienziati di questi ultimi secoli. Ciò avvenne non per sua colpa ma perché con lui, termina il migliore periodo creativo, esplorativo ed evolutivo del pensiero greco classico. E’ risaputo che dopo la sua morte, la sua autorità crebbe fino a divenire indiscussa per tutto un lunghissimo periodo, in parallelo quasi con il nascere e crescere dell’autorità della Chiesa, divenendo sfortunatamente un serio ostacolo al progresso scientifico e filosofico, salvo rare eccezioni, tanto che passarono duemila anni prima che nascessero dei geni che fossero, all'incirca, suoi pari.. L’Età Ellenistica Per la maggior parte degli storici, con la morte di Alessandro Magno si chiude il periodo della Grecia Classica, caratterizzato dalle libere Città-Stato, (della libertà e del disordine), e si apre il periodo detto “ellenistico” caratterizzato prima dalla dominazione macedone, che si protrae fino all’annessione romana dell’Egitto e in seguito all’incontro con il mondo romano. La travolgente marcia di espansione di Alessandro, portò il mondo di allora in meno di dieci anni ad abbattere tutte le frontiere verso Est, fino all’oceano Indiano spalancando le porte d’Oriente all’iniziativa greca, la quale vi si riversò con impeto travolgente. Le antiche e nuove culture, le religioni orientali, il Buddismo, lo Zoroastrismo, la scienza Babilonese, l’Impero Persiano con le sue ricchezze fino all’Egitto, tutto divenne accessibile ai greci. Benché il suo esercito fosse composto principalmente da macedoni e che le Città greche fossero sottomesse da lui con la forza, egli si considerò al principio come il campione dell’ellenismo. Gradualmente però, man mano che le conquiste si susseguirono, dovette promuovere verso le popolazioni asservite una politica di amichevole fusione con i conquistatori greci che affluivano al seguito dell’esercito. Questo, non potendo occupare con la forza un territorio troppo vasto (per motivi tattici e di rapida manovrabilità era relativamente poco numeroso), ad ogni successiva campagna di conquista, si rendeva necessaria una conciliazione con i popoli conquistati. Questi Stati, regni, o imperi orientali erano già abituati ad avere un capo di origine divina e per Alessandro non fu per nulla difficile assumersene la rappresentanza, infatti in Egitto godette degli onori che gli furono riservati, come 67 VIII * L’Età Ellenistica successore dei Faraoni e in Persia come Grande Re; del resto la sua ascesa fu talmente miracolosa che può ben aver creduto di essere figlio del dio. Purtroppo alla sua morte non lasciò eredi né designò successori e il suo effimero ma vasto impero se lo divisero le famiglie di tre generali. Ai discendenti di Antigono toccò la parte Europea, ai Tolemeo l’Egitto e dopo molte battaglie, Seleuco conquistò l’Asia. Durante il periodo ellenistico la filosofia, anche se in misura minore rispetto al periodo di Platone e Aristotele, ha avuto uno sviluppo importante, grazie alla fondazione di nuove scuole e all’affermazione di nuove dottrine le quali hanno avuto grande influenza sul pensiero filosofico per i secoli successivi. Le più importanti furono la cinica, l’epicurea e la stoica alle quali si affiancarono altre dottrine di tipo mistico o più propriamente scientifiche. Nella scienza e nella matematica, il lavoro compiuto in questo periodo è il meglio che sia mai stato realizzato dai Greci, soprattutto grazie ai Tolemei in Egitto che furono grandi mecenati, attirando nella loro capitale i migliori scienziati dell’epoca, avendo costruito e messo a disposizione la migliore biblioteca di quel tempo e non solo, tanto che fino alla caduta di Roma le scienze e la matematica in particolare furono principalmente alessandrine. La conquista macedone, la fine della potenza navale e militare di Atene e il conseguente rivolgimento della vita civile e sociale in tutta la Grecia crea anche nella ricerca filosofica un grande cambiamento che trova la sua espressione più importante all’interno del “problema morale” ed etico. Nel periodo che va da Socrate ad Aristotele la ricerca si è indirizzata verso la realizzazione teoretica dell’essere, intesa come unità tra scienza e virtù tra pensiero e vita che vede in Aristotele l’incarnazione più alta, della vita teoretica nell’uomo. 68 VIII * L’Età Ellenistica Questo equilibrio tra scienza e virtù viene rotto per la prima volta dai Cinici: i quali accentuano l’attenzione verso la virtù in danno della scienza. Compito immediato e urgente diventa l’orientamento morale a scapito e subordinando l’aspetto teoretico. La filosofia rimane ancora ricerca; ma la metafisica passa in secondo piano, e l’etica, divenuta più individualista, acquista un’importanza vitale, non avendo più il contraltare nel pilastro della scienza. Sommario 69 70 IX * Cinici e Scettici IX Cinici e Scettici Antistene, già discepolo di Socrate al tempo di Platone del quale era più vecchio di una ventina di anni fu una figura notevole di maestro e pensatore. In gioventù con i suoi compagni frequentò l’aristocrazia ateniese, non mostrando mai alcun biasimo nei confronti della bella vita. Oramai in età matura, però qualcosa (forse la sconfitta di Atene, o la morte di Socrate, o altro) gli fece mutare opinione e atteggiamento, cominciò a disprezzare la vita che fino ad allora non aveva disdegnato. Cambiò stile e comportamento, si vestì dimessamente, prese a predicare per le strade con linguaggio semplice e accessibile per il “ritorno ad uno stile di vita più naturale” nel quale mostrava di credere con molta fede. Non ci doveva essere governo, né proprietà privata né matrimonio, né religione, condannò la schiavitù. Non era un asceta, ma disprezzava il lusso e la ricerca ostentata del piacere. La fama acquisita, fu però superata dal suo allievo Diogene, nativo di Sinope sul mar Nero, il quale decise di vivere da nomade, contro tutte le convenzioni di usi, di religione, di vestiario, di cibo, di abitazione, facendo vita da mendicante; gli aneddoti parlano di una botte come dimora. Anche Alessandro Magno incontrandolo un giorno a Corinto gli domandò se c’era qualcosa che potesse fare per lui “si” rispose “togliti davanti che mi fai ombra”. Proclamò la fratellanza di tutta la razza umana con gli animali. Aveva una passione per la “virtù” nei confronti della quale i beni terreni non contavano nulla. Cercava la virtù e la libertà morale nell’affrancamento dai desideri: “rimani indifferente ai beni che la fortuna ti ha accordato e ti emanciperai dal timore”. Era questo l’aspetto della sua dottrina, che benché contemporanea alla scuola Aristotelica, come spirito appartiene già all’età ellenistica Nell’epoca in cui le ambizioni, le ricchezze, il potere, vengono messi al servizio dei padroni o dei re del momento, il modo di vita del cinico; barba lunga e incolta, vestito di una rozza coperta, che predica con un linguaggio pungente, sarcastico, privo di retorica, propugnando un ideale virtuoso di distacco dai piaceri e dalla mondanità, contro la falsità e il lusso sfrenato, diventa un’attrazione quasi folcloristica in alcuni ambienti, ma in altri suscita grande interesse e adesione tanto che, ad Alessandria diviene una moda atteggiarsi a cinico, proponendo ciò che in questa dottrina c’è di meglio, la virtù e la libertà morale nell’affrancamento dal desiderio. Parte di tale dottrina verrà ripresa in seguito anche dallo stoicismo pur senza rifiutare i vantaggi di una vita agiata. Con