TIBET documenti La storia Lo status Il Buddhismo La società tradizionale Il Dalai Lama Ambiente Tibet: un problema cruciale La bandiera nazionale Associazione Italia-Tibet 20133 MILANO - Via Pinturicchio, 25 Tel./fax 02.70638382 [email protected] - www.italiatibet.org TIBET documenti La storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 5 Lo status . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 23 Il Buddhismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 27 La società tradizionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 30 Il Dalai Lama . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. Ambiente Tibet . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. La bandiera nazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 31 35 41 STORIA DEL TIBET Dal mito ai sovrani di Yarlung tano parlato si rintracciano anche alcune periferiche influenze di origine cinese ma le due lingue sono reciprocamente del tutto incomprensibili. Le origini del popolo tibetano rimangono ancora oggi piuttosto misteriose. Secondo la tradizione mitologica i remoti antenati degli abitanti del Tibet sarebbero stati uno scimmione, considerato un’incarnazione della deità Chenrezig e una sorta di orchessa venerata come nume tutelare della montagna. La loro unione avrebbe dato vita ad una bizzarra prole, strani esseri metà uomini e metà scimmie da cui, attraverso un considerevole numero di generazioni, si evolse gradualmente la razza tibetana. Dimensione mitica a parte, la moderna antropologia colloca i tibetani all’interno di quella vasta famiglia etnica nota con il nome di ceppo mongolide che comprende diversi popoli dell’area centro asiatica. In effetti non è semplice determinare con certezza l’origine degli abitanti del Tibet. Anche partendo da angoli di visuale molto grossolani, ad esempio la banale osservazione fisica dei tratti somatici, vediamo come alcuni ricordino nell’aspetto dei mongoli mentre altri siano più simili ai nativi d’America (i cosiddetti “pellerossa”) e altri ancora possano ad uno sguardo superficiale sembrare parenti stretti di giapponesi o cinesi. Pur essendo di fronte a una tale varietà di tipologie si possono comunque stabilire alcuni punti fermi. Gli abitanti delle regioni centrali di U e Tsang, e in larga parte anche quelli del Tibet occidentale, sono di statura media, hanno la testa rotonda e gli zigomi pronunciati. Quelli che vivono nelle province orientali e settentrionali, Kham e Amdo, sono invece decisamente alti, dolicocefali e con gli arti piuttosto sviluppati. Tratti comuni a tutti sono capelli neri e lisci e occhi scuri dalla caratteristica forma “a mandorla”. Contrariamente all’elemento etnico, quello linguistico non ha alcuna parentela con il mondo mongolico. La lingua tibetana presenta piuttosto punti di contatto con il birmano, tanto che gli studiosi parlano di tibeto-birmano, e con alcuni dialetti della regione himalayana. Nel tibe- Così come quelle etniche, anche le origini storiche del Tibet sono ancora oggi poco conosciute. Le antiche tradizioni parlano di un’età mitica in cui governava una dinastia di re celesti, una sorta di dei che esercitavano la loro funzione regale sulla terra. Di giorno questi monarchi divini vivevano nel mondo degli uomini e di notte salivano magicamente in cielo tramite una corda che viene descritta come specie di arcobaleno. Questi re celesti, secondo le cronache tibetane, governavano fino a quando il loro primogenito imparava a cavalcare (in genere verso i tredici anni) ed nella maggiore età. L’ingresso del giovane nell’età adulta segnava il passaggio dei poteri dinastici e il vecchio re moriva, nel senso che tornava definitivamente in cielo per mezzo della corda magica. Il primo di questi monarchi discesi sulla terra viene considerato Nyatri Tsempo che arrivato nella valle del fiume Yarlung (Tibet centrale), vi insediò la omonima dinastia. Pare che prima dell’arrivo del sovrano i tibetani non abitassero in edifici in muratura e vivessero per lo più in caverne e ripari naturali. Nyatri Tsempo fece compiere un passo decisivo all’evoluzione del popolo tibetano edificando il primo palazzo, quello Yumbulagang di cui si è appena parlato. Nyatri