LE SOLUZIONI E LE LORO PROPRIETÀ – GLI ACIDI E LE BASI Una soluzione è una miscela omogenea di due o più sostanze, la cui separazione è realizzabile mediante cambiamenti di stato fisico; la sostanza presente in quantità maggiore è detta solvente, quella in quantità minore è definita soluto. C’è nessuno? Si ha una soluzione indipendentemente dallo stato fisico proprio, in condizioni normali, di ciascun componente, purché le particelle siano uniformemente disperse e le loro dimensioni non superino l’ordine di grandezza molecolare (d < 1 nm). La caratteristica essenziale delle soluzioni è rappresentata dal variare continuo delle proprietà al variare delle proporzioni fra gli elementi che le compongono, entro certi limiti più o meno ampi, ma definiti. Considerando i tre stati di aggregazione della materia (solido, liquido e gassoso) possono originarsi soluzioni fra due elementi che si trovino in uno qualsiasi di tali stati (soluzioni gas – gas, liquido – liquido, solido - solido, gas – liquido, gas – solido e solido – liquido), anche se le più comuni si formano fra un solido ed un liquido o fra due liquidi. I gas sono miscibili tra loro in ogni proporzione, dando luogo alla formazione di sistemi omogenei (es. l’aria che noi tutti respiriamo). Vere e proprie soluzioni solide sono rappresentate dalle leghe metalliche. Nel linguaggio quotidiano, e non solo, il termine soluzione viene utilizzato per indicare un sistema costituito da un solvente liquido e da un soluto solido, liquido o gassoso. Le soluzioni di un solido in un liquido sono sempre possibili, pur di scegliere l’opportuna sostanza liquida. La soluzione che si forma ha normalmente un volume minore della somma dei volumi dei singoli componenti e comporta un lavoro di disgregazione molecolare con relativo scambio di energia tra le diverse componenti del sistema. Affinché si formi una soluzione, devono essere vinte le forze di attrazione tra le molecole del soluto e quelle fra le molecole del solvente: tutto ciò richiede energia. Quando il soluto si scioglie, si instaurano nuove forze di attrazione tra le molecole del soluto e quelle del solvente: questo processo libera energia. La differenza di energia tra i passaggi appena descritti viene definita calore di soluzione. In base al valore di questo parametro, la formazione di una soluzione può avvenire con cessione di energia (NaOH) oppure con assorbimento di energia (NH4NO3). Il processo mediante il quale gli ioni o le molecole di un soluto sono circondati dalle molecole del solvente è detto solvatazione. Se il solvente è l’acqua, la solvatazione è definita idratazione. A seconda delle loro proprietà e della loro struttura, le sostanze si possono sciogliere nell’acqua attraverso tre meccanismi: per dissociazione, per solubilizzazione e per ionizzazione. Fattori che influenzano la velocità di solvatazione Così come per la velocità di reazione, anche la velocità di solvatazione dipende dalla frequenza e dall’energia delle collisioni che avvengono tra le particelle: in questo caso, tra le particelle del soluto e quelle del solvente. I fattori che influenzano la velocità di solvatazione sono: L’area superficiale del soluto: quanto maggiore è l’area superficiale che un soluto possiede, tanto più numerose saranno le collisioni tra le sue particelle e quelle del solvente. Poiché la solvatazione è un processo che avviene sulla superficie dei soluti, la stessa quantità di sostanza può essere solvatata più velocemente se la riduciamo in parti molto piccole piuttosto che in un unico campione di grosse dimensioni (Es. zucchero in polvere vs zolletta di zucchero, sale grosso vs sale fino). L’agitazione della soluzione: mescolando continuamente, aumentiamo l’energia cinetica delle particelle del soluto e del solvente e, di conseguenza, le collisioni dovute ai moti caotici. Tutto ciò facilita la solvatazione dei solidi nei liquidi, mentre diminuisce quella dei gas, i quali, a causa dell’agitazione, hanno l’energia sufficiente per allontanarsi dalla soluzione. La temperatura alla quale si forma la soluzione: un aumento della temperatura ha lo stesso effetto dell’agitazione meccanica. SOLUBILITÀ E CONCENTRAZIONE La solubilità di una sostanza in un dato solvente è definita come la quantità massima (espressa in grammi o moli) che si scioglie, in condizioni di equilibrio con il corpo di fondo (particelle disperse, sospese, non sciolte), in un volume definito di solvente ad una data temperatura. Spesso ci si riferisce alla solubilità come la massima quantità di soluto che si può sciogliere in 100 g di un dato solvente ad una data temperatura. Conoscere la solubilità di una sostanza ci aiuta a classificare le soluzioni in base a quanto soluto contengono. Le soluzioni, a seconda delle quantità di soluto, sono classificate come sature, insature o sovrassature. Una soluzione si dice: Satura: se, ad una data temperatura ed in una certa quantità di solvente, non è possibile sciogliere ulteriore soluto. Quando una soluzione è satura, se aggiungiamo altro soluto questo non si scioglie, ma si deposita come corpo di fondo. Insatura: se, ad una data temperatura ed in una certa quantità di solvente, la quantità di soluto disciolto è minore della quantità necessaria affinché la soluzione sia satura. In questo caso possiamo aggiunger ulteriore soluto fino al raggiungimento della concentrazione di saturazione. Sovrassatura: se, ad una data temperatura ed in una certa quantità di solvente, la quantità di soluto disciolto è maggiore della quantità necessaria affinché la soluzione sia satura. Le soluzioni sovrassature sono instabili e tendono a raggiungere lo stato di soluzioni sature separando soluto allo stato puro. La solubilità di un certo soluto in un certo solvente dipende, oltre che dalle caratteristiche delle due sostanze, anche dalla temperatura e dalla pressione. Proprietà del soluto e del solvente La celebre frase "Il simile scioglie il simile" attribuita agli alchimisti medievali trova spiegazione nella polarità ed apolarità delle molecole (ma vi sono anche i casi di complessazione, che richiedono trattazione a parte). Sostanzialmente un soluto è tanto più solubile in un solvente quanto più sono forti i legami intermolecolari che forma con le molecole del solvente. Se i legami sono più deboli di quelli che il solvente forma con sé stesso esso sarà poco solubile o insolubile, mentre se sono più forti sarà solubile, molto solubile o addirittura infinitamente solubile (ossia solubile in qualunque proporzione). Da ciò consegue che, in linea di principio, sostanze polari saranno solubili in sostanze polari poiché i legami intermolecolari solvente - soluto sono più forti (o di forza comparabile) dei legami solvente - solvente e soluto - soluto. Lo stesso vale per le sostanze apolari. Quindi la condizione sufficiente, in prima approssimazione, per determinare la solubilità di un soluto in un solvente è che i legami soluto - solvente non siano più deboli di quelli che il soluto od il solvente formano con sé stessi. Se, per esempio, abbiamo un sale ad alta polarità si potrà pensare che esso sarà solubile in acqua, dato che anche questo solvente è polare. Ma se i legami intermolecolari che il sale forma fra le sue molecole sono molto forti, ed in particolare più forti di quello che forma col solvente, esso rimarrà legato con sé stesso (e qui si potrebbe considerare le probabilità relative che i legami di diversa forza hanno di rompersi). Esistono anche molecole che presentano caratteristiche sia polari che