il passare del tempo il cinismo si trasforma: perde quella carica di ascetismo e, oramai volgarizzato, fa suo una certa negazione radicale nei confronti della verità formulando una nuova dottrina: “lo scetticismo”, che ebbe in Pirrone, generale dell’esercito macedone, il fondatore. Durante le campagne militari egli si era spinto fino all’India da dove probabilmente venne in contatto con quelle religioni mistiche e al suo ritorno, ritiratosi a Elide sua città natale, ebbe modo di accostarle al cinismo sviluppando una nuova dottrina. In essa non c’è molto di nuovo se non una certa formalizzazione e sistemazione nei riguardi dello scetticismo morale e logico, in aggiunta a quello riguardante i sensi che da sempre aveva arrovellato il pensiero dei filosofi greci sin dai tempi antichi. Sosteneva la mancanza di una “base razionale” per preferire un genere di azione ad un’altra, per cui è inutile preoccuparsi del futuro che è completamente incerto, ma vale la pena di godersi il presente. Lo scetticismo come filosofia non è il dubbio semplicemente, Sommario 71 72 IX * Cinici e Scettici X ma il dubbio dogmatico: “nessuno sa e nessuno può mai sapere”; se il fine della vita umana è la felicità, questa non potrà essere raggiunta attraverso la conoscenza, ma anzi, riconoscendone l’impossibilità di pervenire ad essa, si dovrà concludere che, l’unico atteggiamento possibile è “l’indifferenza” Sesto Empirico si propone come figura di spicco di questa dottrina che si sostanzia nella sospensione del giudizio (epoché) e nella ricerca continua di una verità inarrivabile, pur senza prospettare l’affermarsi di alcuna verità. L’Epicureismo Epicuro nacque a Samo (probabilmente) intorno al 342-1 a.C. A diciotto anni dopo la morte di Alessandro andò ad Atene da dove si allontanò per motivi di famiglia. Fu allievo di Nausifane, (contro il quale manifestò sempre disprezzo), un seguace di Democrito. Nel 311 fondò la sua prima scuola e nel 307 si stabilisce definitivamente alla periferia ad Atene, lontano dalla vita tumultuosa della città, in un edificio con giardino dove insegna ad una comunità di discepoli e amici che si accrebbe anche dei loro schiavi, figli ed etére, naturalmente suscitando scandalo e dicerie, a quanto pare infondate, da parte dei suoi nemici. La vita della comunità trascorreva molto semplicemente, con pasti frugali a base di pane e acqua, in parte per principio, ed in gran parte per mancanza di denari, dovendo dipendere per il sostentamento da contributi volontari il più delle volte in derrate. La filosofia di Epicuro come tutte quelle della sua epoca, aveva lo scopo di assicurare la tranquillità individuale. Egli considera il piacere essere il “bene” e il mezzo per sfuggire il dolore. “Il piacere è il principio e la fine della vita beata” scrive Diogene Laerzio che della dottrina di Epicuro fu la principale autorità. Nello scritto “Sul fine” Epicuro afferma:”non so come concepire il bene, se elimino i piaceri del gusto, i piaceri dell’amore, quelli della vista e dell’udito”, e ancora “principio e radice di tutto il bene è il piacere dello stomaco, e la saggezza e la cultura vanno riferiti ad esso” Coerentemente con questa visione materialistica la base del sapere epicureo è la “sensazione”, che l’essere, coglie in modo infallibile e solo essa può essere oggettiva. Poiché la sensazione non può mai fallire, nel caso di errore, è all’uomo e al suo intelletto che va attribuito, perché questo falsifica con 73 X 74 * L’Epicureismo X * L’Epicureismo . supposizioni, pregiudizi e avventate previsioni il giudizio. Caratteristica della sensazione è l’evidenza immediata, che è data sempre dall’azione diretta che le cose esercitano sul nostro animo, il quale non può mai errare perché accoglie come vero solo ciò che è evidente. L’errore invece è frutto dell’opinione, esso nasce dal ragionare e quindi non è qualcosa d’immediato La fisica epicurea è una ripresa dell’atomismo democriteo pertanto di tipo materialistico. La realtà è costituita da due elementi essenziali: i “corpi” e il “vuoto”. L’esistenza dei corpi è provata dai sensi, l’esistenza del vuoto è provata dal movimento. La realtà è “infinita” quindi infiniti devono essere ciascuno dei suoi principi costitutivi cioè infinita dovrà essere la moltitudine dei corpi e infinita l’estensione del vuoto. Per quanto riguarda i corpi essi possono essere “composti” oppure “semplici e indivisibili” (atomi), caratterizzati, questi ultimi, dalla figura, dal peso e dalla grandezza. Per il discorso del vuoto e del movimento a differenza degli atomisti antichi, per i quali il movimento era costituito dal volteggiare degli atomi nel vuoto in tutte le direzioni, per Epicuro, il peso degli atomi causa un movimento rettilineo velocissimo verso il basso, nel vuoto infinito, questo è uguale per tutti anche se di peso differente. Per permettere agli atomi di incontrarsi e formare la realtà che conosciamo, viene introdotto il concetto di “deviazione” (clinamen) dalla linea retta di caduta che questi, verrebbero a subire in modo casuale, per un intervallo minimo, in un punto qualsiasi dello spazio, in ogni momento del tempo, onde potersi fondere con gli altri atomi. Ne consegue che, a differenza di Democrito il quale riteneva il mondo sorto per necessità (destino), per Epicuro il mondo è frutto della casualità, essendo accidentale l’accadere del “clinamen”. Nello spazio e nel tempo i mondi sono infiniti e possono essere uguali o diversi dal nostro, essi nascono e muoiono infinite volte, ma il tutto non muta perché gli atomi non mutano e sempre compiute rimangono le possibili combinazioni. In quanto agli dei, necessariamente esistono vivono negli spazi tra mondo e mondo e non si occupano né del nostro mondo né di noi. Se il male continua a esistere nel mondo, si chiede Epicuro, “significa che gli dei sono malvagi o impotenti”? La sua risposta è che non sono né l’uno né l’altro, ma semplicemente essi vivono in un mondo beato senza curarsi degli uomini. Da ciò è valsa l’idea che gli epicurei non avevano alcun interesse per gli dei e per questo spesso vennero accusati di ateismo. Anche l’anima è un agglomerato di atomi leggeri diffusi in tutto il corpo, come pure la sua parte irrazionale che è il principio della vita, come fosse un soffio caldo. Con la morte gli atomi si separano, si disperdono, naturalmente sopravvivono ma non essendo legati al corpo decade la loro capacità di sensazione corporea, per cui “la morte è niente per noi, perché ciò che si dissolve non da sensazioni e ciò che non prova sensazione è niente”. Abbiamo detto in precedenza che per Epicuro, il bene rende felici, e questo bene è il piacere il quale può essere: assenza del dolore corporeo (aponia), o mancanza di turbamento dell’anima (atarassia). Questa diversità di giudizio crea la necessità di distinguere tra: 1. piaceri naturali necessari: sono quelli strettamente legati alla conservazione dell’individuo; mangiare, bere, riposare, ecc. Questi piaceri vanno comunque soddisfatti, perché per loro natura hanno il preciso scopo di eliminare il dolore, e la non soddisfazione arreca dolore. 2. piaceri naturali non necessari: sono quelli che costituiscono i desideri e le golosità superflue dei piaceri 75 X 76 * L’Epicureismo X * L’Epicureismo . . necessari. Sono i piaceri della tavola, del ben vestire ecc. essi potrebbero però provocare un danno. 