LIBERTA’ O MORTE
L’affondo penetrò con forza il semplice scudo di cuoio e le leggere vesti del Persiano. Dopo un urlo
disumano Eschilo estrasse la propria arma, allontanando con lo scudo il suo avversario, ormai
spacciato, e dirigendosi verso Cinegiro. Il valoroso oplita era completamente circondato dai nemici e
colpito ripetutamente dai loro coltelli e mazze, ma non si arrese di fronte a quello svantaggio,
menando fendenti a destra e a manca. Il cimiero azzurro dell’elmo di famiglia, un elmo che si diceva
avesse visto perfino la distruzione di Troia, sovrastava chiunque sulla piana. Eschilo scattò verso quel
cimiero con tutta la sua forza, ignorando il peso dell’armatura, ignorando le frecce e le lance e le lame
dei barbari che calpestavano violentemente la sua terra libera, ignorando il sangue che sgorgava dalle
sue ferite: doveva salvare suo fratello. Non era che a dieci metri dallo scontro quando udì un urlo
atroce di una voce troppo familiare. Il cimiero s’inginocchiò, sparendo tra i turbanti e gli stracci dei
Persiani. Un secondo gruppo di barbari rinforzò i ranghi intorno al cimiero, sfoderando altre armi e
colpendo ripetutamente in basso. Eschilo non riuscì più a vederci dalla rabbia. Scagliò la propria
lancia, trafiggendo almeno tre Persiani, ed estrasse dal fodero la sua spada di bronzo, anch’essa un
antico cimelio di famiglia. Si fiondò contro la fila di barbari e buttò a terra tutti i suoi avversari con
un singolo colpo di scudo, fiondandosi sui loro corpi ed uccidendoli selvaggiamente. Oramai nessuno
poteva più distinguere il suo sangue da quello dei suoi nemici, che ben presto ruppero la propria
formazione d’accerchiamento e batterono in ritirata spaventati dalla furia dell’oplita. Eschilo si tolse
l’elmo nel mezzo della battaglia, respirando a fatica. Conficcò la propria spada nel terreno e si
inginocchiò a terra. Il corpo completamente immobile di Cinegiro, con l’armatura di bronzo infranta
e la candida tunica ricoperta di sangue, giaceva sull’erba dorata di Maratona. Eschilo afferrò la testa
del fratello, appoggiandosela sui pettorali della corazza.
<< F-fratello…sei tu? Sei venuto a soccorrermi? >> Lo sguardo di Cinegiro diveniva sempre più
vuoto ad ogni respiro. Appoggiò una mano sulla guancia di Eschilo. << Devi scappare, fratello. I
Persiani torneranno con più uomini a finirmi, e tu non hai abbastanza forza per fronteggiarli tutti. >>
<< Come potrei abbandonarti? Tu avresti fatto lo stesso per me. Ce ne dobbiamo andare, devo portarti
via da questo Caos! >> Eschilo fece per trascinare il fratello, ma questi si puntò, afferrando una spalla
dell’oplita.