apolari (è il caso degli eteri) e che possono essere pertanto solubili in una certa misura sia in sostanze polari che in sostanze apolari. Aumento della temperatura In generale, all'aumento della temperatura aumenta la solubilità delle sostanze solide, mentre diminuisce quella delle sostanze gassose. Basti pensare ai mari tropicali, più caldi, che sono più "salati" di quelli glaciali, oppure alle diverse quantità di zucchero che si sciolgono nello stesso volume di acqua a diverse temperature. Non tutte le sostanze, però, hanno comportamenti analoghi riguardo alla dipendenza della solubilità dalla temperatura: ad esempio, la solubilità del carbonato di litio in acqua diminuisce con l'aumentare della temperatura. Aumento della pressione L'aumento di pressione provoca un aumento della solubilità, ma solamente nei gas. Secondo la legge di Henry, infatti, la quantità di un gas che si scioglie in un liquido è proporzionale alla pressione parziale del gas a temperatura costante. Nelle bevande gassate fino a quando la bottiglia è sigillata la maggior pressione interna permette all'anidride di rimanere in soluzione, quando la bottiglia viene aperta la diminuzione di pressione comporta la rapida gassificazione dell'anidride disciolta con la conseguente formazione delle bollicine. La concentrazione di una soluzione è la quantità di soluto sciolto in una determinata quantità di solvente. La concentrazione può essere espressa in diversi modi: percentuale in volume (% V/V) = (volume di soluto/volume di soluzione) 100 perc in massa su volume (% m/V) = (volume di soluto/volume di soluzione) 100 percentuale in massa (% m/m) = (massa di soluto/massa di soluzione) 100 molarità (M) = moli di soluto/volume di soluzione (L) PROPRIETÀ COLLIGATIVE DELLE SOLUZIONI Una soluzione molto diluita, nella quale non si manifestano interazioni fra molecole di soluto e molecole di solvente, si dice soluzione ideale; in questo caso si assume che il mescolarsi delle molecole di soluto e di solvente avvenga senza cambiamenti di volume e di contenuto termico. Per le soluzioni ideali valgono le cosiddette proprietà colligative: proprietà fisiche di una soluzione che non dipendono dalla natura del soluto ma solo dal numero delle particelle presenti nella soluzione. Sono proprietà colligative di una soluzione l’abbassamento relativo della tensione di vapore, l’innalzamento ebullioscopico, l’abbassamento crioscopico e la pressione osmotica (Nei gas ideali sono proprietà colligative la pressione ed il volume). Le leggi che regolano queste proprietà sono valide per tutte quelle soluzioni diluite, in cui siano presenti soluti non volatili che non si dissociano in ioni e non danno soluzioni solide con i solventi; spesso, però, sono anche utilizzate per ottenere risultati approssimati relativi a soluzioni reali, le quali vengono confrontate con le prime per valutarne il maggiore o minore scostamento dalle leggi valide nel caso teorico. La legge di Rault Anche in una soluzione ideale, la tensione di vapore (La pressione esercitata dalla fase di vapore in equilibrio con la fase condensata) non è nulla e cambia al variare della composizione della soluzione a temperatura costante. Indichiamo la frazione molare del solvente con X1 e con P°1 la tensione di vapore del solvente puro alla temperatura dell’esperimento. Quando X1 tende a zero (La miscela è costituita quasi soltanto da soluto puro), la tensione di vapore del solvente P1 deve anch’essa tendere a zero, poiché il solvente è praticamente assente. Dunque, al variare di X 1 da 1 (solvente puro) a 0 (soluto puro), la tensione di vapore del solvente passa da P°1 a 0. Il chimico francese Francois Marie Rault ha trovato che, per alcune soluzioni, il grafico della tensione di vapore del solvente in funzione della frazione molare del solvente stesso è approssimabile ad una retta, rappresentata dall’equazione: P1 = X1 P°1 che è nota come legge di Rault. Le soluzioni che vi obbediscono sono dette soluzioni ideali, mentre quelle che si discostano da essa sono definite soluzioni non ideali. Queste ultime possono mostrare sia deviazioni in positivo (Hanno tensioni di vapore maggiori di quelle previste dalla legge) che in negativo (Con tensioni di vapore inferiori a quelle teoriche). Le deviazioni negative sono dovute al fatto che le molecole di solvente e di soluto si attraggono con particolare forza, ostacolando il passaggio alla fase di vapore del solvente; le deviazioni positive derivano da cause opposte: una ridotta attrazione tra soluto e solvente. La legge di Rault è alla base dell’interpretazione di tutte e quattro le proprietà colligative. Abbassamento della tensione di vapore della soluzione rispetto al solvente puro Secondo la legge di Rault, la tensione di vapore P di una soluzione ideale contenete le sostanze 1, 2, 3, 4 ..., ad una data temperatura, è data dalla relazione: P = X1P°1 + X2P°2 + X3P°3 + X4P°4 + ... cioè dalla somma dei prodotti delle tensioni parziali delle sostanze pure per le rispettive frazioni molari. Nel caso di una soluzione contenente un unico soluto non volatile la tensione di vapore coincide con quella del solvente: P1 = X1P°1 Poiché , per una miscela a due componenti X1 = 1 – X2, la legge di Rault può anche essere scritta come: ΔP1 = P1 - P°1 = X1P°1 - P°1 = P°1(X1 – 1) = -X2 P°1 dalla quale risulta che la variazione della tensione di vapore è proporzionale alla frazione molare del soluto ed il segno negativo indica un abbassamento della tensione di vapore. Nelle soluzioni diluite, infatti, la tensione di vapore è sempre inferiore a quella del solvente puro. Innalzamento ebullioscopico La temperatura di ebollizione di un liquido puro o di una soluzione è la temperatura alla quale la tensione di vapore del liquido uguaglia la pressione esterna. Dal momento che l’aggiunta di un soluto ad un solvente puro ne abbassa la tensione di vapore, la temperatura di ebollizione di una soluzione risulterà maggiore rispetto a quella del solvente puro. Questo fenomeno viene definito innalzamento ebullioscopico ed è proporzionale alla concentrazione molale (m = moli di soluto/kg di solvente) del soluto: ΔTe = kem ke è una costante che dipende esclusivamente dal solvente. Esso può essere spiegato anche attraverso la maggiore energia richiesta per vincere le interazioni che si instaurano tra soluto e solvente e che si vanno ad aggiungere a quelle presenti nel solvente puro tra le sue stesse molecole. Abbassamento crioscopico La temperatura di solidificazione o di fusione è la temperatura alla quale la fase solida e quella liquida coesistono, il che equivale a dire che le tensioni di vapore delle due fasi devono essere uguali al punto di fusione/solidificazione. Dal momento che l’aggiunta di un soluto ad un solvente puro ne abbassa la tensione di vapore, anche la temperatura di solidificazione/fusione di una soluzione risulterà inferiore rispetto a quella del solvente puro. Questo fenomeno viene definito abbassamento crioscopico ed è proporzionale alla concentrazione molale (m = moli di soluto/kg di solvente) del soluto: ΔTc = kcm Kc è una costante che dipende esclusivamente dal solvente. Esso può essere spiegato come la difficoltà che il solvente incontra a trasformarsi in solido a causa delle interazioni tra soluto e solvente, che competono con l’instaurarsi di quelle tra le molecole del solvente e che sono necessarie perché avvenga il passaggio di stato. Pressione osmotica Quando una soluzione è separata dal suo solvente mediante una membrana semipermeabile (Una