3. i piaceri non naturali e non necessari: sono i piaceri “vani” sorti cioè dalle vane opinioni dell’uomo. “Vanitosi”, sono i piaceri legati al desiderio di ricchezza, al potere, agli onori. Questi non tolgono i dolori del corpo e in più arrecano turbamento e danno, sia allo spirito che all’anima. Riassumendo per essere felici bisogna, soddisfare i piaceri del primo gruppo, limitare con oculatezza il secondo e rifuggire i piaceri del terzo. La sostanza del problema è: per ogni desiderio bisogna chiedersi se l’appagarlo porta un bene o un vantaggio migliore o peggiore del non appagarlo. Questo calcolo può essere valutato solo dalla “saggezza” la quale è ancora più preziosa della filosofia, perché da essa nascono tutte le altre virtù e lei sola può far si che l’uomo basti a se stesso, con la scelta e la limitazione dei bisogni e quindi il raggiungimento dell’atarassia e dell’aponia. Epicuro afferma esplicitamente: “non è vero che solo la gioia della mente è un bene; giacché la mente si rallegra nella speranza dei piaceri sensibili, nel cui godimento la natura umana può liberarsi dal dolore”. Questa è la tesi fondamentale della sua dottrina che fa della sensazione il canone basilare della vita dell’uomo, per cui il piacere, se non violento ma rettamente inteso, è a disposizione di tutti. Questo però non deve trarre in inganno e confondere la dottrina di Epicuro con un volgare edonismo; ciò sarebbe in netto contrasto con il culto dell’amicizia che fu una caratteristica peculiare della dottrina e della condotta pratica degli epicurei. L’etica Epicurea, con vari alti e bassi, durò sei secoli, tra la fine della Grecia classica e il tramonto dell’impero di Roma, essa propone e delinea una nuova figura di pensatore non più il filosofo-re di Platone, né il filosofo-scienziato di Aristotele, ma il “saggio” dell’età ellenistica, il quale consiglia: “vivi nascosto”, riferito alla vita pubblica e sociale, “rimani insensibile alle passioni, e preoccupati solo della tua felicità individuale”, riferito alla vita privata, anche se può cadere nell’individualismo e nell’egoismo. Sommario 77 78 XI * La Scuola Stoica XI La scuola stoica Tra le scuole post-aristoteliche che, dal punto di vista storico e filosofico ebbe, più di ogni altra, un’influenza decisiva nel periodo Ellenistico, è senza dubbio quella “stoica”. L’insegnamento del suo fondatore Zenone, è una combinazione tra materialismo di derivazione eraclitea e cinismo. Quando, dopo alcuni secoli, le correnti neoplatoniche fecero proprie molte delle sue dottrine fondamentali, lo stoicismo subì un graduale cambiamento nella parte materialista tanto, che ne rimase solo una piccola traccia dell’originale. Ciò che invece rimase pressoché inalterata fu l’etica, e questo dà la misura della minore importanza data agli altri aspetti dallo stoicismo, e spiega anche la sua lunga storia. Zenone nacque a Cizio nell’isola di Cipro intorno al 336 a.C. a 22 anni venne ad Atene e si entusiasmò delle letture socratiche e si fece allievo di Cratete vedendo in lui un nuovo Socrate. Intorno al 300 fondò la sua scuola che si chiamò Stoica. Ebbe una notevole produzione letteraria andata quasi totalmente distrutta o dispersa e con essa gran parte del lavoro dei suoi allievi e successori. Solo di Seneca, di Epitteto e dell’imperatore Marco Aurelio vissuti in epoca romana nel I e II secolo d.C. ci rimangono opere complete di scuola stoica. Zenone concepisce la filosofia come “arte del vivere” minimizzando la parte metafisica, come Epicuro, ma del quale non accetta la riduzione dell’uomo e del mondo a un agglomerato di atomi, né identifica il bene dell’uomo nel piacere. Motto dello stoicismo è “vivere conformemente al logos” (secondo ragione, le leggi naturali del cosmo), come arte di organizzare la vita secondo natura, respingendo tutte le lusinghe provenienti sia dall’interno che dall’esterno dell’uomo, specificando il modo di pensare e di agire. All’origine del mondo c’è il fuoco o più propriamente un “vento caldo” (pneuma); poi gradatamente compaiono gli altri elementi naturali, aria, acqua, terra, ecc. dopo di che, il processo cosmico progressivamente si corrompe con il crescente distacco della civilizzazione dalla natura, fino a che tutto ha termine nel rogo del mondo, in cui l’universo purifica se stesso per ricominciare da capo con un nuovo ciclo all’infinito. Tutto ciò con una certa armonia, perché la decadenza e il distacco dalla natura è un fenomeno collaterale al processo cosmico. Zenone non crede che esista il caso, ma che lo svolgersi del mondo segua una precisa legge naturale, stabilita da un Legislatore che predispone tutto fino all’ultimo dettaglio, con mezzi naturali, compresi gli scopi riguardanti la vita stessa dell’uomo. Questo Supremo Potere chiamato Dio o Zeus o altro, non è separato dal mondo ma è l’anima stessa del mondo ed ognuno di noi possiede una parte del Fuoco Divino, e tutte le cose fanno parte di un unico sistema, chiamato “natura”, tale sistema è retto da due principi: uno “passivo”, che è la materia e l’altro “attivo”, che è la forma e l’uno e l’altro sono inseparabili. Poiché Dio è il principio attivo ed è inseparabile dalla materia e questa dalla forma, ne consegue che Dio è tutto e in tutto e coincide con il cosmo (panteismo). Il mondo e le cose sono nate dall’unica materia-sostrato chiamata “ragione seminale” del mondo, perché contiene delle intelligenze particolari che costituiscono i semi, i germi da cui si sviluppano necessariamente le varie cose. L’uomo occupa una posizione privilegiata nell’universo in quanto più di ogni altro partecipa del Logos divino essendo costituito di corpo e anima che è una parte di Dio ed è fatta di fuoco e nella sua parte dominante è “ragione”. Gli Stoici non negano i mali del mondo, ma anzi li 79 XI * La Scuola Stoica ritengono necessari per l’esistenza del bene in quanto questo è il contrario di quelli; “bisogna che gli uni siano sostenuti dagli altri perché entrambi possano sussistere”. Poiché il pensiero si manifesta attraverso il linguaggio e questo agisce sul pensiero e lo influenza, per esprimere la verità del Logos è necessario un linguaggio semplice e senza equivoci. Da qui la centralità che la logica assume nello stoicismo. Come per Epicuro anche per gli stoici la base della conoscenza è la sensazione. Di fronte agli oggetti che stimolano i nostri sensi non siamo nella condizione di libertà perché subiamo passivamente tale presenza; la libertà si esprime solo, di fronte alla rappresentazione che si forma in noi dell’oggetto, dando o non dando l’assenso con la nostra razionalità (logos). Il ricevente una rappresentazione determinata, per esempio sentire il dolce, non dipende da colui che la riceve, ma dipende dall’oggetto dal quale la rappresentazione deriva, l’assentire o il dissentire a tale figurazione attraverso il logos è invece sempre atto libero. L’assenso costituisce il giudizio, il quale si definisce appunto o come approvazione, o come dissenso, o come sospensione (epoche) cioè rinuncia provvisoria ad assentire o dissentire. Sesto Empirico testimonia che gli Stoici, posero il criterio della verità non, nella “rappresentazione comprensiva o concettuale” , ma nella “rappresentazione concettuale che non abbia nulla contro di sé”; perché si da il caso di rappresentazioni che non siano degne di fede per le circostanze che vengono ricevute, quindi solo quando non c’è nulla contro di sé si impone con la