14 14 LA RIVISTA DELLA SCUOLA INSERTO SPECIALE Anno XX1X, 1/29 febbraio 2008, n. 6 Ricerche storiche sull’antica Magna Grecia Siracusa nella seconda guerra punica Pagina a cura di VINCENZO TEODORO Caronda uno dei più illuminati legislatori della Magna Grecia Vissuto prima di Solone e dopo Licurgo di Sparta diede all’antica Catania leggi e ordinamento civile ella Tavola Peutingeriana la Sicilia è disegnata agli estremi margini meridionali della regione italica, di cui segue l’inclinazione ad Est. Nel 1561 fu stampata un’altra Carta, la Gastaldina, dove l’isola è presentata come un triangolo isoscele punteggiato da piccoli mondi isolati collegati fra loro da vecchi tracciati o trazzere, futuri itinerari turistici. Questi microcosmi vivono ciascuno di vita propria, storia, costumi e tradizioni, conservando una parlata dominata dal vocalismo arcaico ad Occidente e metafonètico ad Oriente. Quanto alla conformazione paesaggistica, notiamo che l’altipiano montuoso dell’interno si innesta nel tavolato ibleo intagliato dai fiumi Tellaro, Anapo e Cassibile, senza mai oltrepassare i mille metri di altitudine (Monte Lauro = m. 986). La Sicilia, per la sua particolare posizione geografica come perno del Mediterraneo, è stata sin dall’antichità un’area di convergenza di popolazioni e civiltà diverse. I primi flussi immigratori apparvero nel 754 a. C. con i Calcidesi che si stabilirono a Naxos, seguirono i Corinzi nel 733 privilegiando l’isola d’Ortigia collegata a Syrakousai da una diga, come afferma Tucidide: i quali ampliarono l’Epipoli con tre nuovi quartieri residenziali chiamati Acradine,Tyché e Neapolis, ed Ortigia mantenne il ruolo di fortezza militare. Settant’anni dopo i Siracusani si spinsero verso l’interno, seguendo il solco dell’Anapo e, superati i Siculi di Pantalica, raggiunsero il colle ibleo, sulla cui cima fondarono Akrai. Era il 664-663 a. C., ossia l’anno IV della XXVIII Olimpiade. Dopo aver sottomesso altre popolazioni indigene, proseguirono la marcia ed edificarono nel 643 Casmene (di incerto sito) e nel 599 Camarina. Le due prime colonie rimasero fedeli alla madrepatria, mentre Camarina, soggetta alla inf luenza della vicina Gela (sorta nel 688 ad opera di un gruppo di Dori, Rodii e Cretesi), dalla quale era separata dal fiume Dirillo, condusse una politica più libertaria, autonoma e indipendente. Intanto una nuova ondata di Dori Megaresi, sbarcata sulla costa Sud-Est, occupò lo spazio lasciato libero sia dai Calcidesi di Naxos che dai Corinzi di Siracusa, tracciando i confini di una nuova città, Megara Iblea. Ma l’episodio si rivelò come un vero fallimento coloniale (forse l’unico dei Greci), in quanto scacciati nel 627 dai Leontinesi (Calcidesi oriundi da Naxos), essi si spostarono in Occidente, dove posero le basi di Selinunte. Questa città in breve, tra il VI e il V sec. a. C., divenne ricca e potente, come dimostrano le grandiose rovine dei suoi templi maestosi, e non esitò a suscitare invidia e gelosia negli abitanti dei centri di cultura fenicio-cartaginese, come Erice e Segesta. Nel 580 Gela fondò Akragas a mezza strada con Selinunte, espellendone i Sicani, e fu da essa superata per agiatezza e fortuna. In Sicilia, le generazioni discese dai primi coloni ebbero all’inizio una complessa architettura sociale formata da classi diversificate (aristocratici, mercanti, operai, schiavi), e non era raro che al governo venissero chiamati di solito i pochi ottimati sostenitori dei regimi oligarchici. Occorrevano quindi delle apposite leggi atte a regolare l’amministrazione della giustizia nella Magna Grecia, e il primo ad affrontarne l’indagine fu il catanese Caronda, vissuto alcuni anni