In segno di ringraziamento per l’assistenza prestata ho ricevuto un giorno da una mia affezionata paziente una pergamena riportante il Giuramento di Ippocrate. Leggendolo, mi son venuti in mente i consigli e le raccomandazioni di mio padre,clinico medico universitario tra gli anni 50 e 80 (gli anni d’oro della Medicina)- prima che le riforme davvero stravolgessero tutto. In quegli anni la Medicina era di pochi, ma molto più “ a misura d’uomo” di oggi. Meno tecnologia e più senso clinico –l’intuito di colui che indaga- meno esami diagnostici e più umanità ed empatia . L’esortazione – sempre piu’ pressante – ad “umanizzare” la medicina è forse uno dei paradossi piu’ eloquenti del nostro tempo. Perché nulla piu’ della cura di un individuo, della condivisione della sofferenza e della speranza di una guarigione, della presa in carico di un malato, dovrebbe sapere di umanità. Eppure, oggi piu’ di sempre, si invocano medici e cure “umane”, quasi come se qualcosa o qualcuno avesse tolto ai camici bianchi ed al personale sanitario quel senso dell’altro che identifica la loro professione. E’ vero, la burocratizzazione eccessiva dei servizi sanitari, la riduzione all’essenzialità dei livelli di assistenza, la superspecializzazione, l’assillo dei bilanci ed il ricorso ai tagli incidono fortemente sulla missione che medici ed infermieri svolgono .Nulla –però- puo’ e deve permettere a questi ultimi di perdere di vista il fine primario della loro scelta: quella di adoperarsi per il bene del paziente, in qualsiasi condizione venga a trovarsi, dal concepimento fino alla morte naturale. L’umanizzazione comporta innanzitutto un esame di coscienza da parte di noi medici. Si realizza attraverso sguardi, gesti e dialoghi che troppo spesso neghiamo ai pazienti ed ai loro familiari. Chiede spazi e tempi che diano speranza, anche quando la cura prende il posto della guarigione. Ci richiama all’umiltà dei padri della medicina. Al vessillo di Ippocrate al quale abbiamo giurato di mantenerci fedeli. E che sarebbe sufficiente tenere nella mente e nel cuore per tornare ad essere medici “più”umani. Il giuramento di Ippocrate Consapevole dell' importanza e della solennità dell' atto che compio e dell' impegno che assumo, giuro: di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento; di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell' uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale, ogni mio atto professionale; di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di un paziente; di attenermi alla mia attività ai principi etici della solidarietà umana, contro i quali, nel rispetto della vita e della persona, non utilizzerò mai le mie conoscenze; di prestare la mia opera con diligenza, perizia, e prudenza secondo scienza e coscienza ed osservando le norme deontologiche che regolano l'esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione; di affidare la mia reputazione esclusivamente alla mia capacità professionale ed alle mie doti morali; di evitare, anche al di fuori dell' esercizio professionale, ogni atto e comportamento che possano ledere il prestigio e la dignità della professione. Di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni; di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità condizione sociale e ideologia politica; di prestare assistenza d' urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni e di mettermi, in caso di pubblica calamità a disposizione dell'Autorità competente; di rispettare e facilitare in ogni caso il diritto del malato alla libera scelta del suo medico, tenuto conto che il rapporto tra medico e paziente è fondato sulla fiducia e in ogni caso sul reciproco rispetto; di osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato, che vedo o che ho veduto, inteso o intuito nell' esercizio della mia professione o in ragione del mio stato; di astenermi dall' "accanimento" diagnostico e terapeutico.