propria forza, costringendo il soggetto conoscente all’assenso. Per quanto riguarda l’origine della conoscenza si deve dire che lo stoicismo è “empirismo” fondando la conoscenza umana sull’esperienza, la quale lascia un’impronta della 80 XI * La Scuola Stoica rappresentazione impressa nell’anima, che scomparendo determina il ricordo e più ricordi della stessa specie costituiscono l’esperienza. L’etica degli Stoici è sostanzialmente, la teoria nell’uso della ragione al fine di stabilire un accordo tra la natura e l’uomo. Zenone afferma che il fine dell’uomo è l’accordo con se stesso, cioè “vivere secondo una ragione unica ed armonica”; “vivere secondo natura”. La natura è l’ordine razionale, perfetto e necessario, è il destino o Dio stesso. L’azione che si prospetta conforme all’ordine razionale è il “dovere”: quindi fondamentalmente la nozione del dovere , diventa per la prima volta, negli Stoici, principio fondamentale dell’etica. Il dovere è l’azione, la cui scelta può essere razionalmente giustificata e può essere doverosa, o contraria al dovere, oppure né doverosa né contraria al dovere. Sono doverose quelle che la ragione consiglia di compiere come onorare i genitori, gli amici, i congiunti, ecc. contro il dovere sono quelle che la ragione consiglia di non fare. Né doverose, né contrarie al dovere sono quelle che la ragione né consiglia né vieta quindi quelle che non arrecano danno o dolore. Tuttavia il dovere non è il bene. Il bene comincia ad esserci quando la scelta consigliata dal dovere viene ripetuta e consolidata, fino a diventare una disposizione nell’uomo, che se uniforme e costante è virtù, ed essa sola è l’unico bene, ed è peculiare a chi è sapiente perché solo lui possiede la conoscenza dell’ordine cosmico. La virtù presa come bene assoluto, che costituisce nell’uomo la realizzazione dell’ordine razionale, portò gli Stoici a formulare un’altra dottrina tipica della loro etica; quella delle cose “indifferenti". Se la virtù è il solo bene si devono propriamente dire beni la sapienza, la giustizia, la saggezza, ecc., e mali i loro contrari; analogamente non sono né bene né mali ciò che non costituisce virtù come la vita, la salute, il piacere, la 81 XI * La Scuola Stoica ricchezza, la bellezza, ecc., e tutti i loro contrari. Queste sono pertanto “indifferenti”. Nel dominio di queste cose indifferenti, alcune sono degne di essere scelte come la bellezza, la salute, la vita ecc., altre no, quindi non solo i beni assoluti sono degni di essere scelti ma vi sono altre cose che, pur non essendo beni assoluti, sono tuttavia degni di preferenza, per indicare i quali gli Stoici hanno adoperato la parola “valore”, che vuole significare “ogni contributo ad una vita conforme a ragione”, o più in generale “ciò che è degno di scelta”. Fa parte integrante dell’etica Stoica, la negazione totale “dell’emozione”, che rappresenta una vera e propria malattia, dalla quale solo il sapiente è immune. La condizione del sapiente è quindi l’indifferenza ad ogni emozione, ”l’apatia”. Lo stoico è sempre distaccato dagli altri, per lui non esiste compassione, pietà, misericordia, verso alcuno e non è certo un entusiasta della vita, come l’epicureo. Ciò che si chiama “giustizia” è l’azione della stessa ragione divina, che dirige la comunità umana. La legge che si ispira alla ragione divina è la legge naturale della comunità umana; una legge perfetta, riconosciuta da tutti i popoli non suscettibile di correzioni e cambiamenti, viene così espressa da Cicerone in una pagina famosa: “Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa fra tutti, costante, eterna, che con il suo comando invita al dovere e con il suo divieto distoglie dalla frode… Essa non sarà diversa a Roma o ad Atene o dall’oggi al domani ma come unica, eterna, immutabile legge, governerà tutti i popoli e in ogni tempo”. Questi concetti stoici sono alla base della teoria del diritto naturale e fondamento della dottrina del diritto. L’uomo conformandosi alla legge diventa allora cittadino del mondo (cosmopolita) perché indirizza le azioni secondo natura, conforme alla quale tutto il mondo si governa 82 XI * La Scuola Stoica Il sapiente non appartiene quindi a questa nazione o a quella città ma a tutto il mondo, nel quale tutti gli uomini sono cittadini liberi, in quanto la schiavitù, imposta dall’uomo sull’uomo, per gli Stoici, è malvagità. Questa uguaglianza naturale è alla base della concezione stoica: ogni essere umano, indipendentemente dalla situazione in cui si trova, ha la possibilità di migliorare se stesso, ciò significa diventare saggi, e quindi padroni di se stessi. Essere saggi per Zenone significa “essere in armonia” prima di tutto con se stessi e in tal modo con la ragione. Cleante e Crisippo che successero a Zenone alla guida della scuola di Atene modificarono l’espressione in “ essere in armonia con la Sommario 83 XI * La Scuola Stoica 84 . XII L’eclettismo natura” cambiando in tal modo anche il significato di questa frase, con la quale i cinici si erano serviti con una certa anarchia. Anche se questi ideali non si realizzarono nemmeno nel periodo in cui fu imperatore Marco Aurelio, che dello stoicismo fu seguace, sicuramente influirono positivamente sulla legislazione di quell’epoca particolarmente nei confronti delle donne e degli schiavi.. Qualcuno ha definito lo stoicismo come “ un modo di pensare, che più di altre filosofie ne sottolinea l’importanza del modo di pensare”. Ciò significa che ognuno deve cominciare con se stesso e da se stesso, a operare, per quanto possibile, per migliorare il mondo. Anche il cristianesimo che quasi inosservato nacque proprio nel mezzo di questo periodo, al tempo di Seneca, nella sua concezione morale non mancò di subirne l’influenza e di recepire molti degli insegnamenti della dottrina stoica, pur in una visione del tutto nuova e metafisica, favorendo la rottura definitiva fra la concezione primitiva della realtà e la moderna scienza della natura e della storia Le tre grandi scuole postaristoteliche, stoicismo, epicureismo e scetticismo, pur nella diversità di presupposti teoretici mostrano una fondamentale concordanza nelle conclusioni pratiche. Tutte tre ritengono che il fine dell’uomo debba essere la felicità, che si realizza con il soddisfacimento dei bisogni primari, nella mancanza di turbamento e nell’eliminazione delle passioni; ponendo l’ideale del saggio nell’indifferenza rispetto alle emozioni e ai turbamenti materiali e naturali della vita. Questa concordanza sul terreno pratico, porta a smussare le rispettive posizioni teoretiche e consigliare di trovare un terreno di incontro intorno al quale i tre indirizzi possano conciliarsi e riconoscersi Il terreno d’incontro sulle verità fondamentali, che già sussistono nell’uomo prima e indipendentemente da ogni ricerca, lo si è trovato unificando e armonizzando le rispettive posizioni in una forma “eclettica”, che sappia assumere criteri comuni e condivisi per meglio adattarsi alla mutata situazione culturale e politica conseguente ai nuovi cambiamenti storici. Dopo la conquista da parte dei Romani della Macedonia (168 a.C.) la Grecia di fatto divenne una provincia del vasto impero forte militarmente, ma che sotto il profilo culturale e scientifico, era di gran lunga arretrato. Roma di ciò si rese immediatamente conto e si predispose ad accogliere con favore le nuove filosofie, pur se queste dovettero