membrana che permette il passaggio delle molecole di solvente ma non le molecole o gli ioni del soluto) si verifica un flusso, attraverso la membrana, di molecole di solvente verso la soluzione. Questo fenomeno si chiama osmosi. La pressione che deve essere esercitata sulla soluzione per impedire il passaggio del solvente nella soluzione si chiama pressione osmotica. Nel 1887 Jacobus Van’t Hoff scopri una relazione tra la pressione osmotica π, la concentrazione c e la temperatura assoluta T: π = cRT da cui πV = nRT IL PRODOTTO IONICO DELL’ACQUA ED IL pH DELLE SOLUZIONI ACQUOSE Tutte le sostanze che, sciolte in acqua, formano ioni, sia per dissociazione sia per ionizzazione, sono definite elettroliti ed, a causa della presenza di ioni (cioè entità chimiche dotate di carica), le soluzioni acquose di elettroliti conducono la corrente elettrica. Gli elettroliti sono classificati in forti e deboli a seconda che siano molto o poco dissociati e la costante che regola il loro equilibrio è detta costante di dissociazione. Allo stato puro l’acqua presenta una bassissima conducibilità elettrica, sintomo della presenza di ioni al suo interno seppur in piccolissima quantità. L’acqua, infatti, è caratterizzata dal seguente equilibrio di dissociazione H2 O H+(aq) + OH-(aq) in cui viene mostrato come le molecole di acqua si dissocino in ioni idrogeno (H +) ed idrossido, od ossidrile, (OH-). Questa espressione, però, non è del tutto corretta, in quanto lo ione idrossido non può esistere libero in presenza di acqua, poiché l’acqua lo cattura per formare lo ione idronio H3O+: 2 H2O H3O+(aq) + OH-(aq) Per ragioni di semplicità, spesso, si utilizza la prima espressione, sebbene imprecisa. La costante di equilibrio per il processo di dissociazione dell’acqua è data dall’equazione: Keq = [H3O+] [OH-] / [H2O]2 Per le reazioni acquose, dato che la frazione di molecole d'acqua che all'equilibrio è allo stato dissociato è piccolissima (soltanto due molecole di acqua su un miliardo), si considera costante (a 25°C e 1 atm) la concentrazione delle molecole di acqua non ionizzate. Quindi, si può semplificare l'equazione precedente moltiplicando entrambi i membri per tale concentrazione ed ottenere una costante di equilibrio che va sotto il nome di prodotto ionico dell'acqua (o costante di ionizzazione o costante di dissociazione o costante di semiionizzazione), ed è espresso dalla relazione: Kw = Keq [H2O]2 = [H3O+] [OH-] = 1,0 10-14 Il prodotto ionico dell’acqua è costante in tutte le soluzioni acquose. Questo significa che, in una soluzione acquosa, all’aumentare della concentrazione degli ioni H 3O+, si ha una diminuzione degli ioni OH- e viceversa. Così, nota la concentrazione degli ioni H 3O+ presenti in una soluzione acquosa è sempre possibile calcolare la concentrazione degli ioni OH -, e viceversa ovviamente, dalla relazione [H3O+] [OH-] = 1,0 10-14. Concludendo, possiamo affermare che: in ogni soluzione acquosa esistono sempre concentrazioni di ioni [H3O+] ed [OH-] tali da conservare il prodotto ionico dell’acqua. Diremo inoltre che una soluzione acquosa è: neutra se le concentrazioni di [H3O+] ed [OH-] sono uguali ([H3O+] = [OH-] = 1,0 10-7); acida se la concentrazione degli ioni [H3O+] è maggiore di quella degli ioni [OH-]; basica se la concentrazione degli ioni [H3O+] è minore di quella degli ioni [OH-]. Poiché la concentrazione degli ioni H 3O+ espressa mediante le potenze del 10 è scomoda da usare, i chimici preferiscono impiegare una scala logaritmica, nota come scala del pH, che assume valori da 0 a 14: pH = -log10 [H3O+] Poiché il prodotto ionico dell’acqua deve rimanere costante, minore è il valore del pH, maggiore sarà la concentrazione degli ioni H3O+ presenti in soluzione; viceversa, maggiore è il valore del pH, minore sarà la concentrazione degli ioni H 3O+ presenti in soluzione. Questi ragionamenti possono essere fatti al contrario utilizzando la misura della concentrazione degli ioni OH-. Da quanto appena illustrato ricaviamo che le soluzioni acquose possono essere definite: neutre se il valore del pH = 7; acide se il valore del pH < 7; basiche se il valore del pH > 7. L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI ACIDO E DI BASE Acidi e basi sono classi di composti chimici strettamente correlate che combinandosi danno origine ai sali. Precedentemente abbiamo definito l’acidità e la basicità facendo riferimento a misure sperimentali relative alla concentrazione degli ioni idronio ed ossidrile ([H 3O+] e [OH-]); vediamo ora come, a livello teorico, si è evoluto il concetto di acido e di base. Teoria acido – base di Arrhenius La prima e più semplice definizione, sebbene incompleta, stabilisce che: gli acidi siano sostanze che in soluzione acquosa si dissocino liberando ioni idrogeno (H+); le basi siano sostanze che dissociandosi liberano ioni ossidrile (OH-). Questa distinzione risale al chimico svedese S. A. Arrhenius (1859 – 1927), che la formulò a conclusione di studi riguardanti la dissociazione elettrolitica (cioè la scissione in ioni) dei composti chimici in soluzione acquosa. Essa fà riferimento all’acqua ed al suo equilibrio di dissociazione, descritto nel paragrafo precedente. L’acqua viene considerata neutra e debolmente dissociata; la distinzione tra acidi e basi risulta direttamente legata alla determinazione del prodotto ionico della soluzione acquosa della sostanza in esame (il pH è compreso tra 0 e 7 per gli acidi, da 7 a 14 per le basi). Questa teoria spiega come si possa ottenere una soluzione neutra mescolando in opportune proporzioni un acido con una base. Spiega inoltre l’acidità degli acidi e la basicità degli idrossidi in base alle reazioni di dissociazione: HCl → H+ + Cl- NaOH → Na+ + OH- H2SO4 → 2 H+ + SO42- Mg(OH)2 → Mg2+ + 2 OH- Ma non spiega affatto la basicità dell’ammoniaca (NH 3), che non avendo ossigeno non può liberare ioni OH-, né l’acidità del diossido di carbonio (CO 2), che non avendo idrogeno non può liberare ioni H+. in seguito, queste osservazioni furono spiegate come conseguenza delle reazioni del composto acido o basico con l’acqua, ma tale spiegazione era valida solo se il solvente era l’acqua. Secondo l’entità maggiore o minore di dissociazione/ionizzazione in soluzione acquosa, acidi e basi possono essere distinti in forti e deboli, rispettivamente: acidi e basi forti si presentano in soluzione acquosa completamente, o quasi, dissociati; acidi e basi deboli sono presenti in soluzione acquosa prevalentemente indissociati. Gli acidi si distinguono in acidi ossigenati (contenenti ossigeno: es. HNO3) ed idracidi (privi di ossigeno: es. HCl). In base al numero di atomi di idrogeno ionizzabili, si possono dividere in monoprotici (es. HClO) e poliprotici (H2SO4 è diprotico, mentre H3PO4 è triprotico). Analogamente le basi si possono classificare secondo il numero di OH - che rilasciano in soluzione. Le titolazioni Una titolazione è un’operazione chimica effettuata nell’analisi quantitativa allo scopo di determinare la quantità di sostanza contenuta in una soluzione (concentrazione o titolo). Consiste nell’aggiungere alla soluzione con concentrazione incognita del componente che si vuole dosare, una soluzione a concentrazione nota di un opportuno reattivo, scelto in modo che reagisca stechiometricamente e rapidamente con la sostanza da dosare e la sua aggiunta cessi esattamente alla fine della reazione, nel cosiddetto punto di equivalenza (volume di soluzione titolante che contiene esattamente lo stesso numero di grammi equivalenti della