<< E’ troppo tardi, mi hanno ferito troppe volte…questi luridi bastardi barbari...combattono come i
cani, in branco, circondando il loro nemico e colpendolo solo alle spalle, perché hanno paura delle
nostre fauci. Ma noi siamo Leoni, Eschilo. A noi non spaventa niente e nessuno, tanto meno questi
sporchi invasori. >> Cinegiro tossì copiosamente del sangue. Trascinò la propria mano sull’elmo,
afferrando il cimiero e porgendolo al fratello. << Indossalo, Eschilo, e combatti anche per me. Non
fare in modo che quelle canaglie prendano il mio corpo. Non fare in modo che distruggano Atene,
che prendano la Grecia e che ci riducano in schiavitù. Non importa se sono dieci volte il nostro
numero. Loro non conoscono il sapore della libertà, non possono capire perché noi stiamo
combattendo, né potranno mai competere con il nostro ardore. >> Eschilo iniziò a piangere
disperatamente. Cinegiro gli sorrise, asciugandogli le lacrime. << Devi vivere, Eschilo. Dovrai
raccontare questa battaglia. Dovrai cantare della disfatta dei Persiani, dovrai cantare agli Elleni della
mia morte, così come Omero cantò la morte del valoroso Patroclo…fallo per me, fratello. Fallo per
la nostra terra. O si vive da uomini liberi, o si combatte fino alla morte. >> Cinegiro chiuse
solennemente le palpebre, e con un ultimo sussulto la vita abbandonò il suo corpo. I ricordi di
un’intera vita trascorsa tra i borghi ateniesi a riconcorrere cani randagi, a giocare alla guerra, ad
apprendere le conoscenze e le arti umane e a soffrire per i primi amori balenarono negli occhi del
fratello minore, in lacrime. Niente avrebbe più avuto lo stesso sapore di prima. Ma l’oplita non poteva
perdersi d’animo: il campo di battaglia non aveva posto per il lutto. Eschilo afferrò l’elmo e lo
indossò, alzandosi immediatamente in piedi. Vide in lontananza una nuova brigata di Persiani, dalle
tuniche e dalle armi completamente intonse. Con uno sguardo carico d’ira sollevò lo scudo ed afferrò
la lancia del fratello, ponendola di fronte a sé.
<< Fratelli greci! Non disperdiamoci! Questi cani combattono in modo disordinato e caotico,
pensando più alla propria salvezza che alla vittoria. Facciamogli vedere come un vero guerriero si
comporta sul campo di battaglia! Mostriamo loro le nostre fauci! >> Con quelle parole, i compagni
opliti vicino ad Eschilo si sbrigarono a finire i propri nemici e corsero subito da lui. Una ventina di
opliti distese le proprie lance verso il nemico e sollevò lo scudo, proteggendo il compagno alla propria
sinistra e formando l’arma più potente del mondo antico, la Falange Oplitica.
<< Opliti, resistete! >> La banda di barbari avanzò a velocità irregolare, sparpagliandosi ed
inciampando tra i cadaveri, sollevando un enorme polverone a causa della mole di soldati. La loro
carica s’infranse sugli scudi degli opliti come le onde impetuose del mare si sciolgono di fronte a
degli scogli inamovibili, venendo trapassati dalle lance o feriti dalle spade della seconda fila di opliti.
Decine e decine di Persiani morirono di fronte a quel muro di bronzo, non riuscendo neanche ad
aggirare i Greci per paura di venir colpiti dai dardi o dai proiettili della fanteria da tiro ateniese. Ben
presto l’intero battaglione di Persiani fu sgominato dai compagni di Eschilo, che poterono avanzare
ancora e ancora, conquistando lentamente ma costantemente ogni centimetro, riunendo qualunque
oplita disperso della piana. Nemmeno quando sentirono la terra tremare di fronte agli innumerevoli
zoccoli della cavalleria barbara Eschilo ed i suoi opliti si persero d’animo.
<< Ora, fratelli! Serrate i ranghi e voltatevi verso i loro cavalli! Li uccideremo tutti! >> Ma la carica
dei cavalieri fu decisamente più violenta e difficile da fronteggiare rispetto a quella della fanteria
comune. I ranghi si spezzarono in più punti, la cavalleria penetrò nel profondo della formazione,
andando perfino a mietere vittime tra la fanteria da tiro, e ben presto tutti gli sforzi di Eschilo nel
riunire i propri compagni risultarono vani. L’oplita stava tentando di disarcionare un cavaliere quando
il suo cavallo lo calciò violentemente allo stomaco, buttandolo a terra. Un fischio terribile
rimbombava tra il metallo dell’elmo di Cinegiro, e la vista del soldato greco si fece nebbiosa. Tentò
di rialzarsi aiutandosi con lo scudo ed osservò il terreno in cerca della sua arma. Il cavaliere persiano
scese dal cavallo e ributtò a terra con un violento manrovescio Eschilo. Puntò la sua spada ricurva
sulla gola del soldato greco, guardandolo dall’alto in basso.
