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TIBET
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La storia
Lo status
Il Buddhismo
La società tradizionale
Il Dalai Lama
Ambiente Tibet: un problema cruciale
La bandiera nazionale
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TIBET
documenti
La storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 5
Lo status . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 23
Il Buddhismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 27
La società tradizionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 30
Il Dalai Lama
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Ambiente Tibet
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La bandiera nazionale
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STORIA DEL TIBET
Dal mito ai sovrani di Yarlung
tano parlato si rintracciano anche alcune periferiche influenze di origine cinese ma le due lingue
sono reciprocamente del tutto incomprensibili.
Le origini del popolo tibetano rimangono ancora
oggi piuttosto misteriose. Secondo la tradizione
mitologica i remoti antenati degli abitanti del
Tibet sarebbero stati uno scimmione, considerato
un’incarnazione della deità Chenrezig e una sorta
di orchessa venerata come nume tutelare della
montagna. La loro unione avrebbe dato vita ad
una bizzarra prole, strani esseri metà uomini e
metà scimmie da cui, attraverso un considerevole
numero di generazioni, si evolse gradualmente la
razza tibetana. Dimensione mitica a parte, la
moderna antropologia colloca i tibetani all’interno di quella vasta famiglia etnica nota con il
nome di ceppo mongolide che comprende diversi
popoli dell’area centro asiatica. In effetti non è
semplice determinare con certezza l’origine degli
abitanti del Tibet. Anche partendo da angoli di
visuale molto grossolani, ad esempio la banale
osservazione fisica dei tratti somatici, vediamo
come alcuni ricordino nell’aspetto dei mongoli
mentre altri siano più simili ai nativi d’America (i
cosiddetti “pellerossa”) e altri ancora possano ad
uno sguardo superficiale sembrare parenti stretti
di giapponesi o cinesi. Pur essendo di fronte a una
tale varietà di tipologie si possono comunque stabilire alcuni punti fermi. Gli abitanti delle regioni centrali di U e Tsang, e in larga parte anche
quelli del Tibet occidentale, sono di statura
media, hanno la testa rotonda e gli zigomi pronunciati. Quelli che vivono nelle province orientali e settentrionali, Kham e Amdo, sono invece
decisamente alti, dolicocefali e con gli arti piuttosto sviluppati. Tratti comuni a tutti sono capelli
neri e lisci e occhi scuri dalla caratteristica forma
“a mandorla”. Contrariamente all’elemento etnico, quello linguistico non ha alcuna parentela con
il mondo mongolico. La lingua tibetana presenta
piuttosto punti di contatto con il birmano, tanto
che gli studiosi parlano di tibeto-birmano, e con
alcuni dialetti della regione himalayana. Nel tibe-
Così come quelle etniche, anche le origini storiche del Tibet sono ancora oggi poco conosciute.
Le antiche tradizioni parlano di un’età mitica in
cui governava una dinastia di re celesti, una sorta
di dei che esercitavano la loro funzione regale
sulla terra. Di giorno questi monarchi divini vivevano nel mondo degli uomini e di notte salivano
magicamente in cielo tramite una corda che viene
descritta come specie di arcobaleno. Questi re
celesti, secondo le cronache tibetane, governavano
fino a quando il loro primogenito imparava a
cavalcare (in genere verso i tredici anni) ed nella
maggiore età. L’ingresso del giovane nell’età adulta segnava il passaggio dei poteri dinastici e il vecchio re moriva, nel senso che tornava definitivamente in cielo per mezzo della corda magica.
Il primo di questi monarchi discesi sulla terra
viene considerato Nyatri Tsempo che arrivato
nella valle del fiume Yarlung (Tibet centrale), vi
insediò la omonima dinastia. Pare che prima dell’arrivo del sovrano i tibetani non abitassero in
edifici in muratura e vivessero per lo più in caverne e ripari naturali. Nyatri Tsempo fece compiere
un passo decisivo all’evoluzione del popolo tibetano edificando il primo palazzo, quello
Yumbulagang di cui si è appena parlato. Nyatri
Tsempo e i suoi primi sei successori, salendo al
cielo al momento della morte, non lasciavano spoglie mortale e quindi non c’era la necessità di
costruire monumenti funerari. Fu solo a partire
dall’ottavo re, Drigum Tsempo, che la corda magica, in grado di assicurare ai sovrani la soprannaturale ascensione, venne tagliata e i loro cadaveri,
dal momento che rimanevano sulla terra, avevano
bisogno di una tomba. Il monumento funerario di
Drigum Tsempo, che i tibetani chiamano ancora
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Anche se la religione professata dalle due principesse era quella buddhista non sembra però che il
Buddhismo, al di là di alcune pratiche esteriori,
fosse seriamente seguito; rimaneva una religione
straniera fondamentalmente estranea sia al popolo sia agli stessi ambienti della corte. La vera tradizione spirituale del Tibet continuava ad essere il
Bon, una sorta di religione della natura con venature sciamaniche, radicato tra la gente e molto
influente tra i ranghi del governo e della nobiltà.
“la prima tomba dei Re”, con la sua presenza visibile e concreta prova che questo sovrano esistette
realmente e con lui le vicende del Tibet entrano,
se non nella Storia almeno in una sorta di preistoria dove alcuni elementi certi e databili cominciano ad emergere dalle poetiche nebbie del mito.
Nella Storia vera e propria il Paese delle Nevi
vi entra circa verso il settimo secolo d.C. e in questo periodo presenta i tratti di una società feudale,
fortemente gerarchicizzata e posta sotto il governo
di Songtsen Gampo (noto anche come Tride
Songtsen) il trentaduesimo re di Yarlung.
Songtsen Gampo riuscì nell’arduo compito di riunire sotto un unico comando quel variegato
mondo di tribù dell’Asia centro-settentrionale
che costituiscono l’elemento fondamentale dell’etnia tibetana. Al tempo di questo sovrano quindi, gran parte dell’odierno Tibet centrale è unificato e i suoi abitanti sono in grado di compiere
audaci quanto fortunate scorribande militari
all’interno dello stesso territorio cinese. Popolo di
nomadi coraggiosi fino all’aggressività, dediti alla
pastorizia e con scarsa propensione alla vita
sedentaria, i tibetani dell’epoca con le loro incursioni seminano il panico tra le popolazioni han
della Cina. Sotto Songtsen Gampo Lhasa, l’unico
agglomerato urbano di un certo rilievo, diventa la
capitale del Paese e spedizioni militari condotte
verso nord e ovest annettono al Tibet porzioni
significative dei territori limitrofi. Nel 635 il
sovrano sposa la principessa nepalese Bhrikuti
Devi (Belsa in tibetano) e nel 641 la figlia dell’imperatore cinese T’ai Tsung, la giovane Wen-c’eng
Kung-chu (Gyasa in tibetano). La tradizione racconta che queste due giovani donne portarono in
dote, tra altri innumerevoli tesori, anche alcune
scritture e immagini sacre buddhiste che rappresentarono i primi elementi di Buddhismo ad essere introdotti nel Paese delle Nevi. Il dono più
importante fu senza dubbio la statua di Buddha
Sakyamuni che faceva parte della dote di Gyasa e
che si dice fosse stata benedetta dallo stesso
Buddha. Ancora oggi questa statua, che si trova a
Lhasa all’interno della cattedrale del Jokang, è
meta di un ininterrotto pellegrinaggio di fedeli.
Tra gli innumerevoli meriti che vengono attribuiti a Songtsen Gampo il più significativo è senza
dubbio la sua determinazione nel voler dotare la
lingua tibetana (fino ad allora priva di segni grafici) di una sua peculiare scrittura. Sembra che l’esigenza di una grafia derivasse soprattutto dall’interesse per il Buddhismo che provava il sovrano il
quale voleva che il suo popolo potesse leggere gli
insegnamenti dell’Illuminato. Songtsen Gampo
inviò dunque in India un folto gruppo di eruditi
allo scopo di trovare una scrittura che potesse adattarsi alla lingua tibetana e far sì che anche il Paese
delle Nevi avesse, come quasi tutti gli stati con cui
confinava, la possibilità di tradurre in segni i suoni
fonetici. Thonmi Sambota, lo studioso a cui il re
aveva affidato il comando dell’impresa, tornò in
Tibet solo dopo diversi anni portando con sé una
sorta di alfabeto mutuato dalle scritture brahmi e
gupta, analoghe al sanscrito, e molto diffuse in quel
tempo nei regni dell’India centro-settentrionale e
himalayana. L’adozione di una scrittura di derivazione indiana sottolinea con forza il legame culturale che, al di là delle differenze etniche, collega il
Tibet all’India, legame che andrà sempre più rafforzandosi nei secoli successivi grazie alla vasta (e
tutto sommato rapida) diffusione del Buddhismo
nel mondo tibetano. Come hanno fatto rilevare
numerosi autori, l’adozione di un tipo di scrittura
rappresenta una precisa scelta di campo culturale
che comporta profonde implicazioni le quali travalicano gli ambiti di una opzione puramente tecnica
verso una particolare forma grafica per svilupparsi
verso ben altri orizzonti. Creando una grafia così
vicina al sanscrito il mondo tibetano compì, oltre
mille anni or sono, un passo che lo allontanò irre6
piuttosto pacifico e il “campo di battaglia” fosse
rappresentato sia da dibattiti filosofici sia dall’uso
di quei “poteri miracolosi” così importanti per la
psicologia tibetana. Durante il regno di Trisong
Deutsen il Buddhismo mise salde radici in Tibet. I
vecchi templi fatti costruire dalle mogli di
Songtsen Gampo e lasciati andare in rovina dai
suoi successori vennero restaurati. Fu edificato
Samye, il primo monastero buddhista e, come si è
già detto, Santarakshita ordinò alcuni monaci
tibetani. Delle due scuole Buddhiste che si confrontarono in Tibet, quella “indiana” e quella
“cinese” si affermò nettamente la prima. Varrà la
pena di notare come anche questa scelta, sia pure
relativa all’ambito religioso e motivata solo da
ragioni spirituali, accentui ancor più i legami della
cultura tibetana con l’India che può quindi considerarsi la vera ispiratrice della civiltà tibetana
avendogli fornito scrittura e religione.
versibilmente dall’area cinese cui lo legavano alcune remotissime ascendenze etniche, per entrare a
pieno titolo nell’universo della koiné indiana.
Songtsen Gampo morì nel 649 e i suoi successori ampliarono ulteriormente i confini del regno
che andava sempre più prefigurandosi come uno
dei principali, e temuti, poteri dell’Asia centrale.
Nel 755 salì al trono Trisong Deutsen che passerà
alla storia come il più importante di tutti i sovrani della dinastia di Yarlung. Trisong Deutsen eredita un impero forte e solido la cui stabilità interna e potenza militare erano state rafforzate dai
quattro monarchi che avevano regnato negli oltre
cento anni che intercorrono tra la scomparsa di
Songtsen Gampo e il 755. Deciso, audace, spregiudicato (almeno per quanto riguarda la politica
estera), Trisong Deutsen organizza brevi ma efficaci spedizioni che arrivano a colpire e conquistare
il cuore dell’impero cinese e costringono l’imperatore del Regno di Mezzo a firmare un umiliante
trattato di pace. Trisong Deutsen però occupa un
posto di particolare rilevanza nella storia del Tibet
non tanto per le sue brillanti imprese belliche
quanto perché a lui si deve l’effettiva introduzione sul Tetto del Mondo della religione buddhista
che, nel volgere di una manciata di secoli, diverrà
il principale collante spirituale e culturale dell’intera nazione. Sin da giovane Trisong Deutsen si
mostrò estremamente incuriosto e interessato da
quella dottrina che tanto successo aveva riscosso
in India, Cina e in numerosi altri stati asiatici.
Nonostante il parere negativo di molti suoi consiglieri decise di invitare in Tibet alcuni tra i più
rinomati maestri buddhisti dell’epoca per diffondere, anche nel Paese delle Nevi, il messaggio del
Buddha. Due furono le figure di maggior rilievo
che dall’India giunsero in Tibet nell’ottavo secolo,
Santarakshita e Padmasambhava. Il primo, un raffinato erudito dell’università indiana di Nalanda,
introdusse l’ordinamento monastico mentre il
secondo, grazie alla forza di un incredibile carisma
personale, riuscì a superare le numerose resistenze
che gli ambienti Bon opponevano alla diffusione
della nuova fede. Sembra comunque che il confronto tra le due religioni sia avvenuto in modo
Trisong Deutsen muore nel 797 ma la sua politica viene continuata, anche se con minore efficacia, da due dei suoi quattro figli: Muni Tsenpo e
Tride Songtsen. Nel 815 sale al trono Ralpachen,
terzogenito di Tride Songtsen, che viene generalmente considerato il terzo grande sovrano della
dinastia di Yarlung. Egli pose finalmente termine
alle interminabili guerre con la Cina e firmò un
trattato grazie al quale le relazioni tra Cina e Tibet
si normalizzarono. Purtroppo per Ralpachen, e
anche per il Tibet, la forte simpatia che il sovrano
manifestava per il Buddhismo suscitò invidie,
gelosie e risentimenti di ogni genere. Un gruppo
di oppositori approfittò della situazione per organizzare una sanguinosa congiura di palazzo. Si fece
appello ai sentimenti sciovinisti di alcune famiglie
aristocratiche che ancora consideravano il
Buddhismo un corpo estraneo al Tibet e si esasperarono le paure dei sacerdoti bon-po timorosi che
la loro antica religione venisse del tutto soppiantata dalla nuova. Sostenendo che il monarca era
manovrato da elementi stranieri i congiurati diedero vita a un cruento complotto che culminò nel
838 con l’assassinio dello stesso Ralpachen a cui
successe il fratello maggiore Langdarma. Questi
era un acerrimo nemico del Buddhismo che perse7
quale il Buddhismo si affermò definitivamente
come religione principale e si articolò in numerose scuole (1). Tra il primo e il secondo secolo del
nuovo millennio vengono costruiti in Tibet alcuni tra i suoi più importanti monasteri (gompa, in
tibetano). Tshurpu, Sakya, Drigung, Talung,
Reting e molti altri che in breve acquistano una
rilevanza tale da travalicare la sfera esclusivamente religiosa per entrare in quella sociale.
guitò con una durezza tale da essere ancora oggi
ricordata. I templi e i monasteri vennero chiusi e
profanati. I monaci uccisi o costretti all’abiura.
Tutte le manifestazioni pubbliche ed esteriori
della fede buddhista proibite. Le persecuzioni contro il Buddhismo volute da Langdarma furono così
terribili che un monaco di nome Lhalungpa Pelgy
Dorje decise di rompere i suoi voti di non-violenza e uccidere il re. La tradizione racconta che il
religioso si introdusse, vestito con gli abiti di un
sacerdote bon-po, nel palazzo reale durante una
festa e riuscì a colpire a morte il sovrano con una
freccia scagliata da un arco che aveva nascosto
nelle larghe maniche della casacca. La scomparsa
del monarca sanguinario segnò ad un tempo la
fine della dinastia di Yarlung e dell’unità politica
del Tibet. Quello che per quasi quattrocento anni
era stato uno dei più forti imperi dell’Asia si frammentò in una miriade di piccoli principati sovente in guerra tra loro e che per molti secoli rimarranno tali. Il ricordo degli antichi fasti rimase solo
nel Tibet occidentale dove si trasferì un ramo
della dinastia di Yarlung che diede vita ai regni di
Guge e Purang i quali svolsero un ruolo di primo
piano nella storia culturale della regione himalayana creando una tradizione artistico-religiosa di
altissimo livello. Diversamente da quelle occidentali, le province centrali e orientali del Tibet
entrarono in un periodo di confusione politica in
cui l’assenza di un potere autorevole farà a lungo
sentire i suoi effetti nefasti.
La massiccia diffusione del Buddhismo aveva
creato in Tibet una nuova koiné intorno alla
quale si ritrovava la grande maggioranza della
popolazione. Ma dal punto di vista politico il
Paese rimaneva diviso e frammentato. Comunque
tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo i diversi re,
principi e signori feudali che governavano il Tetto
del Mondo riuscivano a convivere senza eccessive
tensioni e quel periodo viene ricordato come piuttosto pacifico e tranquillo. E’ l’inizio del tredicesimo secolo a segnare la fine di questo intermezzo
sereno della storia tibetana. A nord, in un’immensa area che abbraccia in pratica quasi l’intera
Asia centrale, le tribù mongole sono in movimento. Sotto la guida di capi intelligenti e decisi queste popolazioni fiere, bellicose e aggressive stanno
assoggettando nazioni e popoli. Perfino la Cina,
l’orgoglioso Impero di Mezzo, cade sotto i loro
assalti.
Nel 1207 Gengis Khan, il capo supremo dei
mongoli, manda i suoi emissari a intimare la sottomissione dei tibetani che non hanno altra scelta che quella di arrendersi, ben consapevoli che
nulla avrebbero potuto contro la micidiale forza
d’urto delle armate mongole. Nel 1239 le avanguardie della cavalleria di Godan, nipote di
Gengis Khan, penetrano in profondità sul Tetto
del Mondo raggiungendo le province centrali di U
e Tsang. Il destino del Tibet sembra dunque segnato quando accade un fatto imprevisto e forse
imprevedibile. Affascinato dai rapporti dei suoi
uomini che raccontavano della grande influenza
esercitata in Tibet da yogin e lama, Godan si incuriosì a tal punto che ne volle conoscere di persona
qualcuno e invitò alla sua corte il più rinomato
La rinascita dello stato tibetano
Tra la fine del decimo e l’inizio dell’undicesimo
secolo un Tibet ormai dimentico dei suoi trascorsi
imperiali fu però attraversato da un rinnovato
interesse per il Buddhismo. I canali spirituali tra il
Tetto del Mondo e l’India tornarono ad aprirsi e
un notevole flusso di contatti riprese a scorrere in
entrambe i sensi. Maestri indiani vennero a insegnare in Tibet e studiosi tibetani si recarono ad
approfondire le loro conoscenze nelle principali
università buddhiste dell’India. Nei decenni a
cavallo dell’anno Mille si verificò una vera e propria Seconda diffusione della dottrina grazie alla
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maestro spirituale dell’epoca, Sakya Pandita, capo
della scuola Sakya-pa.
Il periodo della dinastia Pamotrupa coincise
con la nascita di un diffuso senso di identità nazionale che trovò la sua espressione più visibile in
una decisa rivalutazione del ruolo degli antichi
monarchi di Yarlung. In modo particolare
Songtsen Gampo e Trisong Deutsen vennero fatti
oggetto di una venerazione quasi religiosa. Anche
se alcuni governanti Pamotrupa erano monaci o
lama, la dinastia si caratterizzò come fortemente
laica e sotto di essa tutte le differenti scuole buddhiste e il rinato Bon potettero svilupparsi liberamente e in reciproca armonia. In Tibet i massimi
esponenti delle principali tradizioni religiose continuavano a godere di una altissima considerazione ma erano venerati come maestri spirituali e
non come esponenti politici. Ovviamente, soprattutto a livello locale, gli abati dei principali monasteri continuavano a esercitare una notevole
influenza sociale che facevano valere stipulando
alleanze con questo o quel governatore ma le redini complessive della nazione in questo periodo
erano in mani laiche.