soluzione di cui vogliamo individuare la concentrazione), spesso reso più evidente dall’impiego di indicatori (sostanze in grado di subire una reazione che comporta un notevole cambiamento di colore, viraggio, facilmente apprezzabile dall’analista, non appena viene raggiunto il punto di equivalenza). Dalla conoscenza della reazione che ha avuto luogo e misurando il volume di reattivo aggiunto, si risale con facilità, attraverso il calcolo stechiometrico, alla quantità di sostanza da dosare. Poiché, in definitiva, è necessario compiere la misura basandosi su volumi, tutta la branca dell’analisi chimica che si basa sulle titolazioni prende il nome di volumetria. REAZIONI CHIMICHE ED EQUAZIONI CHIMICHE Una reazione chimica è un processo di trasformazione della materia nella quale gli atomi, pur restando inalterati, si legano o si distribuiscono in modo diverso da quello originario, formando così sostanze diverse da quelle di partenza. In una reazione chimica, le sostanze presenti prima che la reazione abbia luogo sono chiamate reagenti, mentre quelle che si formano sono dette prodotti. In generale, si dice che una sostanza sta partecipando ad una reazione chimica quando si trasforma in un’altra. Per poter capire che cosa sia una reazione chimica, prima di tutto dobbiamo essere in grado di descriverla. Una buona descrizione di una reazione chimica deve raccontare quali sostanze sono presenti prima della reazione e quali dopo. Ciò è reso possibile dall’impiego di simboli e di numeri che vengono ordinati come in un’equazione matematica, definita equazione chimica. Il primo ad utilizzare questo tipo di rappresentazione fu Antoine Lavoisier. Un’equazione chimica è una notazione utilizzata per descrivere una reazione chimica, fornendo una relazione tra le quantità delle sostanze che vi partecipano. Essa esprime il principio, o legge, di conservazione della massa: “Il numero di atomi o di moli delle sostanze che si trovano a sinistra del segno di uguaglianza deve essere uguale al numero di atomi o di moli che si trovano a destra.” Ciò equivale a dire che “In ogni procedimento chimico la quantità di materia prima e dopo il procedimento rimane la stessa.” Le reazioni chimiche vengono rappresentate mediante equazioni del tipo aA + bB cC + dD alla sinistra compaiono le sostanze (A, B) che prendono parte alla reazione (reagenti) ed alla destra le sostanze (C, D) che si formano nella reazione (prodotti); le lettere a, b, c, d indicano il numero di molecole o di atomi o di moli che prendono parte alla reazione e sono definite coefficienti stechiometrici; tra i reagenti ed i prodotti viene interposta una freccia ( ) o, più raramente un segno di uguale (=), indicante il verso di svolgimento della reazione; nel caso in cui le reazioni chimiche siano reversibili, possano cioè procedere in entrambi i versi, si interpongono due frecce ( ) tra reagenti e prodotti. Un’equazione chimica, in cui compaiono a sinistra del segno di reazione le formule dei reagenti ed a destra quelle dei prodotti, ha un significato qualitativo: indica cioè che i reagenti si trasformano, in determinate condizioni sperimentali, nei prodotti della reazione. Perché l’equazione chimica acquisti anche un significato quantitativo è necessario far precedere le formule chimiche dagli opportuni coefficienti stechiometrici, affinché sia rispettata la legge di conservazione della massa, cioè, l’equazione chimica deve essere bilanciata. Questo significa che i coefficienti stechiometrici devono essere tali che il numero di atomi di ciascun elemento sia lo stesso sia a destra sia a sinistra dell’equazione; essi, inoltre, devono essere numeri interi ed i più piccoli possibili; il rapporto tra di essi è definito rapporto stechiometrico. I coefficienti stechiometrici in una reazione chimica rappresentano il numero minimo di molecole che possono prendere parte alla reazione. Regole per bilanciare correttamente equazioni chimiche Esaminiamo, come esempio, la reazione di combustione del butano in presenza di ossigeno per formare il diossido di carbonio e l’acqua. Scrivere correttamente le formule molecolari dei reagenti e dei prodotti. CH3CH2CH2CH3 + O2 CO2 + H2O Assegnare 1 come coefficiente di una specie, preferibilmente a quella più complessa con il numero più alto di elementi (Il coefficiente unitario, generalmente, non viene indicato). 1CH3CH2CH2CH3 + O2 CO2 + H2O Identificare, in sequenza, gli elementi che appaiono in una sola specie di cui non è stato determinato il coefficiente e scegliere il valore che bilancia il numero di atomi (moli di atomi) di quell’elemento; proseguire fino ad identificare tutti i coefficienti. 1CH3CH2CH2CH3 + O2 1CH3CH2CH2CH3 + O2 1CH3CH2CH2CH3 + 13/2O2 4CO2 + H2O (bilanciamento degli atomi di carbonio) 4CO2 + 5H2O (bilanciamento degli atomi di idrogeno) 4CO2 + 5H2O (bilanciamento degli atomi di ossigeno) Moltiplicare tutta l’equazione per il più piccolo numero intero che elimina ogni coefficiente frazionario. 2CH3CH2CH2CH3 + 13O2 8CO2 + 10H2O Durante il bilanciamento dei coefficienti stechiometrici, non bisogna mai modificare gli indici di formula dei composti (I pedici ai simboli degli elementi), perché cambiarli significherebbe cambiare l’identità dei reagenti e dei prodotti. Di seguito sono elencati alcuni esempi di bilanciamento di equazioni chimiche: Li + O2 Li2O Al + O2 Al2O3 Al2O3 + H2O Al(OH)3 4Li + O2 2Li2O 4Al + 3O2 2Al2O3 Al2O3 + 3H2O 2Al(OH)3 LA STRUTTURA ATOMICA L’atomo [dal greco ἄτομος - àtomos -, indivisibile, unione di ἄ - a – (alfa privativo) + τομή - tomé – (divisione)] è la più piccola parte di un elemento che conserva le proprietà chimiche dell’elemento stesso. Allo stato attuale della conoscenza, l’atomo rappresenta l’unità base della materia ed è costituito da un nucleo denso e carico positivamente, posto al centro, circondato da una nuvola di elettroni carichi negativamente. Tutte le sostanze sono costituite da atomi che si uniscono tra di loro in molecole; la straordinaria varietà della materia è dovuta alla combinazione di poche specie atomiche (gli elementi conosciuti sono 118). Il concetto di atomo come entità indivisibile, da cui il nome, venne elaborato nell’antica Grecia in ambito filosofico. I filosofi greci proposero due teorie per spiegare la materia su scala microscopica: Secondo Empedocle (Agrigento, 490 a.C. circa – 430 a.C. circa), Platone (Atene, 428 a.C. – Atene, 348 a.C.) ed Aristotele (Stagira, 384 a.C. – Calcide, 322 a.C.), gli elementi (fuoco, aria, acqua, terra), di cui è costituita la materia, sono delle qualità continue che si mescolano, con l'aiuto delle forze dell'Amore e dell'Odio, per formare le sostanze con le loro proprietà. Questo punto di vista considera la materia divisibile senza limiti. L’altro punto di vista, sostenuto dai filosofi Leucippo (Mileto, inizio-prima metà del V secolo a.C. – terzo quarto del V secolo a.C.), Democrito (Abdera, 460 a.C. – 360 a.C.) ed Epicuro (Samo, 341 a.C. – Atene, 271 a.C.) (definiti per tale motivo “atomisti”), ipotizza l’esistenza degli atomi come limite inferiore oltre il quale la materia non può essere suddivisa. Secondo questi filosofi esistono numerosi atomi, ciascuno con specifiche caratteristiche, in continuo movimento, dalla cui unione traggono origine la materia e la vita e dalla cui separazione deriva la degradazione della materia e la morte. I filosofi greci, tuttavia, rimasero fermi alla formulazione delle ipotesi senza procedere alla loro verifica sperimentale. Affinché vengano mossi i primi passi verso