gradualmente adattarsi alla diversa mentalità romana, più pratica e meno teoretica, divenendone in breve un elemento essenziale della sua cultura. Nasce così la necessità di scegliere tra le dottrine delle varie scuole quegli elementi che più di altri si avvicinano e possono fondersi in un corpo unico, che trovi un valido appoggio nella nuova mentalità, la quale mostra poco interesse per i 85 XII 86 * L’Eclettismo problemi etici e politici, ma maggiore apertura per quelli giuridici. Dopo il felice incontro con la sapienza mistica orientale, tipica del periodo delle campagne di Alessandro, l’eclettismo, diventa il terreno sul quale si incontrano, si confrontano e si scontrano le scuole e le dottrine filosofiche di cultura ellenistica con la cultura e la tradizione latina. Roma, quale capitale dell’impero, (con la conquista di Siracusa e la distruzione di Cartagine, le due città-Stato che dominavano il Mediterraneo occidentale), diventa la padrona del mondo e si appresta a imporsi come nuovo polo intellettuale, dopo Atene oramai decaduta e Alessandria resa oramai in condizione di vassallaggio con l’Egitto. L’indirizzo eclettico si manifestò per primo nella scuola stoica con Boeto di Sidone e più decisamente con Panezio di Rodi vissuto tra il 185 e il 109 a.C. circa. Le sue dottrine, nella forma più ampia, data da lui e dal suo successore Posidonio, erano più politiche e meno vicine a quelle ciniche dei primi stoici, e ciò si rivelò come un forte richiamo tra i più seri e colti romani. Lo stoicismo del periodo romano pur nel suo indirizzo eclettico, mostra già in modo evidente un carattere che in seguito risulterà preminente: l’emergente interesse religioso. Nella concezione stoica del saggio, che è autosufficienza nella ricerca della verità, si comincia a intravedere ciò che noi chiamiamo autocoscienza o introspezione. Per giungere a Dio e conformarsi alla sua legge, il saggio non ha bisogno di guardare fuori di se, ma guardare in se stesso. Questo ritorno a se stesso degli Stoici romani diventerà in seguito uno dei temi centrali e dominanti del neoplatonismo. Tra i numerosi stoici di indirizzo eclettico in età imperiale gli unici che presentano una propria personalità filosofica sono i già citati, Seneca, Epitteto, Musonio e l’imperatore Marc’Aurelio. XII * L’Eclettismo Lucio Anneo Seneca nato in Spagna a Cordova, nei primi anni d.C.. fu per lungo tempo maestro e consigliere di Nerone, ci ha lasciato numerosi scritti di carattere morale e religioso, e una miriade di notizie sullo stoicismo e l’epicureismo. Egli insiste sul carattere pratico della filosofia, la quale, ”insegna a fare, non a dire”. La non conoscenza dell’uomo dei fenomeni fisici sono la causa principale dei suoi timori; la grandezza Lucio Anneo Seneca del mondo insegna all’uomo a riconoscere la propria piccolezza. Sono evidenti in lui l’interesse preminente per la fisica, vista dal punto morale e religioso. Per ciò che concerne l’anima egli si ispira a Platone considerando il rapporto con il corpo come prigione dell’anima, la quale sarà libera solo il giorno della morte del corpo. Seneca è molto lontano dal rigorismo stoico, ed 87 XII * L’Eclettismo è convinto che c’è sempre una opposizione tra ciò che l’uomo deve essere e ciò che è di fatto, perché l’oscillazione tra il bene e il male è propria dell’uomo. La sua massima fondamentale è la parentela universale tra gli uomini “noi siamo tutti membra di un gran corpo. La natura ci generò parenti dandoci una stessa origine e uno stesso fine”. La sua dottrina è uno stoicismo eclettico a sfondo religioso, che le da un suo carattere originale, alcuni concetti della quale sono vicini al cristianesimo, tanto da far nascere la leggenda che Seneca abbia avuto contatti con S. Paolo. Morì nel 65 d.C. per ordine di Nerone suo allievo, sospettato di cospirazione. Anche nell’Accademia, dopo l’indirizzo scettico prevalso con Carneade e i suoi successori, vengono accolte le modifiche in senso eclettico con Filone di Larissa, intorno alla seconda metà del I° sec. a.C. e con alcune differenziazioni con il suo successore Antioco di Ascalona che fu maestro di Cicerone. Molti furono gli scritti filosofici di Cicerone che deve la sua importanza, non all’originalità del pensiero, ma alla sua capacità di esporre e spiegare in forma chiara le dottrine di filosofi contemporanei e precedenti. Egli stesso riconosce la dipendenza dalle fonti greche per i suoi scritti: “mi costano poca fatica, perché di mio ci metto solo le parole, che del resto non mi mancano”. Come Antioco, egli ammette quale criterio di verità il consenso comune dei filosofi, tale consenso si spiega con la presenza in ognuno delle nozioni innate, simili alle anticipazioni dello stoicismo. Nella fisica, rigetta la concezione meccanica che il mondo possa essersi formato in virtù di forze cieche come per gli Epicurei. Quanto a risolvere positivamente il problema, lascia in sospeso il giudizio, ritenendolo impossibile. Riconosce l’esistenza di Dio, ma evita di affrontare i problemi metafici che sono inerenti a tali affermazioni. Nella scuola peripatetica l’eclettismo non si è mai radicato 88 XII * L’Eclettismo profondamente anche se non mancano riformatori come Andronico da Rodi, famoso per aver iniziato a commentare le opere del maestro. In seguito tutti i peripatetici seguirono questa linea fino all’esegeta per eccellenza di Aristotele, Alessandro di Afrodisia. Tra gli eclettici peripatetici si ricorda il grande astronomo Claudio Tolomeo, la cui speculazione sul platonismo e la dottrina pitagorica intorno ai numeri hanno avuto grande rilievo; il medico Galeno, grande autorità della medicina fino all’età moderna, che accanto alle quattro cause aristoteliche, materia, forma, causa efficiente e causa finale, ne assunse una quinta, la causa strutturale, cioè lo strumento per il quale le altre quattro operano. La scuola cinica già dalla prima metà del III° secolo a.C. si caratterizzò con quel genere letterario detto “diatribe”, specie di prediche moraleggianti di tono sarcastico, arricchite da artifici retorici per aumentarne l’efficacia, contro le opinioni e i costumi dominanti. Nelle satire scritte da Menippo di Gadara, si rappresentano scene burlesche nelle quali vengono presi di mira scettici ed epicurei. In seguito però perdette la sua autonomia fondendosi con la scuola stoica, anche se sopravvisse in vari modi fino al V° sec. d.C. Solo l’epicureismo non venne influenzato dall’eclettismo rimanendo fedele alla dottrina del maestro e con Lucrezio e i suoi successori continuò per alcuni secoli, con alterne fortune, a indicare come unica salvezza per l’uomo, l’arte di appartarsi dalla vita politica e dalle passioni umane, chiusi in una tranquilla vita privata. Sommario 89 XIII 90 XIII * Accenni sull’Impero romano Accenni sull’Impero romano Credo sia utile al prosieguo delle nostre riflessioni una breve discontinuità rispetto al tema della filosofia, spostando l’attenzione sulla storia politica del tempo, con lo scopo, di meglio definire il contesto e le diverse modalità di interpretazione, del pensiero filosofico nel periodo dell’impero romano e successivo avendo presente l’importanza e l’influenza che questi fatti hanno avuto, nel bene o nel male, sulla storia della filosofia sino ai giorni nostri. Gli avvenimenti storici che seguirono alla morte di Alessandro hanno portato un tale rivolgimento culturale da