KANT – CRITICA DELLA RAGION PURA appunti Il Criticismo Il

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KANT – CRITICA DELLA RAGION PURA
appunti
Il Criticismo
Il contesto entro il quale si inserisce la ricerca kantiana è quello del dibattito gnoseologico che
caratterizza tutto il XVII e il XVIII secolo. Kant infatti condivide con i pensatori del suo tempo
l’interesse per la ricerca intorno al valore della conoscenza.
Che cosa possiamo sapere? Tale domanda appare a Kant preliminare ed egli la premette ad
ogni altro tema filosofico. In questo quindi egli non si discosta da quanto già affermato da Locke o
dallo stesso Cartesio. Tuttavia la sua posizione appare non solo espressa con maggiore chiarezza,
ma anche con più decisa radicalità.
L’età moderna , scrive nella Critica della Ragion Pura (d’ora in avanti: CRP), impone che la
ragione si assuma nuovamente il più grave dei suoi compiti, cioè la conoscenza di se stessa.
In questo modo essa deve “ … erigere un tribunale che la garantisca nelle sue pretese
legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le
sue eterne ed immutabili leggi; e questo tribunale non può essere se non la critica della ragion pura
stessa”
E’ questo quello che tradizionalmente viene conosciuto come il criticismo kantiano: compito della
filosofia è di riflettere innanzitutto sulla scienza, allo scopo di determinare le condizioni che
garantiscono e limitano la validità del sapere umano. Questo compito non può essere esercitato che
dalla ragione stessa la quale quindi deve giudicare se stessa stabilendo le possibilità e i limiti della
sua azione conoscitiva.
In questo senso, a giudizio di molti autori, Kant appare anche come l’iniziatore della epistemologia,
vale a dire di quell’orientamento di pensiero (sviluppatosi soprattutto nel XX secolo) che
concepisce la filosofia come filosofia della scienza, filosofia che cioè ha il compito di determinare i
criteri di validità i fondamenti generali e imprescindibili di ogni sapere scientifico.
Il problema della Critica della ragion pura
Una pagina fondamentale per comprendere la direzione di indagine della ricerca kantiana è quella
dedicata alla distinzione tra giudizi analitici e sintetici e al problema del cosiddetto giudizio
sintetico a priori.
Se la filosofia deve occuparsi della conoscenza, bisogna innanzitutto stabilire che cosa sia questa
stessa conoscenza di cui ci occupiamo. Per Kant conoscere è giudicare e il giudizio rappresenta la
forma più elementare di conoscenza. Il termine giudizio non ha qui un significato giuridico, ma
logico. Nella logica aristotelica, infatti il giudizio è l’ enunciato dichiarativo in cui ad un
determinato soggetto viene attribuito un certo predicato. Quindi le conoscenze che noi possediamo
non sono altro che giudizi (es. la mela è rossa, l’acqua è potabile, la terra è un pianeta …).
Kant distingue due forme di giudizio: il giudizio analitico e il giudizio sintetico.
Il giudizio analitico è quella forma di conoscenza in cui il predicato è contenuto implicitamente
nel soggetto ed è appunto ricavato attraverso un’analisi del contenuto del concetto che noi abbiamo
del soggetto stesso. Per esempio il giudizio “tutti i corpi sono estesi” cioè occupano uno spazio è un
giudizio analitico perché nel concetto di corpo è implicitamente contenuta la caratteristica della sua
estensione (non è pensabile un corpo che non sia esteso, cioè non abbia caratteristiche geometrico-
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spaziali). Allo stesso modo l’enunciato “il triangolo è una figura piana di tre lati” è un giudizio
analitico dove appunto ciò che si predica (figura piana di tre lati) è già implicito nell’idea che si ha
del soggetto (triangolo). I giudizi analitici quindi non aumentano il nostro sapere. Essi hanno
piuttosto una funzione chiarificatrice, rendono palese ciò che implicitamente noi già
presupponiamo quando pensiamo una determinata realtà. In questo senso dice Kant i giudizi
analitici sono meramente esplicativi. Dal punto di vista della loro formulazione poi i giudizi
analitici non richiedono il ricorso all’esperienza. Essi sono infatti giudizi deduttivi dove da
concetto generale scendiamo via, via, alle costituenti particolari in esso già implicite. Ancora, dal
punto di vista della loro validità, tali giudizi appaiono universali e necessari, vale a dire riferibili in
modo univoco e con adeguazione piena a tutti gli individui di una classe (l’estensione è riferibile a
TUTTI i corpi esistenti) e incontrovertibili (il corpo non può non essere esteso). Kant esprime tutto
ciò affermando che i giudizi analitici sono “a priori” (logicamente anteriori all’esperienza, giudizi
che la ragione trae da se e, pertanto , giudizi universali e necessari).