Il rapporto che si stabilì tra il lama ed il khan
mongolo fu intenso e complesso; il primo, grazie
ad un eccezionale carisma, riuscì a convertire al
Buddhismo il secondo che, come segno di devozione, non solo proibì ogni ulteriore incursione
dei suoi eserciti sul Paese delle Nevi ma assegnò
anche agli abati della scuola Sakya-pa il governo
dell’intero Tibet. Questa relazione, che gli storici
anglosassoni sono soliti definire lama-patron,
aveva dunque partorito un Tibet governato da
tibetani (gli abati Sakya-pa) e posto sotto la diretta protezione del Khan mongolo che con il suo
appoggio intendeva rendere evidente, concreto e
manifesto il legame spirituale che lo univa al
Tibet e alla sua religione. Il rapporto lama-patron
iniziato da Godan khan e Sakya Pandita continuò
con i loro rispettivi successori. Kublai khan, figlio
di Godan, fu così affascinato dalla personalità e
dalle realizzazioni spirituali di Phagpa, nipote di
Sakya Pandita, da conferirgli il prezioso titolo di
Precettore Imperiale che equivaleva a quello di
sovrano del Paese delle Nevi.
La caduta, nel 1435, della dinastia Pamotrupa
chiude un periodo tutto sommato positivo della
storia tibetana che però si avvia verso due secoli
convulsi durante i quali una drammatica lotta tra
fazioni rivali dilaniò un Paese delle Nevi lacerato
e diviso. Altrettanto laico di quello dei Pamotrupa
fu il governo dei principi di Rinpung che, per
circa 130 anni, governarono il Tibet fino a quando nel 1565 il potere passò nelle mani dei re di
Tsang, la terza delle grandi dinastie che regnarono
sul Tetto del Mondo fra il XV e il XVII secolo.
Tutte avevano esercitato la loro autorità in
maniera assolutamente autonoma senza far mai
alcun gesto di sottomissione, nemmeno formale,
nei confronti degli imperatori cinesi.
La gerarchia Sakya governò il Tibet per circa
un secolo ma quando in Cina l’influenza della
dinastia Yuan (mongola) cominciò a indebolirsi
sul Tetto del Mondo il potere dei Sakya-pa prese a
vacillare. Nella valle di Yarlung la potente famiglia dei Pamotrupa si mise a capo di un movimento dai forti accenti nazionalisti che apertamente
contestava l’autorità degli abati di Sakya il cui
potere terminò del tutto nel 1354. Jangchub
Gyaltsen, l’uomo forte del clan Pamotrupa, formò
un nuovo governo che venne riconosciuto dagli
stessi khan mongoli ormai alla vigilia della fine
del loro ruolo dirigente in Cina. Quando i Ming
sostituirono gli Yuan alla guida dell’Impero di
Mezzo, Jangchub Gyaltsen considerò esaurito e
non più riproponibile il rapporto lama-patron e
venne così a cadere quel particolare legame che
univa il Tibet a una nazione straniera e il Paese
delle Nevi poteva nuovamente considerarsi indipendente a tutti gli effetti.
Il V Dalai Lama
A partire dalla fine del 1400 comincia ad aumentare l’influenza dei lama di una delle principali
linee di reincarnazione della scuola Gelug e
Sonam Gyatso, il terzo di questi reincarnati, stabi9
lì una forte relazione con alcune tribù mongole
che, sebbene non governassero più la Cina, rappresentavano ancora nell’Asia centrale una notevole forza politico-militare. Altan Kan, un discendente di Gengis, divenne discepolo di Sonam
Gyatso e in segno di devozione insignì il suo maestro del titolo di Dalai Lama che da allora in poi
contraddistinse tutte le successive reincarnazioni
di questi maestri. Ben presto la figura dei Dalai
Lama acquistò in Tibet, particolarmente nelle
regioni centrali ed occidentali, un forte rilievo
sociale, oltre che religioso. Il V Dalai Lama,
Ngawang Lobsang Gyatso, era un uomo dotato di
grandi capacità politiche e di un forte carisma personale. Sentiva profondamente il dramma che il
suo paese stava vivendo a causa delle lotte interne
che vedevano clan, principati e addirittura alcuni
grandi monasteri combattersi per il potere. Infatti
i primi decenni del 1600 erano stati drammatici
per il Tibet, la forza dei re di Tsang si era indebolita ma non ne era emersa un’altra in grado di
sostituirli.
Gli anni del V Dalai Lama passarono alla storia come sinonimo di buon governo e di feconda
stabilità nazionale. I problemi però cominciarono
non appena il Prezioso Protettore (2) morì nel
1682. Il suo principale collaboratore, Desi Sangye
Gyatso, nascose per diversi anni la morte del V
Dalai Lama. Disse che la Presenza si era ritirata per
un periodo di meditazione e che per qualche
tempo non avrebbe preso parte a cerimonie pubbliche. Ovviamente anche in Tibet le bugie
hanno le gambe corte e alla fine si dovette dire la
verità ad un popolo tutt’altro che felice di essere
stato tenuto per anni all’oscuro della scomparsa
della più alta autorità della nazione. Desi Sangye
Gyatso cercò di scusarsi adducendo una serie di
motivi il principale dei quali era relativo alla
costruzione del palazzo del Potala nella città di
Lhasa. Dal momento che il V Dalai Lama aveva
fatto iniziare i lavori di questo grande edificio
(che da allora è rimasto la sede ufficiale di tutti i
Dalai Lama) e questi lavori non erano completamente terminati Desi Sangye Gyatso sostenne che
aveva tenuto nascosta la notizia della morte di
Kundun nel timore che a causa di essa non si portasse più a termine l’edificazione del Potala.
Fu in un contesto del genere che il V Dalai
Lama, essendosi messo alla testa di un ampio fronte di oppositori, riuscì ad imporsi come l’unico
effettivo antagonista dei re di Tsang che vennero
definitivamente sconfitti, dopo un’aspra lotta
dalle alterne fortune, solo nel 1642. La vittoria del
Dalai Lama e dei suoi alleati fu possibile anche, e
forse soprattutto, grazie all’alleanza che Ngawang
Lobsang Gyatso aveva stretto con Gushri Khan,
capo della potente tribù mongola Qosot.
L’apporto degli eserciti mongoli si rivelò decisivo
e dalla seconda metà del XVII secolo il V Dalai
Lama poté governare un Tibet pacificato, unito e
indipendente. Una nazione che finalmente aveva
trovato un punto di riferimento nel quale tutti si
potevano riconoscere tanto dal punto di vista spirituale che politico. Infatti da questo momento le
incarnazione dei Dalai Lama cessano di essere solo
i rappresentanti di uno dei principali lignaggi
della scuola Gelug per divenire invece il simbolo
stesso del Paese delle Nevi e di tutti i suoi abitanti, senza alcuna differenza di etnia, posizione
sociale o tradizione religiosa.
Ovviamente si tratta di una scusa che non
regge e sui veri motivi dell’operato di Desi gli storici non sono concordi. Alcuni affermano che era
spinto dalla preoccupazione, per altro ben motivata, che un vuoto di potere sarebbe sfociato in un
altro periodo di scontri fratricidi vanificando così
tutto il lavoro compiuto dal V Dalai Lama. Altri
studiosi, meno benevoli, sostengono invece che il
comportamento di Sangye Gyatso fosse dettato
unicamente dalla sua avidità e dalla paura di essere estromesso dai vertici del governo. Comunque,
quale sia stata la verità, il disappunto dei tibetani
per l’inganno subito venne compensato dal fatto
che insieme alla notizia della scomparsa del V
Dalai Lama fu dato l’annuncio che era stata scoperta la nuova incarnazione del Prezioso Protettore
e che stava giungendo a Lhasa per essere insediata nel Potala ormai terminato.
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alleanze con Desi Sangye Gyatso. Approfittando
del risentimento che i tibetani provavano verso
Lhazang Khan, il quale tra l’altro aveva tentato di
imporre un suo protetto come il “vero” VI Dalai
Lama, gli Zungari invasero a loro volta il Tibet e
nel 1717 conquistarono Lhasa e uccisero Lhazang
Khan. Quanti avevano salutato con piacere la
caduta dell’inviso despota straniero dovettero
immediatamente ricredersi. Infatti i nuovi arrivati si dimostrarono ben presto un rimedio peggiore
del male. Inebriati dalla vittoria si abbandonarono ad eccessi di ogni genere. Bruciarono monasteri, violentarono donne, uccisero gli uomini. Il
martoriato Paese delle Nevi guardava attonito,
disperato e impotente dissolversi tutto quello che
l’abilità del V Dalai Lama aveva costruito.
Inerme, non poteva che piegarsi alla spietata logica della violenza.
L’influenza Manciù
Il VI Dalai Lama fu una personalità eccentrica e il
suo comportamento inusuale venne purtroppo
usato come pretesto per l’intervento di forze e
potenze straniere negli affari interni del “Tetto del
Mondo”. In quegli stessi anni la Cina, il potente
Impero di Mezzo, era teatro di profondi cambiamenti politici che avrebbero avuto nefaste ripercussioni per la storia tibetana dei secoli a venire. I
Manciù (Ch’ing in mandarino), una popolazione
nord-asiatica di origine extracinese, avevano
preso il sopravvento e si erano insediati a Pechino
e dalla capitale del Celeste Impero gettavano
sguardi interessati verso gli stati confinanti, primo
fra tutti il grande ed indifeso “Paese delle Nevi”.
Il secondo imperatore Ch’ing, non volendo
esporsi di persona, spinse un feroce e spregiudicato capo mongolo di nome Lhazang Khan ad entrare in Tibet. Il governo legittimo di Lhasa fu deposto con l’accusa di non essere in grado di mettere
in riga il giovane e scapestrato Gyalwa Rinpoche e
per di più di essere anche succube degli uomini di
fiducia del precedente Dalai Lama. In modo particolare si accanirono contro Desi Sangye Gyatso
che venne ucciso mentre tutti i ministri furono
messi in prigione e lo stesso VI Dalai Lama posto
agli arresti domiciliari.
Lhazang Khan offrì il Tibet in dono all’imperatore manciù che ricambiò il favore nominando il
mongolo governatore del “Tetto del Mondo”.
Dopo essere stato catturato, il VI Dalai Lama fu
inviato in Cina dove però non giunse mai. Morì
infatti durante il viaggio in circostanze misteriose
e mai del tutto chiarite anche se i tibetani ritennero che il loro Oceano di Saggezza fosse perito per
mano di un sicario di Lhazang Khan. La tragica
scomparsa del VI Dalai Lama e il brutale dominio
del capo mongolo feriscono profondamente il
popolo tibetano; violenze e atrocità di ogni genere vengono consumate in ogni angolo del “Paese
delle Nevi” e, cosa ancora peggiore, la spregiudicata invasione di Lhazang Khan suscita gli appetiti di un’altra tribù mongola, quella degli Zungari,
che in precedenza avevano stabilito relazioni ed
Di tutto questo caos ne approfittò Kang Hsi,
l’imperatore manciù, che inviò in Tibet un esercito potente e ben addestrato a combattere gli
Zungari e scortare a Lhasa Kalsang Gyatso, il VII
Dalai Lama, che era stato riconosciuto e viveva
nel monastero di Kumbun, nella regione nordorientale dell’Amdo. Sia perché il suo intervento
poneva fine al sanguinario potere degli Zungari,
sia perché rendeva possibile il ritorno del Dalai
Lama, l’arrivo dell’esercito cinese fu salutato con
gioia sul Tetto del Mondo. Ancora una volta però,
i tibetani dovettero accorgersi che in politica nessun aiuto è disinteressato. Infatti nel 1720 la settima incarnazione della Presenza si insediò sul
Trono del Leone, ma in cambio l’imperatore pretese che il Tibet divenisse una sorta di protettorato mancese. Due suoi rappresentanti, gli Amban, si
stabilirono a Lhasa e una guarnigione han forte di
duemila uomini rimase nella capitale tibetana.
Compito degli Amban era quello di curare gli interessi di Pechino in Tibet.
Molti degli equivoci che concernono l’effettivo
status del Paese delle Nevi nascono in quegli anni.
La domanda è la seguente: si può considerare il
Tibet, a partire dal 1720 parte integrante
dell’Impero di Mezzo? La risposta dovrebbe essere
11
negativa. E vediamo perché. E’ fuor di dubbio che
i tibetani furono costretti ad accettare la soluzione
“imperiale” come il minore dei mali e formalmente non contestarono subito la pretesa di Kang Hsi
di annettere il Tibet. Nel concreto però continuarono a comportarsi come se nulla fosse avvenuto
confidando nel fatto che un effettivo e prolungato controllo della loro nazione sarebbe stato
impossibile per i manciù. E infatti così andarono
le cose. Una volta rientrato in Cina il grosso dell’esercito imperiale, il Tibet tornò ad essere governato dal Dalai Lama e dai suoi ministri mentre in
pratica gli Amban si limitavano a svolgere le funzioni di normali ambasciatori.
Nell’anno del Topo di Fuoco (1876) nacque
Thubten Gyatso, il XIII Dalai Lama. Questi, contrariamente ai suoi ultimi predecessori, non solo
vivrà a lungo ma riuscirà anche a governare il
Paese delle Nevi con tale intelligenza e lungimiranza da essere ricordato con l’appellativo di
“Grande Tredicesimo”. Nel periodo in cui il piccolo Thubten Gyatso veniva educato a Lhasa e
trascorreva l’adolescenza dividendosi tra i giochi e
gli studi, la Gran Bretagna, al culmine della sua
espansione coloniale, cominciava ad interessarsi
seriamente del Tibet. Preoccupato che il Tetto del
Mondo potesse cadere sotto l’influenza russa dal
momento che la forza dell’impero manciù declinava giorno dopo giorno, il Leone britannico voleva
estendere la sua influenza sul grande vicino settentrionale dell’India inglese. Certo non si trattava di ambizioni militari, il sub-continente indiano
era già abbastanza esteso, ma di mire economiche.
Londra era intenzionata a concludere trattati
commerciali con Lhasa, con le buone se possibile
ma anche con le cattive ove necessario.
Il VII e l’VIII Dalai Lama non esercitarono un
grande ruolo politico ma preferirono dedicarsi alla
vita spirituale e la conduzione degli affari dello
stato venne affidata ad un Gabinetto (Kashag),
costituito da quattro ministri (Kalon) di cui tre
erano laici ed uno monaco. Questo assetto legislativo rimarrà in vigore, più o meno inalterato, fino
al 1959.
L’ottavo giorno dell’ottavo mese dell’anno
della Pecora di Legno (1895), il XIII Dalai Lama
assunse i pieni poteri e iniziò a guidare il Tibet nei
non facili meandri del “Grande Gioco”. Nel 1904
la Gran Bretagna, dopo aver tentato inutilmente
per oltre un anno di stabilire relazioni commerciali con il governo tibetano, armò una spedizione
militare che al comando del colonnello
Younghusband entrò in Tibet e giunse in breve
tempo a Lhasa dopo aver sconfitto l’esercito tibetano. Younghusband stabilì alcuni accordi economici e dopo pochi mesi tornò in India con i suoi
soldati. All’arrivo delle truppe britanniche il XIII
Dalai Lama era partito per un lungo viaggio che lo
aveva portato in Mongolia e poi a Pechino dove
nel 1908, tra gli altri, incontrò sia il giovane imperatore Kuang-hsu sia l’Imperatrice vedova Tz’uhsi poco prima che entrambi morissero nel
novembre di quell’anno. Nel 1909 il Prezioso
Protettore tornò a Lhasa dopo circa sei anni di
assenza ma ben presto dovette partire nuovamente, questa volta per riparare in India, poiché il
Il “Grande Gioco” e il XIII Dalai Lama
Gli ultimi anni del diciottesimo secolo segnano
l’inizio di un lungo periodo di instabilità per il
Tibet che nel 1792 poté respingere un attacco
delle armate del vicino regno del Nepal solo grazie all’intervento degli eserciti Ch’ing. Nel 1804
muore l’VIII Dalai Lama e l’Impero di Mezzo
riprende in grande stile i suoi tentativi di annettersi il Paese delle Nevi. Nonostante il XI, il X,
l’XI e il XII Dalai Lama muoiano tutti in giovane
o giovanissima età, il Tibet riesce a trovare la forza
di resistere alla pressione manciù e alle ricorrenti
aggressioni nepalesi. Pur tra mille difficoltà interne il governo di Lhasa mantiene il controllo della
nazione e tenta di barcamenarsi come può in una
situazione geopolitica che si va facendo sempre
più complessa. Sono infatti entrati nel “Grande
Gioco” asiatico due aggressivi imperi occidentali,
la Russia zarista e la Gran Bretagna, ognuno dei
quali teme che l’altro possa inglobare il Tibet
nella propria sfera d’influenza.
12
dell’Asia, tornò a chiudersi in uno “splendido”
isolamento che costerà però caro, pochi anni più
tardi, all’intera nazione. Il 6 luglio 1935, nell’anno del Maiale di Legno secondo il calendario tibetano, nasce a Takster, uno sperduto villaggio della
regione orientale dell’Amdo, la 14° incarnazione
del Prezioso Protettore. Riconosciuto secondo le
tradizionali procedure da una delegazione inviata
dal governo tibetano, il piccolo bambino viene
quindi portato a Lhasa dove il 14° giorno del
primo mese dell’anno del Drago di Ferro (22 febbraio 1940) viene formalmente insediato.
generale cinese Chung-yin era entrato in Tibet e
muoveva minaccioso alla conquista di Lhasa. La
capitale tibetana venne conquistata facilmente e
sottoposta a una dura repressione. Per la prima
volta nella sua storia il Paese delle Nevi era militarmente conquistato da una potenza straniera e
gli Amban potevano direttamente governare a
Lhasa.
