alle origini dello stato sociale - Servizio di Hosting di Roma Tre

Per una storia dello Stato sociale
Origini, percorsi, soggetti
di Carlo Felice Casula
La questione dello Stato sociale, di grande rilevanza in tutta la storia del Novecento,
è, in questi ultimi anni, al centro del dibattito politico. E' anche oggetto di
discussione e di polemica da parte dei media, che, però, prediligono la categoria dello
Stato assistenziale: in questa preferenza terminologica è già emblematicamente
evidente come esso sia presentato in molti ambienti, non solo conservatori, in forma
riduttiva per un verso, dispregiativa per l'altro. Il termine anglosassone di Welfare
State, Stato del benessere compare raramente, anche perché è più difficile compiere
di esso un diffuso riscontro nella realtà.1
Specialmente tra i giovani, compresi quelli scolarizzati, è diffusa e condivisa l'idea
che colloca la nascita e la crescita dello Stato sociale in un ambito spaziale di cui
l'Italia è parte centrale, se non esclusiva, e in un ambito cronologico circoscritto non
solo al secondo dopoguerra ma, addirittura, agli anni Sessanta e Settanta. Una tesi
che, pur essendo con tutta evidenza infondata, è diventata un radicato luogo comune,
che necessita di essere demistificato.2
La questione dello Stato sociale è complessa, con vaste implicazioni giuridicoistituzionali, per un verso, sociali ed economiche, per l'altro.3
Sul piano della codificazione costituzionale, lo Stato sociale, dopo i coraggiosi, ma
isolati e non duraturi, casi della Repubblica di Weimar e di quella cecoslovacca degli
anni Venti4, si diffonde come normale forma di statualità nel Secondo dopoguerra.
Le costituzioni di alcuni grandi Stati europei, quella italiana in primo luogo, dopo la
sconvolgente esperienza dei regimi totalitari di massa, per la prima volta sanciscono
congiuntamente diritti civili, diritti politici e diritti sociali. Uomini e donne non sono
più solo cittadini, astrattamente uguali di fronte alla legge e isolati di fronte allo
Stato. Non a caso i diritti che le istituzioni debbono non solo riconoscere, ma
garantire e promuovere, sono diritti delle persone e la cittadinanza si fonda non più
sulla proprietà o sull'istruzione, ma sul lavoro. Una codificazione, ancora più
solenne, si ha nell’articolo 22 (“Ogni individuo, in quanto membro della società, ha
diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale
e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di
ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed
al libero sviluppo della sua personalità”) della Dichiarazione universale dei diritti
Per una visione d’insieme cfr. P. Flora, A. J. Heidenheimer (a cura di ), Lo svilppo del Welfare State in Europa e in
America, Il Mulino, Bologna 1983.
2
Sulle vicende dello Stato sociale italiano, sulle sue vicende, sulle sue peculiarità e sulla sua diffusa percezione
negativa di capitalismo assistenziale, cfr. U. Ascoli (a cura di), Welfare State all’italiana, Laterza, Roma-Bari 1984.
3
Cfr. G. A. Ritter, Storia dello Stato sociale, Laterza, Roma-Bari 1991.
4
Su queste due costituzioni della Europe nouvelle, per usare la definizione del noto costituzionalista Mirkine
Gutzevich, e, più in generale sulle revisioni costituzionali del primo dopoguerra, cfr. M. Toscano, Le costituenti
europee postbelliche 81918-1931), Sansoni, Firenze 1946.
1
dell'uomo, del dicembre del 1948, la cui accettazione divenne requisito per l’ingresso
degli Stati nella Organizzazione delle Nazioni Unite.5
La questione delle politiche sociali aveva cominciato a porsi in un periodo ben più
lontano nel tempo. Percorre tutta la modernità, quantomeno nell’Europa più
avanzata6, a partire dalle Old Poor Laws dell'Inghilterra del Cinquecento e del
Seicento.
L'attenzione dello Stato nei confronti delle problematiche sociali è legata alla crisi
definitiva del sistema feudale e del mondo medievale, che aveva al proprio interno
una rete di solidarietà, di assistenza e di tutela delle singole persone e, in primo
luogo, dei poveri. Fino all'epoca moderna e contemporanea, i poveri costituivano una
delle tre componenti della società signorile: le altre due erano costituite dai signori e
dai servi. I poveri, massa fluttuante, ma sempre corposa, avevano
contemporaneamente il privilegio e la dannazione del non lavoro. Marginali, ma non
esclusi, sopravvivevano, sia pure come Lazzaro della parabola evangelica, grazie agli
avanzi delle mense dei signori7.
Caduta questa rete di protezione e di solidarietà, è necessario garantire una qualche
forma di assistenza tramite specifiche leggi. Il provvedimento più significativo in tal
senso fu la Speenhamland Law, del 1795. In Inghilterra le autorità sono mosse più
che da ragioni umanitarie o di giustizia distributiva, dalla preoccupazione e dal
timore crescente che i poveri possano diventare ceti pericolosi, subire il contagio
della Rivoluzione francese e mettere in discussione l’assetto istituzionale8.