A differenza del giudizio analitico il giudizio sintetico è quella forma di conoscenza in cui il
predicato non è contenuto implicitamente nel concetto che ho del soggetto ma è pensato
totalmente al di fuori di esso ed aggiunge quindi qualche cosa di nuovo al mio sapere. Per
esempio, dice Kant, l’affermazione “tutti i corpi sono pesanti (=sottoposti alla legge di gravità) ”
non è un giudizio analitico ma sintetico. Aristotele infatti riteneva che solo alcuni corpi fossero
pesanti mentre altri (i corpi di fuoco e d’aria) erano detti leggeri cioè in movimento naturale verso
l’alto. Allo stesso modo l’affermazione “la città di Gorizia ha 42.000 abitanti” sarà un’affermazione
sintetica giacché appare evidente che nel concetto di “città di Gorizia” non è implicito il numero
della sua popolazione. Si capisce da ciò che i giudizi sintetici sono tutti quei giudizi che nascono
dall’osservazione della realtà e dall’esperienza in generale. Come tali essi non sono semplicemente
esplicativi, ma estensivi del nostro sapere. Derivando dall’esperienza essi sono ricavati per
induzione e, come tali, mancano delle caratteristiche di universalità e necessità e sono sempre
particolari (si applicano a quel soggetto in quella determinata situazione) e contingenti vale a dire
dotati di un valore puramente probabilistico e comunque sempre smentibile (l’affermazione sul
numero degli abitanti della città di Gorizia non è valida universalmente e necessariamente … gli
abitanti cambiano di numero di giorno in giorno). Tali giudizi, afferma Kant, sono quindi a
posteriori (cioè derivano dall’esperienza e sono sempre falsificabili).
La distinzione operata da Kant tra giudizi analitici e sintetici è la premessa fondamentale per la
posizione del problema centrale della sua ricerca.
I giudizi analitici a priori e i giudizi sintetici a posteriori non rappresentano in realtà , a suo avviso,
le conoscenze scientifiche, conoscenze che egli vede innanzitutto rappresentate dalla nuova fisica
galileiana e newtoniana. Tali conoscenze infatti formulano giudizi che da un lato sono fondati
sull’esperienza e dall’altro possiedono caratteri di universalità e necessità. Si pensi, ad esempio, ad
una semplice legge scientifica come quella rappresentata dalla formula “l’acqua , a livello del mare,
elevata alla temperatura di 100 gradi, bolle”.Questo giudizio è indubbiamente un giudizio di
esperienza e come tale induttivo (dal mero concetto di acqua non si deduce il fenomeno della sua
ebollizione) ma ha anche valore di legge e quindi possiede i caratteri della universalità (ferme le
condizioni date il fenomeno si ripeterà in modo costante) e della necessità (ferme le condizioni date
è impossibile che il fenomeno non avvenga). Se così non fosse da un lato questa affermazione non
aumenterebbe la nostra conoscenza sugli stati della materia e dall’altro noi non potremmo prevedere
il verificarsi costante di questo fenomeno così importante anche per la nostra vita quotidiana (per
esempio non potremmo organizzare la nostra vita alimentare). Se dunque la scienza si avvale di tali
conoscenze è necessario ammettere accanto ai giudizi analitici e sintetici a posteriori una terza
forma di sapere che Kant chiama giudizio sintetico a priori. Tale giudizio possiede da una parte i
caratteri dell’induttività (sintetico) dall’altra i caratteri dell’universalità e necessità tipica delle
conoscenze analitiche.
Ora, si chiede Kant, come sono possibili tali giudizi ? Cioè a quali condizioni conoscitive si danno
tali forme di sapere?
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Questo è il problema della ricerca kantiana, questo il tema della sua indagine
possibilità e i limiti della ragione.
critica sulle
“E’ già un bel guadagno quando si può raccogliere una quantità di ricerche sotto la formula di un
problema unico. Giacché per tal modo non solo vien agevolato il nostro proprio lavoro in quanto
esso è esattamente determinato, ma anche ad ogni altro che voglia esaminarlo è reso facile il
giudizio se abbiamo soddisfatto o no al nostro proposito. Il problema della ragion pura, è dunque
contenuto nella domanda: COME SONO POSSIBILI GIUDIZI SINTETICI A PRIORI?”
(CRP)
La rivoluzione copernicana: le forme a priori
Una volta determinato il problema Kant è in grado di fornire anche la risposta. Si tratta di una
soluzione non facile e la cui forza e originalità sarà avvertita dallo stesso pensatore che paragonerà
la sua teoria della conoscenza alla stessa rivoluzione operata da Copernico nel campo
dell’astronomia.
Per capire il senso della risposta conviene affidarsi alle parole dello stesso filosofo:
“Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza – scrive Kant – incomincia con l’esperienza. Da che
infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se ciò non
avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi, e per un verso, danno origine da sé
a rappresentazioni, per un altro muovono il nostro intelletto a paragonare queste rappresentazioni, a
riunirle o separarle, e ad elaborare per tal modo la materia grezza delle impressioni sensibili per
giungere a quella conoscenza degli oggetti, che si chiama esperienza? Nel tempo dunque nessuna
conoscenza in noi precede l’esperienza, e ogni conoscenza comincia con questa.
Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta dalla
esperienza. Infatti potrebbe essere benissimo che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un
composto di ciò che noi riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra facoltà di conoscere vi
aggiunge da sé …; aggiunta che noi propriamente non distinguiamo bene da quella materia che ne è
il fondamento, se prima un lungo esercizio non ci abbia resi attenti ad essa e non ci abbia scaltriti
alla distinzione.” (CRP)
Proviamo a riassumere:

In ordine di tempo ogni nostra conoscenza inizia dall’esperienza

Non ci sono quindi idee innate e la nostra mente, per quanto riguarda i suoi contenuti, è
certamente, prima di ogni esperienza, una tabula rasa.

Tuttavia niente ci vieta di pensare che il nostro sapere non sia costituito unicamente dalla
materia data dall’esperienza. Potremmo infatti supporre che alla materia empirica la nostra
mente aggiunga qualcosa di suo stimolata dall’esperienza stessa.

La nostra conoscenza risulterebbe così un composto di materia empirica e di una qualche altro
elemento mentale non derivato dall’esperienza stessa , composto che noi non distinguiamo se
non dopo una attenta analisi.
Il problema che si pone allora è questo: che cosa “la nostra facoltà di conoscere aggiunge da sé”
stimolata dalle impressioni sensibili ?
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La risposta di Kant è che se la nostra mente è passiva rispetto al contenuto, alla materia del
conoscere (derivano dall’esperienza), essa risulta invece attiva (aggiunge da sé) relativamente alla
forma che questo contenuto viene ad assumere. Ogni nostra conoscenza è allora un composto di
materia empirica e di forma mentale in cui questa materia stessa è, per così dire, imbrigliata.
L’esperienza dunque non risolve tutto. Bisogna anche postulare l’esistenza di forme della mente.
Forme che non derivano dall’esperienza ma che sono invece proprie del soggetto conoscente,
forme proprie della mente in quanto tale e quindi, come dice Kant, a priori (cioè non derivate
dall’esperienza).
In queste forme ogni contenuto deve necessariamente strutturarsi per diventare oggetto di
conoscenza, allo stesso modo in cui un pezzo grezzo di cera riceve l’impronta di un sigillo.
Naturalmente, noi non distinguiamo i due elementi e perciò siamo indotti a pensare che tutti derivi
dall’esperienza e che la nostra mente sia puramente recettiva, un foglio bianco sul quale le
impressioni sensibili scrivono ciò che vogliono.
In verità le cose non stanno in questo modo. Poiché esistono queste forme mentali sono esse a
dirigere il gioco della conoscenza, perché proprio queste forme mentali danno l’impronta alla
materia grezza, la strutturano, la condizionano imprescindibilmente.
Già prima di Kant autori come Kleist, Galluppi, Kuno Fischer ed altri osservavano che se noi
avessimo sul naso un paio di occhiali verdi, non avremmo bisogno di guardare, per sapere che tutto
ciò che vedremmo sarebbe di color verde. Nessun dato visivo entrerebbe in noi senza assoggettarsi
a quel filtro, che ne condiziona la percezione. Allo stesso modo si potrebbe pensare per le
impressioni dell’udito (il cane può udire gli ultrasuoni …) e di tutti gli altri sensi. Una volta
conosciuto il filtro potremmo anche immaginare il tipo di sensazione che ne deriverebbe e così per
tutta la nostra esperienza. Kant tuttavia utilizza in modo del tutto nuovo queste osservazioni. Finché
il filtro che condiziona l’ esperienza è un fatto accidentale (ad esempio l’occhio fatto così e così;
l’orecchio del cane diverso dal nostro …), ciò che esso permette di anticipare rimane, a sua volta
empirico e accidentale, dipendendo, ad esempio dalla fisiologia dell’udito. Ma supponiamo invece,
che vi siano condizioni (filtri) da cui dipende la possibilità di qualsiasi esperienza in genere,
condizioni appunto non accidentali, ma strutturali, imprescindibili, senza le quali noi non potremmo
neppure immaginare di poter sapere qualcosa, di avere una qualsiasi esperienza. Bene, se tali
condizioni ci sono ecco allora che ogni oggetto di conoscenza deve necessariamente possederle e
non si dà alcuna esperienza che non sia strutturata dentro tali condizioni.
Le forme di cui parla Kant, quelle che lui ipotizza, non sono forme accidentali, difetti della
fisiologia, ma forme universali e necessarie, strutture presenti in ogni essere pensante,
strutture dentro le quali ogni esperienza deve passare diventando oggetto di conoscenza.
Conoscere tali forme studiarne la natura e la funzione che esse assumono nei confronti del dato
empirico ci consente di anticipare certi caratteri della realtà senza il bisogno di ricorrere
all’esperienza.Se tali forme sono universali e necessarie è infatti impossibile che la realtà che noi
conosciamo prescinda da esse.
In questo modo Kant rovescia completamente il rapporto tra il soggetto conoscente e l’oggetto
conosciuto attuando una vera e propria rivoluzione copernicana nel campo delle teoria della
conoscenza. Nell’ottica kantiana infatti non è più il soggetto ad adeguarsi passivamente all’oggetto,
ma, al contrario, è l’oggetto a dover sottostare alle condizioni che il gli vengono imposte dalle
forme a priori della ragione umana.