Tsempo e i suoi primi sei successori, salendo al cielo al momento della morte, non lasciavano spoglie mortale e quindi non c’era la necessità di costruire monumenti funerari. Fu solo a partire dall’ottavo re, Drigum Tsempo, che la corda magica, in grado di assicurare ai sovrani la soprannaturale ascensione, venne tagliata e i loro cadaveri, dal momento che rimanevano sulla terra, avevano bisogno di una tomba. Il monumento funerario di Drigum Tsempo, che i tibetani chiamano ancora 5 Anche se la religione professata dalle due principesse era quella buddhista non sembra però che il Buddhismo, al di là di alcune pratiche esteriori, fosse seriamente seguito; rimaneva una religione straniera fondamentalmente estranea sia al popolo sia agli stessi ambienti della corte. La vera tradizione spirituale del Tibet continuava ad essere il Bon, una sorta di religione della natura con venature sciamaniche, radicato tra la gente e molto influente tra i ranghi del governo e della nobiltà. “la prima tomba dei Re”, con la sua presenza visibile e concreta prova che questo sovrano esistette realmente e con lui le vicende del Tibet entrano, se non nella Storia almeno in una sorta di preistoria dove alcuni elementi certi e databili cominciano ad emergere dalle poetiche nebbie del mito. Nella Storia vera e propria il Paese delle Nevi vi entra circa verso il settimo secolo d.C. e in questo periodo presenta i tratti di una società feudale, fortemente gerarchicizzata e posta sotto il governo di Songtsen Gampo (noto anche come Tride Songtsen) il trentaduesimo re di Yarlung. Songtsen Gampo riuscì nell’arduo compito di riunire sotto un unico comando quel variegato mondo di tribù dell’Asia centro-settentrionale che costituiscono l’elemento fondamentale dell’etnia tibetana. Al tempo di questo sovrano quindi, gran parte dell’odierno Tibet centrale è unificato e i suoi abitanti sono in grado di compiere audaci quanto fortunate scorribande militari all’interno dello stesso territorio cinese. Popolo di nomadi coraggiosi fino all’aggressività, dediti alla pastorizia e con scarsa propensione alla vita sedentaria, i tibetani dell’epoca con le loro incursioni seminano il panico tra le popolazioni han della Cina. Sotto Songtsen Gampo Lhasa, l’unico agglomerato urbano di un certo rilievo, diventa la capitale del Paese e spedizioni militari condotte verso nord e ovest annettono al Tibet porzioni significative dei territori limitrofi. Nel 635 il sovrano sposa la principessa nepalese Bhrikuti Devi (Belsa in tibetano) e nel 641 la figlia dell’imperatore cinese T’ai Tsung, la giovane Wen-c’eng Kung-chu (Gyasa in tibetano). La tradizione racconta che queste due giovani donne portarono in dote, tra altri innumerevoli tesori, anche alcune scritture e immagini sacre buddhiste che rappresentarono i primi elementi di Buddhismo ad essere introdotti nel Paese delle Nevi. Il dono più importante fu senza dubbio la statua di Buddha Sakyamuni che faceva parte della dote di Gyasa e che si dice fosse stata benedetta dallo stesso Buddha. Ancora oggi questa statua, che si trova a Lhasa all’interno della cattedrale del Jokang, è meta di un ininterrotto pellegrinaggio di fedeli. Tra gli innumerevoli meriti che vengono attribuiti a Songtsen Gampo il più significativo è senza dubbio la sua determinazione nel voler dotare la lingua tibetana (fino ad allora priva di segni grafici) di una sua peculiare scrittura. Sembra che l’esigenza di una grafia derivasse soprattutto dall’interesse per il Buddhismo che provava il sovrano il quale voleva che il suo popolo potesse leggere gli insegnamenti dell’Illuminato. Songtsen Gampo inviò dunque in India un folto gruppo di eruditi allo scopo di trovare una scrittura che potesse adattarsi alla lingua tibetana e far sì che anche il Paese delle Nevi avesse, come quasi tutti gli stati con cui confinava, la possibilità di tradurre in segni i suoni fonetici. Thonmi Sambota, lo studioso a cui il re aveva affidato il comando dell’impresa, tornò in Tibet solo dopo diversi anni portando con sé una sorta di alfabeto mutuato dalle scritture brahmi e gupta, analoghe al sanscrito, e molto diffuse in quel tempo nei regni dell’India centro-settentrionale e himalayana. L’adozione