prima dell’ateniese Solone (630-599 a. C.) e certamente dopo Licurgo di Sparta. La sua opera, diversa per compiutezza, giustezza e perfezione da quella di Zaléuco, vissuto a Locri nel VII sec. a. C., e prevedendo una nuova codificazione normativa sul trasferimento del diritto dei privati allo Stato, fu apprezzata anche da Aristotele, che esaltò Caronda come uno dei più illuminati legislatori dell’antichità. N Il tradimento di Merico, la capitolazione di Siracusa e la morte di Archimede. Merico inviò da Marcello un proprio fratello, promettendogli di consegnargli la città. Nella notte successiva, una quadriremi piena di armati si accostò alla Fonte Aretusa e Merico in persona aprì le porte ai soldati che subito si riversarono oltre le mura dell’Acradina inseguendo i disertori. Ne seguirono atti di violenza e vendetta anche contro gli inermi cittadini, ed anche Archimede ne fu vittima; e si narra che Marcello, quando lo seppe, pianse e provvide alle sue esequie. Pochi giorni dopo Tito Otacilio, con 80 quinqueremi, puntò su Utica e la distrusse, dopo averne prelevato frumento ed altre vettovaglie. Rientrato a Lilibeo, inviò a Siracusa 130 navi cariche di grano. (Tito Livio, “Storia di Roma” XXV) N el 269 a. C. fu eletto stratego (= condottiero) Gerone Il (306-215 a. C.), un valoroso ufficiale che aveva combattuto con Pirro nella campagna di annessione della Magna Grecia al regno di Epiro (278). Egli, grazie al matrimonio con Filistyide, figlia del l’aristocratico Liptine, divenne tiranno di Siracusa e combattè contro i Mamertini di Messina come alleato dei Cartaginesi. Ma affrontato dall’esercito romano di Marco VaIerio, fu costretto ad accettare il pagamento di una indennità di 25 talenti annui per 25 anni e a restituire le città siceliote da lui occupate. Con grande intuito Jerone, convinto che i Cartaginesi non potessero garantirgli sicurezza e libertà, si mise sotto la protezione di Roma, che gli consentì di governare per ben 54 anni tra pace e benessere. Ma Cartagine non sopportava l’espansionismo romano e vi si oppose concentrando ad Akragas un esercito di Celti e di Iberi (262 a. C.). Le cose per Roma precipitarono il 2 agosto dei 216 a. C. quando a Canne, in Puglia, sulle rive del fiume Anfido (oggi Ofanto) in un campo detto “di sangue” i consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo si scontrarono con Annibale che riuscì a stringerli a tenaglia, uccidendo 20 mila uomini, compreso il console Emilio Paolo, e catturandone 10 mila (altre fonti parlano di 70 mila morti). Trecento si rifugiarono con Caio a Venosa, altri tremila si dispersero nelle città vicine. Le perdite da parte punica furono quattromila Celti, 1500 tra Iberi e Libici, e 200 cavalieri. Scrisse Polibio: “Conclusasi la battaglia nel modo descritto, ne seguirono per entrambe le parti le conseguenze previste”. L’episodio determinò fra gli alleati defezioni in massa: Taranto, Argirippa o Arpi (sul monte Gargano) e altri paesi della Campania. I Romani ora cominciavano a temere per la propria incolumità e decisero di non pagare il riscatto per i prigionieri, accusati di aver salvato la pelle senza combattere (la richiesta di Annibale era di trecento nummi quadrigali per ciascuno). La notizia della sconfitta di Canne ebbe riflessi disastrosi soprattutto a Siracusa, dove giusto nello stesso anno del 216 a. C. era morto Gerone II, ed anche il figlio Gelone scomparve misteriosamente; per cui il potere finì nelle mani del giovane Geronimo che, spalleggiato dagli zii Zoippo e Antranòdoro, cancellò la politica filoromana del nonno ed inviò ad Annibale, quali messi di pace, Policleto da Cirene e Filodemo da Argo. Il generale