provocare una serie di trasformazioni e cambiamenti che avviarono la civiltà classica verso la modernità. L’era Ellenistica prima, il periodo alessandrino poi, ricco di cultura e grandi fermenti, e infine l’età imperiale romana prepararono e posero le condizioni per il manifestarsi e diffondersi del Cristianesimo, che se pure come religione, si avvalse e in molti punti si riconobbe, nella felice mescolanza della cultura greca classica, dell’ascetismo mistico orientale e del pragmatismo occidentale romano, che se dal canto suo, non ha apportato alcun pensiero culturale né importante né profondo, ha saputo, costruendo buone strade, buoni codici legislativi e con un esercito efficiente, garantire, un lungo periodo di pace relativa, e stabilità politica, dall’incoronazione di Augusto (30 a.C.) fino al III° secolo d. C., abituando tutti i popoli coinvolti, all’idea di essere parte di un'unica civiltà, legata ad un unico governo globale. A ciò si giunse dopo una serie di guerre civili, iniziate al tempo dei Gracchi, intorno alla seconda metà del II secolo a.C., alle quali seguirono delle guerre di conquista, sfociate infine con in una tirannia. Augusto, figlio adottivo di Giulio Cesare, mise fine alle contese e praticamente alle guerre di conquista, con una vittoria sui suoi competitori così totale che non ne rimase alcuno a contendergli il potere. Per tutti fu motivo di grande soddisfazione scoprire che il periodo delle guerre civili era finito e con Augusto il mondo antico, per la prima volta dall’inizio della civiltà greca, godette di quella pace e sicurezza che ne Atene ne Alessandro e neppure Roma prima di lui erano riusciti a realizzare. Merito principale di Augusto fu quello di aver organizzato l’amministrazione delle province tenendo in qualche conto anche il benessere del popolo che lo contraccambiò deificandolo, non solo dopo la morte ma con spontaneità, anche in vita, sopratutto nelle province. Alla morte (14 d.C.), la macchina amministrativa continuò a funzionare in maniera soddisfacente, nonostante i successori si abbandonarono ad ogni sorta di crudeltà, contro i possibili competitori alla porpora, estendendo il malgoverno alle province. Un periodo migliore si ebbe con Traiano nel 98 d.C. e proseguì fino alla morte di Marc’Aurelio (l’imperatore filosofo) nel 180 d.C. Quando l’esercito, dopo di lui, conquistò il potere, si verificò uno spaventoso disastro, in quanto questo imponeva a suo piacimento gli imperatori in cambio di favori, ricompense e potere, cessando nel contempo di essere una effettiva forza difensiva. Davanti a un esercito incapace ormai di assicurare la difesa dei confini, a causa di interessi particolari, le popolazioni barbare, da est e da nord, ebbero facile accesso al territorio romano, che invasero e saccheggiarono a più riprese. Sotto questa pressione, anche il sistema fiscale decadde, le risorse ebbero un tracollo e parallelamente aumentarono le spese per una guerriglia inconcludente. Anche la popolazione diminuì fortemente a causa delle pestilenze. Queste furono le prime avvisaglie del crollo del troppo vasto impero, ritardato, da due 91 XIII * Accenni sull’Impero romano imperatori energici: Diocleziano (284-305), Costantino (312--337), al quale si deve la divisione dell’impero in orientale e occidentale, tracciando la linea di confine circa, tra le popolazioni di lingua greca e latina. Costantino fissò anche la capitale orientale a Bisanzio, rinominata Costantinopoli e fu l’imperatore che ebbe l’intuito e la fortuna, di imporre il Cristianesimo come religione di stato, anche perché un forte numero di suoi soldati erano cristiani, e molti provenivano dalle tribù barbare. Quando nel V° secolo i Germani, annientarono l’impero di occidente, il prestigio oramai acquisito dalla nuova religione, li spinse ad adottare il Cristianesimo, conservando per l’Europa, quel tanto dell’antica civiltà greca che dalla Chiesa era stato conservato. Dal momento della separazione i due imperi seguirono storie e vicissitudini diverse fino a divenire due entità differenti l’una giudaico-cristiana l’altra araba-musulmana. L’impero di Oriente, pur diminuendo in dimensioni sopravisse fino al 1453, quando i Turchi conquistarono Costantinopoli. Le province romane dell’est e l’Africa mediterranea, dopo il VII° secolo vennero presto assorbite dagli arabi di religione maomettana, i quali mantennero la civiltà di coloro che avevano conquistato conservando la letteratura greca e tutto quanto sopravviveva della civiltà non latina. L‘adozione del Cristianesimo, da parte di Costantino fu un successo per certi aspetti insperato, tant’è che i molti tentativi fatti con altre religioni pagane, dai suoi predecessori, fallirono. Le religioni tradizionali della Grecia e di Roma erano adatte per uomini interessati alla vita terrena, che speravano nella felicità in terra. Ma il periodo è di grande decadenza e la debolezza del mondo romano, avviato oramai verso il declino, indirizza gli uomini e in genere, l’orientamento filosofico, verso forme consolatorie ultraterrene, che il mondo orientale aveva già 92 XIII * Accenni sull’Impero romano conosciuto e sviluppato con successo sotto forma di speranza nell’aldilà. Il Cristianesimo, che al suo apparire fu scambiato per una qualsiasi delle tante sette giudaiche, dopo la rivolta antiromana culminata con la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., si mostrò con la propria fisionomia monoteista e universale, al confronto diretto con il mondo decadente pagano, accogliendo e accettando, della cultura ellenistica propria dell’età imperiale, quanto di meglio questa potesse offrire. Sommario 93 94 XIV * Il Neoplatonismo XIV Il Neoplatonismo L’accentuarsi del carattere metafisico della filosofia nel periodo romano, trova la sua espressione in un insieme di elementi religiosi impliciti nella storia del pensiero greco, dalla religione dei misteri, al pitagorismo, al platonismo; poi nelle filosofie che si connettono direttamente alle religioni orientali, cercando di ricondurre ad esse lo stesso pensiero greco (filosofia greco-giudaica). L’espressione più alta di questo orientamento è il neoplatonismo, che ha avuto il suo massimo rappresentante in Plotino Voglio introdurre l’argomento esaminando con una breve esposizione, il mutamento graduale del pensiero filosofico dal I sec. a.C. al III sec. d.C., cercando di seguirne (per quanto possibile e per come ho compreso) lo svolgersi cronologico, della cultura e della storia, trattandosi di un periodo, di grandi mutamenti e rivolgimenti storici e dottrinali, che hanno aperto la strada al Cristianesimo e alla storia della filosofia moderna occidentale e non solo, fino ai nostri giorni . Nella Grecia antica, la ricerca filosofica, della quale Socrate è il simbolo e Platone il fondatore dell’ordinamento teoretico, nacque come volontà di liberarsi dalla tradizione, dai costumi e dalle opinioni prestabilite: “l’uomo non ha bisogno di ricevere la verità dalla tradizione perché essa è affidata alla sua ragione”. In seguito, con la prevalenza dell’interesse religioso sulla ricerca scientifica, la tradizione riprende i suoi diritti, che le derivano da una sapienza originaria e trascendente che nel corso degli ultimi secoli aveva smarrito: “la verità è frutto di una rivelazione originaria di cui la tradizione ne è garante”. Da qui la tendenza di questo periodo (età alessandrina), da parte