Siracusa nella seconda guerra punica

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LA RIVISTA DELLA SCUOLA
Anno XXX, 1/31 ottobre 2008, n. 2
Sir acusa nella seconda guer r a punica
Coinvolta anche Acre nelle drammatiche vicende della madrepatria?
N
el 269 a. C. fu eletto stratego Gerone
(o Jerone) II (306-215 a. C.), un
valoroso ufficiale che aveva combattuto con Pirro nella campagna di
annessione della Magna Grecia all’Epiro (278).
Egli, grazie al matrimonio con Filistyide, figlia
dell’aristocratico Liptine, divenne tiranno di Siracusa e combattè contro i Mamertini di Messina
come alleato dei Cartaginesi. Ma affrontato dall’esercito romano di Marco Valerio, fu costretto ad
accettare il pagamento di una indennità di 25
talenti annui e a restituire le città siceliote da lui
occupate. Con grande intuito Jerone, convinto che
i Cartaginesi non potessero garantirgli sicurezza e
libertà, si pose sotto la protezione di Roma, che gli
consentì di governare per ben 54 anni tra pace e
benessere.
Cartagine, gelosa dell’espansionismo romano,
si premunì concentrando ad Akragas un esercito di
Celti e di Iberi, che assicurò per lungo tempo ai
punici il controllo del territorio. Roma, impegnata
a contrastare l’avanzata di Annibale, vigilava da
lontano; le cose precipitarono il 2 agosto del 216
a. C., quando a Canne, in Puglia, sulle rive del
fiume Anfido (oggi Ofanto), in un campo detto “di
sangue” i consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio
Emilio Paolo furono circondati dal nemico e 20
mila uomini perirono (compreso il console Emilio
Paolo), mentre altri 10 mila furono catturati, Le
perdite avversarie ammontarono a quattromila
Celti, 1500 tra Iberi e Libici, e 200 cavalieri.
Scrisse Polibio, storico greco di Megalopoli (200120 a. C.): “Conclusasi la battaglia nel modo
descritto, ne seguirono per entrambe le parti le
conseguenze previste”. L’episodio determinò defezioni in massa tra le città federate, fra cui Taranto,
Argirippa o Arpi (sul monte Gargano) ed altre
della Campania. I Romani ora cominciavano a
temere per la propria incolumità e decisero di non
pagare il riscatto per i prigionieri, accusati di aver
salvato la pelle senza combattere (la richiesta di
Annibale era di trecento nummi quadrigali per ciascuno, il nummus romano corrispondeva al sestertius o piccola moneta argentea). La notizia della
sconfitta di Canne ebbe riflessi disastrosi soprattutto a Siracusa, dove giusto nello stesso anno del
215 a. C. era morto Gerone II, seguito misteriosamente nella tomba dal figlio Gelone; per cui il
potere finì nelle mani del giovane Geronimo,
pupillo di quest’ultimo, il quale, spalleggiato dagli
zii Zoippo e Antranòdoro, cancellò la politica filoromana del nonno ed inviò ad Annibale, quali
messi di pace, Policleto da Cirene e Filodemo da
Argo. Il generale cartaginese si rallegrò della decisione e rimandò indietro i delegati facendoli
accompagnare da un suo omonimo, Annibale,
capo delle triremi, e da due siracusani cresciuti a
Cartagine, Ippocrate e suo fratello Epicide (il
nonno di essi, sospettato di avere ucciso Agatarco,
figlio del tiranno Agatocle, era fuggito in Africa e
là aveva ricomposto la famiglia, tanto che i due
nipoti militavano nell’esercito di Annibale). I
Romani, informati del voltafaccia di Geronimo, lo
esortarono a non trasgredire i patti stipulati dal
nonno Jerone. Ma il ragazzo respinse ogni ingerenza sulle sue scelte autonome, sostenendo di
essere due volte re, prima perché nipote di Pirro
(nato dalla figlia Nereide), e poi come erede di
Gelone figlio di Jerone, e che quindi, dal riavvicinamento coi punici, sperava di trarre il dominio di
tutta quanta la Sicilia. Così, mentre Ippocrate ed
Epicide con un esercito di fanti e cavalieri scorrazzavano per la campagna per stuzzicare le guarnigioni romane, l’arrogante monarca, mal protetto
da un drappello di uomini, si avviò verso Leontini,
dove in un vicolo isolato fu “trapassato da molti
colpi prima che si potesse soccorrerlo”. Sparsasi la
voce della sua morte, Leontini insorse e si proclamò libera, mentre Teodoto e Sosi, coi cavalli
del defunto re, corsero a Siracusa ed entrati per
l’Esapilo (ingresso settentrionale a sei porte), percorsero il quartiere Tyche mostrando ai cittadini la
veste insanguinata e il diadema di Geronimo.