cartaginese si rallegrò della decisione e rimandò indietro i delegati facendoli accompagnare da un suo omonimo, Annibale, capo delle triremi, e da due siracusani cresciuti a Cartagine, Ippocrate e suo fratello Epicide (il nonno di essi, sospettato di avere ucciso Agatarco, figlio del tiranno Agatocle, era fuggito in Africa e là aveva ricomposto la famiglia, tanto che i due nipoti militavano nell’esercito di Annibale). I Romani, informati del voltafaccia di Geronimo, lo esortarono a non trasgredire i patti stipulati dal nonno. Ma il ragazzo si sentiva due volte Re per essere nipote di Pirro (nato dalla figlia Nereide), figlio di Gelone e nipote di Gerone, e arrogante com’era, mirava al dominio di tutta quanta la Sicilia. Verso la fine del 215 a. C., Ippocrate ed Epicide con un esercito di fanti e cavalieri scorrazzarono per la campagna per stuzzicare le guarnigioni romane, e convinto di essere protetto, egli con un drappello di uomini si avviò verso Leontini dove in un vicolo isolato fu “trapassato da molti colpi prima che si potesse soccorrerlo”. Sparsasi la voce della sua morte Leontini insorse e si proclamò libera mentre Teodato e Sisi coi cavalli del Re corsero a Siracusa ed entrati per l’Esapilo (ingresso settentrionale a sei porte), percorsero il quartiere Tyche mostrando ai cittadini la veste insanguinata e il diadema di Geronimo. Quindi, portatisi in Acràdina (a Nord-Est), radunarono il popolo in assemblea incitandolo alla ribellione, e i più accesi corsero all’Olimpico, dove Gerone aveva appeso le armi strappate ai Galli e agli Illirici donategli dai Romani, e se ne dotarono correndo a svaligiare i granai presidiati dalle guardie di Adranòdoro. Salì sul palco un certo Polieno facendosi portavoce degli insorti e chiedendo al genero di Gerone di arrendersi, ma la moglie Demarata, “ancora spirante regia fierezza - come scrisse Tito Livio - lo chiamò in disparte e gli ricordò la sentenza spesso ripetuta dal re Dionisio, il quale diceva che il regno deve abbandonarlo chi è tirato per i piedi non chi è a cavallo; e gli disse che facile cosa è rinunziare, quando si voglia, al possesso d’una grande fortuna, ma difficile e ardua cosa acquistarla e ordinarla”. E gli suggerì dunque, “di prendere tempo, coi deputati, per deliberare; e del tempo si valesse per far venire le truppe da Leontini, chè, se avesse a costoro promesso il tesoro regio, tutto sarebbe venuto in suo potere”. Così disse la figlia di Gerone e il marito l’indomani si recò all’Acràdina e dall’ara della Concordia, dopo avere elogiato pubblicamente Teodato e Sosi che avevano liberato la città dalla tirannia, incitò i cittadini alla pace. Ma corse voce che lui e Temisto, marito di Armonia (figlia di Gelone e sorella di Geronimo) tramassero contro la Repubblica e mirassero ad impadronirsi del potere con l’appoggio di schiere di ausiliari africani ed ispanici già in assetto di guerra, pronti ad intervenire. E sulla base di questo sospetto essi, mentre entravano in Curia, furono assassinati. La stessa sorte toccò alle rispettive consorti, Damarata, figlia del vecchio sovrano defunto, ed Armonia, pupilla di Gelone. Una sorella di Demarata, Eràclia, della quale lo spietato nipote Geronimo aveva esiliato il marito Zoippo spedendolo dal Re Tolomeo, si proclamò innocente, anzi unica vittima della casata, per aver ricevuto più torti che vantaggi, e chiese umilmente di essere risparmiata. Ma ormai la furia popolare si era scatenata e la poveretta fu sgozzata entro il Santuario assieme a due figlie. Nel bel mezzo della confusione furono chiamati a sostituire i pretori Adranòdoro e Temisto, i fratelli Ippocrate ed Epìcide. i quali, raffazzonato un esercito