Nei decenni a cavallo tra Settecento e Ottocento la Rivoluzione industriale trionfa in
Inghilterra e comincia anche a affermarsi in alcune aree dell’Europa continentale. Gli
Stati rivendicano a sé il compito organizzare forme nuove di protezione sociale,
esautorando progressivamente in questo campo, di conseguenza, le istituzioni
religiose e corporative. Contemporaneamente attivano strumenti di controllo e di
prevenzione-repressione per garantire l’ordine costituito. Si confrontano, sul terreno
delle idee e su quello delle pratiche politiche, due posizioni. La prima, di evidente
ispirazione giusnaturalistica, rivendica un coraggioso intervento dello Stato per
garantire a tutti i cittadini il diritto di esistere. La seconda, ispirandosi alla filosofia
dell’utilitarismo e alla rigorosa morale del cristianesimo riformato, diffidando delle
interferenze dello Stato nella sfera economica e sociale, ritiene che solo il
perseguimento dell’utile personale, accompagnato da costumi austeri e dalla capacità
di rischio, possa garantire la fuoruscita dal bisogno e dalla dipendenza9.
Le variegate legislazioni sui poveri in Inghilterra, ma anche in Prussia e nell'Impero
Asburgico, si propongono di evitare, da un lato, che essi possano, come nei secoli
precedenti, continuare a muoversi liberamente nel paese, vivendo di lavori
occasionali, di espedienti e di carità, o, addirittura, ritagliarsi propri autonomi spazi
5
Cfr. R. Aron, The Imperial Republic: The United Nations and the World, 1945-1973, Prentice-Hall, New York 1974.
F. Girotti, Welfare State. Storia, modelli, critica, Carocci, Roma 1998.
7
Per un approccio storico, cfr. B. Geremek, La pietà e la forca . Storia della miseria e della carità in Europa, Laterza,
Roma-Bari 1986; per un approccio filosofico, cfr. F. Rodano, Lezioni su servo e signore, Editori Riuniti, Roma 1990.
8
La categoria di classi laboriose e classi pericolose è stata codificata da L. Chevalier, Classi laboriose e classi
pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Roma-Bari 1976.
9
Cfr. J. Alber, Dalla carità allo Stato sociale, Il Mulino, Bologna 1987.
6
nelle corti dei miracoli, sfuggendo in tal modo a quel controllo del territorio, sempre
più rigido e capillare, che le autorità di polizia stanno imponendo. Non a caso le leggi
sui poveri prevedono di norma, accanto ad aiuti in natura, specie alimenti, e esigui
contributi finanziari, forti sollecitazioni-imposizioni perché gli assistiti-assistite
dimorino in strutture apposite di accoglienza e di lavoro. L'Inghilterra sperimenta
variegate forme di Poorhauses e di Workhouses. Esperimenti simili vengono tentati
in Francia con gli Hospitaux generaux e i Dépôts de mendicitè e, nell’Impero
Asburgico, con gli Armeninstitut. I nomi stessi di queste istituzioni rinviano ad una
realtà penosa e opprimente10.
L'interesse dello Stato per la questione sociale, non ancora per i diritti sociali, è già,
dunque, presente nella fase iniziale del lungo processo di modernizzazione e
dinamizzazione che segue alla scomparsa del vecchio universo statico, regolato da
norme e consuetudini consolidate, di cui la Rivoluzione industriale fu, allo stesso
tempo, conseguenza evidente e causa dirompente11.
E’ nota la necessità economico-strutturale, ma anche politica e ideologica, della
trasformazione dei poveri in lavoratori salariati, sia nelle campagne, sia nelle aree
urbane industrializzate. L’esito di questo processo nella Coketown per eccellenza,
Manchester, è stato descritto con rigore anatomico da Engels, nel 1844, nel suo
notissimo saggio La situazione della classe operaia in Inghilterra e mirabilmente
rievocato nel romanzo di Charles Dickens, pubblicato dieci anni dopo, Tempi
difficili.
Modernità, industrializzazione, urbanesimo costituiscono il nuovo contesto in cui
uomini e donne sono progressivamente trasformati in individui atomizzati, che, solo
in questa veste, sono riconosciuti dallo Stato liberale come titolari di diritti. Essi non
solo sono soggetti livelli salariali molto bassi e a tempi e ritmi di lavoro penosi, ma
perdono, con lo sradicamento dalle campagne e con il passaggio dal lavoro
contadino e artigianale a quello di fabbrica, i rassicuranti tradizionali punti di
riferimento precedenti e rischiano di smarrire la propria identità12.
L’azione sociale dei governi, in tutta una prima fase dell’industrializzazione, si
estrinseca in numerosi, ma episodici, provvedimenti legislativi, spesso preceduti da
momenti di indagine e di conoscenza, come le inchieste parlamentari, che portano a
misure migliorative delle condizioni di lavoro, specialmente per i soggetti più deboli,
come le donne e i bambini. Talvolta, con l’introduzione di prime forme di
assicurazione sulla morte o sull’invalidità, si hanno anche trasferimenti di risorse
finanziarie, anche pubbliche, a favore dei lavoratori e delle loro famiglie. A spingere
in tal senso più che il riconoscimento della cittadinanza sociale, o anche solo
l’esigenza di stimolare la domanda con la crescita del potere di acquisto dei ceti
operai, è la preoccupazione assillante di ridurre e porre sotto controllo il dissenso e il
conflitto sociale. Le ristrette e sospettose élites, che gestiscono il potere politico e
economico e controllano le istituzioni parlamentari, grazie al suffragio ristretto,
10
Non è un caso che di queste anomale istituzioni totali, si parli a lungo nel volume di M. Foucault, Sorvegliare e
punire, Einaudi, Torino 1969.