la comprensione della natura microscopica della materia bisogna attendere il XVIII ed il XIX secolo. Il vero progresso poté essere realizzato solo dopo che l’utilizzo della bilancia, per controllare le masse dei reagenti e dei prodotti di una reazione chimica, divenne una prassi comune, grazie al chimico francese Antoine Lavoisier (Parigi, 26 agosto 1743 – Parigi, 8 maggio 1794). Egli scaldò del mercurio in una beuta sigillata contenente anche dell’aria. Dopo alcuni giorni si era prodotta una sostanza rossa, l’ossido di mercurio (HgO). La massa del gas rimasto nel recipiente era minore ed esso non era in grado di sostenere una combustione o la vita: una candela accesa si spegneva e gli animali messi a contato con esso soffocavano. Oggi sappiamo che il gas residuo era azoto e che l’ossigeno presente nell’aria aveva reagito con il mercurio. Lavoisier prese una quantità accuratamente pesata della sostanza rossa e poi la scaldò. In seguito, pesò il mercurio liquido ed il gas che si era prodotto e riuscì a dimostrare che la somma delle loro masse era identica a quella dell’ossido iniziale. Dopo ulteriori esperimenti Lavoisier poté formulare la legge della conservazione della massa: “In ogni procedimento chimico la quantità di materia prima e dopo il procedimento rimane la stessa.” Ciò equivale a dire che “in una reazione chimica la massa non può essere né creata né distrutta”. Lavoisier fu anche il primo ad utilizzare un’equazione algebrica per rappresentare una reazione chimica. Nell’esempio sopra descritto abbiamo: 2HgO 2Hg + O2 Sempre un chimico francese, Joseph Proust (Angers, 26 settembre 1754 – Angers, 5 luglio 1826), formulò la fondamentale legge delle proporzioni definite: “In un dato composto chimico i rapporti in massa degli elementi di cui esso è costituito sono costanti, indipendentemente dall’origine del composto o dal modo di preparazione.” Questo è vero perché “quando due sostanze si combinano/reagiscono per formare un composto, le loro masse si combinano in proporzioni definite e costanti”. Proust giunse a questa legge osservando che quando si facevano reagire due sostanze, se una delle due era presente in eccesso, l’andamento della reazione non cambiava; la massa in eccesso non reagiva e si trovava alla fine della reazione, insieme al prodotto di reazione. Tale eccesso si formava solo quando uno dei due reagenti aveva reagito completamente. Da ciò egli stabilì che il rapporto tra le masse dei reagenti, detto rapporto di combinazione, dovesse essere costante indipendentemente dalle quantità iniziali dei reagenti stessi. Gli studi dello scienziato inglese John Dalton (Eaglesfield, 6 settembre 1766 – Manchester, 27 luglio 1844) fornirono l’evidenza sperimentale dell’esistenza degli atomi, così come avevano ipotizzato oltre duemila anni prima i filosofi greci definiti atomisti. Egli riuscì a dimostrare che le relazioni tra le masse osservate da Lavoisier e Proust potevano essere interpretate in modo semplice postulando l’esistenza degli atomi dei vari elementi. Nel 1808, egli pubblicò il testo “Un nuovo sistema di filosofia chimica”, all’interno del quale sono racchiusi i principi della teoria atomica della materia secondo Dalton: tutta la materia è costituita da particelle singole chiamate atomi che non possono essere suddivise in porzioni più piccole; tutti gli elementi sono composti da atomi; tutti gli atomi dello stesso elemento hanno la stessa massa e le stesse proprietà e gli atomi di elementi diversi hanno masse e proprietà diverse; i composti contengono atomi di uno o più elementi; in un particolare composto, gli atomi si combinano sempre nello stesso modo; gli atomi sono indistruttibili e mantengono la loro identità nelle reazioni chimiche; non possono essere né creati né distrutti e nemmeno essere trasformati gli uni negli altri. in questo modello gli elementi sono rappresentati come sfere solide, caratterizzate da una massa ben precisa e diversa dalle altre. Dalton notò che due elementi possono combinarsi tra loro secondo rapporti differenti, dando origine a due o più composti differenti, sebbene costituiti dagli stessi elementi. Per esempio, quando il carbone brucia e si combina con l’ossigeno dell’aria in un ambiente chiuso, si produce un gas molto velenoso, il monossido di carbonio (CO); se invece il carbone brucia all’aria aperta, si forma un gas con caratteristiche diverse, il diossido di carbonio detto anche anidride carbonica (CO2). Analogamente esistono diversi ossidi di ferro (FeO, Fe2O3), rame e così via. In base a queste osservazioni, Dalton enunciò una regola generale che estende il campo di applicazione della legge di Proust a tutti i composti; essa è nota come legge di Dalton o legge delle proporzioni multiple: “Le masse di un dato elemento, che si combinano con la stessa quantità di un altro elemento per dare origine a composti diversi, stanno tra loro in un rapporto che è espresso da numeri interi, generalmente piccoli.” Negli esempi precedenti abbiamo per CO ed FeO che O/C ed O/Fe è uguale ad 1; per CO 2 O/C è uguale a 2. Nel caso di Fe 2O3 il rapporto O/Fe è uguale ad 1,5 ma essendo gli atomi indivisibili si dovranno moltiplicare per 2 entrambi i coefficienti. Da ciò deriva la possibilità di rappresentare la molecola di un composto con una formula chimica, oppure mediante un modello a sferette in cui ogni sferetta rappresenta un atomo. Una formula chimica è la rappresentazione schematica della composizione qualitativa e quantitativa di un composto chimico. Nelle formule chimiche gli elementi contenuti nella molecola sono indicati con i loro simboli, affiancati da un numero, in basso a destra, che esprime il numero degli atomi di quell’elemento presenti nella molecola del composto. Queste formule sono anche dette formule brute, grezze o molecolari in quanto non danno informazioni sulla reale disposizione degli atomi nel composto. Il modello atomico di Thomson Se un gas è posto in un tubo di vetro sigillato tra due placche conduttrici (anodo e catodo) e tra esse viene applicata una differenza di potenziale elettrico sufficientemente alta, si osserva un passaggio di corrente elettrica tra le due placche metalliche (analogamente alla scarica elettrica di un fulmine attraverso l’aria). Il fisico britannico Joseph John Thomson (Cheetham, 18 dicembre 1856 – Cambridge, 30 agosto 1940) condusse una serie di esperimenti volti a capire da dove si originasse la corrente elettrica osservata e le proprietà delle entità che la trasportavano da un punto all’altro dello spazio. Egli osservò che i misteriosi trasportatori della carica, chiamati raggi catodici, viaggiavano secondo traiettorie rettilinee e producevano un punto luminoso dove urtavano nel tubo di vetro. I raggi catodici venivano deviati sia da forze elettriche (erano allontanate da una placca carica negativamente ed attratte da una carica positivamente) che magnetiche ed erano in grado di scaldare, fino all’incandescenza, un foglio di metallo contro cui venivano “sparate”. In base a tali evidenze sperimentali Thompson concluse che i raggi catodici erano dovuti ad un flusso di cariche negative, provenienti dall’interno degli atomi di metallo, che furono chiamate elettroni. Questi esperimenti fornirono la prima prova del fatto che gli atomi sono costituiti da particelle più piccole. Da ciò egli propose un nuovo modello atomico, formulato nel 1898, in cui si ammetteva che l'atomo, piuttosto che la sferetta solida e compatta ipotizzata da Dalton, fosse un aggregato di particelle più semplici. Alla