di mercenari, si posero sulle tracce di Appio Claudio. Marcello, venutone a conoscenza, lanciò un ultimatum alla città e minacciò di espugnarla se non avesse bandito i due fuorusciti. Ma costoro, appena calata la notte, elusero la sorveglianza e andarono a raccogliere dei rinforzi ad Erbesso, e di là tornati, portarono lo scompiglio all’Acràdina, sopprimendo i pretori e i nemici, e liberando gli schiavi. Il console romano da Leontini spostò le truppe d’un miglio e mezzo verso Siracusa e si accampò presso l’Olimpieion, mentre Appio inviò una quinqueremi con dei messi, che però venne sequestrata all’imboccatura del porto. Cominciò così l’assedio di Siracusa, che Archimede affrontò più con l’ingegno che con la forza, azionando macchine diaboliche e strumenti mai visti. Per Marcello fu impossibile di espugnarla dal mare, dove lo scienziato, manovrando un congegno originale, agganciava le navi e le sollevava facendole precipitare dall’alto, con gran danno per gli equipaggi. Decise allora di dare l’assalto dalle parti dell’Epipoli, presso il Forte Eurialo; ma anche qui i suoi soldati furono travolti da grossi macigni che rotolavano dalle alture, e colpiti da sassi e anche da frecce e proiettili, molti ci lasciarono la pelle. Quell’insolito bombardamento indusse i Romani a tornare verso la costa, per tentare di tagliare i rifornimenti e prendere la città per fame. Intanto il generale Imilcone, dopo aver tenuto all’àncora a Pachino la propria flotta, raggiunse Akragas attraverso Eraclea Minoa, ove sbarcò 25 mila fanti, tremila cavalieri e 12 elefanti, riaccendendo un lume di speranza nei Siracusani difesi da Epicide. Era l’anno 214 a. C. quando Ippocrate si mise in marcia per ricongiungersi con Imilcone, ma ad Acrillae fu sorpreso da Marcello, che tornava deluso dalla battaglia d’Akragas, e riparò con tutta la cavalleria ad Acre. L’episodio fa parte della storia della piccola colonia ellenica e testimonia il ruolo importante cui essa era assurta durante il lungo regno di Jerone II. Nello stesso tempo, all’apice del comando romano avvenne una sostituzione: Appio Claudio, candidato al consolato, dovette rientrare a Roma, e a rimpiazzarlo fu chiamato Tito Quinzio Crispino. Con lui Marcello nella primavera successiva condivise la tesi che, più che riprendere le operazioni ad Akragas contro Ippocrate ed Imilcone, era meglio intensificare la stretta di Siracusa, che si era rivelata inespugnabile per la sua posizione terrestre e marittima, ed anche per il vettovagli amento fornitole dai Cartaginesi. Perciò decise di inviare di notte in città alcuni Siracusani espulsi per sondare l’orientamento dei compatrioti. Ma costoro furono traditi da un certo Attalo, e catturati dai soldati di Epicide, finirono torturati. A questo punto gli storici accennano all’impresa di un disertore che, approfittando della celebrazione della festa di Diana, patrona d’Ortigia, durante la quale i cittadini per tre giorni si abbandonavano ad ogni sorta di allegra gazzarra, bevendo e schiamazzando, scavalcò le mura dalla parte sguarnita di guardie ed aprì le porte ai Romani. Tito Livio però, scrive che furono due avventurieri a tradire i Siciliani, e precisamente Sosi siracusano (lo stesso forse che fu implicato nella uccisione di Geronimo) e Merico Spagnolo, i quali vennero ricompensati con la cittadinanza romana e il dono di 500 jugera (= 175 ettari) di terre. Infatti, a guerra finita, Merico si insediò a Murgentia (Morgantina), ch’era una delle comunità nemiche ai Punici, e Sosi abitò una casa in città, fra quelle confiscate ai nemici, e si accontentò di un lotto nell’ager publicus o di proprietà regia. Con la loro complicità, un