L’occupazione fu però di breve durata. Nel
1911, travolto dalla rivoluzione di Sun Yat-sen,
cade l’impero manciù e la Cina diventa una
Repubblica. Sbandati e senza più alcuna effettiva
guida militare, i soldati cinesi sono sopraffatti
dalla popolazione di Lhasa e si arrendono dopo
alcuni giorni di combattimenti. Il Tibet, dove non
vi è più traccia di militari stranieri e da cui gli
Amban sono stati definitivamente espulsi, torna
ad essere governato dal Dalai Lama che rientra
trionfalmente a Lhasa il sesto giorno del dodicesimo mese dell’anno del Topo d’Acqua (gennaio
1913). Il Prezioso Protettore, consapevole di quanto fosse difficile mantenere l’indipendenza raggiunta, iniziò un processo di apertura e modernizzazione del Paese pur nel rispetto delle tradizioni e
delle sue radici culturali. Purtroppo una classe
dirigente, sia laica sia religiosa, molto meno lungimirante della Presenza, non assecondò quei programmi con il necessario entusiasmo quando addirittura in segreto non li boicottò. Dunque la spinta riformatrice del XIII Dalai Lama non poté
esprimersi in tutta la sua forza e quando, il tredicesimo giorno del decimo mese dell’anno
dell’Uccello d’Acqua (17 dicembre 1933),
Thubten Gyatso lasciò il suo corpo terreno a causa
di un improvviso attacco di polmonite, le idee di
modernizzazione e cambiamento morirono con
lui.
All’inizio degli anni ’40 il Tibet è un’oasi di
pace al centro di un continente sconvolto da
guerre e rivoluzioni. La Cina, dove per anni si
erano sanguinosamente combattuti comunisti e
nazionalisti, cerca ora di resistere come può all’invasione giapponese che appare sempre più irresistibile. Nell’India britannica il movimento indipendentista guidato da Gandhi guadagna terreno
minando le basi della dominazione inglese e, a
partire dal 1941, il Giappone entra nella seconda
guerra mondiale a fianco di Germania ed Italia
attaccando la base aerea navale statunitense di
Pearl Harbour. Sfortunatamente in Tibet solo
pochi, e anch’essi troppo tardi, si accorsero che
minacciose nuvole portatrici di una tempesta
senza pari si stavano addensando sul cielo del
Tetto del Mondo dove, per la quasi totalità della
popolazione, le giornate e gli anni continuavano a
scorrere con i ritmi arcaici di sempre.
Nel 1945 il Giappone sconfitto e umiliato dall’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, si
arrende alle potenze alleate. Pochi anni dopo
(1947) l’Inghilterra è costretta ad abbandonare la
sua amata colonia indiana che si divide, in un
bagno di sangue, in due stati rivali: il Pakistan
musulmano e l’Unione Indiana a grande maggioranza induista. In Cina nel 1949 termina una delle
più sanguinose guerre civili che la storia ricordi e
il Partito Comunista prende il potere guidato dal
suo carismatico leader Mao Tsetung. E sarà proprio quest’ultimo evento ad avere enormi e tragiche conseguenze sulla storia tibetana. E’ lo stesso
Il XIV Dalai Lama e l’invasione cinese
La classe dirigente tibetana, pensando che la particolare posizione geografica del Paese delle Nevi
sarebbe bastata a difenderlo dai drammatici eventi che stavano radicalmente mutando il volto
13
ni di notevole autonomia. L’esercito comunista
poté quindi entrare a Lhasa nel settembre 1951
portando così a termine l’occupazione del Tibet.
Mao, mentre celebra a Pechino la nascita della
Repubblica Popolare Cinese, ad affermare con
forza che il Tibet dovrà essere riconquistato alla
Madrepatria Cinese e strappato alle “forze imperialiste”. A Lhasa le affermazioni del leader comunista non giungono inaspettate. Il governo tibetano aveva già avuto sentore dei propositi della
nuova classe dirigente cinese e aveva, invano, cercato di ottenere la solidarietà internazionale. Ma
quell’isolamento che nei lontani e felici anni ’30
era sembrato così “splendido” oggi si ritorce come
un boomerang contro il Paese delle Nevi. La Gran
Bretagna risponde agli inviati di Lhasa che ormai
è fuori dalle vicende politiche asiatiche, gli USA
dicono che vedranno cosa si può fare ma poi non
faranno nulla, il governo indiano, e soprattutto il
suo Primo Ministro Nehru, tutto hanno in mente
tranne che guastare i rapporti con la Repubblica
Popolare Cinese e la neonata ONU (diretta
discendente di quella Società delle Nazioni a cui
il Tibet si era ben guardato dall’aderire) preferisce
guardare da un’altra parte.
Nel suo arduo tentativo di trovare una qualche
forma di pacifica convivenza con l’occupante, nel
1954 il Dalai Lama compì una lunga visita di cortesia nella Repubblica Popolare Cinese. A
Pechino il leader tibetano ebbe diversi incontri
con Mao Tsetung, Ciu En Lai ed altri importanti
dirigenti comunisti. Prima di partire per tornare a
Lhasa, il Dalai Lama ricordò a Mao, che si disse
d’accordo, quanto fosse importante che i cinesi
rispettassero le tradizioni sociali e culturali del
Tibet come del resto stabiliva lo stesso trattato in
Diciassette Punti. Nonostante le assicurazioni
ricevute a Pechino, il Dalai Lama trovò in Tibet
una situazione estremamente deteriorata. Alle
innumerevoli angherie e violenze compiute dai
cinesi ai danni della popolazione e dei monasteri,
i tibetani avevano risposto dando vita a un vasto
movimento di resistenza attivo in pratica in tutta
la parte nord-orientale del Paese. Gushi
Gangdruk, letteralmente “Quattro fiumi e sei
catene di montagne”, era il nome dell’organizzazione guerrigliera tibetana, nome che si richiamava a quello con cui le regioni dell’Amdo e del
Kham erano chiamate dalla gente comune.
Secondo stime attendibili alla fine del 1957 circa
centomila guerriglieri combattevano per la libertà
del Tibet, ma la disparità delle forze in campo non
lasciava alcuna possibilità di successo alla pur
eroica resistenza tibetana. Infatti i cinesi potevano contare su di un esercito armato di tutto punto,
organizzato secondo una ferrea disciplina, perfettamente addestrato e che contava quattordici
divisioni per un totale di oltre centocinquantamila uomini. Durante tutto il 1957 e il 1958 alle
incursione della guerriglia Pechino rispose colpendo indiscriminatamente la popolazione civile,
bombardando villaggi, uccidendo monaci, distruggendo monasteri e passando per le armi tutti coloro che, a torto o a ragione, erano accusati di aver
aiutato i partigiani. La potente macchina bellica
maoista fu responsabile in quegli anni, come
appurarono in seguito due dettagliati rapporti
In questo desolante quadro politico il 7 ottobre
1950 le truppe del potente vicino cinese attaccano la frontiera tibetana in sei luoghi diversi e travolgono facilmente la debole resistenza del suo
piccolo esercito. A Lhasa il governo e l’intera
popolazione vengono presi dal panico. In novembre, sotto l’incalzare degli eventi, sono conferiti i
pieni poteri al Dalai Lama nonostante abbia solo
16 anni. Mai nella storia il Tibet era stato governato da un Dalai Lama così giovane. Dopo essere
penetrato in territorio tibetano, l’esercito cinese
non avanzò oltre le regioni nord orientali forse
temendo una reazione internazionale. Nell’aprile
1951 il governo del Dalai Lama inviò in Cina una
delegazione che era autorizzata ad esporre il punto
di vista di Lhasa e ad ascoltare le posizioni cinesi
ma non poteva firmare alcun accordo. A Pechino
però, i tibetani furono sottoposti a minacce di
vario genere e venne loro impedito ogni contatto
con le autorità di Lhasa. In queste condizioni la
delegazione tibetana fu costretta a firmare un trattato in Diciassette Punti secondo il quale il Tibet
entrava a far parte della Cina sia pure in condizio14
segnasse inerme nelle mani dei militari cinesi. Il
popolo era convinto che lo spettacolo non fosse
altro che un pretesto per rapire la Presenza.
Testimoni oculari dissero di aver visto tre aerei
pronti a decollare sulla pista del piccolo aeroporto
di Damshung a un centinaio di chilometri da
Lhasa. Altri raccontavano di aver sentito Radio
Pechino affermare che il Dalai Lama era atteso
nella capitale per partecipare alla ormai prossima
riunione dell’Assemblea Nazionale Cinese. Tutti
si dicevano decisi a difendere Kundun anche a
costo delle loro vite. Il clima era ormai pre-insurrezionale. La miscela rappresentata dai profughi
delle regioni nord-orientali, dai membri della resistenza, dai pellegrini convenuti a Lhasa per le
celebrazioni del Monlam e dalla gente normale
esasperata da anni di occupazione, si rivelò esplosiva. Ognuno aveva la sua tragica storia da raccontare e i suoi rimedi da proporre. Ci si eccitava
gli uni con gli altri e il numero dava l’errata sensazione di poter essere abbastanza forti da sconfiggere l’occupante. Il risultato di questo stato di cose
fu un imponente assembramento di popolo che si
riunì intorno al Norbulinka (4) dove si trovava il
Dalai Lama. La gente chiedeva apertamente al
governo di ripudiare il Trattato in Diciassette
Punti e che i cinesi se ne andassero dal Tibet.
Quello che la folla voleva ormai andava ben oltre
la partecipazione del Prezioso Protettore allo spettacolo cinese. La parola d’ordine era, “Libertà e
indipendenza ”.
della Commissione Internazionale dei Giuristi
(3), di un vero e proprio genocidio. Ad ogni azione dei guerriglieri seguivano sanguinose rappresaglie che dovevano servire a terrorizzare la popolazione e fare terra bruciata intorno agli uomini
della resistenza. Dall’Amdo e dal Kham, sconvolti dalle battaglie, cominciarono ad affluire nelle
province centrali di U-Tsang lunghe colonne di
profughi. Dapprima si trattava solo di civili che
cercavano di sfuggire alle violenze cinesi. Poi,
man mano che si delineava l’inevitabile sconfitta
militare, arrivarono anche nutriti gruppi di guerriglieri che speravano di potersi riorganizzare nel
Tibet centrale per poi tornare nel nord-est. Ma si
trattò di una speranza vana perché ormai la presenza cinese sul Tetto del Mondo era ben solida e
capillare. Il potere dello stesso Dalai Lama in pratica non esisteva più e il campo d’azione del suo
governo si limitava ai problemi di ordinaria
amministrazione mentre per tutte le questioni
importanti erano i generali dell’Armata Rossa a
decidere e comandare.
Nel volgere di poco tempo anche a Lhasa la
tensione divenne intollerabile. I tibetani non solo
erano costretti a subire ogni genere di violenze e
soprusi ma dovevano anche assistere impotenti
alle quotidiane umiliazioni inflitte al loro leader
più amato, il Prezioso Protettore. All’inizio del
marzo 1959 mentre nella capitale tibetana si celebrava il Monlam Chenmo, la Festa della Grande
Preghiera forse la principale ricorrenza religiosa
dell’intero anno, il Dalai Lama venne invitato a
partecipare ad uno spettacolo che si sarebbe tenuto al quartier generale delle truppe cinesi. In realtà più che di un invito si trattò di una vera e propria convocazione dal momento che fu chiesto a
Kundun di venire senza l’usuale scorta e accompagnato solo da un pugno di funzionari, peraltro
disarmati. Il Dalai Lama, nonostante il parere
negativo dei suoi ministri decise che un suo rifiuto avrebbe ulteriormente irritato i cinesi e quindi
accettò di recarsi negli insediamenti militari cinesi alle condizioni che questi avevano posto. Ma
quando i tibetani appresero la notizia decisero che
non avrebbero permesso che il loro leader si con-
Ovviamente i cinesi erano furiosi per quello
che succedeva in città e pretendevano non solo
che il Dalai Lama si recasse al loro quartier generale ma che il suo governo disperdesse con la forza
gli “assembramenti non autorizzati”. Tenzin
Gyatso era quindi in una difficilissima posizione.
Da un lato sapeva bene che i timori della sua
gente erano più che fondati ed era commosso
dalla lealtà e dall’affetto dei suoi sudditi, dall’altro
si rendeva perfettamente conto che nulla avrebbero potuto contro il micidiale apparato bellico
dei loro nemici. Decise quindi di fuggire sperando
in questo modo di calmare le acque, far scendere
la tensione sotto il livello di guardia e poi ripren15
Il Tibet occupato
tibetana e il volto del “nuovo” Tibet cominciava a
prendere forma. Il 5 aprile 1959, accompagnato da
una ingente scorta militare cinese, il Panchen
Lama (4) fu fatto arrivare a Lhasa per esservi insediato come presidente del Comitato Autonomo
della Regione Autonoma del Tibet, una organizzazione creata dai cinesi per dare l’impressione che i
tibetani contassero ancora qualcosa nel loro Paese
mentre in realtà ogni potere si trovava ormai nelle
mani dei generali di Pechino. In pratica il Tibet
venne smembrato e le sole regioni centrali di UTsang formarono la Regione Autonoma Tibetana
(creata ufficialmente nel 1965) dal momento che
il Kham e l’Amdo divennero parte delle province
cinesi del Chingai, dello Sichuan, del Gansu e
dello Yunnan. Così smembrato e ridotto ad
un’area abitata da non più di due milioni di persone il Paese delle Nevi doveva essere, nelle aspettative dei suoi nuovi padroni, pronto per la normalizzazione e l’edificazione di una società socialista. Il forcipe che avrebbe dovuto facilitare questo
non facile parto fu individuato dalle autorità cinesi nelle cosiddette “Tre educazioni” (alla coscienza di classe, al cambiamento socialista ed alla
scienza e alla tecnica) e nelle “Quattro Pulizie”
(del pensiero, della storia, della politica e della
economia) che consistevano in una martellante
campagna politica e poliziesca destinata a “ripulire” il Tetto del Mondo dai “reazionari, dalle armi
illegali e dai nemici del popolo”. L’intera società
tibetana venne divisa in sei classi secondo i rigidi
schemi dell’ortodossia maoista. Da un giorno
all’altro gli abitanti del Tibet scoprirono di essere
“feudatari”, “agenti dei feudatari”, “ricchi”, “classe
media”, “poveri” e “reazionari”. Le classi “media”
e “povera” vennero considerate quelle da privilegiare mentre le altre subirono un vero e proprio
martirio. Ben presto però i cinesi si accorsero che
anche la grande maggioranza degli appartenenti
alle classi “media” e “povera” non ne volevano
sapere del governo di Pechino e quindi molti tibetani “medi” e “poveri” traslocarono nella più scomoda di tutte le classi, quella dei “reazionari ”.
Mentre Kundun trovava rifugio in India, la Cina
portava a termine la repressione della resistenza
Ben presto i generali cinesi si resero conto che
oltre il 90% dei tibetani era ancora fedele al Dalai
dere la strada del dialogo e delle trattative. La
notte tra il 17 e il 18 marzo il Dalai Lama e un piccolo gruppo di persone tra cui vi erano i suoi famigliari e alcuni ministri uscì segretamente dal
Palazzo d’Estate per cercare rifugio nelle zone
meridionali del Tibet ancora non del tutto controllate dai cinesi. Purtroppo le speranze del Dalai
Lama che una sua partenza avrebbe potuto sistemare le cose si dimostrarono vane. La notte tra il
19 e il 20 marzo cominciò la battaglia di Lhasa. I
cinesi bombardarono il Norbulinka, probabilmente sperando che la Presenza potesse morire sotto le
bombe, e poi attaccarono la città. Vennero colpiti il Potala, il Jokhang, le abitazioni. La gente
combatteva per le strade una lotta eroica ma
impari. Le donne e gli uomini di Lhasa affrontavano un esercito moderno ed equipaggiato di tutto
punto, armati con vecchi fucili, coltelli e bastoni.
I soldati di Pechino furono implacabili e decine di
migliaia di persone, in gran parte civili, morirono
sotto i colpi di una repressione feroce. Il governo
tibetano venne sciolto e tutte le autonomie riconosciute dal Trattato in Diciassette Punti abolite.
Il Dalai Lama riuscì a stento a mettersi in salvo.
Scortato da un pugno di uomini della resistenza
raggiunse dapprima Lhuntse Dzong, una località
vicina al confine indiano, dove in un primo
tempo pensava di fermarsi in attesa di tornare a
Lhasa. Ma di fronte al precipitare della situazione
e alle notizie terribili che giungevano dalla capitale decise che non aveva altra scelta se non riparare in India dove giunse il 31 marzo dopo un viaggio che in tutto era durato due settimane e durante il quale aveva percorso oltre un migliaio di chilometri. Il governo di Nuova Delhi concesse
immediatamente asilo politico al Dalai Lama che
dall’India chiese aiuto alla comunità internazionale per il suo martoriato Paese sul quale erano
calate le tenebre di una lunga notte di orrori e tragedie che non è ancora terminata.
16
Tashilumpo. Accecate da un furore iconoclasta
allucinato e allucinante le Guardie Rosse distrussero statue, dipinti, affreschi, edifici antichi di
centinaia e a volte migliaia di anni producendo
una ferita irreparabile alla civiltà tibetana.
Ovviamente la furia dei giovani maoisti non si
limitò alle cose ma prese di mira anche le persone
e i tibetani passarono attraverso un inferno difficile a descrivere con le parole.
Nella seconda metà degli anni ‘70, con la
scomparsa di Mao e l’ascesa al potere di Deng
Tsiao Ping, molte cose cambiarono nella Cina
Popolare e il nuovo corso denghista comportò
anche un diverso atteggiamento riguardo al Tibet.
Il sistema di rigida collettivizzazione e delle comuni venne definitivamente smantellato. Alcuni
monasteri furono parzialmente riaperti e qualche
monaco poté essere nuovamente ordinato dai quei
pochi che erano sopravvissuti ed alcune celebrazioni religiose ripresero ad essere tollerate. Nel
1980 Hu Yao Bang, allora segretario generale del
Partito Comunista Cinese, visitò il Tibet ed essendo rimasto sconvolto da quello che aveva visto
promise ai tibetani un rapido cambiamento della
situazione. Contatti informali si stabilirono con il
Dalai Lama che tra il 1979 e il 1982 poté inviare
in Tibet alcune sue delegazioni. Quello che i rappresentanti di Dharamsala trovarono fu un Paese
umiliato, sconvolto, ferito. Ma se quasi ogni traccia visibile dell’antica civiltà tibetana era stata
spazzata via dalla furia iconoclasta di oltre un
decennio di Rivoluzione Culturale, il ricordo del
vecchio Tibet indipendente era ancora ben vivo
nei cuori del popolo tibetano che accolse i delegati del Dalai Lama con un entusiasmo che non
piacque alle autorità cinesi le quali nel 1982
dichiararono chiusa la breve stagione delle delegazioni.