11
Cfr. P. Deane, La prima rivoluzione industriale, Il Mulino, Bologna 1971.
12
Cfr. E. P. Thompson, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1969.
hanno coscienza, per usare un’espressione emblematica del cattolicesimo
intransigente italiano dell’Ottocento, che il Paese reale ha nei confronti del Paese
legale diffidenza e avversione13.
Con la trasformazione degli Stati moderni assolutisti negli Stati liberali
costituzionali, si erano poste le premesse per un nuovo processo14. La questione
sociale non può più, alla lunga, essere affrontata in forma autoritaria e paternalistica,
dall’alto e neppure demandando ad altre istituzioni quali le Chiese, come, per molti
secoli, era avvenuto. Lo Stato-soggetto è orgoglioso e geloso del proprio esclusivo
potere e delle proprie competenze che non intende delegare ad altri enti intermedi.
Nella sua configurazione liberal-costituzionale elitaria ha come dottrina economica il
liberismo, cioè l’ideologia del mercato autoregolato, che ritiene di raggiungere al
proprio interno equilibri sempre più avanzati e razionali modalità di funzionamento.
Lo Stato solo a seguito di precise emergenze o per scongiurare gravi tensioni si vede
costretto a intervenire a tutela di gruppi determinati di cittadini, per non contraddire il
principio della loro formale e astratta uguaglianza di fronte alla legge.
La Rivoluzione francese certamente aveva avuto una triade ideale: libertè, egalitè,
fraternitè. Ben lungi dal diventare programma di governo, la fraternité era stata
progressivamente espunta dal lessico politico liberale, divenendo nostalgia residuale
del sanculottismo di sinistra e, successivamente, fondamento ideologico del nascente
movimento socialista15.
Lo Stato, anzi, tende, persino - è il caso emblematico e anticipatore della Francia
rivoluzionaria con la legge Le Chapelier, del 1791 - ad interdire qualsiasi
organizzazione sindacale, vista come una messa in discussione del libero incontro sul
mercato del lavoro del singolo datore di lavoro e del singolo prestatore d’opera. Non
a caso la legge Le Chapelier era strettamente connessa con la legge d’Algarde, che
sopprimeva tutte le residue antiche corporazioni. L’Inghilterra con le AntiCombination Laws, del 1799, sia pure con lo scopo primario di impedire la
diffusione di simpatie giacobine, era giunta a esiti simili che, però, saranno, già
all’inizio degli anni Venti dell’Ottocento, rimessi in discussione16.
Non solo in Inghilterra, ma anche in Europa occidentale, quando “succede il
Quarantotto”, la Restaurazione progettata dal Congresso di Vienna nel 1815, ma
anche quel particolare universo, finora preso in esame, comincia a dare segni evidenti
di crisi17. In Francia, il paese che, secondo la nota definizione di Marx, era il
laboratorio più avanzato delle dinamiche politiche, nel passaggio dalla Monarchia
Orleanista alla Seconda Repubblica, si ha la soppressione della schiavitù nelle
Un quadro d’insieme in S. Eisenstadt, S. Rokkan (a cura di), Building States and Nations, Sage, Beverly Hills 1974.
Sulla vicenda dello Stato moderno, dalla fondazione alla realtà attuale, cfr. G. Poggi, Lo Stato. Natura, sviluppo,
prospettive, Il Mulino, Bologna 1992.
15
L’evoluzione del trinomio liberté-egalité-fraternité, nel contesto dello sviluppo storico del capitalismo, è ricostruita
da P. Vilar, Le parole della storia, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 262-305.
16
Cfr. J. D. Reynaud, I sindacati francesi. Dall’anarcosindacalismo al governo delle sinistre, ed. italiana a cura di C.
F. Casula, Edizioni Lavoro, Roma 1982.
17
Il 1848 è stato presentato come la rivincita della Rivoluzione e come definitiva affermazione della borghesia. Cfr. al
riguardo E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi, Il Saggiatore, Milano 1971. Completamente diversa la tesi, implicita
già nel titolo del libro, sostenuta da A. Mayer, Il potere dell’Ancien Régime fino alla Prima guerra mondiale, Laterza,
Roma-Bari 1982.
13
14
colonie e si sancisce il diritto al lavoro, come diritto preliminare e fondante per
garantire il concreto esercizio di quelli civili e politici. L’effimera soluzione che
venne imposta dagli esponenti radicali e socialisti parigini, quella degli Ateliers
nationaux, che non solo per assonanza rinviano agli Hospitaux generaux, sconta
l’utopica illusione che, nella nuova economia di mercato, sia possibile creare e
conservare nel tempo posti di lavoro sulla base di una decisione politica. Un
esperimento, che pur rivelandosi fallimentare nella sua applicazione, pone con forza
premonitrice una questione difficile e complessa, ma non eludibile: il lavoro come
fondamento della cittadinanza18.