luce dei pochi dati sperimentali in suo possesso, J.J.Thomson ipotizzò che l'atomo fosse costituito da una sfera omogenea carica positivamente in cui gli elettroni erano distribuiti in maniera uniforme e senza una disposizione spaziale particolare (come gli acini di uvetta in un panettone). Tale modello è conosciuto anche come “modello a panettone”. Il modello atomico di Rutherford Nel 1899 lo scienziato neozelandese Ernest Rutherford (Brightwater, 30 agosto 1871 – Cambridge, 19 ottobre 1937) scoprì che l’uranio emetteva particelle veloci con carica positiva, che chiamò particelle alfa. Un decennio più tardi, egli chiese ad un suo studente, Ernest Marsden, di studiare che cosa accadeva quando queste particelle venivano utilizzate per bombardare una sottile lamina d’oro; uno schermo rivelatore indicava poi i punti di arrivo della particelle alfa, permettendo quindi di stabilirne la traiettoria dopo il passaggio attraverso la lamina. Se fosse stato valido il modello di Thomson, cioè se l'atomo avesse avuto una struttura omogenea, la particelle alfa avrebbero dovuto comportarsi tutte nello stesso modo, perché in qualunque punto avessero colpito la lamina metallica avrebbero trovato situazioni equivalenti. In realtà, le particelle alfa si comportarono in modo diverso: per la maggior parte passarono senza subire nessuna deviazione, ma alcune vennero deviate secondo vari angoli e alcune vennero addirittura respinte. In base a questi dati Rutherford ipotizzò che: Poiché le particelle α nella maggior parte dei casi oltrepassavano la lamina d'oro senza subire deviazioni, significava che non incontravano alcun ostacolo sul proprio cammino e che quindi, l'atomo doveva essere formato prevalentemente da spazio vuoto. Poiché in qualche caso le particelle α venivano deviate ed in rarissimi casi venivano riflesse, l'intera carica positiva (protoni) dell'atomo doveva essere concentrata in un "nocciolo" piccolissimo e centrale: il nucleo. Gli elettroni negativi dovevano muoversi lungo orbite circolari. Il diametro del nucleo doveva essere molto più piccolo del diametro dell'atomo. Questo modello atomico è detto “modello planetario”, poiché ricorda, in miniatura, il Sistema Solare in cui il sole rappresenta il nucleo dell'atomo e i pianeti gli elettroni, che si muovono, lungo le proprie orbite attorno al sole (nucleo dell'atomo). Anche se geniale, il modello atomico di Rutherford non teneva conto di un importantissimo dato sperimentale della fisica: una particella in movimento elettricamente carica perde incessantemente energia. Poiché ciò deve valere anche per l'elettrone (carico negativamente), esso perdendo via via energia avrebbe finito per muoversi lungo orbite sempre più piccole, fino a cadere sul nucleo. Il modello atomico di Bohr Niels Bohr (Copenaghen, 7 ottobre 1885 – Copenaghen, 18 novembre 1962), un fisico danese che lavorò con Rutherford alla comprensione della struttura atomica, partendo dal precedente modello planetario, concentrò i suoi studi sugli elettroni cercando di fornire una descrizione di come essi si disponevano intorno al nucleo, senza però contraddire le leggi della fisica. Egli esaminò le emissioni elettromagnetiche dell'atomo di idrogeno quando stimolato chimicamente, notando che l'idrogeno emetteva una serie particolare e ben definita di onde luminose. Studiando il valore energetico delle emissioni si accorse che queste erano "quantizzate" (cioè la quantità di energia emessa assumeva valori ben definiti), esattamente come descritto da Planck nei suoi lavori. Poiché tali variazioni energetiche venivano attribuite ai cambiamenti di energia degli elettroni, significava che gli elettroni potevano presentare solo "livelli di energia" ben definiti. Da questo Bohr dedusse che l'atomo di idrogeno poteva avere solo orbite ben definite, alle quali attribuire un particolare livello energetico. Secondo la sua teoria, fornendo sufficiente energia all'elettrone (uno o più quanti di energia), esso può saltare verso una orbita superiore assorbendo l'energia ricevuta, per poi ritornare dopo un certo tempo alla sua orbita originaria, rilasciando però l'energia assorbita precedentemente, sotto forma di onda elettromagnetica (in questo caso luce, quanti di luce). A seguito dei suoi studi Bohr presentò nel 1913, al Consiglio Solvay, la sua teoria quantistica dell'atomo che si rifaceva al modello atomico di Rutherford, ma con alcune modifiche essenziali: L' atomo consiste in un nucleo di carica positiva intorno al quale ruotano gli elettroni di carica negativa che percorrono orbite stazionarie, non equidistanti da esso. L'elettrone non può ruotare su orbite qualsiasi ma su orbite fisse privilegiate, corrispondenti ai vari livelli di energia; ci sono infiniti livelli possibili. Se l'elettrone persiste nel ruotare su queste orbite privilegiate non emette energia nonostante la sua accelerazione e la frequenza di rotazione. L'elettrone può saltare spontaneamente, oppure in seguito ad assorbimento di energia, da un livello energetico all'altro. La frequenza della radiazione emessa o assorbita nel salto è legata al "quanto" di energia dalla formula: E = h dove “h” è la costante di Planck (6,626176 10-34 Js) e “” è la frequenza della radiazione emessa o assorbita. Le proprietà chimiche dell'atomo sono determinate dal numero di elettroni che occupano il livello energetico più esterno. Da questo momento in poi il modello atomico inizia ad essere modificato e completato secondo la nascente meccanica quantistica. La scoperta del neutrone avvenne nel 1932 per opera del fisico inglese Sir James Chadwick (Bollington, 20 ottobre 1891 – Cambridge, 24 luglio 1974). Essa rappresentò un passo molto importante nello studio dei nuclei atomici. Chadwick bombardando sottili lamine di berillio (Be) con particelle α emesse dal polonio (Po), scoprì che dal berillio venivano emesse delle radiazioni secondarie che non risentivano né di un campo elettrico né di un campo magnetico. Ripetendo l'esperimento su molti altri materiali, dimostrò che tali raggi erano costituiti da particelle aventi tutti la stessa massa, indipendentemente dal materiale usato, ma prive di carica elettrica e, pertanto, dette neutroni. Il modello della nuvola elettronica Come i modelli precedenti, anche il modello di Bohr è stato modificato grazie a scoperte scientifiche successive. Bohr nel suo modello, aveva introdotto l'ipotesi della quantizzazione, ma per il resto aveva trattato l'elettrone come una particella classica, che si muove su orbite ben determinate, stazionarie, il cui raggio può essere calcolato in base a semplici considerazioni meccaniche sulle forze in gioco. La fisica classica è in grado di descrivere la realtà solamente ad un livello approssimato. Tale approssimazione è impercettibile quando le dimensioni dei sistemi descritti sono ordinarie, cioè, macroscopiche, ma diventa inaccettabile quando si cerca di descrivere sistemi aventi dimensioni atomiche o subatomiche. Questo è il motivo per cui la limitatezza delle leggi della fisica classica è emersa solo in tempi relativamente recenti, dopo che le tecniche sperimentali si sono evolute al punto da consentire lo studio di sistemi microscopici, come gli atomi e le molecole. In seguito alle fondamentali scoperte avvenute negli ultimi cento anni, la meccanica classica ha lasciato il posto alla meccanica quantistica (vedi scheda di approfondimento). La meccanica quantistica si distingue in maniera radicale dalla meccanica classica in quanto si limita a esprimere la probabilità