Lama e decisero quindi che per rendere la popolazione più disponibile ad accettare le “Riforme
Democratiche” erano necessarie delle “sessioni di
lotta ” collettive, i famigerati thamzing, dei veri e
propri linciaggi pubblici degli elementi “controrivoluzionari ” a cui tutti dovevano partecipare attivamente. Chi non lo faceva, o non lo faceva con
il necessario entusiasmo, rischiava di passare
immediatamente dal ruolo di accusatore in quello
di accusato. Oltre a queste “sessioni di lotta ”, per
convincere il popolo tibetano a rispettare l’autorità di Pechino e a rompere con la “vecchia ” cultura, vennero chiusi o distrutti i monasteri e i monaci dispersi, fu proibita e perseguitata ogni manifestazione (sia pubblica sia privata) di fede religiosa,
anche le più innocue espressioni di dissenso vennero represse e i dissidenti rinchiusi nei numerosi
campi di lavoro forzato aperti in tutto il Paese. A
questo scenario, di per sé tragico, si aggiunse lo
spettro della fame e della carestia che tra il 1958 e
il 1962 devastò la Repubblica Popolare Cinese
come conseguenza del “Grande Balzo in Avanti”
voluto da Mao per riconquistare il pieno controllo del Partito Comunista. Di fronte a questo drammatico stato di cose il Panchen Lama, che era
rimasto in Tibet nella speranza di poter svolgere
un ruolo di mediazione tra il suo popolo e le autorità cinesi, scrisse a Mao una lunga lettera in cui
criticava severamente l’operato cinese in Tibet e
chiedeva un immediato cambiamento di rotta. La
risposta di Pechino non si fece attendere. Il
Panchen Lama fu immediatamente arrestato, processato e sottoposto a thamzing insieme al suo
tutore e ai suoi più stretti collaboratori. Nessuna
umiliazione venne risparmiata al Panchen Lama
che dopo il processo sparì nelle carceri cinesi da
cui poté riemergere solo nel 1978. A completare
l’opera di annientamento della cultura tibetana
arrivò nel 1967 la Rivoluzione Culturale con il
suo tragico corollario di violenze, distruzioni e
deliri. Gruppi di giovani fanatici ed esaltati sciamarono sul Tetto del Mondo attaccando e fracassando ogni simbolo della “vecchia ” cultura del
Tibet. Di quasi seimila monasteri e tempi se ne
salvarono solamente tredici, tra cui il Potala a
Lhasa, il Kum Bum a Gyantse, il monastero di
Il Tibet negli anni ’80 e ‘90
L’inizio degli anni ‘80 segna anche l’apertura del
Tibet al turismo internazionale. Dapprima solo a
pochi viaggiatori selezionati e rigidamente inquadrati in seguito anche a gruppi più numerosi e
17
della resistenza tibetana e riuscirono a raggiungere il mondo esterno dove causarono una enorme
impressione. Era il primo inoppugnabile documento visivo di quale sorte attende in Tibet chi
osa dissentire. Mentre in Tibet si continua a inscenare brevi manifestazioni che cercano di sciogliersi prima dell’arrivo della polizia, il 15 giugno 1988
il Dalai Lama presenta nella sede del Parlamento
Europeo di Strasburgo una ulteriore elaborazione
del suo Piano di Pace in cui si dichiara disposto a
rinunciare all’indipendenza in cambio di una
effettiva autonomia di tutte e tre le province tibetane. Però nemmeno l’essersi spinto così avanti
nelle sue concessioni servì al Dalai Lama per convincere Pechino ad aprire un reale negoziato. I
dirigenti cinesi continuarono a porre inaccettabili condizioni al Dalai Lama o, peggio, a liquidare
le sue dichiarazioni con poche e sprezzanti battute mentre significativi settori del popolo tibetano
si dichiararono del tutto contrari ad una apertura
che comportava la definitiva rinuncia all’indipendenza. Intanto in Tibet la tensione continuava ad
essere altissima. Il 10 dicembre, anniversario della
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo,
alcune centinaia di persone manifestarono nuovamente a Lhasa davanti al Jokhang chiedendo
libertà civili e autodeterminazione. La polizia
cinese reagì, ancora una volta, con brutalità sparando con armi automatiche sulla folla inerme
causando diciotto morti e centinaia di feriti tra i
quali anche una giovane olandese, Christa
Meindersma che si trovava in Tibet in qualità di
collaboratrice della Croce Rossa svizzera.
meno controllabili di turisti, viene data la possibilità di visitare il Tetto del Mondo che sembra essere alla vigilia di importanti cambiamenti. Il turismo portò nel Paese delle Nevi migliaia di stranieri che il più delle volte simpatizzavano apertamente per la causa e le ragioni del popolo tibetano. Per
la prima volta i tibetani, specialmente quelli di
Lhasa e delle regioni centrali, poterono incontrare direttamente delle persone che parlavano con
simpatia della loro cultura, sia religiosa sia laica
del Tibet, e che in alcuni casi si dichiaravano
anche discepoli di maestri spirituali tibetani e
dello stesso Dalai Lama. Questi incontri prepararono il terreno per una rinascita della resistenza
che riprese la lotta per la libertà del Tetto del
Mondo. Il 21 settembre 1987, davanti alla
Commissione per i Diritti Umani del Congresso
statunitense, il Dalai Lama espose un Piano di
Pace in Cinque Punti che costituiva una seria e
articolata proposta per intavolare delle trattative
su basi realistiche con il governo di Pechino per
risolvere il problema del Tibet. Purtroppo la dirigenza cinese rispose negativamente al Piano del
Dalai Lama e a Lhasa esplose la collera della
gente. Il 29 settembre e il 1° ottobre migliaia e
migliaia di persone diedero vita a manifestazioni
di protesta che la polizia represse con inaudita violenza. Secondo fonti non ufficiali 32 tibetani vennero uccisi e oltre duecento feriti.
Queste dimostrazioni segnano l’inizio di una
nuova stagione della resistenza delle donne e degli
uomini del Paese delle Nevi e da allora grandi e
piccole manifestazioni avvengo quasi quotidianamente a Lhasa e in molte altre località del Tibet.
Il 5 marzo 1988, al termine delle celebrazioni per
il capodanno, a Lhasa monaci e laici iniziano a
scandire slogan contro l’occupazione cinese e
l’esercito apre il fuoco sulla folla in tumulto. Ore
di scontri davanti al tempio del Jokhang si concludono con un tragico bilancio. Ventiquattro
laici e dodici monaci sono uccisi, alcuni a colpi di
manganello, davanti e dentro al Jokhang. In
seguito parti di un video girato dalla stessa polizia
cinese, contenente alcune terribili immagini di
questo massacro, vennero trafugate da membri
In questo clima rovente, il 28 gennaio 1989
muore, in circostanze misteriose, il 10° Panchen
Lama che si trovava nel suo monastero di
Tashilumpo per celebrare alcuni riti.
Ufficialmente la causa del decesso fu attribuita ad
un infarto ma il fatto che solo pochi giorni prima
della sua scomparsa il Panchen Lama avesse rilasciato ad un giornale cinese una intervista in cui
accusava apertamente Pechino di essere responsabile di molti errori in Tibet, fece ritenere ai tibetani che il Panchen Lama fosse stato avvelenato
dai cinesi timorosi di una sua fuga all’estero. I
18
Lama il 23 e il 24 ottobre 1996.
sospetti sulle vere cause del decesso della seconda
autorità spirituale del Tibet gettano altra benzina
sul fuoco della tragedia tibetana. Il 5 marzo oltre
diecimila persone scendono in piazza a Lhasa
dando vita alla più imponente manifestazione dai
tempi dell’insurrezione del 1959. Per due giorni si
scontrano a più riprese con l’apparato repressivo
di Pechino riuscendo a tenere il centro di Lhasa
per quasi un’intera giornata. La risposta cinese a
queste dimostrazioni è durissima. Secondo fonti
non ufficiali diverse centinaia di tibetani perirono
negli incidenti e nella repressione che seguì. Tre
uomini di affari occidentali che si trovavano nella
capitale del Tibet in quei giorni parlarono di oltre
cinquecento morti. Il 7 marzo viene imposta a
Lhasa la legge marziale che rimarrà in vigore il 30
aprile del 1990.
Nel mondo intanto la questione del Tibet
comincia ad essere sostenuta da un numero sempre crescente di persone. Negli USA tre grandi
Tibetan Freedom Concert a cui partecipano centinaia di migliaia di giovani rendono popolare la
lotta del popolo tibetano tra i teenagers, nei colleges e nelle università. In Europa il 10 marzo del
1996 si tiene a Bruxelles una affollata manifestazione internazionale per la libertà del Tibet che
sarà replicata con altrettanto successo a Ginevra
nel 1997 e a Parigi nel 1998 anno in cui nelle sale
di tutto il mondo escono diversi film sul Tibet e
sul Dalai Lama. Tra l’altro nel dicembre 1997 la
Commissione Internazionale dei Giuristi (C.I.G.)
di Ginevra aveva pubblicato un secondo documento sul Tibet (6) che mette a nudo la gravità
della situazione e chiede alle Nazioni Unite di
intervenire. In particolare la C.I.G. chiede
all’ONU
di
far
discutere
all’interno
dell’Assemblea Generale il caso tibetano, di
nominare un Inviato Speciale per indagare sulle
effettive condizioni di vita dei tibetani, e di attivarsi per far svolgere in Tibet un referendum con
il compito di accertare quali siano i veri sentimenti del popolo tibetano riguardo alla situazione del
loro Paese. E poiché il popolo tibetano in Tibet
non può parlare se non a rischio della vita o della
prigione, gli esuli in India decidono di dar loro la
voce. Il 10 marzo 1998 a New Delhi sei militanti
della Tibetan Youth Congress (cinque uomini e
una donna) iniziano uno sciopero della fame ad
oltranza per sostenere le richieste della
Commissione Internazionale dei Giuristi. Al 49°
giorno di digiuno la polizia indiana interviene
ospedalizzando con la forza i sei e impedendo loro
di continuare fino all’estremo sacrificio la protesta. Sconvolto per questa ennesima prevaricazione contro il suo popolo, Tupthen Ngodup un tibetano di 50 anni che aveva accudito i digiunatori
fin dall’inizio della loro lotta, si dà fuoco per protesta e muore dopo pochi giorni con oltre il 95%
del corpo gravemente ustionato. La foto di
Tupthen Ngodup avvolto dalle fiamme fa in
poche ore il giro del mondo. E’ auspicabile che
Questa nuova ondata di manifestazioni fa crescere nel mondo, sconvolto anche per l’eccidio di
piazza Tienanmen, la simpatia per il popolo tibetano e la sua lotta civile e nonviolenta. Il conferimento al Dalai Lama del Premio Nobel per la
Pace 1989, è il segno più evidente di questo interesse. A partire dal 1990 il Dalai Lama intensifica
i suoi viaggi e sempre più spesso incontra capi di
Stato, di governo e parlamentari. Mentre in Tibet,
dove la repressione è tale da non consentire manifestazioni di massa, continua però lo stillicidio di
piccole dimostrazioni a Pechino nessuno vuole
dare risposte positive alle richieste del Dalai
Lama. Piano di Pace in Cinque Punti e Proposta
di Strasburgo continuano ad essere liquidati come
“tentativi mascherati di dividere il Tibet dalla
Grande Madrepatria Cinese ” e rimangono quindi
senza risposta. Ma se il Dalai Lama non ottiene
nulla da Pechino il suo messaggio viene invece
recepito da molti uomini politici internazionali,
in modo particolare dal Parlamento Europeo che
dopo aver approvato numerose risoluzioni di condanna delle violazioni dei diritti umani in Tibet, il
13 luglio 1995 vota con schiacciante maggioranza
un documento in cui si considerata il Tibet uno
stato sotto occupazione illegale. E lo stesso
Parlamento Europeo, nella sua sede di Strasburgo,
accoglie ufficialmente e con grande calore il Dalai
19
leader di spicco che, nella passata legislatura,
hanno svolto ruoli di primo piano in Tibet. E’ il
caso di Zhou Yonkang, capo della Provincia del
Sichuan all’epoca dell’arresto e della condanna a
morte di Lobsang Dondhup e Tenzin Delek, ora
assunto alla carica di Ministro della Pubblica
Sicurezza, e di Chen Kuiyuan, ex segretario del
Partito nella Regione Autonoma Tibetana negli
anni ’90. Chen, sostenitore della “linea dura” e
fautore delle tre campagne di “educazione patriottica”, “civilizzazione spirituale” e “colpisci duro”, è
stato eletto membro del Comitato Centrale del
Partito Comunista Cinese di cui figura tra i 24
vice presidenti. Promosso anche il tibetano Ragdi,
uno dei vice segretari del Comitato del Partito
Regionale Tibetano e presidente del Comitato
Regionale del Congresso Nazionale del Popolo
(CNP) in Tibet, che ha coronato la sua carriera
politica divenendo uno dei 15 vice presidenti del
Comitato Centrale dello stesso CNP. In Tibet,
Ragdi, acceso sostenitore della politica iniziata
dallo stesso Hu Jintao, non ha mai cessato di porre
l’accento sull’importanza dello sviluppo economico e della tutela della stabilità sociale attraverso la
lotta al separatismo e alla “clique” del Dalai Lama.
quelle fiamme possano rischiarare la notte del
popolo tibetano e contribuire a mettervi fine.
Tratto da “Il Tibet nel Cuore”, di P. Verni
TIBET OGGI
Il sistema politico e l’attuale dirigenza
Il Tibet, come tutta la Cina continentale, è strettamente governato dal Partito Comunista Cinese
presente con propri distaccamenti in ogni provincia, prefettura autonoma e nella Regione
Autonoma Tibetana (TAR). Subordinato al
Partito, il Governo ne porta a compimento le
direttive. Nella sola Lhasa sono attivi oltre sessanta tra Dipartimenti e Comitati molti dei quali
lavorano in stretto contatto con i rispettivi uffici
nazionali a Pechino. L’autonomia della TAR è
quindi del tutto inesistente: di fatto, la Regione
gode di un’autonomia inferiore a quella delle altre
province cinesi. E’ significativo che la massima
carica del paese, quella di Segretario del Partito,
non sia mai stata ricoperta da un tibetano.
Queste “promozioni”, e abbiamo citato solo alcuni tra i casi più significativi, sembrerebbero indicare la determinazione del Partito e del governo di
Pechino a mantenere il Tibet in una stretta morsa
assicurando la continuità della linea politica.
Il Partito Comunista mantiene in Tibet un numeroso contingente militare di occupazione (almeno
250.000 uomini). Soldati e poliziotti – spesso in
abiti civili – controllano le vie della capitale e
degli altri centri urbani. Soprattutto a partire dalla
seconda metà degli anni ’90, il Partito ha curato
l’organizzazione di quadri fedeli alle sue direttive,
destinati a controllare capillarmente il territorio
tibetano, comprese le aree rurali, allo scopo di sradicare alla base ogni forma di separatismo e di eliminare ogni manifestazione di sostegno al Dalai
Lama e al Governo Tibetano in Esilio.
Anche il cambio della guardia ai vertici della
Regione Autonoma Tibetana sembra avvalorare
questa tendenza. Alla carica di nuovo Presidente
del Tibet, al posto di Legchok, è stato eletto
Jampa Phuntsog, ex vice segretario del Partito e
ora chiamato a svolgere un ruolo di governo.
Legchok ha sostituito alla presidenza del
Comitato Nazionale del Congresso del Popolo (la
più alta carica della TAR) il tibetano Ragdi, trasferito a Pechino dopo 18 anni di servizio nella
Regione Autonoma. Le nomine di Phuntsog e di
Legchok premiano i lunghi anni di lavoro in Tibet
dei due neo eletti e la loro conformità alle direttive del regime.
Il Congresso Nazionale del Popolo, riunito a
Pechino nel marzo 2003 per la nomina della
nuova dirigenza cinese (ricordiamo che il neo
Presidente della Repubblica Popolare, Hu Jintao,
ricoprì la carica di Segretario del Partito nella
Regione Autonoma Tibetana alla fine degli anni
’80) ha premiato con incarichi importanti alcuni
20
definito questa misura “provocatoria” e ha accusato la Cina di volere deliberatamente esasperare la
popolazione tibetana del Sichuan per poter pretestuosamente intervenire con la forza.
Dal 2001, la provincia del Sichuan, che in passato aveva goduto di una relativa libertà di culto, è
divenuta uno dei punti focali della campagna contro il Dalai Lama e la religione. Tra le personalità
di grande spicco oggetto della repressione cinese
figurano Geshe Sonam Phuntsok (che attualmente sta scontando una pena detentiva di cinque
anni), Tenzin Delek Rinpoche (condannato a
morte dopo un processo farsa) e l’abate di Serthar,
Jigme Phuntsok, deceduto il 6 gennaio 2004 a
Chengdu dopo un’operazione al cuore. A lungo
era stato trattenuto dalla polizia mentre il suo
monastero era distrutto e i monaci e le monache
allontanati con la forza.
Segretario del Partito è un cinese, Yang
Chuantang, che ha sostituito Guo Jinlong, eletto
al prestigioso incarico nel 2000 al posto del “duro”
Chen Kuiyang. Nessun tibetano è mai stato eletto segretario del Partito, ruolo che, di fatto, garantisce la gestione del potere. Yang Chuantang è
ritenuto molto vicino a Hu Jintao che lo volle con
sé quando era Segretario del Partito in Tibet.
La condizione dei tibetani
In Tibet la situazione rimane grave. Continua l’afflusso dei coloni cinesi che hanno ormai ridotto i
tibetani ad una minoranza all’interno del loro
paese, con una presenza di sette milioni e mezzo di
coloni han contro sei milioni di tibetani. Le attività religiose e la libertà di culto sono fortemente
ostacolate, proseguono gli arresti e le detenzioni
arbitrarie e i detenuti sono percossi e torturati. Il
“miracolo economico”cinese non reca alcun concreto vantaggio ai tibetani che sono progressivamente emarginati dal punto di vista sia economico
sia sociale. Le stesse grandiose infrastrutture
(gasdotti, ferrovie, aeroporti), volute dal governo di
Pechino, non sono di beneficio alla popolazione
tibetana: favorendo, di fatto, l’afflusso di nuovi
coloni, costituiscono un’ulteriore minaccia alla cultura e alle tradizioni peculiari del paese oltre a comprometterne seriamente l’equilibrio ambientale.
Il gruppo d’informazione Tibet Information
Network ha reso noto che il 29 agosto 2003 sei
monaci residenti nella Contea di Kakhog,
Prefettura di Ngaba, (Amdo) sono stati arrestati e
condannati a pene detentive varianti da uno a
dodici anni per aver distribuito volantini inneggianti all’indipendenza del Tibet. Dopo l’arresto
dei religiosi, avvenuto nel corso dell’annuale “Yak
Festival”, il personale dell’Ufficio di Pubblica
Sicurezza ha fatto irruzione nella stanza di uno dei
monaci ed ha confiscato numerose fotografie del
Dalai Lama e una bandiera tibetana. T.I.N. rileva
che questi arresti e le relative condanne costituiscono un fatto senza precedenti in Amdo e si inseriscono nella crescente ondata di repressione in
atto nelle regioni al di fuori della Regione
Autonoma Tibetana.