Negli ultimi decenni dell'Ottocento e nel primo Novecento, la Seconda rivoluzione
industriale, con la nuova centralità della metallurgia e della chimica e con la parziale
sostituzione, come fonte energetica, del carbone con l’energia elettrica, vede
coinvolti nuovi soggetti, come la Germania e l’Italia, in Europa e, fuori di essa, gli
Stati Uniti, in America, e, in Asia, il lontano Giappone, della cui subitanea potenza
militare e tecnologica, nello stupore dell’opinione pubblica mondiale, fece
drammaticamente le spese, nel 1904, la declinante grande potenza della Russia
zarista19.
Sul terreno politico-istituzionale è in atto un mutamento profondo nelle costituzioni
materiali di molti paesi: con l’estensione del diritto di voto, sino al raggiungimento
del suffragio universale, sia pure di un suffragio universale dimezzato, per la
perdurante esclusione delle donne e con l’affermarsi dei grandi partiti di massa,
socialisti e socialcristiani, si passa dallo Stato monarchico-costituzionale a quello
democratico-parlamentare. La ricerca e l’organizzazione del consenso nello Stato
liberale non può più essere elusa neppure da parte delle élites ostili alla nuova
centralità del parlamento e favorevoli alla gestione verticistica del potere20.
Sul terreno dell’economia è ritenuto necessario un coinvolgimento crescente dello
Stato: l’economia diventa sempre più, anche dal punto di vista teorico, economia
politica. Il coinvolgimento è duplice: da una parte gli investimenti che richiede
l'industria pesante, l'industria meccanica, l'industria chimica, per i costi dei loro
impianti e della continua innovazione tecnologica, sono di tale ampiezza che gli
imprenditori autonomamente non sono più in grado di garantirli. E’ lo Stato che deve
intervenire, con frequenti ricche sovvenzioni, rastrellando a tal fine anche il piccolo
risparmio individuale. Dall'altra, lo Stato assorbe gran parte della produzione, tramite
le commesse pubbliche di armamenti, di materiale rotabile e ferroviario, che
costituivano una parte rilevante della produzione delle nuove industrie meccaniche e
chimiche. Non è certo casuale che all’avanguardia su questo nuovo terreno siano la
Germania bismarckiana e guglielmina e il Giappone del governo Meiji, i paesi che
sono leader della Seconda rivoluzione industriale21.
Lo Stato è impegnato a garantire alcuni servizi essenziali, come i trasporti ferroviari
e marittimi, che passano sotto la sua gestione diretta o indiretta. Primario diritto
Cfr. M. Agulhon, 1848 ou l’apprentissage de la République (184-1852), Seuil, Parigi 1992.
Per una visione d’insieme, cfr. D. S. Landes, Prometreo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale
nell’Europa occidentale dal 1750 ai nostri giorni, Einaudi, Torino 1978.
20
Cfr. P. Pombeni (a cura di), La trasformazione politica nell’Europa liberale 1870-1890, Il Mulino, Bologna 1986.
21
Una stimolante sintesi del periodo in M. Beaud, Storia del capitalismo, Edizioni Lavoro, Roma 1984, pp. 119.147.
18
19
sociale, anche perché ritenuta efficace strumento di emancipazione, è l'istruzione, che
ai livelli elementari è divenuta obbligatoria e gratuita. E’ allo stesso tempo un terreno
privilegiato di intervento e di impegno dello Stato per due ordini di motivi: per
rispondere alla domanda crescente di lavoratori qualificati e di tecnici nell’industria e
nell’amministrazione e per formare i cittadini che non sono più dei sudditi ossequiosi
o turbolenti, ma pur sempre impotenti, ma titolari del diritto di voto, cioè di un
potente democratico strumento di pressione.
Il modello tedesco, anche su questo terreno, è forte e fascinoso: era la dimostrazione
che l'interesse dello Stato per la formazione e la scuola garantiva non solo dei
cittadini disciplinati, ma anche dei cittadini produttori di straordinaria bravura. Una
delle ragioni del successo economico tedesco di fine secolo è anche il suo essere
all’avanguardia della ricerca scientifica e dell'innovazione tecnologica. Questa
condizione si fondava sull’efficiente e avanzato sistema scolastico, dalle elementari
fino alle università22.
État providence, in francese, Wohlfahrstaat, in tedesco, è stato definito questo tipo di
intervento statale dall’alto, con forti connotazioni autoritarie, anche quando sono
benevolmente paternalistiche: è tipico della Germania e del Giappone23, ma alcuni
suoi tratti sono presenti anche in Italia e, persino, nella Russia zarista24.