“E’ necessario – scrive Kant che la ragione si presenti alla natura .. per venire, bensì, istruita da lei,
ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sibbene di giudice,
che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge.” (CRP)
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La struttura della Critica della Ragion pura
Una volta risolto il problema della possibilità dei giudizi sintetici a priori la direzione della ricerca
kantiana appare ben delineata. Se infatti l’elemento a priori che conferisce al giudizio sintetico
valore di universalità e necessità è dato dalle forme della ragione, allora il compito che attende
l’indagine critica sarà quello di rinvenire tali forme e di evidenziare quali tipi di conoscenze
scientifiche esse rendano possibili.
Kant individua due fonti della conoscenza: la sensibilità e l’intelletto. Il concorso di queste due
fonti costituisce quello che egli chiama l’oggetto della conoscenza. Secondo l’espressione kantiana
mediante la sensibilità “gli oggetti ci sono dati” e mediante l’intelletto essi vengono pensati
concettualmente . La sensibilità dunque
rappresenta il momento passivo recettivo
dell’intuizione empirica, mentre l’intelletto il momento attivo attraverso il quale il dato
intuito nella sensibilità viene pensato.
La Critica della Ragion pura è quindi suddivisa in due momenti: il primo che Kant chiama estetica
trascendentale è dedicato alla sensibilità, il secondo detto logica trascendentale , a sua volta
suddiviso in analitica trascendentale e dialettica trascendentale, presenta l’analisi del momento
intellettivo.
E’ importante sottolineare, come già detto, che per Kant i due momenti sono inseparabili; nessun
tipo di sapere sarebbe infatti possibile senza questa azione reciproca e il problema che occuperà a
lungo la riflessione del filosofo sarà proprio quello di chiarire il modo in cui tale interazione tra
sensibilità e intelletto possa realizzarsi.
Conviene soffermarsi anche sul significato che per Kant ha il termine trascendentale che egli
associa alla diverse parti della sua analisi (estetica trascendentale, logica trascendentale …).
La parola potrebbe infatti creare qualche fraintendimento.Trascendentale, per Kant, non è ciò che è
trascendente ossia , nel significato anche comune del termine, “ciò che oltrepassa i limiti della
conoscenza umana” (es. Dio) ma ciò che è “a priori” rispetto all’esperienza e quindi indica il
carattere della sua ricerca volta appunto a determinare le forme “a priori” della conoscenza.
Estetica trascendentale significherà quindi studio che si occupa delle forme “a priori” (=
trascendentali) che rendono possibile la conoscenza sensibile (gr. Aisthesis = sensazione). Lo stesso
discorso vale di volta in volta per la logica e le altre parti in cui la Critica è suddivisa.
La dottrina della sensibilità: spazio e tempo
L’estetica trascedentale è dunque lo studio del momento sensibile della conoscenza. Quali forme
rendono possibile tale tipo di conoscenza ? E quali conoscenze derivano la loro universalità e
necessità da tali forme ?
Kant risponde che le forme che rendono possibile la conoscenza sensibile sono quelle del tempo e
dello spazio. Lo spazio, dice Kant, non è un concetto empirico ricavato da esperienze esterne e
non è nemmeno un ente reale, un qualche oggetto esistente fuori di noi. Lo spazio è la
condizione stessa del sorgere in me di una qualche intuizione sensibile e come tale esso non deriva
dall’esperienza ma appartiene in modo strutturale alla mia ragione. Infatti sebbene si possa
benissimo pensare ad uno spazio vuoto e senza oggetti, non è possibile, viceversa pensare alcun
oggetto che non sia determinato spazialmente.
Lo stesso discorso vale per il tempo. Anche il tempo non è, per Kant né un ente reale , un oggetto,
né un concetto derivato dalla generalizzazione empirica.. Il tempo è, come lo spazio, una forma a
priori ed è quindi anch’esso una di quelle imprescindibili condizioni alle quali ogni
conoscenza deve sottostare.
Le conoscenze che derivano la loro universalità e necessità dalle forme dello spazio e del tempo
sono la geometria, la meccanica razionale e l’aritmetica. Se infatti spazio e tempo sono forme a
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priori io non avrò bisogno di fare effettivamente esperienza , per sapere che tutti gli oggetti della
mia intuizione esterna sottostanno ai teoremi della geometria. I teoremi della geometria infatti si
fondano sulla struttura dello spazio che è indipendente dall’esperienza, mentre condiziona
inderogabilmente l’esperienza e, quindi , si applica a tutti gli oggetti d’esperienza. Per tornare
all’esempio di sopra mentre, ipoteticamente, gli occhiali verdi noi potremmo anche toglierceli dal
naso, lo spazio e il tempo sono filtri che non possiamo eliminare. Non riusciamo ad immaginarci e
tantomeno quindi a costruire nessuna esperienza che non sia spaziotemporale. Ciò che quelle due
forme condizionano in noi, pertanto, non è la possibilità di questa o quella esperienza particolare,
ma è la possibilità stessa del nostro conoscere in generale. Fuori di loro non possiamo
rappresentarcene nessun’altra. Ne consegue che di un eventuale oggetto che non sottostia alle
condizioni dello spazio e del tempo, noi possiamo disinteressarci, perché sappiamo che in nessun
modo entrerà nel mondo della nostra esperienza.