Nonostante gli stretti controlli esercitati dalla
polizia e dall’esercito, pacifiche dimostrazioni si
susseguono sia all’interno della Regione
Autonoma Tibetana, in particolare a Lhasa, sia
nelle altre Regioni (Kham e Amdo).
Le autorità cinesi rispondono inasprendo imposizioni e divieti. Fonti attendibili hanno riferito che
i giorni 11 e 12 novembre 2003, speciali “gruppi di
lavoro” composti di funzionari governativi si sono
recati nei villaggi e hanno intimato alla popolazione tibetana delle contee di Kardze e Lithang
(Sichuan), composta prevalentemente da contadini, di consegnare tutte le fotografie del Dalai
Lama entro un mese, pena la confisca della terra.
Il 21 novembre, il governo tibetano in esilio ha
Anche nella Regione Autonoma continuano tuttavia gli arresti e le violenze. Il 2 dicembre 2004 si
è appreso che Yeshe Gyatso, un tibetano di settantadue anni, ex funzionario governativo, arrestato
a Lhasa nel giugno 2003 assieme a due studenti
universitari, è stato condannato a sei anni di carcere.
Il 16 dicembre 2004, TibetNet ha diffuso la notizia
della morte, in un ospedale di Shigatse, di Tenzin
21
Phuntsok, sessantaquattro anni, arrestato il 21
febbraio 2003 perché sospettato di coinvolgimento in attività politiche “sospette”. I tibetani di
Khangmar, suo paese natale, ritengono che
Phuntsok, in ottima salute prima dell’arresto, sia
morto in seguito alle torture subite durante gli
interrogatori presso il centro detentivo di Nyari.
Lascia la moglie e undici figli. La notizia della
morte di Tenzin Phuntsog, giunta solo pochi mesi
dopo quella della morte di un altro tibetano,
Nyima Drakpa, le cui condizioni di salute si erano
seriamente aggravate dopo le torture subite in carcere, propone il problema dell’effettivo rispetto da
parte della Cina delle norme contenute nella
Convenzione ONU Contro la Tortura, di cui
Pechino è firmataria.
Il 16 dicembre 2003, il Centro Tibetano per i
Diritti Umani e la Democrazia (TCHRD) ha reso
noto inoltre che Nyima Tsering, un insegnante
sessantacinquenne, è stato condannato dal tribunale di Gyantse a cinque anni di carcere per “istigazione delle masse”. Il TCHRD ha fatto sapere
che la sentenza contro Nyima, arrestato nel
dicembre 2002 assieme ad un negoziante con l’accusa di aver divulgato libelli indipendentisti, è
stata pronunciata nel giugno 2003. Il tibetano sta
scontando la pena nella prigione di Drapchi, a
Lhasa.
22
LO STATUS DEL TIBET
Michael C. van Walt van Praag, noto esperto di diritto internazionale, in appendice ad un suo articolo scritto
per la rivista International Relations, riassume i principali aspetti della questione tibetana sotto il profilo del diritto
internazionale.
Il governo tibetano in esilio, guidato da Sua
Santità il Dalai Lama, ha costantemente sostenuto che il Tibet si trova sotto la illegale occupazione cinese in quanto la Cina ha invaso questo paese, politicamente indipendente, nel
1949/50. La Repubblica Popolare Cinese di contro insiste nel sostenere che i suoi rapporti con
il Tibet sono semplicemente un suo affare interno poiché il Tibet è ed è stato per secoli parte
integrante della Cina. La questione dello status
del Tibet è essenzialmente una questione legale
ma di grande rilevanza politica. La Repubblica
Popolare Cinese non rivendica alcun diritto di
sovranità sul Tibet come conseguenza della sottomissione militare e dell’occupazione del paese
in seguito all’invasione armata del 1949/50.
Difficilmente infatti potrebbe sostenere questa
tesi poiché rifiuta categoricamente, in quanto
illegale, ogni rivendicazione di sovranità basata
sulla conquista, l’occupazione o l’imposizione di
trattati ingiusti avanzate da altri Stati. La
Repubblica Popolare cinese reclama invece il
suo diritto sul Tibet asserendo che il Tibet è
diventato parte integrante della Cina settecento
anni fa.
ni tra i due paesi e si afferma che “i tibetani
potranno vivere felici nel Tibet ed i cinesi in
Cina”.
L’influenza mongola
Nel tredicesimo secolo quando l’impero mongolo di Gengis Khan si espanse ad ovest verso
l’Europa e ad est verso la Cina, i massimi esponenti della fiorente scuola di buddhismo tibetano Sakya stipularono un accordo con i dirigenti
mongoli al fine di evitare la conquista del Tibet.
Lama tibetani si impegnarono a garantire la
fedeltà politica, la benedizione religiosa ed insegnamenti in cambio di patrocinio e protezione.
Il legame religioso divenne così importante che
quando, decenni più tardi, Kublai Khan conquistò la Cina instaurando la dinastia Yuan (12791368), invitò il capo della scuola Sakya a ricoprire la carica di Precettore Imperiale e Supremo
Pontefice del suo impero. Il rapporto tra mongoli e tibetani, continuato fino al ventesimo secolo, testimonia la stretta affinità razziale, culturale e religiosa tra i due popoli dell’Asia centrale.
L’Impero Mongolo fu un impero di importanza
mondiale e, qualunque fosse la relazione tra i
suoi governanti ed i tibetani, i mongoli non
favorirono mai in alcun modo l’integrazione del
Tibet con la Cina o con la sua amministrazione.
Il Tibet ruppe i propri legami politici con gli
imperatori Yuan nel 1350, prima che la Cina
riguadagnasse la sua indipendenza dai mongoli.
Negli anni che seguirono fino al diciottesimo
secolo, il Tibet non subì alcuna influenza straniera.
Le origini
Sebbene la storia dello stato tibetano abbia inizio nel 127 a.C. quando prese il potere la dinastia Yarlung, il Paese, come lo conosciamo oggi,
fu unificato per la prima volta nel settimo secolo sotto il re Song-tsen Gampo ed i suoi successori. Durante i tre secoli seguenti il Tibet fu una
delle più grandi potenze dell’Asia come testimonia l’iscrizione riportata su una colonna alla base
del palazzo del Potala, a Lhasa, confermata dai
poemi cinesi del periodo Tang. Inoltre, un trattato di pace fra la Cina ed il Tibet fu siglato
negli anni 821-823. In esso si delineano i confi-
Rapporti con Manciù e Gorkha
Il Tibet non stabilì alcun legame con la dinastia
cinese Ming (1336-1664). Anzi, il V° Dalai
Lama, che nel 1642 costituì il suo governo
23
per quanto riguardava le relazioni estere di questo paese, autorità che il governo imperiale britannico, nei suoi rapporti con Pechino e San
Pietroburgo, definì come „controllo politico“.
Le forze imperiali tentarono di ristabilire una
supremazia reale sul Tibet invadendo il paese ed
occupando Lhasa nel 1910. A seguito della rivoluzione cinese del 1911 e della caduta dell’impero Manciù, le truppe di Pechino si arresero
all’esercito tibetano e rientrarono in Cina in
ossequio ad un trattato di pace tra la Cina ed il
Tibet. Il Dalai Lama riaffermò la più completa
indipendenza sia all’interno emanando un proclama su tale status, sia all’esterno nei contatti
con altri governi e stipulando un trattato con la
Mongolia.
sovrano sul Tibet con l’aiuto di un mecenate
mongolo, strinse stretti rapporti religiosi con gli
imperatori Manciù che conquistarono la Cina
instaurando la dinasta Qing (1644-1911). Il
Dalai Lama acconsentì a diventare guida spirituale dell’imperatore Manciù ed in cambio ne
accettò la protezione. Questo rapporto di „guida
spirituale-protettore“ (in tibetano Choe-Yoen),
che i Dalai Lama mantennero anche con alcuni
principi mongoli e nobili tibetani, costituì il
solo legame formale tra i Tibetani ed i Manciù
durante la dinastia Qing e non comportò alcuna
influenza negativa sull’indipendenza del Tibet.
A livello politico alcuni potenti imperatori
Manciù riuscirono ad esercitare una certa
influenza sul Tibet. Tra il 1720 ed il 1792, gli
imperatori Kangxi, Yong Zhen e Quianlong
inviarono quattro volte truppe imperiali in
Tibet al fine di difendere il Dalai Lama da invasioni da parte dei mongoli e dei Gorkha oppure
da agitazioni interne. Tali spedizioni fornirono
agli imperatori Manciù il pretesto per esercitare
una certa influenza sul Tibet. Vennero così
inviati a Lhasa, capitale del Tibet, rappresentanti dell’imperatore alcuni dei quali, in seguito,
esercitarono con successo pressioni sul governo
tibetano, specialmente per quanto riguarda la
politica estera. Nel momento di massima espansione dell’influenza Manciù, la posizione del
Tibet non è stata mai molto diversa da quella
che può verificarsi tra una superpotenza e uno
stato satellite. Una situazione, quindi, che, sebbene politicamente rilevante, non annulla l’indipendenza dello stato più debole. Questo particolare rapporto durò alcuni decenni. Il Tibet
non fu mai incorporato nell’Impero Manciù,
tanto meno nella Cina, e continuò a portare
avanti, di propria iniziativa, le relazioni con gli
stati vicini. L’influenza Manciù non durò a
lungo ed era completamente esaurita quando gli
Inglesi, che per un breve periodo avevano occupato Lhasa, conclusero con i tibetani, nel 1904,
un trattato bilaterale, noto come Convenzione
di Lhasa. Nonostante tale perdita d’influenza il
governo imperiale di Pechino continuò a reclamare una qualche autorità sul Tibet, soprattutto
Il Tibet nel ventesimo secolo
Lo status del Tibet, dopo il ritiro delle truppe
Manciù, non è oggi oggetto di seri motivi di
discussione. Qualunque fossero i legami tra il
Dalai Lama e gli imperatori Manciù della dinastia Qing, essi ebbero fine con la caduta dell’impero e della dinastia. Tra il 1911 ed il 1950 il
Tibet impedì con successo l’instaurarsi di indebite ingerenze straniere ed operò, sotto ogni punto
di vista, come uno stato completamente indipendente. Il Tibet intrattenne relazioni diplomatiche con il Nepal, il Bhutan, la Gran
Bretagna e più tardi con l’India indipendente.
Le relazioni con la Cina si mantennero tese. I
cinesi intrapresero una guerra di confine con il
Tibet e nello stesso tempo fecero pressioni ufficiali affinché il Paese delle Nevi confluisse nella
Repubblica cinese reclamando sempre ed ovunque che i tibetani erano una delle cinque razze
cinesi. Nel tentativo di attenuare la tensione
sino-tibetana, gli Inglesi convocarono, nel 1913
a Simla, una conferenza tripartita nella quale i
tre stati si incontrarono a pari condizioni. Come
fece presente il delegato inglese alla sua controparte cinese, il Tibet prese parte alla conferenza
come una nazione indipendente che non riconosceva alcun legame con la Cina. La conferenza non
ebbe un esito positivo poiché non riuscì a risolvere le controversie esistenti tra Cina e Tibet
24
ma fu importante perché riaffermò l’amicizia
anglo-tibetana, suggellata da una accordo commerciale tra i due paesi e dalla sistemazione di
alcuni problemi di confine. Nella dichiarazione
congiunta la Gran Bretagna ed il Tibet si impegnarono a non riconoscere mai la sovranità
cinese o altri diritti speciali sul Tibet a meno che
la Cina non avesse sottoscritto la Convenzione
di Simla che, tra l’altro, garantiva al Tibet una
più ampia estensione, l’integrità territoriale e la
piena autonomia. Poiché la Cina non firmò mai
la Convenzione, rimane in vigore quanto espresso nella dichiarazione congiunta. Il Tibet intrattenne le proprie relazioni internazionali sia
attraverso contatti con missioni diplomatiche
britanniche, cinesi, nepalesi e bhutanesi a
Lhasa, sia inviando proprie delegazioni governative all’estero. Quando l’India divenne indipendente la missione britannica a Lhasa fu sostituta
da una missione indiana. Durante la seconda
guerra mondiale il Tibet assunse una posizione
neutrale nonostante forti pressioni esercitate
dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla
Cina affinché venisse consentito il passaggio di
armamenti in territorio tibetano. Il Tibet non
ha mai intrattenuto rapporti con molti stati, ma
quelli con i quali ha avuto contatti hanno trattato il Tibet come uno stato sovrano. Di fatto il
suo status internazionale non era affatto differente da quello del Nepal. Così quando il Nepal,
nel 1949, chiese di diventare membro delle
Nazioni Unite citò, tra l’altro, le sue relazioni
diplomatiche con il Tibet a sostegno della sua
piena personalità internazionale.
presenza di 40.000 militari, la minaccia di
un’imminente occupazione di Lhasa e la prospettiva di una totale eliminazione del Tibet
lasciavano ai tibetani pochissime possibilità di
scelta.
Conclusioni
Nel corso dei suoi 2.000 anni di storia, il Tibet è
stato soggetto all’influenza straniera solo per
brevi periodi nel corso del tredicesimo e diciottesimo secolo. Pochi paesi indipendenti possono
oggi rivendicare un passato così illustre. Come
ha fatto notare l’ambasciatore d’Irlanda alle
Nazione Unite nel corso di un dibattito
dell’Assemblea Generale sulla questione del
Tibet... „per migliaia di anni o in ogni caso per
almeno duemila anni, [il Tibet] è stato libero e
ha avuto il pieno controllo dei suoi affari interni quanto e come altre nazioni rappresentate in
questa Assemblea ed ancora mille volte più libero di quanto potessero essere molte delle
Nazioni qui presenti...“ Nel corso dei dibattiti
alle Nazioni Uniti molti altri Paesi hanno fatto
dichiarazioni che riflettono analoghi riconoscimenti dello status indipendente del Tibet. Così,
per esempio, il delegato delle Filippine ha
dichiarato: “È chiaro che alla vigilia dell’invasione, nel 1950, il Tibet non era soggetto al
governo di nessun Paese straniero.“ Il delegato
della Thailandia ha ricordato all’Assemblea che
“...la maggioranza degli Stati rifiuta l’opinione
che il Tibet sia parte della Cina.“ Gli Stati Uniti
si sono uniti alla maggioranza degli altri Stati
membri delle Nazioni Uniti nel condannare
l’aggressione cinese e l’invasione. Nel 1959,
1960 ed ancora nel 1965 l’Assemblea Generale
delle Nazioni Uniti ha approvato tre risoluzioni
(1353 [XIV], 1723 [XVI] e 2079 [XX]) che condannano le violazioni dei diritti umani da parte
dei cinesi e richiamano la Cina a rispettare ed a
garantire i diritti umani e le libertà fondamentali del popolo tibetano incluso il diritto all’autodeterminazione. Dal punto di vista giuridico il
Tibet non ha mai perso la sua caratteristica di
stato. È una nazione indipendente oppressa da
una occupazione illegale. Né l’invasione milita-
L’invasione del Tibet
Il momento critico della storia del Tibet sopraggiunse nel 1949 quando l’esercito di Liberazione
della Repubblica Popolare Cinese invase il
paese. Dopo aver sconfitto il piccolo esercito
tibetano ed aver occupato metà del territorio,
nel maggio 1951 il governo cinese impose al
governo tibetano il cosiddetto „Accordo in 17
punti per la liberazione pacifica del Tibet“. Tale
accordo, poiché sottoscritto forzatamente, non
ha validità secondo il diritto internazionale: la
25
re cinese né l’occupazione continua da parte
dell’Esercito di Liberazione della Repubblica
Popolare della Cina hanno potuto trasferire la
sovranità del Tibet alla Cina. Come sottolineato in precedenza il governo cinese non ha mai
rivendicato di aver acquisito la sovranità sul
Tibet per mezzo della conquista. Infatti anche la
Cina riconosce che l’uso o la minaccia della
forza (eccetto le condizioni eccezionali stabilite
dalla Corte delle Nazioni Unite), l’imposizione
di un trattato ingiusto e la continua, illegale
occupazione di un Paese non possono in alcun
modo garantire all’invasore il diritto di proprietà del territorio occupato. Le rivendicazioni
cinesi sono basate esclusivamente sul preteso
assoggettamento del Tibet da parte di pochi
potenti governanti cinesi durante il tredicesimo
ed il diciottesimo secolo.
26
IL BUDDHISMO DEL TIBET
Il Buddhismo delle origini
indissolubilmente legate all’esperienza umana a
causa di una ignoranza che impedisce di cogliere la realtà “così come essa è” ma considerando
nel contempo possibile, anzi quasi doveroso, per
l’essere umano liberarsi dal peso di questo fardello, il Buddha elaborò una psicologia spirituale e
delle tecniche introspettive basate sulla meditazione e sullo yoga che possono consentire a
quanti lo desiderano realmente di ottenere la
liberazione
dal
dolore
raggiungendo
l’Illuminazione, vale a dire uno stato di consapevolezza totale in cui non c’è più spazio per ignoranza alcuna e le sofferenze da essa generate. Il
Buddhismo afferma che non vi è alcun Dio
esterno che potrà regalarci l’Illuminazione ma
che questa è una meta che dobbiamo raggiungere da noi stessi attraverso un complesso cammino di autoanalisi, di conoscenza e di introspezione da percorrere anno dopo anno ed esistenza
dopo esistenza. Al termine di una predicazione
durata oltre quarant’anni il Buddha lasciò il suo
corpo terreno nel 486 a. C. (secondo altre fonti
nel 476) entrando così nel nirvana, lo stato primigenio al di là della nascita e della morte.
Il Buddhismo è quella religione che prende il
nome dal suo fondatore Gautama Siddharta
Sakyamuni, detto il Buddha (l’Illuminato) che
nacque, visse e insegnò nell’India centro settentrionale tra il quinto e il quarto secolo a. C.
Figlio del re Suddhodhana e della regina Maya
Devi, Gautama Siddharta era il primogenito di
una famiglia di stirpe reale che regnava su di un
piccolo principato i cui territori si estendevano
su una parte di quello che è oggi lo stato indiano del Bihar. All’età di 29 anni il giovane
Gautama però scelse di abdicare alle sue funzioni regali per dedicarsi alla vita spirituale.
Abbandonò la reggia, la moglie, la famiglia per
intraprendere la vita errabonda degli asceti itineranti che a quel tempo popolavano le foreste
indiane praticando lo yoga e la meditazione.
Dopo una lunga ricerca durata diversi anni una
notte, mentre meditava sotto un albero pipal
nella località dell’India centrale oggi nota con il
nome di Bodhgaya, raggiunse la definitiva
Illuminazione interiore divenendo così il
Buddha, il Risvegliato. Qualche tempo dopo
aver ottenuto l’Illuminazione si recò in una
foresta vicino la città di Varanasi (Benares) e lì
tenne il suo primo insegnamento pubblico rivolto a sei asceti con i quali aveva in precedenza
vissuto.