Un modello alternativo fu, invece, praticato in Inghilterra, dove lo Stato, smantella la
legislazione sui poveri, ma anche, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, quella
protezionistica, permettendo, con le Corn Laws, l’importazione, senza dazi doganali,
di granaglie americane e australiane, rendendo, di conseguenza, possibile per i ceti
popolari un'alimentazione, che era ancora quasi esclusivamente farinacea, a costi
molto minori, colpendo gli interessi della nobiltà terriera che non poteva più disporre
di un mercato protetto per la propria produzione cerealicola. Provvedimento di segno
opposto adotterà, invece l’Italia, nel 1887, con la legislazione protezionistica, che
contribuirà a saldare un solido blocco sociale tra nascente borghesia industriale del
Nord e proprietari terrieri del Sud25.
Il modello in questione è quello del Mutual Aid e del Self Help: in due distinte ma
convergenti direzioni, entrambe ispirate dal socialismo utopico di Robert Owen. Da
una parte le società di mutuo soccorso e di resistenza da cui trarranno origine le
Trade Unions, dall'altra le cooperative, a partire da quella di consumo, quasi mitica,
fondata dai Probi Pionieri di Rochdale, nel 1843, a seguito di un lungo e vano
sciopero26.
Oltre che in Inghilterra, anche in diversi altri paesi europei, i diritti sociali, prima
ancora di essere tutelati dallo Stato, vengono sperimentati sul campo, in forma
diffusa e crescente, dai diretti interessati, e, in particolare, dai ceti operai urbani con
la costruzione di fitto tessuto di organizzazioni sindacali e cooperative. L’iniziativa
Cfr. H. U. Wehler, L’impero guglielmino 1871-1918, De Donato, Bari 1981.,
Cfr. E. H. Norman, La nascita del Giappone moderno. Il ruolo dello Stato nella transizione dal feudalesimo al
capitalismo, Einaudi, Torino 1967.
24
Cfr. D. Werth, Storia della Russia, Il Mulino, Bologna 1995.
25
Cfr. A. M. Banti, Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli, Roma 1996.
26
Cfr. S. Pollard, Il sogno di Robert Owen: mito e realtà. Le origini della cooperazione in Gran Bretagna, Bulzoni
1992.
22
23
spontanea dal basso si interconnette, nel tempo, con prime forme di tutela dall'alto,
soprattutto nei confronti del proletariato di fabbrica, in particolare nei confronti della
cosiddetta aristocrazia operaia27, che, secondo la classica interpretazione di Lenin,
finì per essere coinvolta nella politica e nell’ideologia dell’impertialismo 28.
Gli Stati sono costretti a cedere alla richiesta delle organizzazioni sindacali di
garantire, con interventi legislativi e coperture finanziarie, forme assicurative in caso
di malattia e di morte e anche pensioni d'invalidità o di vecchiaia, perché essi,
spontaneamente, da tempo, avevano tutelato in tal senso i propri servitori, pubblici
dipendenti e, in particolare, militari professionali. Questo modello, già sperimentato e
garantito dallo Stato, diventa un possibile, forte, esempio da imitare e da estendere ad
altri lavoratori dipendenti29.
All'inizio del Ventesimo secolo, anche in Italia, nel giolittiano decennio riformatore,
seguito alla drammatica crisi sociale e istituzionale di fine secolo, si scopre un
terreno nuovo in cui i diritti sociali possono essere realizzati, permettendo una più
elevata qualità della vita individuale e collettiva. Il soggetto istituzionale coinvolto
non è più lo Stato, ma i comuni, nella storia italiana di lunga durata percepiti, quasi
sempre, senza ostilità, diffidenza e estraneità. Attraverso lo strumento delle aziende
municipalizzate, i comuni provvedono alla mobilità urbana, alla distribuzione
dell’acqua, dell’energia elettrica, del gas. Nei Comuni, inoltre, si esercita e si
sperimenta una classe dirigente nuova, espressione dell’universo socialista e di quel
mondo cattolico che, a causa del non expedit, cioè del divieto papale di poter essere
eletti o anche solo elettori, neppure concorre alla formazione di una propria
rappresentanza parlamentare. Anche in questo caso l'esperimento della erogazione
pubblica, sia pure decentrata, di alcuni servizi collettivi, fu una sorta di scelta
obbligata, per la manifesta incapacità gestionale dei privati e per il peso, in termini
finanziari, gravissimo, per lo Stato che doveva ogni anno appianare i bilanci
largamente passivi30.
E’ diffusa la convinzione che lo Stato democratico-sociale costituisca un'ulteriore
evoluzione, non solo in senso cronologico, ma anche per la qualità e la quantità
dell’intervento pubblico nel campo del benessere dei cittadini, rispetto allo Stato
democratico-parlamentare. In realtà, negli anni Venti e Trenta, dopo gli
sconvolgimenti bellici e postbellici, a seguito anche della crisi dell’idea di progresso
e di democrazia e, contemporaneamente, del diffondersi di culture e mentalità
violente e illiberali, si presenta un'altra variante, per molti aspetti non prevista: lo
Stato sociale di connotazione autoritaria o totalitaria. Uno Stato, che fa i conti con la
moderna società di massa, utilizzando al contempo efficienti strumenti di dominio e
di consenso; che si fa carico dei diritti sociali, ma mortifica i diritti civili e politici,
fino, talvolta, alla morte stessa di coloro che continuano a testimoniarli e a difenderli.