manipolo di arditi fra i centurioni s’introdusse nell’Esapilo da una porticina e fece strage delle guardie che dormicchiavano sbronze sui giacigli. Quindi il grosso dell’esercito occupò buona parte della città e Marcello, per evitare ulteriore spargimento di sangue, invitò gli assediati ad una resa patteggiata. Epicide, che sperava che arrivassero i soccorsi da Ippocrate e Imilcone, tergiversò in modo dilatorio, ed affidò a Filòdemo d’Argi la difesa dell’Eurialo. Ma gli aiuti da Akragas tardarono ad arrivare e Marcello ebbe tutto il tempo per occupare Neapolis e Tica. Il primo a deporre le armi fu Filòdemo, che consegnò il Forte senza combattere, mentre Bomilcare in pochi giorni andò e tornò da Cartagine con le navi cariche di rinforzi e vettovaglie. Epicide per questo gesto lo ripagò donandogli il tesoro di Gerone. L’assedio di Acràdina si rivelò rischioso per i Romani, che vennero attaccati da una parte da Ippocrate e dall’altra da Epicide, riuscendo tuttavia a respingerli. Venne l’autunno e sui rispettivi campi (ma più in quello paludoso dei Cartaginesi) infierì un’epidemia di peste o di malaria, dovuta alle condizioni insalubri del luogo, e fra i cadaveri rimasti a mucchi insepolti, c’erano anche quelli di Ippocrate e di Imilcone. I Siculi, atterriti, abbandonarono le difese e tornarono alle località di provenienza, mentre Bomilcare - tornato da Cartagine con 130 nuove navi e 700 onorarie, rimase bloccato a Pachino dai venti contrari. Lo raggiunse Epicide, dopo avere affidato la difesa dell’Acràdina al capo dei mercenari, ma non riuscì a convincerlo, perché quello, cessato l’Euro, girò la costa e puntò su Taranto. Sentendosi abbandonato e disperando nella vittoria, Epicide abbandonò anche lui l’impresa e veleggiò verso Agrigento. Da Siracusa, dove intanto la popolazione si era sollevata sopprimendo i luogotenenti di Epicide, cioè Polìclito, Filistione ed un altro Epicide soprannominato Sindone, giunsero a Marcello alcuni deputati per trattare la pace. I quali dissero che non loro né la città, ma soltanto Geronimo tradì l’alleanza con Roma. E così concluse il capo dei pretori: “Il ricordo di Geronimo non abbia per voi più peso di quello di Gerone; questi vi fu amico assai più a lungo che quello vi sia stato nemico; i benefici di questo voi li avete sperimentati coi fatti, la dissennatezza di quello è servita soltanto alla sua propria rovina”. Durante questi avvenimenti, accadde che un manipolo di dissennati, riprese le anni, trucidò i pretori, ne rielessero tre nuovi e con essi si appostarono tra l’Acràdina e l’Isola. Ma Merico, lo spagnolo ch’era stato gratificato dai Romani, inviò da Marcello un proprio fratello, promettendogli di consegnargli la città all’insaputa di tutti. Infatti, nella notte successiva, una quadriremi piena di armati si accostò alla Fonte Aretusa e Merico in persona aprì le porte ai soldati che subito si riversarono oltre le mura dell’Acradina inseguendo i disertori. Ne seguirono atti di violenza e vendetta anche contro gli inermi cittadini, ed anche Archimede ne fu vittima, e si narra che Marcello, quando lo seppe, pianse e provvide alle sue esequie. “Così dunque fu occupata Siracusa; e tanto vi fu il bottino quanto se ne sarebbe trovato nella sola Cartagine, con la quale essa gareggiava pareggiandola”. Pochi giorni dopo Tito Otacilio, lasciata Lilibeo con 80 quinqueremi, puntò su Utica e la distrusse, dopo averne prelevato frumento ed altre vettovaglie. Rientrato a Lilibeo, inviò a Siracusa 130 navi cariche di grano; “e questo giunse proprio a tempo, chè altrimenti vincitori e vinti sarebbero stati travagliati da una disastrosa carestia” (Tito Livio, “Storia di Roma” XXV).