di una scrittura di derivazione indiana sottolinea con forza il legame culturale che, al di là delle differenze etniche, collega il Tibet all’India, legame che andrà sempre più rafforzandosi nei secoli successivi grazie alla vasta (e tutto sommato rapida) diffusione del Buddhismo nel mondo tibetano. Come hanno fatto rilevare numerosi autori, l’adozione di un tipo di scrittura rappresenta una precisa scelta di campo culturale che comporta profonde implicazioni le quali travalicano gli ambiti di una opzione puramente tecnica verso una particolare forma grafica per svilupparsi verso ben altri orizzonti. Creando una grafia così vicina al sanscrito il mondo tibetano compì, oltre mille anni or sono, un passo che lo allontanò irre6 piuttosto pacifico e il “campo di battaglia” fosse rappresentato sia da dibattiti filosofici sia dall’uso di quei “poteri miracolosi” così importanti per la psicologia tibetana. Durante il regno di Trisong Deutsen il Buddhismo mise salde radici in Tibet. I vecchi templi fatti costruire dalle mogli di Songtsen Gampo e lasciati andare in rovina dai suoi successori vennero restaurati. Fu edificato Samye, il primo monastero buddhista e, come si è già detto, Santarakshita ordinò alcuni monaci tibetani. Delle due scuole Buddhiste che si confrontarono in Tibet, quella “indiana” e quella “cinese” si affermò nettamente la prima. Varrà la pena di notare come anche questa scelta, sia pure relativa all’ambito religioso e motivata solo da ragioni spirituali, accentui ancor più i legami della cultura tibetana con l’India che può quindi considerarsi la vera ispiratrice della civiltà tibetana avendogli fornito scrittura e religione. versibilmente dall’area cinese cui lo legavano alcune remotissime ascendenze etniche, per entrare a pieno titolo nell’universo della koiné indiana. Songtsen Gampo morì nel 649 e i suoi successori ampliarono ulteriormente i confini del regno che andava sempre più prefigurandosi come uno dei principali, e temuti, poteri dell’Asia centrale. Nel 755 salì al trono Trisong Deutsen che passerà alla storia come il più importante di tutti i sovrani della dinastia di Yarlung. Trisong Deutsen eredita un impero forte e solido la cui stabilità interna e potenza militare erano state rafforzate dai quattro monarchi che avevano regnato negli oltre cento anni che intercorrono tra la scomparsa di Songtsen Gampo e il 755. Deciso, audace, spregiudicato (almeno per quanto riguarda la politica estera), Trisong Deutsen organizza brevi ma efficaci spedizioni che arrivano a colpire e conquistare il cuore dell’impero cinese e costringono l’imperatore del Regno di Mezzo a firmare un umiliante trattato di pace. Trisong Deutsen però occupa un posto di particolare rilevanza nella storia del Tibet non tanto per le sue brillanti imprese belliche quanto perché a lui si deve l’effettiva introduzione sul Tetto del Mondo della religione buddhista che, nel volgere di una manciata di secoli, diverrà il principale collante spirituale e culturale dell’intera nazione. Sin da giovane Trisong Deutsen si mostrò estremamente incuriosto e interessato da quella dottrina che tanto successo aveva riscosso in India, Cina e in numerosi altri stati asiatici. Nonostante il parere negativo di molti suoi consiglieri decise di invitare in Tibet alcuni tra i più rinomati maestri buddhisti dell’epoca per diffondere, anche nel Paese delle Nevi, il messaggio del Buddha. Due furono le figure di maggior rilievo che dall’India giunsero in Tibet nell’ottavo secolo, Santarakshita e Padmasambhava. Il primo, un raffinato erudito dell’università indiana di Nalanda, introdusse l’ordinamento monastico mentre il secondo, grazie alla forza di un incredibile carisma personale, riuscì a superare le numerose resistenze che gli ambienti Bon opponevano alla diffusione della nuova fede. Sembra comunque che il confronto tra le due religioni sia avvenuto in modo Trisong Deutsen muore nel 797 ma la sua politica viene continuata, anche se con minore efficacia, da due dei suoi quattro figli: Muni Tsenpo e Tride Songtsen. Nel 815 sale al trono Ralpachen, terzogenito di Tride Songtsen, che viene generalmente considerato il terzo grande sovrano della dinastia