27
Cfr. Parkin, Disiguaglianza di classe e ordinamento politico, Einaudi, Torino 1976.
W. J. Mommsen, L’età dell’imperialismo, Feltrinelli, Milano 1970.
29
Per quanto concerne specificamente il caso italiano. Cfr. G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana. 1861-1993,
Il Mulino, Bologna 1996.
30
Cfr. A. Acquarone, L’Italia giolittiana, Il Mulino, Bologna 1988. Sul tema specifico, in particolare, G. Melis,
Burocrazia e socialismo, Il Mulino, Bologna 1980.
28
Sintetica e efficace l’interpretazione di Karl Polanyi sulla soluzione autoritaria
dell’impasse del capitalismo: “una riforma dell’economia di mercato raggiunta al
prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche (…). Il sistema
economico che era in pericolo di disfacimento veniva così rivitalizzato mentre i
popoli stessi venivano sottoposti ad una rieducazione destinata a snaturalizzare
l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come unità responsabile del corpo
politico”31.
Dopo la Seconda Guerra mondiale si ha l’affermazione definitiva, anche dal punto di
vista della sua definizione costituzionale, dello Stato democratico-sociale. La
Costituzione italiana è esemplare, al riguardo, già nel suo incipit: "L'Italia è una
Repubblica democratica fondata sul lavoro". Non si tratta di una semplice petizione
di principio voluta dai deputati socialcomunisti e socialcristiani, che alle elezioni per
l’Assemblea costituente avevano avuto congiuntamente il 75% dei seggi. Non si
tratta, neppure, di una sorta di risarcimento politico e morale, a posteriori, per la
classe operaia che in Italia, durante il Fascismo, aveva subito forme di repressione
più forte e che, durante la Resistenza, era stata più presente ed attiva nella lotta
partigiana, bensì della sanzione solenne, che costituisce anche una necessaria presa
d’atto, del punto di arrivo di un lungo percorso evolutivo della economia, della
società e delle istituzioni. Fondamento della cittadinanza non è più l'essere proprietari
o istruiti, ma l’essere lavoratori, perché è il lavoro che, oltre a produrre la ricchezza
materiale del paese, attiva i processi socializzazione e di coscientizzazione degli
uomini e delle donne in una prospettiva di crescita civile che non è più monogenere. I
diritti non possono che essere di queste tre tipologie, tra loro strettamente connesse:
diritti civili, diritti politici e diritti sociali.
Ha scritto con esemplare chiarezza e capacità di sintesi, in una prospettiva universale,
il sociologo inglese T.H. Marshall, in un libro giustamente famoso, Cittadinanza e
classe sociale: “ diritti civili sono venuti prima (…). Poi sono venuti i diritti politici
(…). I diritti sociali arretrarono fino a scomparire nel secolo diciottesimo e all’inizio
del diciannovesimo. La loro rinascita iniziò con lo sviluppo dell’istruzione
elementare pubblica, ma prima del secolo ventesimo non acquistarono una dignità
pari a quella degli altri due elementi della cittadinanza”32.
Lo Stato sociale, ossia il superamento della estraneità e dell’indifferenza delle
istituzioni nei confronti dei processi economici e delle connesse dinamiche sociali,
nel Novecento, ha avuto, nel suo finale e generalizzato affermarsi, una forte e
strutturale spinta con il compimento della Grande trasformazione. Di quel vasto e
intrecciato complesso di profondi, sia pur vischiosi mutamenti economici, sociali,
istituzionali, ma anche culturali e emozionali, magistralmente ricostruiti e
decodificati da Karl Polanyi.33 La sconvolgente Grande crisi del 1929, a partire dal
crollo di Wall Street, investe l’intero pianeta e, in particolare, i punti alti del
capitalismo, portando quasi all’arresto della produzione e alla disoccupazione di
31
K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974,
p. 297.
32
T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, UTET, Torino 1976, p. 23.
33
K. Polanyi, La grande trasformazione, cit.
massa. La teoria del mercato autoregolato, che al proprio interno trova le regole di
funzionamento, di sviluppo e di aggiustamento, si rivela un’illusione. Viene, perciò,
messa in discussione, a livello di teoria, con l’elaborazione di John Maynard Keynes
che trovò una ormai classica sistemazione nel libro The general Theory of the
Employement, Interest and Money, pubblicato nel 1935. Crisi assurda e paradossale,
perché di abbondanza, non di penuria, come sempre era avvenuto nella millenaria
storia dell’umanità: la domanda ancora asfittica non è in grado di assorbire l’offerta,
ormai tendenzialmente quasi illimitata.