L’intelletto: analitica trascendentale
La Logica trascendentale, come abbiamo visto, è lo studio delle forme a priori della seconda grande
fonte della conoscenza umana, cioè l’intelletto. La Logica trascendentale, come si è detto, è divisa
da Kant in due parti distinte chiamate rispettivamente analitica e dialettica. Mentre nella prima
viene preso in considerazione il rapporto tra intelletto e sensibilità, nella seconda Kant considera
l’uso transempirico dell’ intelletto, l’uso cioè delle facoltà intellettive per la determinazione di
oggetti che stanno al di là dell’esperienza.
Kant definisce la conoscenza intellettiva una forma di sapere indiretto e discorsivo. Indiretto
perché l’intelletto non riceve direttamente quanto è oggetto della sua attività ma ha bisogno
della conoscenza sensibile. Discorsivo perché l’intelletto non crea da sé i propri contenuti, ma
unifica un materiale dato , attraverso l’attività del pensiero. L’intelletto dunque non ha la
capacità di creare da sé gli oggetti , ma si limita, appunto, a pensarli in stretto rapporto con il
materiale offerto dalla intuizione sensibile. Senza la sua funzione unificatrice noi non avremmo gli
oggetti di esperienza ma soltanto un materiale sensibile indeterminato e strutturato unicamente in
rapporti spazio temporali. D’altra parte, senza materia sensibile, l’azione dell’intelletto rimarrebbe
vuota di contenuto, priva cioè di un elemento su cui esercitare la propria attività.
La funzione unificatrice dell’intelletto è espressa attraverso il giudizio. Conoscere equivale ,
come già si è detto, a giudicare. Pertanto una volta individuate le varie forme di giudizio saremo
anche in grado di stabilire quali siano le forme o strutture mentali che rendono possibile lo sviluppo
dell’attività discorsiva dell’intelletto. Tali forme o strutture mentali dell’intelletto sono chiamate da
Kant CATEGORIE. Le categorie sono le forme mentali a priori attraverso le quali l’intelletto
pensa, ovvero unifica, il materiale dato nella intuizione sensibile. Esse corrispondono ai giudizi
cioè ai diversi modi nei quali l’attività conoscitiva può esercitarsi.
Coerentemente con questo assunto, nell’analitica trascendentale, Kant presenta una tavola dei
giudizi e ad essa fa successivamente corrispondere le varie categorie.
Tavola dei giudizi
“Se noi facciamo astrazione da tutto il contenuto di un giudizio in generale, e badiamo
soltanto alla semplice forma dell’intelletto, troviamo che in esso la funzione del
pensiero può ridursi a quattro titoli, ciascuno dei quali comprende sotto di sé tre
momenti.”
(CRP)
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Giudizio di Quantità
Universali
(“TUTTI i mammiferi sono vertebrati”)
Particolari
(“ALCUNI mammiferi sono intelligenti”)
Individuali
(“GIOVANNI è un mammifero intelligente” )
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Giudizio di Qualità
Affermativi
(”Lo zucchero è dolce”)
Negativi
(“Lo zucchero non è dolce”)
Infiniti
(“Lo zucchero è non dolce”)
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Giudizio di Relazione
Categorici
(”Lo zucchero non può che essere dolce”)
Ipotetici
(“L’acqua elevata alla temperatura di 100°, a livello del mare, bolle””)
Disgiuntivi
(“I triangoli sono isoscele , scaleno, equilatero”)
4
Giudizio di Modalità
Problematici
(”Può darsi che il pianeta Giove sia abitato”)
Assertori
(“La terra è un pianeta”)
Apodittici
(“Il triangolo ha 18O° ”)
Tavola delle categorie
“Così lo stesso intelletto, appunto con le stesse operazioni per cui nei concetti, mediante
l’unità analitica produce la forma logica di un giudizio, produce altresì, mediante l’unità
sintetica del molteplice, nell’intuizione generale, un contenuto trascendentale, nelle sue
rappresentazioni; in grazia del quale esse prendono nome di concetti puri dell’intelletto che si
applicano a priori agli oggetti ...”
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1
Categorie della Quantità
Unità
Pluralità
Totalità
2
Categorie della Qualità
Realtà
Negazione
Limitazione
3
Categorie della Relazione
Sostanza/inerenza
Causa-Effetto
Reciprocità
4
Categorie della Modalità
Possibilità/impossibilità
Esistenza/inesistenza
Necessità/contingenza
Kant deduce sia la tavola dei giudizi che lo stesso concetto di Categoria dalla logica aristotelica.