Quindi, portatisi a Nord-Est in Acradina, radunarono il popolo in assemblea incitandolo alla
ribellione, e i più accesi corsero all’Olimpico,
sulle cui pareti Gerone aveva appeso le armi strappate ai Galli e agli Illirici donategli dagli amici
Romani, e, dopo essersene appropriati, corsero a
svaligiare i granai presidiati dalle guardie di
Adranòdoro. Salì sul palco un certo Polieno, spacciandosi per portavoce degli insorti, il quale chiese
al genero di Gerone di arrendersi, ma la moglie
Demarata, “ancora spirante regia fierezza - come
scrisse Tito Livio - lo chiamò in disparte e gli
ricordò la sentenza spesso ripetuta dal re Dionisio,
secondo cui il regno deve abbandonarlo chi è tirato per i piedi, non chi è a cavallo; e gli disse pure
che facile cosa è rinunziare, quando si voglia, al
possesso d’una grande fortuna, ma difficile e ardua
cosa acquistarla e ordinarla”. La donna suggerì
dunque al marito di prendere tempo, coi deputati,
per deliberare; e del tempo si valesse per far venire
le truppe da Leontini, chè, se avesse a costoro pro-
messo il tesoro regio, tutto sarebbe venuto in suo
potere”. Queste parole pronunciò la figlia di Gerone e Adranòdoro l’indomani si recò all’Acràdina e
dall’ara della Concordia, dopo avere elogiato pubblicamente Sosi e Teodato che avevano liberato la
città dalla tirannia, incitò i cittadini alla pace. Ma
fu sospettato assieme a Temisto, marito di Armonia (figlia di Gelone e sorella di Geronimo), di tramare contro il Paese per impadronirsi del potere
con l’appoggio di schiere di ausiliari africani ed
ispanici già in assetto di guerra, e con lui fu assassinato nella Curia. Stessa sorte toccò alle rispettive
consorti, Damarata ed Armonia, l’una figlia del
vecchio sovrano defunto, e l’altra pupilla di Gelone. Una sorella di Demarata, Eràclia, della quale lo
spietato nipote Geronimo aveva esiliato il marito
Zoippo spedendolo dal Re Tolomeo, si proclamò
innocente, anzi unica vittima della casata reale, per
aver ricevuto più torti che vantaggi, e chiese umilmente di essere risparmiata. Ma ormai la furia
popolare si era scatenata e la poveretta fu sgozzata
entro il Santuario assieme alle due figliole. Nel bel
mezzo della confusione furono chiamati i fratelli
Ippocrate ed Epicide a sostituire i pretori Adranòdoro e Temisto, i quali, raffazzonato un esercito di
mercenari, si posero sulle tracce di Appio Claudio.
Marcello, venutone a conoscenza, lanciò un ultimatum alla città e minacciò di espugnarla se non
avesse bandito i due fuorusciti. Ma costoro, appena calata la notte, elusero la sorveglianza e andarono a raccogliere rinforzi ad Erbesso, e di là tornati,
portarono lo scompiglio all’Acràdina, liberarono
gli schiavi e soppressero i pretori e i cittadini loro
nemici.