<< Perché? >> gli domandò il Persiano, balbettando in greco ogni lettera della parola. << Perché
lottare così? Perché non vi arrendete e basta? >> Eschilo sputò del sangue, massaggiandosi il mento
e sfidando con lo sguardo il Persiano.
<< Tu non faresti lo stesso, per la tua terra? >>
<< La mia terra è stata conquistata tanto tempo fa. La mia terra è il mio Re, che mi tratta con
gentilezza, mi ricompensa per i miei sforzi e mi offre una casa per me e la mia famiglia. Perché lottate
così selvaggiamente se con una resa potrete ottenere tutto ciò? >>
<< Che senso ha avere una mente che deve pensare ciò che qualcun altro le impone? Che senso ha
abitare e coltivare una terra che non mi appartiene? Che senso ha combattere in una guerra che non
mi riguarda per volere di un “re”? Che senso ha vivere una vita che non è mia?! >> Il cavaliere
persiano scosse la testa, seccato a dir poco dalle parole di Eschilo.
<< Voi Elleni e la vostra filosofia…non capite che siete solo degli ipocriti? Anche voi avete schiavi.
Anche voi costringete i poveri ed i prigionieri di guerra a servirvi e a pensare e a fare qualunque cosa
voi diciate loro. La vostra libertà vi mette spesso l’uno contro l’altro, fa nascere conflitti e dispute tra
le vostre stesse Città…se vi arrenderete a Dario tutto questo finirà. Avrete la pace nella vostra terra.
Il mio re vi vuole servire e riverire qualora accettaste una resa. Quindi smettetela di lottare, ed
inginocchiatevi a noi. Non avete motivo per lottare. >> Il cuore di Eschilo si spezzò, udendo quelle
parole. Il discorso del Persiano non aveva tutti i torti. Anche i Greci avevano praticato, fin dagli albori
del mondo, la schiavitù. Anche in Grecia c’erano padroni e schiavi. Qual era la differenza tra i due
popoli? Eschilo stava per crollare ed inginocchiarsi ai piedi del cavaliere, quando un ricordo gli
balenò in mente, come un fulmine in una notte tempestosa che si abbatte su di un albero isolato,
incendiandolo ed illuminando tutto il cielo. Si ricordò di quando suo padre lo portò ad assistere ad
un’Olimpiade, assieme a Cinegiro. Eschilo era molto piccolo e pensava di non ricordarsi di un evento
simile ma qualcosa, nel caos della battaglia, agì sulla sua memoria. Si ricordò di suo padre che
salutava ed abbracciava dei Greci che non provenivano da Atene, ma che anzi erano di altre Città al
tempo nemiche. Si ricordò di come numerosi aedi e poeti cantarono tutti insieme inni alla pace e alla
concordia e alla gioia dell’essere Elleni. Si ricordò, in quel viaggio, che tutti quanti erano felici e
spensierati, e che tutti quanti gioivano della compagnia di ogni Greco. Il ricordo finì, e la sua vista
riacquistò lucidità. Vide numerosissimi Greci combattere strenuamente per difendere la propria terra.
Vide gli uomini che avevano perso la propria arma combattere con le unghie e con i denti, con una
furia negli occhi incontenibile. Fu allora che capì.
<< Ti sbagli, barbaro. Noi non siamo come voi. I nostri schiavi avranno pur sempre perso la propria
cittadinanza, ma nelle loro vene scorre il sangue della Grecia, i loro cuori battono al ritmo di questa
terra, e il loro spirito è Greco. Guardali, anche loro combattono in questa battaglia, anche loro stanno
versando il proprio sangue per questa causa, benché siano schiavi. Perché è questo ciò che noi Elleni
facciamo: potremmo pure starci ad azzannare alla gola e a farci la guerra per ogni singola ragione,
ma quando dobbiamo combattere per difendere la nostra identità ed il nostro onore, per difendere la
nostra libertà, allora ci ergiamo come un solo uomo, insieme, mettendo da parte ogni diversità. Perché
sanno, perché tutti noi sappiamo, che se voi vincerete questa battaglia allora non saranno più schiavi
greci, ma sudditi persiani, così come anche noi uomini liberi! E questo noi non lo permetteremo mai.