di ottenere un dato risultato a partire da una certa misurazione, rinunciando così al determinismo assoluto proprio della fisica precedente. Questa condizione di incertezza o indeterminazione non è dovuta ad una conoscenza incompleta, da parte dello sperimentatore, dello stato in cui si trova il sistema fisico osservato, ma è da considerarsi una caratteristica intrinseca, del sistema e del mondo subatomico in generale. Oggi gli scienziati sanno che gli elettroni non si comportano come le cose che ci sono familiari nel nostro mondo macroscopico e che quando devono prevedere la posizione ed il movimento di un elettrone possono farlo solo in termini probabilistici. Gli scienziati, infatti, per descrivere quali sono le posizioni più probabili in cui si può trovare un elettrone che si muove intorno ad un nucleo, utilizzano il modello della nuvola elettronica, secondo il quale gli elettroni non si muovono lungo orbite lineari e stazionarie ma, tale concetto deve essere sostituito con quello di distribuzione (stazionaria) di probabilità: un elettrone si può, cioè, trovare con una determinata probabilità in ogni punto attorno al nucleo e le zone dello spazio dove la probabilità è maggiore corrispondono alle orbite; la descrizione matematica di tali distribuzioni spaziali è fornita da equazioni matematiche molto complesse (equazione di Schrödinger) definite funzioni d’onda. La nuvola elettronica, che circonda il nucleo di un atomo, rappresenta l’insieme degli orbitali di quell’atomo, dove per orbitale si intende uno spazio, caratterizzato da forma ed energia caratteristiche, all’interno del quale è massima la probabilità di trovarvi l’elettrone. Gli elettroni non si sistemano casualmente nei livelli energetici e negli orbitali poiché ogni livello energetico ha un determinato numero di orbitali. Ogni livello energetico è identificato da un numero intero positivo, detto numero quantico principale “n”, che assume valori positivi 1, 2, 3, 4, ... Il valore di n = 1 corrisponde al livello più interno, ad energia più bassa, che è il livello fondamentale. All’aumentare del valore di n aumenta l’energia che l’elettrone deve avere per rimanere nel corrispondente livello. Ciascun livello energetico può essere ulteriormente suddiviso in diversi sottolivelli, caratterizzati da orbitali di diverse forme e valori di energia; tali orbitali vengono indicati con le lettere s, p, d, f, ... Quelli di tipo s hanno simmetria sferica intorno al nucleo atomico e per ogni livello energetico ne esiste solo uno; quelli di tipo p, sono tre per ogni livello energetico, si presentano con due lobi (uno positivo ed uno negativo) e possono avere gli assi di simmetria in tre direzioni tra loro ortogonali, per cui vengono indicati come orbitali di tipo p x, py, pz; quelli di tipo d sono cinque e quelli di tipo f sette. Per quanto riguarda la distribuzione degli elettroni negli orbitali, valgono tre regole fondamentali: Principio di esclusione di Pauli: ogni orbitale può contenere al massimo due elettroni; poiché gli elettroni ruotano sul loro asse, all’interno dell’orbitale essi si dispongono in maniera tale da ruotare uno in un verso e l’altro in quello opposto. Principio dell’aufbau: gli elettroni tendono ad occupare gli orbitali liberi riempiendoli con un elettrone alla volta, cominciando dall’orbitale a più bassa energia. Regola di Hund: quando sono liberi più orbitali a parità di energia, gli elettroni, a causa della repulsione elettrostatica, si dispongono il più lontano possibile l’uno dall’altro, in maniera tale che in ogni orbitale dello stesso livello energetico sia presente un solo elettrone; in queste condizioni gli elettroni tendono a disporsi con lo stesso verso di rotazione. Solo quando in ogni orbitale dello stesso livello energetico sarà presente un elettrone i rimanenti inizieranno a saturare gli orbitali, partendo sempre da quello a più bassa energia. e non La configurazione elettronica di un elemento esprime il modo in cui gli elettroni di quell’elemento si dispongono nei suoi orbitali. Essa si ottiene indicando tutti i suoi orbitali e rispettando le regole descritte sopra. Per rappresentare un singolo orbitale, si deve indicare prima il livello energetico, cioè il numero quantico n, poi il tipo di sottolivello al quale appartiene (s, p, d, f, ...) ed infine quanti elettroni (uno o due) l’orbitale contiene. Il guscio elettronico più esterno (caratterizzato dal massimo valore di n per un certo atomo) viene detto guscio di valenza ed i suoi elettroni, elettroni di valenza. Gli elettroni dei gusci più interni sono in media più vicini al nucleo ed hanno energie più basse degli elettroni di valenza; essi vengono definiti elettroni interni o di core. Un atomo a guscio chiuso presenta il guscio più esterno completamente pieno di elettroni, per cui ogni eccitazione richiede una grande quantità di energia; conseguentemente, tali atomi risultano molto stabili (es. i gas nobili). Come si può notare dall’immagine accanto, nella configurazione elettronica dei vari elementi, gli elettroni interni vengono rappresentati con il simbolo del gas nobile del periodo precedente. La configurazione elettronica più stabile è quella in cui gli elettroni si sistemano negli orbitali a più bassa energia. Quando tutti gli elettroni di un atomo hanno la più bassa energia possibile, si dice che l’atomo è nel suo stato fondamentale. Se un atomo, nel suo stato fondamentale, assorbe una quantità di energia sufficiente (E = h), uno dei suoi elettroni può spostarsi verso un orbitale di un livello energetico ad energia più alta e la configurazione elettronica risultante è detta stato eccitato. Uno stato eccitato è molto meno stabile di uno stato fondamentale e l’atomo tenderà a ritornare nella condizione più stabile. Quando un elettrone passa da uno stato eccitato ad un livello energetico più basso viene emessa energia ( E = h) sotto forma di radiazione elettromagnetica. Le proprietà chimiche degli atomi possono essere spiegate completamente dal comportamento degli elettroni dello strato esterno, cioè di quello che ha un legame più debole con il nucleo. Sono infatti gli elettroni di valenza che partecipano alla formazione dei legami tra gli atomi di una molecola costituendo nuovi orbitali, definiti orbitali molecolari, che interessano più nuclei anziché uno soltanto. In ogni atomo il guscio di valenza non possiede mai più di otto elettroni; gli elementi che ne hanno otto (ottetto completo) o eccezionalmente due (come nel caso dell’elio) sono i cosiddetti gas nobili (elio, neon, argo, cripto, xeno, rado), i quali sono zerovalenti, ossia reagiscono molto raramente. Gli atomi degli altri elementi hanno sempre la tendenza ad assumere una struttura elettronica analoga a quella dei gas nobili, cioè ad ospitare nel loro guscio più esterno otto elettroni (“Regola dell’ottetto”); questo è possibile perché, in opportune condizioni, gli atomi tendono a cedere o ad acquistare elettroni. In seguito a questi movimenti di elettroni, l’equilibrio degli atomi coinvolti viene perturbato dal momento che la carica elettrica positiva del nucleo resta invariata. Ciò può determinare la polarizzazione degli atomi, ovvero la comparsa di una carica elettrica positiva o negativa su di essi a seconda della loro capacità di attrarre gli elettroni coinvolti nel legame chimico. Al limite, gli atomi possono trasformarsi in unità indipendenti, con carica (positiva o negativa) pari a quella dell’elettrone o multipla di essa; queste nuove entità vengono definite