Il console romano da Leontini spostò le truppe
d’un miglio e mezzo verso Siracusa e si accampò
nella pianura dell’Olimpieion (il Tempio di Zeus
Olimpico presso le foci del Ciane e dell’Anapo),
mentre Appio inviava una quinqueremi, con dei
messi, che però venne sequestrata all’imboccatura
del porto. Cominciò cosi l’assedio di Siracusa, che
Archimede affrontò più con l’ingegno che con la
forza, azionando macchine diaboliche ed inventandone altre mai viste. Per Marcello fu impossibile
espugnare la metropoli dal mare, dove lo scienziato, manovrando un congegno originale, agganciava le navi nemiche, le strattonava e le sollevava
facendole precipitare dall’alto, con gran danno per
gli equipaggi. Il console romano decise allora di
dare l’assalto dalle parti dell’Epipoli, presso il
Forte Eurialo; ma anche qui i suoi soldati furono
travolti da grossi macigni che rotolavano dalle
alture, e molti di essi, colpiti da frecce e proiettili,
ci lasciarono la pelle. Quell’insolito bombardamento indusse i Romani a tornare verso la costa,
per tentare di tagliare i rifornimenti e prendere la
città per fame. Intanto il generale Imilcone, dopo
aver tenuto all’àncora a Pachino la propria flotta,
raggiunse Akragas attraverso Eraclea Minoa, ove
sbarcò 25 mila fanti, tremila cavalieri e 12 elefanti, riaccendendo un lume di speranza nei Siracusani difesi da Epicide. Nell’anno 214 a. C. Ippocrate
si mise in marcia per ricongiungersi con Imilcone,
ma ad Acrillae incrociò Marcello che tornava da
Akragas, e per evitarlo riparò con tutta la cavalleria ad Acre, sugli Iblei. L’episodio fa parte della
storia della piccola colonia acrense e testimonia il
ruolo importante cui essa era assurta durante il
lungo regno di Jerone II. Nello stesso tempo, all’apice del comando romano avvenne una sostituzione: Appio Claudio, candidato al consolato, dovette
rientrare a Roma, e a rimpiazzarlo fu chiamato
Tito Quinzio Crispino. Con lui Marcello nella primavera successiva condivise la tesi che, più che
riprendere le operazioni ad Akragas contro Ippocrate ed Imilcone, era meglio intensificare la stretta di Siracusa, che si era rivelata inespugnabile per
la sua posizione terrestre e marittima, ed anche per
l’incessante vettovagliamento fornitole dai Cartaginesi. Perciò decise di inviare di notte in città
alcuni Siracusani fuorusciti per sondare all’interno
le postazioni dei difensori. I poveretti però, traditi
da un certo Attalo, furono catturati dai soldati di
Epicide e finirono torturati. A questo punto alcuni
storici decantano l’ardire di due disertori che,
approfittando della celebrazione della festa di
Diana, patrona d’Ortigia, durante la quale i cittadini si abbandonavano per tre giorni ad ogni sorta di
allegri bagordi, bevendo e schiamazzando a
volontà, scavalcarono le mura dalla parte sguarnita
di guardie ed aprirono le porte ai Romani.