Di qui la necessità impellente di un forte stabile sostegno della domanda da parte
delle istituzioni pubbliche, con l’adozione di innovative politiche economiche e
finanziarie. Ne conseguono variegati esperimenti di economia orientata, per usare
l’espressione coniata dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt nel
lanciare il New Deal, elaborato nel 1932 da un poderoso Brains Trust di collaboratori
e consiglieri. Il programma di Roosevelt prevede: un rigido controllo sul sistema
bancario e sul mercato borsistico; un sostegno finanziario, attraverso il nuovo
strumento della National Recovery Administration, alle industrie in crisi che si
impegnassero, in dialogo con i sindacati, a garantire i livelli salariali, assumere
personale aggiuntivo e diminuire l’orario di lavoro; un piano di grandi lavori
pubblici, come il risanamento idrico e ambientale di un’intera regione realizzato dalla
Tennesse Valley Authority; un esteso sistema previdenziale per disoccupati, inabili al
lavoro e anziani. Una sorta di modello fordista dello Stato sociale che coniuga
sviluppo e inclusione, efficienza economica e equità sociale.34
Un originale e creativo nuovo corso, che suscita non poche diffidenze e ostilità, ma
che si rivela ben più efficace delle tradizionali politiche deflative e protezionistiche
adottate in Inghilterra e in Francia, prima della vittoria del Fonte popolare, nella
primavera del 1936, che ha come programma di governo la settimana di 40 ore, le
ferie retribuite e la nazionalizzazione delle industrie connesse con la difesa nazionale.
La creazione nell’Italia fascista di un’economia mista, di cui sono espressione
l’Istituto mobiliare italiano (IMI) e l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI),
non è finalizzato solo a rispondere alla crisi del 1929, ma anche a sperimentare una
sorta di terza via, tra capitalismo e socialismo, il corporativismo, che avrebbe dovuto
riordinare l’economia, assicurare l’autarchia e superare il conflitto sociale, nel nome
del comune interesse nazionale.
In Germania, nel turbolento dopoguerra, Walter Rathenau, industriale e ministro
della ricostruzione, prima di essere assassinato, nel 1922, da estremisti di destra,
aveva sostenuto la necessità di un’economia nuova, di un capitalismo in cui il
profitto fosse subordinato agli interessi collettivi. Nei successivi anni Trenta, con la
vittoria del Nazismo, specie quando, nel 1936, Hermann Göring assume la direzione
dell’economia tedesca, l’intervento dello Stato diventa massiccio, soprattutto nel
campo dei lavori pubblici e degli armamenti. L’ideologia del Nazionalsocialismo e
della Volksgemeischhaft, razzista e antisemita, si diffonde anche all’interno dei ceti
popolari anche perché Hitler può esibire successi evidenti nel campo della lotta
34
Il giudizio è di P. Rosanvallon, La crisi dello Stato assistenziale, Marsilio, Venezia 1982..
all’inflazione, dell’occupazione, della ripresa dei consumi, dell’erogazione di
articolati servizi sociali. Essi, però, sono sottoposti a un rigido controllo e
inquadramento quasi militare35.
In Unione Sovietica, dove Stalin, dopo avere vinto il confronto con i suoi
concorrenti-avversari, nell’ordine, Bucharin, Trockij, Zinoviev e Kamenev, ha in
mano tutte le leve del potere, il Socialismo in solo paese è costruito, dopo
l’esperienza della NEP, con i grandi piani quinquennali, elaborati e imposti dall’alto,
al fine di raggiungere una rapida industrializzazione e una forzata collettivizzazione
delle campagne, senza nessun margine residuo per l’economia di mercato36.
L’economia pianificata di questo peculiare Stato sociale, in cui il Socialismo si è
fatto Stato e il Partito comunista gestisce in forma esclusiva e dittatoriale il potere, in
nome e per conto dei lavoratori, riuscì ad avere un indubbio fascino nel mondo
operaio e, anche, intellettuale, dell’Occidente, perché sembrò costituire una risposta
efficace non solo alla Grande depressione del 1929, ma anche al previsto-sognatopropagandato Crollo del capitalismo37. Se, pur in assenza delle libertà individuali e
in presenza di perdurante, diffusa dura repressione del dissenso, il diritto al lavoro e
alla pensione, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, è garantito; i consumi, invece,
inclusi quelli alimentari, sono compressi e il tenore di vita complessivo quanto mai
basso, contribuendo non poco a consolidare una sorta di disincanto rassegnato e
impotente, così lontano dagli entusiasmi rivoluzionari del 191738.
E’, tuttavia, il notissimo rapporto, Social Insurance and Allied Services, elaborato
dall’economista William H. Beveridge, nel dicembre del 1942, per conto del governo
inglese, di cui era apprezzato consulente, anche per il suo ruolo di direttore della
prestigiosa London School of Economics and Political Science, a costituire la magna
carta del odierno Welfare State39. Dichiarato obbiettivo finale del Rapporto
Beveridge, allo tesso tempo utopista e/o messianico (per la esplicita ispirazione
socialista e evangelica), ma anche storicamente e politicamente impellente, per
l’esigenza di una generale convinta mobilitazione per abbattere il Nazifascismo e
impedirne nel futuro qualsiasi rinascita, è la sconfitta dei “cinque giganti che tengono
schiava l’umanità: il bisogno, la malattia, l’ignoranza, la miseria e l’ozio”40.