C’è tuttavia una differenza fondamentale tra le categorie aristoteliche e quelle kantiane. Mentre
infatti per Aristotele le categorie sono sia i modi attraverso i quali l’essere si predica nelle
proposizioni (piano logico), sia i caratteri fondamentali e strutturali dell’ essere e di ogni essere
(piano ontologico), per Kant , le categorie sono unicamente i modi fondamentali in cui
l’intelletto pensa e, quindi, le strutture di ogni pensiero (piano logico). In altri termini, per Kant, a
differenza di Aristotele, le categorie hanno un uso solamente logico mentre non valgono sul
piano ontologico.
I giudizi che l’intelletto esprime attraverso le categorie ampliano il piano delle conoscenze.
Essi infatti permettono di andare oltre le semplici determinazioni quantitative spazio, temporali
della sensibilità. Attraverso questa attività unificatrice l’intelletto è infatti in grado di darci gli
oggetti della nostra esperienza collegando le varie rappresentazioni sensibili secondo un ordine più
complesso dentro il quale essi sono conosciuti secondo rapporti di sostanza, modo e relazione ecc.
Questo ordine più complesso è quello proprio delle leggi fisiche. I giudizi dell’intelletto pertanto,
sono quelli della fisica.
La deduzione trascendentale delle categorie
Resta da risolvere ora il problema più importante relativamente alle categorie, la cui
soluzione costituisce l’autentica scoperta compiuta dalla Critica della Ragion pura, cioè: che cosa
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garantisce il “riferimento” delle categorie all’oggetto che sta oltre l’esperienza, ovvero su che cosa
si fonda la validità dell’unità che le categorie, attraverso il giudizio, attribuiscono alle
rappresentazioni di tale oggetto ? Come insomma attribuire alla realtà le forme del pensiero ?
Abbiamo visto che le forme dello spazio e del tempo si applicano automaticamente agli oggetti
perché ne condizionano la ricezione da parte nostra; ma i legami reali tra gli oggetti (per esempio il
legame di causa effetto) non sono ricevuti dall’esperienza. Essi infatti sono attivamente pensati da
noi e attribuiti agli oggetti. Quindi la loro attribuzione all’esperienza non può fondarsi sulla
necessità di forme recettive quali lo spazio e il tempo. Il problema sarebbe facilmente risolubile se il
nostro pensiero producesse gli oggetti che pensa: perché in tal caso li produrrebbe secondo la
propria forma. Ma per Kant non è così: l’intelletto pensa oggetti offertigli dall’intuizione. Noi non
produciamo oggetti: essi ci sono dati. E, se ci sono dati, non si vede perché dovrebbero assumere
le forme in cui noi spontaneamente li pensiamo. Infatti queste non condizionano affetto
direttamente l’esperienza. Noi possiamo bensì esperire, ad esempio due fenomeni come successivi
(es. il lampo viene prima del tuono) e che di fatto sono l’uno la causa dell’altro, senza renderci
conto di tale nesso.
Rispondere a questo problema significa, dice Kant, operare la deduzione trascendentale delle
categorie, cioè giustificarle (deduzione = giustificazione/legittimazione in senso giuridico) nella
loro funzione di concetti capaci di riferirsi ad un oggetto o di un nesso tra oggetti che essi non
ricavano dall’esperienza.
La soluzione proposta da Kant al problema della deduzione trascendentale è che il fondamento, la
garanzia di validità, la legittimazione dell’unificazione operata dalle categorie, è costituito
dall’unità dello stesso soggetto pensante, cioè da quello che Kant chiama lì”Io penso” o anche
Appercezione trascendentale. Questo non è altro che la coscienza che noi abbiamo di noi stessi
come soggetti pensanti , cioè la coscienza che tutte le nostre rappresentazioni appartengono a una
stessa coscienza, lo nostra, ovvero il nostro “io”. Di ciò noi abbiamo una percezione che non è
empirica, cioè non deriva dall’esperienza, perché è la condizione di ogni nostra esperienza; perciò
Kant la chiama “appercezione pura” o “originaria” o “trascendentale”. Che essa sia la condizione di
ogni nostra rappresentazione, anzi di ogni nostro giudizio, risulta chiaramente dal fatto che,
qualsiasi giudizio noi formuliamo, per esempio “A è B”, esso deve sempre essere accompagnato
dalla dichiarazione “Io penso”, per esempio “io penso che A è B”.
In tal modo Kant, ritenendo che l’intelletto non possa attingere direttamente l’oggetto delle varie
rappresentazioni, e quindi non possa cogliere direttamente in questo (oggetto) l’unità che di diritto
esso possiede, attribuisce al soggetto conoscente il diritto di conferire lui alle varie
rappresentazioni l’unità che esse debbono avere per poter essere legittimamente ritenute
rappresentazioni dell’oggetto. Egli insomma sostituisce all’inattingibile unità dell’oggetto
l’originaria unità del soggetto, mettendo, per così dire, al posto dell’oggetto, come fonte di unità
delle sue rappresentazioni, il soggetto. Per questo Kant può affermare che “l’IO è il vero legislatore
della natura”.