Subito dopo la scomparsa dell’Illuminato la
comunità buddhista si divise in un gran numero
di scuole. Una serie di concili, indetti con l’intento di preservare nella sua originaria purezza
l’insegnamento del Buddha, diedero vita a due
indirizzi: mahasangika e sthaviravadin che a loro
volta si suddivisero in più di venti diverse tradizioni. Sarebbe troppo arduo, in questo contesto,
entrare nello specifico delle differenze e delle
similitudini delle varie correnti del Buddhismo
indiano qui basterà accennare ai tre veicoli
(yana in sanscrito) principali in cui l’insegnamento del Buddha si articola, Hinayana
(Piccolo Veicolo), Mahayana (Grande Veicolo),
Vajrayana (Veicolo del Vajra).
Questo discorso, noto come “Le Quattro Nobili
Verità” rappresenta il cuore della dottrina
buddhista, vale a dire la “Nobile Via di Mezzo”
che si pone tra i due estremi del materialismo e
dell’ascetismo esasperato e si fonda sulla consapevolezza di quattro verità relative all’esistenza:
la verità del dolore, la verità dell’origine del
dolore, la verità della fine del dolore, la verità
del sentiero che conduce alla cessazione del
dolore. Partendo dalla constatazione che le
dimensioni del dolore e della sofferenza sono
Hinayana letteralmente significa "piccolo vei27
colo" ma sarebbe più esatto chiamarlo "la via
stretta" dal momento che è "piccolo" o "stretto"
nel senso che una precisa disciplina meditativa
delimita e doma il lavorio nevrotico della mente
conducendo il praticante ad uno stato di tranquilla quiete mentale. Attraverso la disciplina
dello Hinayana si può avere una diretta esperienza della natura della mente e del mondo
fenomenico. Lo Hinayana conferisce grande
importanza alla pratica della meditazione e
all'etica. Durante la sua vita Buddha Sakyamuni
stabilì delle regole di comportamento che devono essere rigorosamente osservate nella vita
monastica. Il complesso di queste norme è chiamato vinaya in sanscrito e dulwa in tibetano.
Entrambi questi termini significano "domare" e
quindi, parlando in generale, possiamo intendere con vinaya qualsiasi disciplina interiore che
pratichiamo per domare in nostro universo interiore. Secondo l'Hinayana l'unico modo per guidare noi stessi è quello del vinaya, il sentiero
della disciplina. Applicando correttamente i
principi del vinaya l'essere umano è in grado di
"domare" il corpo, la parola e la mente ed è così
in grado di raffreddare il "fuoco" della nevrosi.
In questa condizione mentale si può mettere in
pratica la più importante delle aspirazioni
hinayana, non danneggiare noi stessi né gli altri
e, basandoci sulla "presenza mentale" acquisita
tramite la meditazione, raggiungere la liberazione individuale.
"perfezioni" (paramita in sanscrito) e la realizzazione dei "Dieci Livelli Spirituali" (Bhumi). La
più importante caratteristica del Mahayana è
dunque la compassione nei confronti del mondo
che però non si basa sull'autonegazione o sul
martirio al contrario scaturisce dallo sviluppo di
una genuina cordialità e da una attitudine mentale espansiva ed accogliente.
Il Mahayana, o "grande veicolo" è come una
grande autostrada sulla quale continuare il percorso iniziato lungo il sentiero dello Hinayana.
Il Mahayana va oltre l'ideale della liberazione
individuale. Il suo scopo è la liberazione di tutti
gli esseri senzienti e ogni forma di vita è compresa nella sua visione. Il Mahayana esprime un'attitudine del Buddhismo più orientata in senso
sociale e il suo modello archetipico è il bodhisattva, colui che rinuncia al nirvana per rimanere su questa terra ad aiutare tutti gli esseri senzienti a raggiungere lo stato di Buddha. La compassione è la qualità principale del bodhisattva,
il cui stile di vita comporta la pratica delle sei
Il Buddhismo che arrivò in Tibet fu fondamentalmente quello Vajrayana e il principale artefice della sua diffusione fu Padmasambhava, chiamato anche Guru Rimpoche, un maestro tantrico che arrivò nel Paese delle Nevi nell'ottavo
secolo su invito del re Trisong Deutsen che voleva diffondere tra i suoi sudditi la dottrina del
Buddha. Padmasambhava cominciò la sua missione convertendo i membri della famiglia reale
e diversi nobili di corte. Ebbe così inizio quella
che viene definita la "Prima diffusione della
Dottrina", della quale furono protagonisti anche
altri maestri indiani tra i quali il monaco
Santarakshita e Vimalamitra, e che vede il suo
Vajrayana significa letteralmente "Veicolo di
diamante o indistruttibile". L'idea di indistruttibilità, in questo caso, riguarda la scoperta dello
stato illuminato della mente, la natura vajra.
Questo veicolo particolarmente connesso con le
tecniche dello yoga, usa meditazioni e visualizzazioni estremamente complesse e fa ampio uso
di materiali psicologici, simbolici ed archetipici.
Viene ritenuto in grado di muovere energie psichiche molto potenti ed è considerato l'approccio più diretto per realizzare quell'unione di
upaya (i mezzi abili e in generale la dimensione
maschile) e prajna (la consapevolezza discriminante e in generale l’elemento femminile) ritenuta indispensabile per realizzare la
Illuminazione interiore. Il Vajrayana è il punto
di arrivo della via spirituale buddhista e non può
essere praticato senza prima aver percorso le
strade dello Hinayana e del Mahayana.
Il Buddhismo del Tibet
28
dunque a propagarsi in Tibet. Quel poco che si
era salvato dalle persecuzioni si riorganizza, i
vecchi templi sono riaperti, i contatti con
l'India vengono ristabiliti, nuovi maestri giungono sul Tetto del Mondo e nuovi monasteri
sonoedificati. Gli storici sono soliti chiamare
Tam-Pa Nga-dar (Prima diffusione della
Dottrina) il periodo di tempo compreso tra il
settecento e il novecento quando vennero tradotti in tibetano i Tantra Antichi (Sang-Nags
Nga-a-Gyur) mentre i secoli decimo e undicesimo sono noti come Tan-Pa Phyi-Dar (Seconda
diffusione della Dottrina). In questo periodo, ad
opera di rinomati traduttori come Rinchen
Zangpo (958-1051), Drogmi Sakya (993-1050) e
Marpa Chokyi Lodro (1012-1099), vengono tradotti i Nuovi Tantra (Ngags Sarma) con i quali
l'intero corpo dottrinario buddhista è trasmesso
in Tibet.
momento più emblematico nella costruzione di
Samye, il primo monastero buddhista del Tibet
alla cui edificazione partecipò lo stesso Guru
Rimpoche.
Nella prima metà dell'ottavo secolo, sotto il
patronato di Trisong Deutsen, vengono portati
dall'India numerosi testi buddhisti (tantra) che
sono tradotti in tibetano da un gruppo di 108
traduttori. Padmasambhava conferisce numerose iniziazioni, dà molteplici insegnamenti in differenti luoghi del Tibet centrale e in breve
tempo riunisce un nutrito gruppo di discepoli,
venticinque dei quali furono considerati i principali. Questi, a loro volta, si impegnano in una
vasta opera di diffusione del Buddhismo che inizia a divenire popolare anche fuori dagli
ambienti di corte. Si celebrano le prime ordinazioni monastiche, si tengono i primi grandi
raduni religiosi, si sviluppa un'ampia comunità
buddhista che comprende sia monaci sia laici.
In poco meno di due secoli il Buddhismo
vajrayana si diffonde in Tibet, particolarmente
in quello centrale, e un numero sempre maggiore di tibetani si converte all'insegnamento del
Buddha. Durante il regno del re Langdarma
(decimo secolo) il Buddhismo fu sottoposto a
una repressione di tale intensità che di questa
tradizione quasi non rimase traccia. Il lignaggio
che Padmasambhava, e gli altri maestri avevano
portato nel Paese delle Nevi venne preservato
solo da alcuni yogin che, nell'isolamento dei
loro eremi sperduti, salvarono i testi e le relative pratiche spirituali. Per quanto riguarda invece la tradizione monastica che era stata fondata
da Santarakshita, fu salvata da tre monaci che
fuggirono dal Tibet centrale e si rifugiarono
nelle regioni orientali. Qui, lontano dalla furia
iconoclasta del sanguinario Langdarma, poterono mantenersi fedeli ai loro voti e quando, dopo
circa un secolo, dieci loro discepoli tornarono
nella zona di Lhasa il monachesimo tibetano
riprese a vivere anche nel Tibet centrale.
Il Paese delle Nevi è nuovamente attraversato
da una grande ondata di entusiasmo per il
Buddhismo che adesso si diffonde in ogni angolo della nazione e diviene così la religione di
gran lunga maggioritaria e tale è rimasta fino ai
nostri giorni. Le vie che collegano India e Tibet
sono affollate in entrambi i sensi. Alcuni tra i
più rinomati maestri spirituali giungono dalle
montagne himalayane e dalle pianure gangetiche e gruppi sempre più numerosi di giovani
tibetani affrontano viaggi lunghi e pericolosi per
andare a ricevere il prezioso insegnamento del
Buddha direttamente dai guru che vivono ancora nel sub-continente indiano. Con i primi
decenni dell'undicesimo secolo cominciano a
prendere forma in Tibet i differenti indirizzi
buddhisti che ben presto daranno vita a numerose scuole le quali, se da un lato si riconoscono
tutte nelle idee generali del Buddhismo vajrayana, dall'altro divergono sui mezzi più idonei per
metterle in pratica.
A partire dal decimo secolo il Buddhismo torna
di Piero Verni
29
LA SOCIETÀ TRADIZIONALE
La società tibetana tradizionale si poteva, in linea di
massima, dividere in quattro aree sociali: i nobili, i
mercanti-commercianti, i contadini ed i nomadi
mentre un gruppo a parte era costituito dal clero.
L’aristocrazia feudale costituiva l’ossatura della
società laica, dai suoi ranghi uscivano tutti i più
influenti funzionari dello stato, i governatori, i principi che, insieme con i rappresentanti del clero,
amministravano il paese. La nobiltà era in genere
costituita da due classi, i grandi (chuda) e i piccoli
(nyamchung) proprietari terrieri. Il rapporto tra
queste due componenti era di tipo gerarchico e i
piccoli, che per lo più possedevano dei modesti
appezzamenti di terreno, dovevano fornire alcuni
servizi ai grandi proprietari. Questi in cambio davano delle ricompense in denaro o, più spesso, generi
alimentari e di prima necessità. Grandi e piccoli
proprietari erano obbligati, proporzionalmente alla
loro ricchezza, a pagare una tassa al governo centrale che la riscuoteva tramite appositi funzionari.
Il Tibet, grazie alla sua centralissima posizione geografica, si è da sempre trovato nelle migliori condizioni logistiche per intraprendere commerci con il
resto del continente asiatico. A nord le vie carovaniere conducevano verso i mercati della Cina e
della Mongolia, mentre a sud c’erano gli stati himalayani (segnatamente Nepal e Bhutan) e quelli
dell’India centro-settentrionale. Era ovvio quindi
che nel Paese delle Nevi si sviluppasse una intraprendente classe di mercanti e commercianti che
nel corso dei secoli riuscì ad avviare attività economiche così redditizie che alcune famiglie, grazie ai
capitali accumulati, poterono esercitare un’influenza sociale e politica in alcuni casi superiore a quella
di molti clan aristocratici.
Le immagini di lunghe carovane che percorrono
l’altopiano del Tibet furono tra le più suggestive
“immagini” del Tetto del Mondo di cui parlarono i
primi visitatori occidentali. Nelle città di Lhasa,
Gyantse, Shigatse e Chamdo (oltre che in numerosi villaggi), il mercato era il cuore civile dell’abitato
quanto il monastero ne incarnava quello religioso.
Si esportavano lana, tappeti e sale, si importavano
sete e broccati (dalla Cina), generi di artigianato
(dalla Cina e dall’India), stoffe (dal Bhutan). Un
ristretto numero di famiglie aveva il monopolio dei
grandi traffici commerciali e gestiva una rete di vere
e proprie agenzie mercantili a Lhasa, Gyantse,
Shigatse e nelle principali città estere con cui vi
erano rapporti d’affari. La rimanente parte del commercio costituiva la fonte di reddito di quei nuclei
famigliari le cui condizioni economiche risultavano
molto diversificate. Alcuni erano piuttosto benestanti mentre altri riuscivano con un certa difficoltà
a procurarsi il necessario per vivere decorosamente.
I contadini rappresentavano, come dire, la “gente
comune” del Tibet. Sovente legati ad un’economia
essenziale non vivevano però in condizioni di miseria e la fame era sconosciuta (anche grazie alla previdente tradizione di ammassare una parte del raccolto per poter far fronte ad eventuali carestie).
Quasi mai la terra che coltivavano era loro ma avevano la proprietà delle greggi, delle bestie per il
lavoro nei campi, dei cavalli e dei muli che servivano per gli spostamenti. Il rapporto tra quanto producevano e quello che dovevano pagare al governo o
al padrone del terreno (nobiltà, monastero o Stato)
era per lo più equo o almeno non ferocemente iniquo e le relazioni dei contadini con l’autorità sono
sempre state buone e non si ha memoria di rivolte o
ribellioni organizzate contro il potere.
Il potere nel Tibet tradizionale veniva esercitato sia
a livello centrale sia a livello locale. A livello centrale, a partire dalla riunificazione del Tibet compiuta nel 17° secolo dal V Dalai Lama, il paese era
governato da Lhasa da un organo legislativo al cui
vertice si trovava il Dalai Lama (o il Reggente
durante la minore età del nuovo Dalai Lama) ed era
composto da un gabinetto (Kashag) di quattro ministri (tre laici e un monaco) e da una Assemblea
Nazionale (Tsong-du). I ministri venivano sempre
nominati dal Dalai Lama mentre dell’Assemblea
Nazionale facevano parte i rappresentanti di ogni
settore, sia laico sia religioso, della società tibetana
Il Tibet era diviso in circa 100 distretti ognuno dei
quali era posto sotto l’autorità di due funzionari,
Dzong-pon (uno laico e uno religioso), che dipendevano direttamente dal Kashag. A livello locale
invece ogni villaggio era amministrato da un capovillaggio incaricato di raccogliere le tasse e consegnarle ai funzionari preposti per la raccolta. Il capovillaggio era in genere eletto per un determinato
periodo di anni (normalmente tre) da una sorta di
consiglio degli anziani. Il capovillaggio poteva essere rieletto per un numero indefinito di volte e nei
casi di personalità particolarmente prestigiose rimaneva in carica fino alla morte.
(di Piero Verni )
TENZIN GYATSO, IL XIV DALAI LAMA
Lobsang Tsewang, vestiva quelle del capo delegazione. Rinpoche aveva con sé un rosario appartenuto al 13° Dalai Lama: il bambino che era nella
casa lo riconobbe e chiese che gli fosse dato.
Kewtsang Rinpoche promise che glielo avrebbe
consegnato se avesse riconosciuto chi fosse. Il piccolo rispose “Sera aga” che, nel dialetto locale,
significa “un lama di Sera”. Allora Rinpoche gli
chiese quale dei due arrivati fosse il capo della
delegazione e il bambino disse correttamente il
nome del lama; conosceva inoltre anche il nome
del vero servitore. A questa, seguì un’altra serie di
prove tra cui il riconoscimento di una serie di
oggetti appartenuti al 13° Dalai Lama.
Il positivo esito delle prove fornì la certezza che la
reincarnazione era stata trovata e fu avvalorata
dal significato delle tre lettere che erano state
viste nel lago di Lhamo Lhatso: Ah per Amdo, il
nome della provincia; Ka per Kumbum, uno dei
più grandi monasteri nelle vicinanze e le due lettere Ka e Ma per il monastero di Karma Rolpai
Dorje, il monastero dal tetto verde e oro sulla
montagna sopra il villaggio.
Sua Santità Tenzin Gyatso, 14° Dalai Lama del
Tibet, è il capo temporale e spirituale del popolo
tibetano. Nato con il nome di Lhamo Dhondrub
il 6 luglio 1935 in un piccolo villaggio chiamato
Taktser, nel nordest del Tibet, da una famiglia di
contadini, all’età di due anni fu riconosciuto come
la reincarnazione del suo predecessore, il 13°
Dalai Lama e, secondo la tradizione buddista tibetana, come reincarnazione di Avalokitesvara, il
Buddha della Compassione che scelse di tornare
sulla terra per servire la gente.
La ricerca della reincarnazione
Quando il 13° Dalai Lama morì, nel 1935, il compito che il Governo Tibetano dovette affrontare
non fu quello della semplice nomina di un successore ma la ricerca del bambino in cui il “Buddha
della Compassione” si fosse reincarnato.
Il Reggente si recò al lago sacro di Lhamo Lhatso
a Chokhorgyal, circa 90 miglia a sud-est della
capitale, Lhasa. Da secoli i tibetani, quando dovevano prendere decisioni importanti per il loro
futuro, osservavano le acque di questo lago la cui
superficie rifletteva immagini significative e forniva utili indicazioni.
La cerimonia di investitura ebbe luogo il 22 febbraio 1940 a Lhasa, capitale del Tibet.
In qualità di Dalai Lama, Lhamo Dhondrub fu
ribattezzato con i nomi di Jetsun Jamphel
Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso (Signore
Santo, Mite Splendore, Compassionevole,
Difensore della Fede, Oceano di Saggezza). I
Tibetani solitamente si riferiscono a Sua Santità
come Yeshe Norbu, la Gemma [che esaudisce i
desideri] o semplicemente come Kundun, la
Presenza.
Il Reggente vide tre lettere dell’alfabeto tibetano,
Ah, Ka e Ma, accompagnate dall’immagine di un
monastero dal tetto di giada verde e oro e di una
casa con tegole turchesi. Nel 1937 alti lama e
dignitari, messi al corrente della visione, furono
inviati in tutte le regioni dell’altopiano alla ricerca del luogo che il Reggente aveva visto nelle
acque. Il gruppo di ricerca che si indirizzò verso est
era guidato dal Lama Kewtsang Rinpoche, appartenente al monastero di Sera.
L’educazione in Tibet
Il Dalai Lama iniziò la sua educazione all’età di sei
anni e conseguì il diploma di Geshe Lharampa (o
Dottorato in Filosofia Buddista) all’età di 25 anni,
nel 1959. A 24 anni, sostenne gli esami preliminari in ciascuna delle tre università monastiche di
Quando arrivarono in Amdo, trovarono un luogo
che corrispondeva alla descrizione della visione
segreta. Il gruppo si recò verso la casa con le tegole turchesi. Kewtsang Rinpoche indossava le vesti
di un servitore mentre l’effettivo servitore,
31
Con la costituzione del Governo Tibetano in esilio, il Dalai Lama comprese che il suo primo
obbiettivo doveva essere la preservazione della
comunità tibetana e della sua cultura. I rifugiati
tibetani furono inseriti in insediamenti agricoli.