di Yarlung. Egli pose finalmente termine alle interminabili guerre con la Cina e firmò un trattato grazie al quale le relazioni tra Cina e Tibet si normalizzarono. Purtroppo per Ralpachen, e anche per il Tibet, la forte simpatia che il sovrano manifestava per il Buddhismo suscitò invidie, gelosie e risentimenti di ogni genere. Un gruppo di oppositori approfittò della situazione per organizzare una sanguinosa congiura di palazzo. Si fece appello ai sentimenti sciovinisti di alcune famiglie aristocratiche che ancora consideravano il Buddhismo un corpo estraneo al Tibet e si esasperarono le paure dei sacerdoti bon-po timorosi che la loro antica religione venisse del tutto soppiantata dalla nuova. Sostenendo che il monarca era manovrato da elementi stranieri i congiurati diedero vita a un cruento complotto che culminò nel 838 con l’assassinio dello stesso Ralpachen a cui successe il fratello maggiore Langdarma. Questi era un acerrimo nemico del Buddhismo che perse7 quale il Buddhismo si affermò definitivamente come religione principale e si articolò in numerose scuole (1). Tra il primo e il secondo secolo del nuovo millennio vengono costruiti in Tibet alcuni tra i suoi più importanti monasteri (gompa, in tibetano). Tshurpu, Sakya, Drigung, Talung, Reting e molti altri che in breve acquistano una rilevanza tale da travalicare la sfera esclusivamente religiosa per entrare in quella sociale. guitò con una durezza tale da essere ancora oggi ricordata. I templi e i monasteri vennero chiusi e profanati. I monaci uccisi o costretti all’abiura. Tutte le manifestazioni pubbliche ed esteriori della fede buddhista proibite. Le persecuzioni contro il Buddhismo volute da Langdarma furono così terribili che un monaco di nome Lhalungpa Pelgy Dorje decise di rompere i suoi voti di non-violenza e uccidere il re. La tradizione racconta che il religioso si introdusse, vestito con gli abiti di un sacerdote bon-po, nel palazzo reale durante una festa e riuscì a colpire a morte il sovrano con una freccia scagliata da un arco che aveva nascosto nelle larghe maniche della casacca. La scomparsa del monarca sanguinario segnò ad un tempo la fine della dinastia di Yarlung e dell’unità politica del Tibet. Quello che per quasi quattrocento anni era stato uno dei più forti imperi dell’Asia si frammentò in una miriade di piccoli principati sovente in guerra tra loro e che per molti secoli rimarranno tali. Il ricordo degli antichi fasti rimase solo nel Tibet occidentale dove si trasferì un ramo della dinastia di Yarlung che diede vita ai regni di Guge e Purang i quali svolsero un ruolo di primo piano nella storia culturale della regione himalayana creando una tradizione artistico-religiosa di altissimo livello. Diversamente da quelle occidentali, le province centrali e orientali del Tibet entrarono in un periodo di confusione politica in cui l’assenza di un potere autorevole farà a lungo sentire i suoi effetti nefasti. La massiccia diffusione del Buddhismo aveva creato in Tibet una nuova koiné intorno alla quale si ritrovava la grande maggioranza della popolazione. Ma dal punto di vista politico il Paese rimaneva diviso e frammentato. Comunque tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo i diversi re, principi e signori feudali che governavano il Tetto del Mondo riuscivano a convivere senza eccessive tensioni e quel periodo viene ricordato come piuttosto pacifico e tranquillo. E’ l’inizio del tredicesimo secolo a segnare la fine di questo intermezzo sereno della storia tibetana. A nord, in un’immensa area che abbraccia in pratica quasi l’intera Asia centrale, le tribù mongole sono in movimento. Sotto la guida di capi intelligenti e decisi queste popolazioni fiere, bellicose e aggressive stanno assoggettando nazioni e popoli. Perfino la Cina, l’orgoglioso Impero di Mezzo, cade sotto i loro assalti. Nel 1207 Gengis Khan, il capo supremo dei mongoli, manda i suoi emissari a intimare la sottomissione dei tibetani che non hanno altra scelta che quella di arrendersi, ben consapevoli che nulla avrebbero potuto contro la micidiale forza d’urto delle armate mongole. Nel 1239 le avanguardie della cavalleria di Godan, nipote di Gengis Khan, penetrano in