Fenomeno e noumeno
Tutto il discorso fin qui svolto postula una fondamentale condizione: che per “oggetto di
esperienza” si intenda l’oggetto che appare alla coscienza, vale a dire l’oggetto legato alle
condizioni (forme a priori e categorie) che ne rendono possibile l’apparire. Si colloca qui quella
fondamentale distinzione operata da Kant tra l’oggetto come appare nella coscienza che egli
chiama fenomeno (dal greco fainesthai : apparire) e l’oggetto pensato a parte dalle condizioni che
ne rendono possibile l’intelligibilità, ( forme a priori e categorie). Tale oggetto è detto da Kant
noumeno (ossia oggetto dell’intelletto dal greco: nous) o anche, in modo forse più efficace, cosa in
sé. Si deve dunque distinguere l’oggetto-per-noi (cioè l’oggetto sottoposto alle condizioni che ne
rendono possibile l’intuizione e il pensiero) e l’oggetto o la cosa in sé, ovvero l’oggetto pensato a
parte da tali condizioni.
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Che cosa ne deriva ? Che le conclusioni della teoria gnoseologica kantiana si applicano solo ai
fenomeni mentre non valgono assolutamente per il mondo noumenico. Questo tuttavia non
rappresenta una limitazione. Noi possiamo , è vero, conoscere solamente la realtà nel suo aspetto
fenomenico, possiamo cioè conoscere solo gli oggetti di esperienza, ma un oggetto che, per ipotesi,
non possa entrare nella nostra esperienza (perché non sottostà alle condizioni che la rendono
possibile) è, in definitiva, come se non ci fosse. Io infatti posso disinteressarmi della cosa in sé.
“Che cosa possano essere le cose in sé – scrive infatti Kant – non lo so, e non ho bisogno di
saperlo, perché non mi si potrà mai presentare una cosa altrimenti che nel fenomeno”.
Perché allora porre il problema ?
Perché per Kant, come per tutta la filosofia moderna che lo precede da Cartesio a Locke a Spinoza,
la realtà non è un prodotto del pensiero. La conoscenza intellettiva, si è già detto, è discorsiva .
L’intelletto, attraverso le categorie, unifica, struttura, pensa il materiale dell’intuizione sensibile,
non lo crea. Questo materiale colto nell’intuizione indica che c’è una realtà e che essa è, rispetto
all’intuizione sensibile che la riceve e all’intelletto che la struttura, autonoma e indipendente.
Ecco perché Kant può dire: “La nostra conoscenza a priori giunge solo fino ai fenomeni,
mentre lascia che la cosa in sé sia bensì, per se stessa, reale, ma a noi sconosciuta”
Quando si parla di cose in sé non si parla di altri oggetti ontologicamente distinti da quelli di
esperienza, cioè dai fenomeni. Si considera semplicemente l’oggetto, la cosa a parte dalla necessità
di collocarsi nelle forme recettive dell’intuizione sensibile e delle categorie che la fanno diventare
oggetto per noi.
Queste “cose per conto loro” rimangono un nulla. Tuttavia non è possibile evitare di parlarne
proprio perché, in ultima analisi, dobbiamo ammettere che la realtà colta nell’intuizione esiste. Essa
non è, cioè, una creazione del pensiero.
La dialettica trascendentale
Come si è detto, grazie all’operato delle categorie, l’intelletto, esercita una funzione unificatrice
rispetto al materiale offerto nella conoscenza sensibile. Da questa funzione unificatrice nasce
appunto la conoscenza legittima e valida della natura vale a dire la fisica.
Se tuttavia questo materiale sensibile non è dato, la funzione unificatrice dell’intelletto rimane
vuota, priva cioè di un contenuto su cui esercitare la propria attività. La conoscenza valida, in
altri termini, presuppone un continuo rapporto tra sensibilità e intelletto, tra intuizione e
pensiero. Come scrive Kant: “i pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti
sono cieche”..
La Dialettica trascendentale è appunto quella parte della Logica trascendentale in cui si confutano e
insieme si spiegano gli errori in cui incorriamo ogni qual volta pretendiamo di uscire dall’ambito
dell’esperienza . Tale pretesa – che nasce ogni volta che vogliamo usare le categorie
dell’intelletto per determinare oggetti che stanno al di là dell’esperienza - è vana ed è
destinata a produrre una conoscenza illusoria e vuota . La Dialettica trascendentale dunque è la
parte negativa della gnoseologia kantiana (Kant usa il concetto di dialettica allo stesso modo di
Aristotele per il quale il sillogismo dialettico è il procedimento dimostrativo probabile e solo
apparentemente vero).
Secondo Kant la facoltà che cerca di far uso delle categorie a prescindere dalle intuizioni
empiriche date nella conoscenza sensibile è la Ragione. Kant contrappone quindi Ragione
(Vernunft) a Intelletto (Verstand) intendendo quest’ultimo come quella facoltà dove invece l’uso
delle categorie è in funzione del materiale sensibile .L’oggetto della Ragione è l’ incondizionato
indicando con ciò “quel che ci spinge ad uscire necessariamente dai limiti dell’esperienza e di
tutti i fenomeni ...”.