Fu sostenuto lo sviluppo economico e fu organizzato un sistema scolastico basato sull’insegnamento della cultura tibetana affinché i figli dei rifugiati potessero acquisire la piena conoscenza della
loro lingua, storia, cultura e religione. Nel 1959 fu
creato l’Istituto Tibetano delle Arti e lo
Spettacolo e l’Istituto Centrale di Studi Tibetani
Superiori divenne una Università per i tibetani in
India. Allo scopo di preservare il vasto corpo degli
insegnamenti del Buddismo tibetano, essenza del
sistema di vita del popolo del Tibet, furono rifondati nell’esilio oltre 200 monasteri.
Nel 1963, Sua Santità promulgò una costituzione
democratica, che servisse da modello per un futuro Tibet libero, basata sia sui principi del
Buddismo sia sulla Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani. Oggi i membri del parlamento
sono eletti direttamente del popolo che, dalla primavera 2001, elegge direttamente anche il Kalon
Tripa, o Primo Ministro, del governo tibetano. Il
Primo Ministro, a sua volta, designa i componenti del proprio governo. Sua Santità ha continuamente sottolineato la necessità di democratizzare
l’amministrazione tibetana e ha pubblicamente
dichiarato che quando il Tibet avrà ottenuto l’indipendenza, non manterrà alcuna carica politica.
Nel 1987 a Washington, in occasione della riunione del Comitato del Congresso per i Diritti
Umani, il Dalai Lama propose un Piano di Pace in
Cinque Punti come un primo passo verso la soluzione del futuro status del Tibet. Questo piano
chiedeva la trasformazione del Tibet in una zona
di pace, la fine dei massicci trasferimenti di popolazione di etnia cinese in Tibet, il ripristino dei
fondamentali diritti umani e delle libertà democratiche, l’abbandono da parte della Cina dell’utilizzo del territorio tibetano per la produzione di
armi nucleari e lo scarico di rifiuti radioattivi e,
infine, auspicava l’avvio di “seri negoziati” sul
futuro del Tibet.
A Strasburgo, in Francia, il 15 giugno 1988, il
Drepung, Sera e Ganden. L’esame finale ebbe
luogo nel Jokhang, a Lhasa, durante la festività
del Monlam che si svolge ogni anno durante il
primo mese del calendario Tibetano.
L’assunzione delle responsabilità di governo
Il 17 Novembre 1950, dopo l’invasione del Tibet
da parte di 80.000 soldati dell’Esercito di
Liberazione Popolare, fu chiesto a Sua Santità di
assumere i pieni poteri politici come capo di Stato
e di Governo. Nel 1954 si recò a Pechino per
avviare un dialogo pacifico con Mao Tse-Tung e
altri leader cinesi, fra i quali Chou En-Lai e Deng
Xiaoping. Nel 1956, durante una visita in India in
occasione del 2.500° anniversario del Buddha
Jayanti, ebbe una serie di incontri con il Primo
Ministro Nehru e con il Premier Chou En-Lai in
cui fu discusso il progressivo deterioramento della
situazione all’interno del Tibet.
I suoi tentativi di soluzione pacifica del conflitto
Sino-Tibetano furono vanificati dalla spietata
politica perseguita da Pechino nel Tibet
Orientale, politica che scatenò la sollevazione
popolare e la resistenza. La protesta si diffuse nelle
altre regioni del paese. Il 10 marzo 1959 nella
capitale, Lhasa, esplose la più grande dimostrazione della storia tibetana: il popolo chiese alla Cina
di lasciare il Tibet e riaffermò l’indipendenza del
paese. La sollevazione nazionale tibetana fu brutalmente repressa dall’esercito cinese.
Il Dalai Lama fuggì in India dove ottenne asilo
politico. Circa 80.000 tibetani lo seguirono e,
attualmente, i profughi in India sono più di
120.000. Dal 1960, il Dalai Lama risiede a
Dharamsala, una cittadina situata nello stato
indiano dell’Himachal Pradesh, conosciuta anche
come “la piccola Lhasa” e sede del Governo
Tibetano in esilio.
Nei primi anni dell’esilio, Sua Santità si appellò
alle Nazioni Unite per una soluzione della questione tibetana. L’assemblea Generale, rispettivamente nel 1959, 1961 e 1965, adottò tre risoluzioni nelle quali si esortava la Cina a rispettare i
diritti umani dei tibetani e la loro aspirazione
all’autodeterminazione.
32
l’Arcivescovo di Canterbury, dr. Robert Runcie e
altri leader della Chiesa Anglicana. Ha incontrato inoltre i massimi rappresentanti della Chiesa
Cattolica Romana e delle Comunità Ebraiche e
ha tenuto un discorso durante un incontro interreligioso che si è tenuto in suo onore al Congresso
Mondiale delle Religioni. Queste le sue parole:
“Credo sempre che sia molto meglio avere una
varietà di religioni e filosofie diverse piuttosto che
una singola religione o una singola filosofia. E’
necessario a causa della diversa disposizione mentale di ciascun essere umano. Ogni religione ha le
sue peculiari idee e pratiche: imparare a conoscerle può solo arricchire la fede di ciascuno.”
Dalai Lama elaborò il Piano di Pace in Cinque
Punti proponendo la creazione di un Tibet democratico ed autonomo, “all’interno della
Repubblica Popolare Cinese.”
Il 9 ottobre 1991, durante un discorso tenuto alla
Yale University negli Stati Uniti, Sua Santità
disse che desiderava visitare il Tibet personalmente per valutare la situazione politica. Disse: “Temo
che una situazione così esplosiva possa portare alla
violenza. Voglio fare del mio meglio per impedirlo
… Il mio viaggio dovrebbe costituire una nuova
opportunità per promuovere la comprensione e
creare le basi per una soluzione negoziale.”
Dopo quasi dieci anni di assenza di qualsiasi contatto formale tra Cina e Governo Tibetano in
Esilio, nel settembre 2002 e nel giugno 2003 due
delegazioni tibetane hanno potuto recarsi un visita in Cina e Tibet. Secondo Dharamsala, si è trattato di incontri preparatori ad un eventuale, futuro negoziato, miranti a creare le indispensabili
premesse di distensione e fiducia.
Premi e Riconoscimenti
Sin dalla sua prima visita in Occidente, all’inizio
del 1973, numerose università ed istituzioni occidentali hanno conferito al Dalai Lama Premi per
la Pace e Lauree ad Honorem, in segno di riconoscimento per gli approfonditi testi sulla filosofia
buddista e per il ruolo svolto nella soluzione dei
conflitti internazionali, nella questione dei diritti
umani e in quella, a carattere globale, dei problemi ambientali. Nel 1989, nel proclamare l’assegnazione del premio Raoul Wallemberg per i
Diritti Umani del Congresso, il deputato statunitense Tom Lantos disse: “La coraggiosa lotta di
Sua Santità il Dalai Lama fa di lui un eminente
sostenitore dei diritti umani e della pace nel
mondo. I suoi continui sforzi per porre fine alle
sofferenze del popolo Tibetano attraverso negoziati pacifici e la riconciliazione hanno richiesto un
enorme coraggio e sacrificio.”
I contatti con l’Occidente
A partire dal 1967, Sua Santità ha intrapreso una
serie di viaggi che lo hanno portato in circa 46
nazioni. Nell’autunno del 1991, ha visitato gli
Stati Baltici su invito del Presidente Vytautas
Landsbergis ed è stato il primo leader straniero a
tenere un discorso davanti al Parlamento Lituano.
Il Dalai Lama ha incontrato Papa Paolo VI in
Vaticano nel 1973. Durante una conferenza stampa a Roma, nel 1980, ha espresso le sue speranze
alla vigilia dell’incontro con Giovanni Paolo II:
“Viviamo in un periodo di grande crisi, un periodo in cui il mondo è scosso da turbolenti sviluppi
. Non è possibile trovare la pace dell’anima senza
la sicurezza e l’armonia fra le genti. Per questo
motivo aspetto con fede e speranza di incontrare
il Santo Padre; per avere uno scambio di idee e
sentimenti e per raccogliere i suoi suggerimenti,
per aprire la strada ad una progressiva pacificazione fra i popoli.”
Il Dalai Lama incontrò Papa Giovanni Paolo II in
Vaticano nel 1980, 1982, 1986, 1988 e 1990. Nel
1981, Sua Santità incontrò a Londra
Il Premio Nobel per la Pace
La decisione del Comitato Norvegese per il
Premio Nobel di assegnare il Premio Nobel per la
Pace 1989 a Sua Santità il Dalai Lama è stata
accolta in tutto il mondo, unica eccezione la
Cina, con applausi e consensi. L’annuncio del
Comitato così recita: “Il Comitato vuole sottolineare il fatto che il Dalai Lama, nella sua lotta per
la liberazione del Tibet, si è continuamente oppo33
sto all’uso della violenza. Ha appoggiato invece
soluzioni pacifiche basate sulla tolleranza e sul
reciproco rispetto con l’obiettivo di conservare
l’eredità storica e culturale del suo popolo. Il Dalai
Lama ha sviluppato la sua filosofia di pace sulla
base di un grande rispetto per tutti gli esseri viventi e sull’idea di responsabilità universale che
abbraccia tutto il genere umano così come la
natura. E’ opinione del Comitato che il Dalai
Lama abbia formulato proposte costruttive e lungimiranti per la soluzione dei conflitti internazionali, del problema dei diritti umani e dei problemi
ambientali mondiali”.
Il 10 Dicembre 1989, Sua Santità accettò il premio a nome di tutti gli oppressi, di tutti coloro che
lottano per la libertà e la pace nel mondo e a
nome del popolo tibetano. Nel suo commento
disse: “Questo premio costituisce un’ulteriore conferma delle nostre convinzioni: usando come sole
arma la verità, il coraggio e la determinazione, il
Tibet sarà liberato. La nostra lotta deve rimanere
non violenta e libera dall’odio.” In quell’occasione, lanciò anche un messaggio di incoraggiamento al movimento democratico guidato dagli studenti cinesi. “Nel giugno di quest’anno, in Cina,
il movimento popolare democratico è stato
schiacciato da una forza brutale. Ma non credo
che le dimostrazioni siano state vane perché lo
spirito di libertà si è riacceso nel popolo cinese e
la Cina non può rimanere estranea allo spirito di
libertà che si va diffondendo in molte parti del
mondo. I coraggiosi studenti e i loro sostenitori
hanno mostrato ai leader cinesi e al mondo il
volto umano di una grande nazione.”
Un semplice monaco buddista
Sua Santità dice spesso: “Sono un semplice monaco buddista, niente di più e niente di meno.”
Conduce la stessa vita dei monaci buddisti. Vive
in una piccola casa a Dharamsala, si alza alle 4 del
mattino per meditare, prosegue con un ininterrotto programma di incontri amministrativi, udienze
private, insegnamenti religiosi e cerimonie. Prima
di ritirarsi, conclude la sua giornata con altre preghiere. Quando vuole spiegare quali sono le sue
più importanti fonti di ispirazione, spesso cita i
suoi versi preferiti, tratti dagli scritti di
Shantideva, un celebre santo buddista dell’VIII°
secolo:
Finché esisterà lo spazio
E finché vi saranno esseri viventi,
Fino ad allora possa io rimanere
Per scacciare la sofferenza dal mondo
Informazioni tratte dal sito ufficiale del governo tibetano in esilio
34
AMBIENTE TIBET: UN PROBLEMA CRUCIALE
Introduzione
sta che asserisce l’interdipendenza di tutti gli elementi esistenti sulla terra, siano essi viventi o non
viventi. Questa credenza era ulteriormente rafforzata dalla stretta osservanza di una norma che
potremmo definire di “autoregolamentazione”,
comune a tutti i buddisti tibetani, in base alla
quale l’ambiente deve essere sfruttato solo per
soddisfare le proprie necessità e non per pura cupidigia.
Per quasi duemila anni il Tibet, composto dalle tre
regioni amministrative denominate Kham, Amdo
e U-Tsang, è esistito come nazione sovrana. La
Cina comunista, che ha invaso e occupato il paese
nel 1949, considera invece ai nostri giorni come
“Tibet” la cosiddetta “Regione Autonoma
Tibetana” (TAR), creata nel 1965 e comprendente, in larga parte, quella che per secoli è stata la
regione dello U-Tsang.
Dopo l’occupazione del Tibet, l’attitudine amichevole e armoniosa dei tibetani nei confronti
della natura fu brutalmente soppiantata dalla
visione consumistica e materialista dell’ideologia
comunista cinese. All’invasione fecero seguito
devastanti distruzioni ambientali che causarono la
deforestazione, il depauperamento dei pascoli, lo
sfruttamento incontrollato delle risorse minerarie,
l’estinzione della fauna selvatica, l’inquinamento
da scorie nucleari, l’erosione del suolo e le frane.
Ne consegue che, ai nostri giorni, lo stato dell’ambiente in Tibet è altamente critico e le conseguenze di questo degrado saranno avvertite ben oltre i
suoi confini.
Dal 1949, più di 1.200.000 tibetani, circa un sesto
del totale della popolazione, sono morti in Tibet
come conseguenza della persecuzione politica,
degli arresti, delle torture e della carestia. Oltre
6000 monasteri sono stati distrutti. Sua Santità il
14° Dalai Lama, capo politico e spirituale di sei
milioni di tibetani, nel 1959 è stato costretto a
lasciare il paese e a cercare rifugio in India. Con
lui, sono fuggiti dal Tibet 85.000 tibetani che
hanno trovato rifugio in India, Nepal e Buthan.
Il Tibet, comunemente conosciuto come “il Tetto
del Mondo”, è situato nel cuore dell’Asia e, dal
punto di vista ambientale, è una delle più importanti regioni del mondo. Situato a nord dell’India,
del Nepal, del Buthan e della Birmania, a ovest
della Cina e a sud del Turkestan orientale, si
estende per circa 2.500 chilometri da ovest a est e
per 1.500 da nord a sud, raggiungendo una superficie di 2.5 milioni di chilometri quadrati (equivalenti a più di due terzi dell’India). Ha un’altitudine media di 3.650 metri sopra il livello del mare e
molte delle sue montagne superano gli 8.000
metri: una per tutte, il monte Everest che, con i
suoi 8.848 metri, è la vetta più alta della Terra.
L’altopiano tibetano è il più alto e il più esteso del
mondo e domina tutta la parte centrale del continente asiatico. Gli fanno corona a sud la catena
dell’Himalaya e a nord le montagne dell’Altyn
Tagh e del Gangkar Chogley Namgyal. A occidente si fonde con le cime del Karakorum mentre
a oriente scende in modo graduale verso le vette
del Minyak Gangkar e del Khawakarpo.
Le condizioni ambientali prima dell’occupazione
cinese
Prima dell’occupazione cinese, il Tibet era, dal
punto di vista ecologico, un territorio equilibrato
e stabile perché la conservazione dell’ambiente
era parte essenziale della vita quotidiana dei suoi
abitanti. I tibetani vivevano in armonia con la
natura grazie alla loro fede nella religione buddi-
Il Tibet possedeva il più efficace sistema di protezione ambientale di tutte le terre abitate del
mondo moderno. Parchi naturali e riserve, a salvaguardia della flora e della fauna, non erano
35
dii scoscesi della regione sud orientale del paese.
Erano foreste di conifere tropicali e subtropicali,
per la maggior parte costituite da abeti rossi sempreverdi, pini, larici, cipressi, betulle e querce. Le
foreste tibetane erano di vecchia crescita, con piante di più di duecento anni. La densità media della
vegetazione era di 272 metri cubi per ettaro ma
nella regione dello U-Tsang poteva raggiungere
anche i 2.300 metri cubi per ettaro, la più alta densità del mondo per una vegetazione di conifere.
necessari in quanto il Buddismo insegnava alla
gente l’interdipendenza di tutti gli elementi,
viventi e non viventi, presenti sul pianeta. Il
Buddismo proibiva l’uccisione degli animali e
insegnava la compassione per gli esseri viventi e
l’ambiente. E, soprattutto, il governo tibetano
proibiva la caccia.
Flora
In Tibet crescevano più di 100.000 specie di piante ad alto fusto, alcune delle quali rare ed endemiche. Vi erano più di 2.000 varietà di piante medicinali usate, non solo in Tibet ma anche in India
e in Cina, per preparare i medicamenti secondo i
sistemi tradizionali. Molto diffuse erano lo zafferano, il rabarbaro di montagna, l’elleboro, la serratula alpina himalayana e il rododendro di cui esistevano, sull’altopiano tibetano, ben 400 specie
diverse, quasi il 50% delle varietà esistenti sulla
terra.
Minerali
Il Tibet era anche ricco di risorse minerali mai
sfruttate. Nel suo sottosuolo vi sono 126 tipi di
minerali tra i quali oro, litio, uranio, cromite,
rame, borace e ferro. Il Tibet possiede inoltre i
maggiori giacimenti d’uranio del mondo. I giacimenti di petrolio della regione dell’Amdo consentono l’estrazione annuale di più di un milione di
tonnellate di greggio.
Uccelli
In Tibet esistono 532 specie di uccelli raggruppate in 57 famiglie. Vi sono cicogne, cigni selvatici,
il martin pescatore, oche, anatre, rapaci, fringuelli, l’uccello pigliamosche della giungla, tordi, pappagalli, cutrettole, vari tipi di uccelli canori,
avvoltoi, e una particolare, bellissima specie di
picchio. L’uccello più raro e famoso è la gru dal
collo nero, chiamata dai tibetani “trung trung
kaynak”.
Fiumi
In Tibet nascono alcuni dei più grandi fiumi
dell’Asia. Tra i tanti, ricordiamo il Brahmaputra,
l’Indo, il Mekong, lo Yangtse e il Fiume Giallo.
Lasciato il Tibet, i fiumi bagnano l’India, la Cina,
il Pakistan, il Nepal, il Buthan, il Bangladesh, la
Birmania, la Tailandia, il Laos e la Cambogia, assicurando, assieme ai loro tributari, il fabbisogno
idrico necessario a milioni di persone. Alcune
ricerche hanno dimostrato che i fiumi che nascono in Tibet assicurano la vita al 47% della popolazione mondiale e all’85% dell’intera popolazione asiatica. La questione ambientale tibetana non
è quindi soltanto un problema locale, ma è di cruciale rilevanza a livello internazionale. Preservare
l’Altopiano Tibetano dalla devastazione ecologica
è essenziale non solo per la sopravvivenza dei tibetani ma anche per la salvezza di una metà dell’intera umanità.