della cultura dominante, a produrre scritti di falsa o dubbia attribuzione, atti a testimoniare credenze dell’antichità, e conferire ad esse la garanzia della tradizione. La riviviscenza della filosofia pitagorica nel I secolo a.C. si manifesta con la fioritura di scritti pitagorici falsamente attribuiti a Pitagora, tutti caratterizzati dal riconoscimento di una separazione totale tra Dio e il mondo, che porta con sé la necessità di supporre divinità inferiori che facciano da tramite tra Dio e il mondo stesso. E’ comune negli scritti ermetici (Ermete Trismegisto I sec. d.C.) la difesa incondizionata del paganesimo e delle religioni orientali e l’ostilità per il Cristianesimo. I neopitagorici sostengono la preesistenza dei numeri, che sono i modelli in conformità dei quali tutte le cose sono state ordinate. Principio della creazione è l’Uno identificato con la divinità o la ragione, la dualità è identificata con la materia. La dottrina di Numenio di Apamea in Siria (I sec. d.C.) è un miscuglio di elementi pitagorici e platonici; molto interessante è la separazione delle tre divinità: il primo dio è puro intelletto e re dell’universo, il secondo è il demiurgo che manipola la materia ed è il principio del divenire, il terzo è il mondo creatura del demiurgo. E’ in questa conciliazione dei concetti platonici del bene supremo e del demiurgo con il concetto aristotelico del Dio come puro intelletto, a presentare caratteristiche che saranno comuni nella speculazione di questo periodo: il sincretismo greco-orientale, l’intesa tra Pitagora e Platone, la credenza di divinità intermedie tra Dio e il mondo, l’opposizione tra spirito e materia tra bene e male. Del platonismo medio nella seconda metà del I sec. d.C., degno di nota è Plutarco di Cheronea che svolse la sua attività scientifica ad Atene. Molte sono le opere che ci sono rimaste di commento a Platone, di fisica, di etica, di psicologia, di religione e pedagogia, famose sono le “vite parallele” di Greci e Romani. Come speculazione, egli ritiene impossibile che il mondo derivi 95 XIV * Il Neoplatonismo da una causa unica, perché se ciò fosse, il male non dovrebbe esistere, essendo Dio solo causa di bene, per cui l’altra causa, che non può essere la materia, la indica come una forza indeterminata e indeterminabile, che Dio all’atto della creazione assoggetta, pur rimanendo sempre presente nel mondo come motivo di ogni imperfezione. Plutarco accetta la divisione platonica dell’anima in: intellettiva o razionale, irascibile e appetitiva, anche se in altre parti, combina queste con la divisione aristotelica. Per ciò che riguarda l’etica, segue prevalentemente Aristotele. La ragione pratica ha il compito di moderare gli impulsi irrazionali dell’anima onde poter trovare il giusto mezzo tra l’eccesso e il difetto. Plutarco ha un’importanza superiore alla sua opera speculativa, per aver saputo portare a conoscenza di tutto l’occidente, le dottrine fondamentali della filosofia greca, meglio che attraverso le opere originali. In altra parte avevamo già parlato, di quanto la filosofia greca abbia assorbito e contemporaneamente ceduto parte delle proprie dottrine e del proprio sapere, solidarizzando e fondendosi insieme alla tradizione religiosa orientale e giudaica in particolare. Tra le numerose comunità che popolano il territorio della Palestina intorno al I sec. d.C. la setta degli Esseni mostra una profonda affinità con il neopitagorismo e platonismo, tanto da far supporre che essa abbia avuto delle influenze molto strette con i misteri orfico-pitagorici. Questa setta era costituita da varie tribù che praticavano una severa disciplina e un certo numero di regole ascetiche. La loro dottrina era codificata nel Vecchio Testamento che interpretavano secondo una tradizione che risaliva fino a Mosè. Quasi tutte le loro credenze si ritrovano nel neopitagorismo e nel medio platonismo del tempo, come: la preesistenza e l’immortalità dell’anima, una nuova vita dopo la morte, ammettevano le divinità intermedie o demoni e la possibilità di 96 XIV * Il Neoplatonismo profetizzare il futuro; questo a riprova, di quanto nell’epoca immediatamente precedente l’avvento del Cristianesimo, la diffusione di una filosofia greco-giudaica a carattere religioso, trova terreno fertile per la nascita, la propagazione e lo sviluppo. Un altro anello della catena utile, almeno a mio giudizio, allo svolgersi della nostra analisi verso il neoplatonismo, è Filone di Alessandria, “il giudeo”, vissuto a cavallo tra l’ultimo secolo e il primo dell’era volgare, fu ambasciatore dei Giudei a Roma, al tempo di Caligola (40 d.C.). Egli esprime grande venerazione verso le Sacre Scritture e verso Mosè in particolare, dall’altro lato è anche grande ammiratore dei filosofi classici greci, ritenendo che la verità espressa da essi, sia la stessa contenuta nei libri Sacri. Filone giunse a questa convinzione, interpretando in modo allegorico le dottrine del Vecchio Testamento adattati ai concetti della filosofia greca, ne risulta alla fine una forma di platonismo riferito a Platone ed a Pitagora. Fondamentale per la sua speculazione sono: la trascendenza assoluta di Dio rispetto a tutta la conoscenza dell’uomo; la dottrina del logos, come tramite tra Dio e l’uomo; il fine dell’uomo determinato come l’unione con Dio. Nella sua perfezione assoluta “Dio è”, e non “cosa è”. A Lui appartengono “la bontà e il potere”, delle quali è rispettivamente, Dio e Signore. Tra queste due potenze c’è la terza, conciliatrice d’entrambe, “la Sapienza, il Logos” che è la rappresentazione più perfetta di Lui. Il Logos è quindi il tramite della creazione del mondo, creato da Dio prima come modello perfetto non sensibile, perciò simile a Lui, poi, servendosi di una materia originariamente indeterminata ma appositamente approntata precedentemente, diede a questa, forma e qualità secondo il modello non sensibile.. Il logos è la sede delle idee, ed è attraverso loro che Dio ordina e plasma la materia, le 97 XIV 98 * Il Neoplatonismo idee quindi sono concepite come forze, perché per il loro tramite la materia viene plasmata. E’ dalla materia che scaturiscono le imperfezioni del mondo. Il fine dell’uomo è il ricongiungimento con Dio. Per questo, l’uomo in primis, deve liberarsi dalla sensibilità e dai vincoli con il corpo, liberandosi anche dalla ragione, aspettando, in una condizione di furore mistico, che la grazia divina lo sollevi fino alla visione di Dio. Una condizione simile si era già incontrata e prospettata, parecchi secoli prima, al tempo dell’orfismo-pitagorico. Il neoplatonismo è l’ultima manifestazione del platonismo nel mondo antico. Esso riassume le tendenze e gli indirizzi più pregnanti dell’orientamento religioso, connaturati nella filosofia greca e alessandrina dell’ultimo periodo. Elementi pitagorici, aristotelici e stoici vengono fusi con il platonismo, in una vasta sintesi che influenzerà tutto il corso del pensiero cristiano e medioevale, e attraverso esso, anche il pensiero moderno. L’atteggiamento religioso sottintende che la verità in quanto tale non va ricercata, perché essa è rivelata e viene garantita dalla tradizione. Tale verità però va spiegata per essere compresa e difesa, e a questo scopo, si serve della filosofia che meglio di altre si presta a tale scopo, nel caso del Cristianesimo è il platonismo. In questo modo però il neoplatonismo non ha nulla o molto poco