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E’ facile capire come il termine incondizionato indichi , in ultima analisi, la cosa in sé
ovvero il noumeno.
Secondo Kant tre sono gli incondizionati fondamentali su cui la Ragione cerca di esercitare
le proprie facoltà conoscitive:



l’incondizionato che è a fondamento di tutti i fenomeni psichici: ANIMA (oggetto della
psicologia razionale)
l’incondizionato che è a fondamento di tutti i fenomeni fisici: COSMO (oggetto della
cosmologia razionale)
l’incondizionato che è a fondamento di ogni realtà e tutto l’essere: DIO (oggetto della teologia
naturale).
Nella Dialettica trascendentale Kant dimostra che ogni qual volta la Ragione cerca di
determinare l’incondizionato produce o dei ragionamenti inconsapevolmente errati (
paralogismi) o un sapere di tipo antinomico vale a dire un sapere dove “... l’incondizionato non
può essere pensato senza contraddizione ...”.
L’analisi kantiana è molto ampia ed articolata e si sofferma sia sulle contraddizioni in cui cade la
psicologia razionale quando tenta di determinare la natura dell’anima, sia sulle antinomie in cui
cade la cosmologia quando tenta di stabilire se il mondo sia eterno o creato nel tempo, finito o
infinito nello spazio, infinitamente divisibile o riducibile ad alcuni elementi primi, meccanico o
sottoposto a una causalità libera, nato o meno da una causa prima o da qualcosa che esiste
necessariamente. Ampia è anche la confutazione kantiana delle prove dell’esistenza di Dio e in
particolare del cosiddetto “argomento ontologico” di S.Anselmo e di Cartesio.
Il senso di tale confutazione è comunque già evidente dalle premesse della Dialettica trascendentale.
Se la conoscenza può fondarsi solo in un rapporto tra sensibilità e intelletto, ogni tentativo di
sciogliere questo legame, ogni tentativo di andare oltre il fenomeno per attingere alla cosa in sé
è destinato a produrre solo una parvenza di sapere, un sapere appunto antinomico dove in
definitiva il conflitto delle argomentazioni prodotte a sostegno di una o dell’altra posizione
(cerazione o eternità del mondo, esistenza o non esistenza di Dio) è destinato a non poter essere
risolto.
La scienza che nella tradizione filosofica ha operato questo tentativo è la metafisica.
Giudicando illusoria la conoscenza dialettica Kant , in definitiva, dichiara illusoria la
metafisica tradizionale che , appunto, non può elevarsi , come la matematica e la fisica, al
rango di autentico sapere scientifico.
Ciò tuttavia non significa che la metafisica abbia esaurito il suo compito e la sua funzione. Se la
metafisica come scienza del noumeno, come scienza cioè che in definitiva pretende di andare oltre
l’esperienza per cogliere l’essenza propria della natura e della realtà in se, è sapere dialettico ovvero
illusorio, rimane comunque lo spazio per una forma diversa di metafisica. Kant distinge infatti tra
uso costitutivo e uso regolativo delle idee della Ragione. L’uso costitutivo è quello proprio dei
concetti dell’intelletto i quali appunto costituiscono, rendono cioè possibile, la conoscenza
dell’esperienza. Questo uso non si applica alle idee della Ragione che, come si è detto non
possono costituire, cioè rendere possibile una conoscenza della cosa in sé. L’uso regolativo
consiste invece nell’ordinare le conoscenze dell’intelletto al fine di realizzare la maggiore unità
possibile di esse. Attraverso tale uso non si conoscono oggetti, ma si dà un ordinamento, si indica
una prospettiva, si mostrano le vie lungo le quali procedere per accrescere la conoscenza
dell’esperienza. Questo uso è proprio della Ragione e delle sue idee. Esse in definitiva non ci
danno dei contenuti ma ci indicano dei limiti e, nello stesso tempo delle direzioni intorno alle quali
indirizzare la nostra ricerca.
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Una spiegazione di tale uso regolativo è data da Kant nel modo seguente: noi dobbiamo considerare
le cose del mondo come se fossero state create da un’ Intelligenza superiore (idea regolativa di
Dio). Che il mondo sia stato creato da Dio non possiamo saperlo e dimostrarlo scientificamente (ciò
equivarrebbe ad un uso costitutivo dell’idea di Dio) , tuttavia il supporlo è di grande utilità per
capire meglio la costituzione e la connessione degli oggetti di esperienza.
Allo stesso modo l’idea dell’anima ci spinge a considerare i legami tra i vari fenomeni pisichici
rintracciando in essi una sempre maggiore unità come se fossero manifestazioni di un’unica
sostanza semplice. Anche qui noi non possiamo dimostrare l’esistenza dell’anima, né tantomeno la
sua mortalità o immortalità, tuttavia l’idea di una sostanza semplice unitaria ci indica una direzione
molto utile per la ricerca sui fenomeni psicologici.