ioni. Gli ioni, a loro volta, possono essere distinti in anioni (se hanno acquistato elettroni e quindi sono corichi negativamente) o cationi (se hanno perso elettroni e di conseguenza hanno una carica positiva). Nelle pagine precedenti abbiamo visto come, nel corso dei secoli, le conoscenze sulla struttura dell’atomo siano divenute sempre più ampie e ci abbiano condotto al modello attualmente riconosciuto e brevemente descritto all’inizio del capitolo. Alla luce di questo “viaggio nella storia”, possiamo ora vedere e comprendere meglio quella che si ritiene essere la struttura atomica. Sulla base delle informazioni a nostra disposizione, l’atomo, che in passato era visto come la particella più piccola ed indivisibile, è oggi considerato come costituito da particelle ancora più piccole. Queste sono di tre tipi: i neutroni, dotati di massa ma privi di carica elettrica; i protoni, dotati di massa quasi uguale a quella dei neutroni e di carica elettrica positiva; gli elettroni, particelle di massa molto piccola (circa 1/1840 della massa dei protoni), con carica elettrica uguale a quella dei protoni, ma di segno opposto, quindi negativa. Tra di essi solo gli elettroni, allo stato attuale delle nostre conoscenze, sono considerate particelle elementari (cioè non ulteriormente divisibili), mentre protoni e neutroni sono composti da altre particelle elementari, i cosiddetti quark. Il modello a cui facciamo riferimento vede l’atomo come costituito da un nucleo centrale composto da protoni e neutroni, quindi elettricamente positivo, attorno al quale si muovono, a determinate distanze e con una determinata energia, gli elettroni. Particella Massa (kg) Carica elettrica elementare Carica elettrica (C) Neutrone Protone Elettrone 1,674954310-27 1,672648510-27 9,10953410-31 0 +1 -1 0 + 1,602189210-19 - 1,602189210-19 Il diametro esterno dell’atomo ha dimensioni comprese tra 210-10 m e 510-12 m; privando l’atomo dei suoi gusci di elettroni il diametro del nucleo risulta però di 10 -14 m soltanto. È perciò evidente che considerare l’atomo come una sfera compatta non è corretto, anzi nel suo complesso l’atomo è essenzialmente vuoto e soltanto il nucleo è relativamente compatto. Poiché, però, la meccanica quantistica dimostra che gli elettroni non possono distribuirsi a distanze qualsiasi rispetto al nucleo, ma devono assumere posizioni particolari e rigidamente determinati, l’atomo può essere considerato, con un’approssimazione sufficiente nella maggior parte dei fenomeni chimici e macroscopici, come una sfera compatta. Il numero di protoni presenti nel nucleo è importante perché determina le caratteristiche chimiche dell’elemento al quale l’atomo appartiene e permette di distinguere un elemento da un altro; esso viene definito numero atomico ed indicato con la lettera Z. Gli atomi dello stesso elemento hanno tutti lo stesso numero atomico. I neutroni sono presenti nel nucleo in quantità variabile, ma molto spesso in numero uguale a quello dei protoni. Non avendo carica elettrica, i neutroni non influiscono sulle proprietà elettriche dell’atomo e neppure sulla sua natura chimica, ma solo sulla sua massa. Una seconda caratteristica degli atomi, oltre al numero atomico, è il numero di massa; indicato con la lettera A, rappresenta il numero complessivo dei protoni e dei neutroni, N, che costituiscono il nucleo di ogni determinato elemento (A = Z + N). A causa della loro carica elettrica, i protoni dovrebbero respingersi, provocando l’esplosione del nucleo, ma questo non avviene, perché neutroni e protoni sono saldamente legati da una forza attrattiva molto intensa, la forza nucleare forte. Essa agisce solo a brevissima distanza, quindi la sua azione si sente solo all’interno del nucleo e non riguarda gli elettroni che si trovano nella parte periferica dell’atomo. A differenza di neutroni e protoni, gli elettroni sono molto più liberi di muoversi, essendo trattenuti da una forza più debole che li attira verso il nucleo, la forza elettrostatica. In condizioni normali, ogni atomo ha una specifica massa atomica, quindi si può stabilire il numero di neutroni che esso contiene. Esistono, tuttavia, anche atomi dello stesso elemento, quindi caratterizzati dallo stesso numero di protoni, che però hanno un diverso numero di neutroni e, conseguentemente, un diverso numero di massa; essi sono chiamati isotopi. Per distinguere i vari isotopi (detti anche neuclidi) si è soliti indicare ogni elemento con il suo simbolo, scrivendo accanto al simbolo, in basso a sinistra il numero atomico ed in alto a sinistra il numero di massa. Ad esempio, per l’idrogeno abbiamo: 11H (prozio 99,98%), 21H (deuterio), 31H (trizio). Ciascun elemento, in natura, è costituito da una miscela di isotopi (di cui quello predominante è l’isotopo rappresentativo inserito nella tavola periodica) in percentuale sempre costante. Il carbonio naturale contiene il 98,892% di 12C e l’1,108% di 13C in massa; in aggiunta a questi isotopi stabili, esiste un isotopo radioattivo ( 14C o radiocarbonio) e quindi, instabile, presente in piccolissime percentuali; quest’ultimo viene impiegato nella datazione dei reperti archeologici. Se un elemento è costituito da n isotopi in cui lo imo isotopo ha massa Ai ed una percentuale in atomi pi, allora la massa atomica media, detta anche peso atomico, dell’elemento è data da: A = A1p1 + A2p2 + ... + Anpn Le masse degli atomi misurate in kilogrammi o in grammi sono valori molto piccoli. Non è conveniente, da un punto di vista pratico usare numeri così piccoli. È più conveniente infatti usare masse atomiche relative (o pesi atomici relativi), cioè masse atomiche che sono rapportate ad una grandezza di riferimento. Nel 1961, con un accordo internazionale, si decise di usare come riferimento la massa del 12C. le masse atomiche relative non hanno unità di misura essendo esse rapporti di due masse. La massa molecolare relativa di un composto è data dalla somma delle masse atomiche relative degli elementi costitutivi moltiplicate per il numero di atomi dell’elemento presenti nella molecola. L’unità di massa atomica (che abbrevieremo in u) viene definita come 1/12 esatto della massa del 12C. Il numero di Avogadro (N0) è definito come il numero di particelle contenute esattamente in 12 g dell’isotopo 12C. Attualmente gli si attribuisce il valore di N0 = 6,0220451023 ma potrebbe essere modificato a seguito di nuove evidenze sperimentali. Pertanto, la massa di un singolo atomo di 12C viene ricavata dividendo 12 g per N0, ottenendo un valore pari a 1,992648·10-26 kg. Per misurare la quantità di sostanza è utile raggruppare gli atomi e le molecole in unità, multipli e sottomultipli di N0; questa unità è la mole (dal latino moles, quantità). Una mole di sostanza è la quantità di materia contenuta in un numero di Avogadro di particelle, la cui tipologia deve essere sempre specificata. Per esempio, dire una mole di ossigeno è ambiguo, si deve dire o una mole di atomi di ossigeno oppure una mole di molecole di ossigeno. La massa, in grammi, di N0 atomi di ogni elemento, cioè la sua massa molare, è numericamente uguale alla sua massa atomica relativa, adimensionale, e la stessa cosa vale per le molecole. Da ciò deriva che per calcolare il numero di moli di una certa sostanza è sufficiente dividere il valore della sua massa per la sua massa molare. Ad esempio, il numero di moli contenuto in un campione di ferro di 8,232 g è dato da: n° di moli di ferro = grammi di ferro/massa molare del ferro = 8,232 g/55,847 g mol -1 = 0,1474 mol