Per Tito Livio, i due avventurieri si chiamavano
Sosi siracusano (lo stesso forse che fu implicato
nella uccisione di Geronimo) e Merico spagnolo, i
quali vennero ricompensati con la concessione
della cittadinanza romana e il dono di 500 jugera
(=175 ettari) di terre. Infatti, a guerra finita, Merico si insediò a Murgentia (Morgantina), ch’era una
delle comunità nemiche dei Punici, e Sosi abitò
una casa confiscata in città e si accontentò di un
lotto nell’ager publicus o di proprietà regia. Furono essi dunque che introdussero i centurioni romani nell’accesso segreto dell’Esapoli, per sorprendere le guardie che dormicchiavano sbronze sui
giacigli. Subito dopo il grosso dell’esercito occupò
parte del centro urbano e Marcello, per evitare
ulteriore spargimento di sangue, invitò gli assediati ad una resa patteggiata. Epicide, sperando che
arrivassero i soccorsi da Ippocrate e Imilcone, tergiversò alquanto affidando a Filòdemo d’Argi la
difesa dell’Eurialo. Ma gli aiuti da Akragas tardarono ad arrivare e Marcello occupò Neapolis e
Tica costringendo Filòdemo a consegnargli il
Forte senza combattere. Nel frattempo Bomilcare
in pochi giorni andò e tornò da Cartagine con le
navi cariche di rinforzi e vettovaglie ed Epicide,
grato, gli ripagò il favore donandogli il tesoro di
Gerone. L’assedio di Acràdina si rivelò rischioso
per i Romani, che vennero attaccati da una parte
da Ippocrate e dall’altra da Epicide, riuscendo tuttavia a respingerli. In autunno imperversava ancora un caldo afoso e irrespirabile e sui rispettivi
campi (ma più in quello paludoso dei Cartaginesi)
infierì un’epidemia di peste o di malaria, dovuta
alle condizioni insalubri dei luogo e ai cadaveri
rimasti a mucchi insepolti, fra cui giacevano quelli
di Ippocrate e di Imilcone. I Siculi, atterriti, abbandonarono le difese e rientrarono nelle località di
provenienza, mentre Bomilcare, tornato da Cartagine con 130 nuove navi e 700 onorarie, rimase
bloccato a Pachino dai venti contrari. Lo raggiunse
Epicide, dopo aver dato incarico della difesa dell’Acràdina al capo dei mercenari, ma non riuscì a
convincerlo, perché quello, cessato l’Euro, girò la
costa e puntò su Taranto. Sentendosi abbandonato
e disperando nella vittoria, Epicide abbandonò
anche lui l’impresa e veleggiò verso Agrigento. Da
Siracusa, dove intanto la popolazione si era sollevata sopprimendo i luogotenenti di Epicide, cioè
Policlito, Filistione ed un altro Epicide soprannominato Sindone, giunsero nell’accampamento di
Marcello alcuni pretori disposti a trattare la pace. I
quali dissero che non loro né la città, ma soltanto
Geronimo aveva tradito l’alleanza con Roma. E
così dissertò il capo dei legati: “il ricordo di Geronimo non abbia per voi più peso di quello di Gerone; questi vi fu amico assai più a lungo che quello
vi sia stato nemico; i benefici di questo voi li avete
sperimentati coi fatti, la dissennatezza di quello è
servita soltanto alla sua propria rovina”. Nel frattempo in città un manipolo di dissennati riprese le
armi, trucidò i pretori, ne rielesse tre nuovi e si
appostò guardingo tra l’Acràdina e l’Isola. Ma
Merico, lo spagnolo ch’era stato gratificato dai
Romani, da Murgenzia inviò un messaggio a Marcello tramite un proprio fratello, promettendogli di
consegnargli la metropoli con l’astuzia. Infatti,
appena calata la notte, una quadriremi piena di
armati si accostò alla Fonte Aretusa e Merico in
persona aprì le porte ai soldati che subito scavalcarono le mura dell’Acradina annientando le difese.
Ne seguirono atti, di violenza e vendetta contro gli
inermi cittadini, e nella mischia anche Archimede
ne rimase vittima. Si narra che Marcello, quando
apprese la morte dello scienziato, con le lagrime
agli occhi ne curò personalmente le esequie.
“Così dunque fu occupata Siracusa; e tanto vi fu il
bottino quanto se ne sarebbe trovato nella sola Cartagine, con la quale essa gareggiava pareggiandola”.
Pochi giorni dopo “Tito Otacilio - racconta Tito
Livio (“Storia di Roma” XXV) lasciata Lilibeo
con 80 quinqueremi, puntò su Utica e la distrusse,
dopo averne prelevato frumento ed altre vettovaglie. Rientrato a Lilibeo, inviò a Siracusa 130 navi
cariche di grano; e questo giunse proprio a tempo,
chè altrimenti vincitori e vinti sarebbero stati travagliati da una disastrosa carestia”.
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XXX/02
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