Io non lo permetterò mai! >> Eschilo afferrò un sasso con la mano destra, mentre deviò e strinse
saldamente la spada del Persiano con la sinistra. Conficcò violentemente la pietra nella tempia
dell’avversario, uccidendolo sul colpo. Chiuse la mano insanguinata e soppresse il dolore,
impugnando poi la spada e puntando ad altri cavalieri persiani. << O si vive da uomini liberi, o si
combatte fino alla morte. >> disse a sé stesso prima di caricare.
Dieci anni dopo
Aminia era pallido in viso, più per il mal di mare che per l’ansia della battaglia. Fortunatamente si
trovava attaccato al parapetto della trireme, per cui poteva sempre sporgersi ogni volta che il pasto
antecedente alla partenza gli risaliva l’esofago. Udì qualcuno dietro di lui ridere della sua condizione.
<< Ehi, per caso hai qualche problema, Tebano? >>
<< Sicuramente ne ho molti meno di te. Non ho mai visto un Ateniese soffrire di mal di mare. >>
<< Ripetilo ancora, se hai il coraggio, figlio di una sporca etera! >> Aminia stava per saltare addosso
al Tebano, quando la mano salda di Eschilo lo afferrò per la spalla e lo fermò. Si voltò, col suo cimiero
azzurro che torreggiava tra gli altri elmi di bronzo, e guardò in faccia il Tebano.
<< Chiedo scusa a nome di mio fratello minore per il suo comportamento. E’ solamente agitato per
la battaglia incombente. >> Il Tebano mise da parte la sua aria di superiorità e chinò la testa.
<< Anch’io voglio chiedervi scusa, Eschilo. Ho paura di non riuscire a rivedere la mia terra. >>
<< Come tutti noi, fratello. Questa battaglia andrà bene, non preoccuparti. Noi Elleni non abbiamo
rivali sul mare. >> Aminia guardò storto il Tebano, per poi alla fine cedere e accennare a delle scuse.
<< Non c’era bisogno che intervenissi, Eschilo. So cavarmela da solo. >> Il maggiore ridacchiò,
accarezzandosi la barba.
<< Di questo non ho dubbi, Aminia. Ma i nostri fratelli greci non sono il nemico, questo devi saperlo
bene. Non è saggio litigare e rovinare i rapporti con una persona che potrebbe salvarti sul campo di
battaglia. >> Aminia si sporse dal parapetto, osservando l’immensa flotta di navi persiane navigare
nelle acque di Salamina. Deglutì.
<< Fratello…come sei riuscito a trovare il coraggio di fronteggiare tutti quei Persiani dieci anni fa, a
Maratona? Non hai avuto paura? >>
<< Certo che ho avuto paura. Ma la voglia di salvare la mia patria era più grande. >>
<< Non so se sarò in grado di ricoprirmi di onori come avete fatto tu e Cinegiro. Non sono un bravo
oplita come voi. Potrei coprirmi di vergogna, là fuori…scappare, forse…>> Eschilo si voltò verso
suo fratello, afferrandogli entrambe le spalle e sorridendogli.
<< No, Aminia. Tu non scapperai. E sai perché? Perché scappa chi non ha abbastanza motivazione,
scappa chi non ha niente per cui lottare. Noi abbiamo la nostra terra da difendere. Noi abbiamo le
nostre famiglie. Noi abbiamo la nostra libertà. Noi non scapperemo mai di fronte al pericolo, Aminia.
Non quando siamo uniti come un sol popolo, oggi e come dieci anni fa. >> Il minore annuì deciso,
scacciando la paura dalla sua mente.
<< Mi hai convinto, fratello. Scacciamo questi barbari dalle nostre acque! >>
<< Questo è lo spirito. Ora ricorda: stammi vicino, e se la nave dovesse incendiarsi salta verso la nave
nemica, così impareranno ad attaccarci per primi…>>
Di Riccardo Liberati