Seguono una serie di leggi, l’Education Act (scuola dell’obbligo fino a 15 anni del
tutto gratuita e forte sostegno ai giovani capaci, privi di mezzi per completare gli
studi superiori), del 1944, e, successivamente, con il nuovo governo laburista di
Clement Attlee, il National Insurance Act e il National Assistence Act, che
realizzarono a un sistema assicurativo e pensionistico avanzatissimo e a un efficiente
35
Cfr. T. W. Mason, La politica sociale del Terzo Reich, De Donato, Bari 1980.
Cfr. A. Natoli, S. Pons, L’età dello stalinismo, Editori Riuniti, Roma 1991.
37
Un Keynesiano militante, come Federico Caffè, prima della sua misteriosa scomparsa, ha scritto un provocatorio
saggio, sostenendo che le posizioni sull’ineluttabilità della fine del Welfare State, costituivano una sorta di riedizione
del crollismo. I saggio è pubblicato in E. Fano, G. Marramao, S. Rodotà (a cura di), Trasformazione e crisi del Welfare
State, De Donato, Bari 1983.
38
Una stimolante riflessione al riguardo, precedente il rivolgimento del 1989, è stata compiuta da Marc Ferro in un
succinto saggio, Penser le Communisme, comparso nel volume collettaneo, Penser le XX siecle, a cura di A. Versaille,
Editions Complexe, Parigi 1990
39
Lo ha riconosciuto uno dei più noti studiosi dell’argomento. Cfr. R. M. Tittmus, Saggi sul Welfare State, Edizioni
Lavoro, Roma 1986.
40
Cfr. N. Timmins, The Five Giants, Fontana Press, Londra 1995.
36
servizio sanitario pubblico, il mitico National Health Service. Se si tiene conto della
contemporanea nazionalizzazione dei trasporti, di tutte le fonti energetiche e
dell’industria siderurgica, nonché dell’esistenza di un vasto patrimonio abitativo
pubblico, si comprende come la Gran Bretagna, più che la periferica Scandinavia e la
lontana Nuova Zelanda, nel Secondo dopoguerra, sia diventata il punto di riferimento
obbligato, quasi un modello insuperabile di Welfare State41. Anche se – lo ha notato
uno storico inglese, autore della più nota sintesi sulla storia del Novecento, Eric
Hobsbawm – in Inghilterra, a differenza di quanto avvenne in altri paesi, come la
Francia, l’Italia e la stessa Germania federale, non fece presa l’ideologia e la pratica
pianificatrice e programmatrice42.
La Gran Bretagna è stata anche il paese dove, anticipatamente, con il passaggio dal
Welfare dell’austerità posbellica alle sfide della società opulenta, si sono manifestate
le derive dello Stato sociale con i suoi costi crescenti, i suoi effetti perversi sui conti
pubblici e la conseguente pressione fiscale. E’ il primo paese in cui, negli anni
Ottanta, con i governi della lady di ferro, Margaret Thatcher, si è pensato di ridare
efficienza e slancio al sistema produttivo attraverso le privatizzazioni e di uscire dalla
crisi fiscale con il ridimensionamento del sistema assistenziale e previdenziale.
Su questo terreno, nell’ultimo decennio del nostro secolo declinante, pur nel nuovo
contesto di prevalenti governi di centrosinistra in Europa, la politica avviata da
Margaret Thatcher continua ad essere nella sostanza perseguita, sia pure con
maggiore circospezione. Per intanto, già nei primi anni Settanta, il sociologo
americano O’Connor aveva dimostrato come la crisi fiscale dello Stato, con la
conseguente sempre più forte contraddizione tra le esigenze di accumulazione e
quelle di legittimazione, è presente in tutti i paesi a capitalismo maturo43.
Al di là delle storture dello Stato sociale-assistenziale, occorre tenere presente, per
comprendere i suoi costi crescenti, che il peculiare sviluppo demografico di questi
ultimi decenni, con l’innalzamento della vita media, con la drastica riduzione della
natalità, ma anche, in paesi come l’Italia, con la contrazione degli occupati, è
cresciuta enormemente la spesa per le pensioni e per l’assistenza sanitaria44. E’
maturata, inoltre, la consapevolezza della doverosità e della necessità di nuove
solidarietà: quella tra le generazioni di oggi e di domani, nonché quelle, strettamente
connesse, tra gli uomini e la natura, tra il Nord e il Sud del mondo.
In quest’ottica lo Stato sociale, che ha rappresentato una delle grandi conquiste di
civiltà dell’età contemporanea, va certamente ripensato, ma non per essere
smantellato, bensì per essere ulteriormente esteso e rilanciato, con l’intervento
generoso e previdente delle istituzioni pubbliche e il creativo self help, mutuo
soccorso, anche attraverso la valorizzazione delle potenzialità del terzo settore, dei
diretti interessati alla sua conservazione45.
41
Cfr. H. Heclo, Modern Social Politics in Britain and Sweden, Yale University Press, New Haven 1974.
E. Hobsbawm, Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995.
43
J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977.
44
Cfr. V. Cotesta (a cura di), Il Welfare italiano. Teorie, modelli e pratiche dei sistemi di solidarietà sociale, Donzelli,
Roma 1995.
45
Cfr. G. Esping-Andersen, Risposte alla crisi del Welfare State: ridurre o trasformare le politiche sociali, Angeli,
Milano 1986.
42