in comune con il platonismo originale ed autentico, ma assume una confusa mescolanza di altri elementi dottrinali atti a giustificare un atteggiamento religioso. La figura di maggior spicco del neoplatonismo è senza alcun dubbio Plotino nato in Egitto nel 203 d.C. e morto in Campania nel 269-70 all’età di 66 anni. Di ritorno da una spedizione militare in estremo oriente, alla quale partecipò per conoscere le dottrine orientali, si stabili a Roma, dove fondò una XIV * Il Neoplatonismo sua scuola, ottenendo una discreta popolarità. L’importanza storica di Plotino è dovuta alla riproposta della filosofia di Platone in una chiave nuova in cui, elementi desunti da Aristotele, dagli stoici, dalla religione ebraica e forse anche dal cristianesimo, ne risulta una sintesi originale ma profondamente mutata del pensiero platonico. Di questa nuova formulazione del platonismo i primi teologi cristiani se ne avvalsero con grande abbondanza tanto che Dean Inge, nel suo libro su Plotino, sottolinea quanto il Cristianesimo gli debba: “Il platonismo”, dice, “fa parte vitale Plotino Filosofo della struttura teologica cristiana, con la quale, nessun altra filosofia può venire a contatto senza scontrarsi; c’è una assoluta impossibilità di separare il platonismo dal Cristianesimo, senza mandare in pezzi il Cristianesimo”. Sant’Agostino riferendosi a Plotino ne parla come di un uomo in cui: ”Platone viveva ancora”. L’importanza storica di Plotino, è stato l’aver operato un elaborato di ciò che sarebbero stati, il Cristianesimo medioevale e la teologia cattolica. La dottrina di Plotino, che detto 99 XIV * Il Neoplatonismo per inciso era pagano, riproponendo il pensiero greco di Platone, presenta la filosofia come l’unica suprema forma di conoscenza e di sapienza umana, in contrasto con il Cristianesimo perché fede, e il suo fondamentale dogma, l’incarnazione (il logos fatto carne). Superando l’antico dualismo platonico-aristotelico, (idea-materia) (Dio-materia) Plotino afferma che Dio è al di là dell’essere, della sostanza, della materia, Egli è trascendente, rispetto a tutte le cose, è infinito, proprio perché a Lui non si addice alcuna determinazione finita, l’Uno è ineffabile, poiché qualunque parola si pronunci, si sarà sempre espresso un “qualche cosa di determinato”; pertanto può essere espresso soltanto con definizioni prevalentemente negative. Con il termine “Uno” non si intende il termine matematico, ma è l’Uno in sé, cioè l’esclusione del molteplice, il “bene” assolutamente trascendente, l’Uno come causa di sé, perché, autocreandosi liberamente, necessariamente si espande essendo infinita potenza e, come il sole emana da sé il calore in ogni direzione senza modificarsi, così l’Uno, irradiando da sé tutte le cose, non ne risulta in alcun modo modificato o sminuito. Questo processo di emanazione è un processo “necessario e involontario” non potendo fare a meno di produrre cose quindi, non è un atto creativo che è sempre libero e volontario. Per poter svolgere una funzione di mediazione tra l’Uno e la molteplicità del mondo sensibile, Plotino pensa ad altri due tipi di sostanza, ad altri due modelli per svolgere questa funzione: “l’intelletto” e “l’anima del mondo”, e attraverso loro, stabilire una continuità tra l’Uno e tutte le sue creature. L’Intelletto, che è emanazione e immagine dell’Uno, pensandosi, da origine all’Anima del mondo, la quale a sua volta è immagine dell’intelletto. All’estremo limite dell’emanazione sta la materia intesa come ricettacolo di tutte le forme, essa si identifica con il male, cioè il 100 XIV * Il Neoplatonismo non essere, che pertanto è privazione di realtà e di bene. Trascorrendo da immagine a immagine, l’emanazione subisce un processo di degradazione, come la luce è meno luminosa nella misura in cui si allontana dalla sorgente, ciò che emana da Dio, non può avere né la sua unità né la sua perfezione, ma procede sempre più verso l’imperfezione e la molteplicità. Per Plotino il concetto di coscienza diventa centrale e dominante, come già si era presentata per gli stoici. Essa è l’atteggiamento di colui che non ha bisogno di guardare fuori da sé ma; “ ritorna in se stesso” “rientra nell’interiorità” “riflette su di sé”, “il saggio” dice Plotino “trae da se stesso ciò che rivela agli altri … e rivolgendosi a se trova in sé tutte le cose”; sono tutte sue espressioni per indicare la coscienza come introspezione. Con il ritorno in se stesso l’uomo inizia un itinerario per il percorso di ritorno a Dio, le cui tappe proseguono con la liberazione da ogni dipendenza esteriore dal corpo, purificandosi mediante le virtù, che sono vie di liberazione dall’esteriorità. Con la sapienza e l’intelligenza, l’anima dell’uomo si abitua ad operare senza l’aiuto dei sensi, la temperanza lo libera dalle passioni, con il coraggio non teme di separarsi dal corpo, con la giustizia fa sì che a comandare siano la ragione e l’intelletto. Anche nella musica, nell’amore, nella filosofia, l’anima trova le vie positive per il ritorno a Dio. La condizione che precede il ritorno dell’anima non può essere l’intelligenza, perché questa è condizionata dal dualismo, del soggetto che pensa e dell’oggetto pensato, mentre Dio è unità assoluta, ma culmina con l’estasi in uno slancio d’amore, nell’unione mistica con Dio. La filosofia di Plotino incoraggia gli uomini a guardare in se stessi perché è dentro di noi che si trova l’Uno, mentre guardando fuori si vedono le imperfezioni del mondo sensibile. 101 XIV 102 * Il Neoplatonismo Questo atteggiamento, tutto interiore e individuale, lo si può riscontrare in forma dottrinale, anche in filosofi precedenti, come Protagora, Socrate, Platone, negli epicurei, come negli stoici, ma per tutto questo tempo la curiosità per le scienze non venne meno, ma continuò a suscitare grande interesse. Successivamente però, la scienza non venne più coltivata perché stimata più importante la virtù, non come concepita da Platone cioè, una possibilità per la conoscenza sulla via delle conquiste del pensiero, ma, nei secoli successivi, in senso sempre più limitata alla sola volontà virtuosa. Plotino sotto questo aspetto è contemporaneamente una fine ed un principio, una fine per ciò che riguarda i Greci, ed un principio per quanto riguarda il Cristianesimo. Per il mondo antico, esasperato da secoli di disillusioni, la sua dottrina che non era certo stimolante, poteva essere accettabile e consolatoria. Per il rude mondo barbarico che avanzava, in cui l’energia sovrabbondante aveva bisogno di essere arginata e regolata, ciò che del suo insegnamento venne recepito, ebbe un effetto benefico su un male da contrastare, la brutalità. Il compito di raccogliere e trasmettere ciò che sopravvisse della filosofia di Plotino e del neoplatonismo fu assolto dai filosofi e uomini di cultura cristiani dell’ultimo periodo dell’impero Romano. INDICE I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV Le Origini …………………………………….p. 5 Filosofi antichi e Presofisti……………….p. 10 Sofisti e la Crisi………………..……………p. 17 Socrate……………………………………….p. 20 L’influenza di Sparta……………………….p. 27 Platone……………………………………….p. 30 Aristotele e Alessandro…………………...p. 46 L’Età Ellenistica…………………………… p. 65 Cinici e Scettici……………………………..p. 68 L’Epicureismo………………………………p. 71 La Scuola Stoica …………………………..p. 76 L’Eclettismo…………………………………p. 83 Accenni sull’Impero Romano……………p. 88 Il Neoplatonismo…………………………...p. 92