Animali selvatici
Le montagne e le foreste del Tibet davano un
tempo rifugio ad un grande numero di animali selvatici rari e in via di estinzione quali il leopardo
delle nevi, il leopardo maculato, la lince, l’orso
nero himalayano, il burdocade tibetano (un ruminante tipico del Paese delle Nevi), lo yak selvatico, il cervo muschiato, la gazzella tibetana, l’antilope tibetana, la lepre dell’Himalaya, il panda
gigante, il panda rosso e molti altri.
La distruzione dell’ambiente dopo l’occupazione
cinese
Foreste
Le foreste tibetane ricoprivano un’area di oltre 25
milioni di ettari. La maggior parte ricopriva i pen-
Violando le leggi e le normative internazionali, la
36
dimenticati nei capannoni oppure marciscano
nell’acqua, lungo le rive dei fiumi. Il rimboschimento è minimo e spesso senza successo a causa
della poca cura prestata alle giovani piante.
Cina ha invaso e occupato il Tibet. La resistenza
tibetana e la repressione cinese portarono, il 10
marzo 1959, all’insurrezione nazionale tibetana
brutalmente soffocata dall’intervento dell’Esercito
di Liberazione Cinese che, secondo stime fornite
da Pechino, causò la morte di oltre 87.000 tibetani nel solo Tibet centrale.
Effetti della deforestazione
a) Erosione del suolo e inondazioni:
La massiccia deforestazione, il proliferare delle
miniere e una politica agricola basata sullo sfruttamento intensivo dei campi contribuiscono ad
aumentare l’erosione del suolo. Il fango che si
riversa nei fiumi che scendono dall’altopiano tibetano (l’Indo, il Brahmaputra, il Sutley, il Mekonk,
il Fiume Giallo e lo Yangtse) scende nei paesi a
valle innalzando il letto dei fiumi e causando
devastanti inondazioni che, a loro volta, provocano estese slavine. Di conseguenza, si riduce
l’estensione delle terre coltivabili con gravi danni
per l’economia di milioni di persone. Secondo gli
esperti, le frequenti inondazioni che si verificano
nel Bangladesh sono in diretta relazione con la
deforestazione attuata in Tibet, nella parte superiore dei fiumi.
Decimazione della fauna selvatica
Prima dell’invasione cinese in Tibet era rigorosamente vietata la caccia agli animali selvatici. I
Cinesi non hanno rispettato questo divieto ma
hanno anzi attivamente incoraggiato lo sterminio
degli animali rari o in via di estinzione. Il leopardo delle nevi, per fare un esempio, è cacciato per
la sua pelliccia, venduta a prezzi elevatissimi sul
mercato internazionale. I permessi per cacciare
l’antilope tibetana oppure l’argali , un raro tipo di
pecora selvatica, costano rispettivamente 35.000
e 23.000 dollari americani. La carne delle antilopi, delle gazzelle e degli yak selvatici è venduta nei
mercati cinesi e anche europei.
Deforestazione
In nome dello “sviluppo”, più di 70.000 cinesi
sono addetti al taglio indiscriminato delle piante
secolari che costituiscono le ricche foreste delle
regioni orientali e meridionali del territorio tibetano. La medesima situazione è riscontrabile in
altre aree del Tibet, quali Markham, Gyarong,
Nyarong e alcune zone del Kham e del Kongpo.
b) Effetti climatici a livello globale:
Il ruolo dell’Altopiano Tibetano sul sistema climatico del globo è rilevante. Gli scienziati hanno
evidenziato una correlazione tra la vegetazione
spontanea del Tibet e la regolarità dei monsoni.
Le piogge monsoniche, indispensabili per la
sopravvivenza delle regioni dell’Asia meridionale,
costituiscono il 70% delle piogge che ogni anno
cadono in l’India. Tuttavia, un monsone troppo
violento è causa di immani calamità naturali.
Alcuni scienziati, tra i quali ad esempio lo statunitense Elman Reiter, hanno dimostrato che l’ambiente dell’Altopiano esercita una diretta influenza sui cosiddetti “jet strems”, i venti d’alta quota
che soffiano sul Tibet, che, a loro volta, sono la
causa dei tifoni che si scatenano sull’oceano pacifico e del fenomeno conosciuto come “El
Nino”,una corrente calda che rimescola le acque
dell’oceano ed ha causato la distruzione della
catena alimentare marina danneggiando l’economia delle zone costiere della California, del Peru e
dell’Ecuador. Contemporaneamente, paesi quali
La superficie boschiva del Tibet che, nel 1959, si
estendeva su 25.2 milioni di ettari, nel 1985 si era
ridotta a soli 13.57 milioni di ettari, pari alla
distruzione del 46% delle foreste. La deforestazione è ancora drammaticamente in atto e si calcola
che, ai nostri giorni, l’80% delle foreste siano state
abbattute. Radio Lhasa ha dato notizia che solo
tra il 1959 e il 1985 la vendita del legname ha
fruttato alla Cina più di 54 miliardi di dollari americani. Ancora oggi, più di 500 automezzi carichi
di legname tibetano lasciano la località di Gonjo,
nel Kham, diretti verso la Cina, ma a volte accade che, per incuria e cattiva organizzazione, molti
carichi vengano abbandonati lungo la strada,
37
posizione di cittadini di seconda classe nella loro
stessa patria, e, di conseguenza, violando i diritti
fondamentali del popolo tibetano garantiti dalla
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
delle Nazioni Unite.
la Nuova Zelanda, l’Indonesia, l’Australia, l’India
e il Sud Africa hanno attraversato un periodo di
terribile siccità.
c) Cattiva amministrazione agricola:
Nel corso degli anni ’60, il governo cinese ha
introdotto, in Tibet, in campo agricolo, alcune
riforme che hanno portato il paese alla carestia.
La sovrapproduzione e lo sfruttamento agricolo
intensivo hanno inoltre causato la scomparsa di
molte erbe medicinali e di piante commestibili e
hanno distrutto gli esemplari che costituivano la
riserva di cibo invernale per gli animali selvatici.
Questa politica agricola sconsiderata ha fatto sì
che il suolo venisse eroso sia dal vento sia dall’acqua dando avvio ad un processo di desertificazione. Secondo dati forniti dal governo cinese, in
Cina e in Tibet la desertificazione per opera di
interventi umani interessa una superficie pari a
circa 120.000 chilometri quadrati di territorio.
Le autorità cinesi obbligano gli agricoltori tibetani a comperare e usare fertilizzanti chimici e insetticidi. I contadini sostengono che questi fertilizzanti sono estremamente pericolosi sia per il raccolto che per l’ambiente.
La centrale idroelettrica
Il più assurdo e catastrofico, dal punto di vista
ambientale, dei cosiddetti “progetti di sviluppo”
cinesi è costituito dalla costruzione della centrale
idroelettrica di Yamdrok Tso (il lago Yamdrok), a
circa un centinaio di chilometri da Lhasa. A causa
di questo progetto, il lago, che i tibetani considerano sacro, è destinato a scomparire. Nel 1993,
tutte le sorgenti d’acqua potabile della zona si
sono prosciugate e i contadini tibetani sono stati
costretti a bere l’acqua del lago. Ciò ha causato
gravi problemi alla loro salute quali diarrea, perdita di capelli e malattie della pelle. A causa del
progetto, i tibetani della zona hanno inoltre perduto, in modo irreversibile, il 16% della terra coltivabile.
Lo sfruttamento delle risorse minerarie
In Tibet, lo sfruttamento intensivo delle risorse
minerarie è iniziato negli anni ’60. Il governo cinese ha enormemente intensificato l’estrazione di
borace, cromo, sale, rame, carbone e uranio per
garantire le materie prime necessarie allo sviluppo
industriale. Ai nostri giorni, nei distretti di UTsang e di Amdo, esistono numerose miniere sia
pubbliche sia private. L’aumento delle attività
minerarie riduce ulteriormente la vegetazione e fa
aumentare il pericolo di frane, l’erosione del suolo,
l’inquinamento dei torrenti e dei fiumi oltre a danneggiare l’habitat degli animali selvatici.
La metà delle riserve di uranio della terra si trova
nelle montagne attorno a Lhasa. In Tibet si trova
inoltre il 40% delle riserve di ferro della Cina oltre
a cospicui giacimenti di carbone, oro, rame, piombo, borace e petrolio. Secondo l’agenzia ufficiale
cinese Xinhua, il 31 ottobre 1995 la Cina ha incrementato lo sfruttamento delle risorse minerarie
della Regione Autonoma Tibetana. Gli introiti
derivanti da questo sfruttamento sono stimati nell’ordine di 78.27 miliardi di dollari americani.
Il trasferimento della popolazione
Uno dei più gravi pericoli che minacciano il
popolo tibetano, la sua cultura e l’ambiente è
costituito dal massiccio trasferimento nel paese,
soprattutto in questi ultimi anni, di personale
civile e militare cinese. Ai nostri giorni, i sei
milioni di tibetani residenti sono sopravanzati
numericamente da sette milioni e mezzo di cinesi.
A Lhasa, il rapporto tra tibetani e cinesi è di due
a uno. In seguito a questo trasferimento di popolazione, i tibetani sono stati emarginati in campo
economico, educativo, politico e sociale e la tradizionale e ricca cultura tibetana sta rapidamente
scomparendo.
In Tibet, sotto il regime totalitario cinese, i “progetti di sviluppo” non tengono in alcun conto i
parametri di Valutazione di Impatto Ambientale.
Inoltre, questi “progetti di sviluppo” favoriscono
solo gli immigrati cinesi e incoraggiano il loro
insediamento nel paese relegando i tibetani a una
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Scorie nucleari e militarizzazione
L’esistenza di scorie nucleari in Tibet è stata
denunciata dal Dalai Lama nel 1992, nel corso di
una conferenza stampa rilasciata a Bangalore
(India). In quell’occasione Pechino negò che in
Tibet esistessero scorie nucleari inquinanti.
Tuttavia, più recentemente, la Cina ne ha ammesso l’esistenza. Il 19 luglio 1995, l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha infatti dichiarato che, nella
Prefettura Autonoma Tibetana di Haibei, vicino
alle rive del lago Kokonor, il più grande lago dell’altopiano tibetano, vi è “una discarica di venti
metri quadrati utilizzata per il deposito di materiale radioattivo”.
test hanno causato un notevole aumento dei casi
di cancro e di morte infantile senza che tuttavia
sia stata attuata alcuna ricerca medica adeguata.
Nella stessa zona vi è quella che i cinesi chiamano “Nona Accademia” oppure “Fabbrica 211”: si
tratta, in realtà, di un vero e proprio centro
nucleare circondato dal più assoluto segreto. La
dottoressa Tashi Dolma, che ha lavorato all’ospedale di Chabcha, situato a sud del centro, ha
dichiarato che sette piccoli nomadi, addetti al
pascolo del bestiame nelle vicinanze della città
nucleare, si sono ammalati di cancro e i loro globuli bianchi sono aumentati a livelli incontrollabili. Un medico americano che ha condotto alcune ricerche presso lo stesso ospedale, ha reso noto
che i sintomi erano simili a quelli dei casi di cancro causati dalle radiazioni dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki del 1945. Negli anni
compresi tra il 1989 e il 1990, cinquanta persone
sono morte a Thewo, nell’Amdo, per causa ancora non accertate. Nel 1990, dodici donne hanno
partorito ma i piccoli sono nati morti o hanno cessato di vivere subito dopo la nascita.
A Drotsang, 63 chilometri a est di Siling, è sorto
un nuovo centro di produzione di missili conosciuto con il numero di codice 430. I missili vengono testati nel lago Kokonor. A Nagchuka sono
stati posizionati 20 missili balistici a raggio intermedio e 70 a raggio medio. Anche nella città di
Payi, nella Regione Autonoma Tibetana, vi è un
grande deposito sotterraneo di missili (numero di
codice 809). Durante le esercitazioni, i missili
vengono portati allo scoperto e lanciati sia verticalmente sia orizzontalmente contro bersagli prestabiliti.
Considerato un tempo come un pacifico stato
cuscinetto tra l’India e la Cina, il Tibet è ora altamente militarizzato: ospita infatti 300.000 soldati
cinesi e un quarto della forza missilistica del paese.
La militarizzazione dell’altopiano tibetano costituisce una minaccia per l’equilibrio geo-politico
della regione ed è causa di serie tensioni internazionali.
Tutti i test nucleari apertamente dichiarati da
Pechino, sono stati eseguiti a Lopnor, nella provincia del Xinjiang, a nord-ovest del Tibet. Questi
A cura del Dipartimento Informazioni e Relazioni
Internazionali
Amministrazione Centrale Tibetana
Secondo International Campaign for Tibet, la
prima testata nucleare fu portata in Tibet nel 1971
e posizionata a Tsaidam, nell’Amdo del nord.
Fonti diverse asseriscono la presenza di missili
nucleari a Nagchuka, situata a 150 miglia da
Lhasa. E’ stato inoltre confermato che nella regione dell’Amdo e, più esattamente nel bacino di
Tsaidam, geograficamente isolato e a grande altezza, vi sono tre località adibite a deposito di missili nucleari.
39
LA BANDIERA NAZIONALE TIBETANA
LA STORIA
dichiarò che sarebbe stata adottata da tutti i corpi
militari di difesa.
La composizione pittorica e il simbolismo della
bandiera nazionale Tibetana contengono tutte le
caratteristiche del Tibet: la conformazione geografica del territorio, la sua natura religiosa, gli usi e
le tradizioni della società Tibetana, l’amministrazione politica del governo Tibetano, e cosi via.
In ognuna delle tre regioni di cui si compone il
paese, la bandiera nazionale, ereditata dagli antichi padri, è universalmente accettata come un
comune inestimabile tesoro e, come in passato, è
rispettata e stimata.
La bandiera nazionale Tibetana è strettamente
legata alla storia del Paese delle Nevi e a quella
delle dinastie reali del Tibet, entrambe vecchie di
migliaia d’anni.
Nell’anno Reale Tibetano 820, ovvero nel settimo
secolo dell’era cristiana, durante il regno del re
tibetano Song-tzan Gampo, il territorio del Tibet
venne diviso in distretti di varia grandezza conosciuti come “gö-kyi tong-de” e “yung-g’i mi-de”.
A un esercito di 2.860.000 uomini, provenienti da
questi distretti, fu affidato il compito di presidiare
i confini del paese, permettendo quindi al popolo
tibetano di vivere in condizioni di sicurezza.
Il coraggio e l’eroismo dei tibetani di quel tempo,
capaci addirittura di conquistare e di governare il
confinante impero della Cina, sono ben conosciuti nella storia del mondo.
SIMBOLOGIA
La gloriosa e bellissima montagna bianca, situata al
centro, simboleggia la grande nazione tibetana,
famosa per le montagne innevate che la circondano.
E’ storicamente provato che a quei tempi il reggimento di Yö-ru tö aveva una bandiera militare con
una coppia di leoni di montagna contrapposti; il
reggimento di Yä-ru mä ne aveva una con un
leone di montagna e con un bordo superiore di
colore chiaro; in quella di Tzang Ru-lao era raffigurato un leone in posizione eretta lanciato verso
il cielo mentre la bandiera di Ü-ru tö aveva una
fiamma bianca su sfondo rosso, e così via.
Con il proseguire di questa tradizione, all’inizio
del ventesimo secolo ogni reggimento dell’esercito Tibetano possedeva una bandiera raffigurante
con due leoni di montagna contrapposti oppure
un leone di montagna proteso verso il cielo.
I sei raggi di luce rossa diretti verso il cielo simboleggiano le sei tribù del Tibet: Se, Mu, Dong,
Tong, Dru e Ra.
L’alternanza del colore rosso e del colore azzurro del cielo simboleggia la continua ricerca della
retta condotta morale necessaria per mantenere e
proteggere la legge spirituale e la legge temporale
sancita dalle due divinità tutelari, una rossa e una
nera, che hanno protetto il Tibet nel corso dei
tempi.
I raggi emanati dal sole nascente sopra il picco
della montagna innevata, simboleggiano l’eguale
godimento, da parte di tutti i cittadini tibetani,
della luce della libertà, della felicità spirituale e
materiale e della prosperità.
Nel ventesimo secolo, il XIII° Dalai Lama, eminente capo spirituale e temporale del Tibet, attuò
molti cambiamenti in campo amministrativo in
sintonia con le usanze internazionali. Prendendo
spunto e migliorando gli stendardi militari esistenti, Sua Santità disegnò l’attuale, moderna
bandiera nazionale e, con un proclama ufficiale,
L’aggressiva posizione della coppia di intrepidi
leoni di montagna, il cui coraggio è suggerito dalle
cinque sporgenze sulla sommità della loro testa,
simboleggia il totale successo contro tutte le
41
leggia l’osservanza della dirittura morale secondo
le somme tradizioni rappresentate dai dieci precetti divini di virtù e dalle sedici regole etiche
della vita laica.
avversità delle azioni intraprese dal governo spirituale e secolare della nazione.
I tre gioielli colorati sopra ai leoni, bellissimi e
radiosi di luce, simboleggiano la continua venerazione da parte del popolo Tibetano delle Tre
Preziose Gemme, oggetti del rifugio.
Il bordo giallo simboleggia il fiorire e lo sviluppo
degli insegnamenti del Buddha, paragonabili
all’oro purissimo, attraverso spazio e tempo senza
limiti.
Il mulinello della gioia, sorretto dai leoni, simbo-
42
L’Associazione Italia-Tibet
L’Associazione Italia-Tibet è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro,
legamente costituita. Fondata nel 1988, l’Associazione si propone di sostenere il
lavoro del Dalai Lama, massima autorità politica e religiosa del Tibet e del suo
governo in esilio, affinché al popolo tibetano venga riconosciuto il diritto all’autodeterminazione e gli siano garantite le fondamentali libertà civili.
Per promuovere la conoscenza della effettiva realtà tibetana, l’Associazione ItaliaTibet:
• Organizza manifestazioni politiche e culturali per sensibilizzare l’opinione
pubblica sulla storia e gli sviluppi del problema tibetano.
• Mantiene contatti con il mondo politico, con le organizzazioni per i diritti umani e
con tutti i gruppi sensibili a queste tematiche.
• Pubblica materiale informativo di agile consultazione sugli aspetti sociali,
culturali e religiosi del popolo tibetano.
• Mantiene il sito web: www.italiatibet.org
L’Associazione Italia-Tibet aiuta inoltre concretamente la comunità tibetana in
esilio, sostenendo progetti di cooperazione allo sviluppo e promuovendo le adozioni
a distanza.
Come associarsi
Il modo migliore per aiutare e rimanere in contatto con l’Associazione Italia-Tibet è
quello di iscriversi ad una delle seguenti quattro categorie di soci previste.
Quote annuali:
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Socio ordinario
Socio sostenitore
Socio benemerito
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Acquisto bandiera del Tibet:
Per informazioni contattare:
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20133 MILANO - Via Pinturicchio, 25
Tel./fax 02.70638382 - [email protected]
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