profondità sul Tetto del Mondo raggiungendo le province centrali di U e Tsang. Il destino del Tibet sembra dunque segnato quando accade un fatto imprevisto e forse imprevedibile. Affascinato dai rapporti dei suoi uomini che raccontavano della grande influenza esercitata in Tibet da yogin e lama, Godan si incuriosì a tal punto che ne volle conoscere di persona qualcuno e invitò alla sua corte il più rinomato La rinascita dello stato tibetano Tra la fine del decimo e l’inizio dell’undicesimo secolo un Tibet ormai dimentico dei suoi trascorsi imperiali fu però attraversato da un rinnovato interesse per il Buddhismo. I canali spirituali tra il Tetto del Mondo e l’India tornarono ad aprirsi e un notevole flusso di contatti riprese a scorrere in entrambe i sensi. Maestri indiani vennero a insegnare in Tibet e studiosi tibetani si recarono ad approfondire le loro conoscenze nelle principali università buddhiste dell’India. Nei decenni a cavallo dell’anno Mille si verificò una vera e propria Seconda diffusione della dottrina grazie alla 8 maestro spirituale dell’epoca, Sakya Pandita, capo della scuola Sakya-pa. Il periodo della dinastia Pamotrupa coincise con la nascita di un diffuso senso di identità nazionale che trovò la sua espressione più visibile in una decisa rivalutazione del ruolo degli antichi monarchi di Yarlung. In modo particolare Songtsen Gampo e Trisong Deutsen vennero fatti oggetto di una venerazione quasi religiosa. Anche se alcuni governanti Pamotrupa erano monaci o lama, la dinastia si caratterizzò come fortemente laica e sotto di essa tutte le differenti scuole buddhiste e il rinato Bon potettero svilupparsi liberamente e in reciproca armonia. In Tibet i massimi esponenti delle principali tradizioni religiose continuavano a godere di una altissima considerazione ma erano venerati come maestri spirituali e non come esponenti politici. Ovviamente, soprattutto a livello locale, gli abati dei principali monasteri continuavano a esercitare una notevole influenza sociale che facevano valere stipulando alleanze con questo o quel governatore ma le redini complessive della nazione in questo periodo erano in mani laiche. Il rapporto che si stabilì tra il lama ed il khan mongolo fu intenso e complesso; il primo, grazie ad un eccezionale carisma, riuscì a convertire al Buddhismo il secondo che, come segno di devozione, non solo proibì ogni ulteriore incursione dei suoi eserciti sul Paese delle Nevi ma assegnò anche agli abati della scuola Sakya-pa il governo dell’intero Tibet. Questa relazione, che gli storici anglosassoni sono soliti definire lama-patron, aveva dunque partorito un Tibet governato da tibetani (gli abati Sakya-pa) e posto sotto la diretta protezione del Khan mongolo che con il suo appoggio intendeva rendere evidente, concreto e manifesto il legame spirituale che lo univa al Tibet e alla sua religione. Il rapporto lama-patron iniziato da Godan khan e Sakya Pandita continuò con i loro rispettivi successori. Kublai khan, figlio di Godan, fu così affascinato dalla personalità e dalle realizzazioni spirituali di Phagpa, nipote di Sakya Pandita, da conferirgli il prezioso titolo di Precettore Imperiale che equivaleva a quello di sovrano del Paese delle Nevi. La caduta, nel 1435, della dinastia Pamotrupa chiude un periodo tutto sommato positivo della storia tibetana che però si avvia verso due secoli convulsi durante i quali una drammatica lotta tra fazioni rivali dilaniò un Paese delle Nevi lacerato e diviso. Altrettanto laico di quello dei Pamotrupa fu il governo dei principi di Rinpung che, per circa 130 anni, governarono il Tibet fino a quando nel 1565 il potere passò nelle mani dei re di Tsang, la terza delle grandi dinastie che regnarono sul Tetto del Mondo fra il XV e il XVII secolo. Tutte avevano esercitato la loro autorità in maniera assolutamente autonoma senza far mai alcun gesto di sottomissione, nemmeno formale, nei confronti degli imperatori cinesi. La gerarchia Sakya governò il Tibet per circa un secolo ma quando in Cina l’influenza della dinastia Yuan (mongola) cominciò a indebolirsi sul Tetto del Mondo il potere dei Sakya-pa prese a vacillare. Nella valle di Yarlung la potente famiglia dei Pamotrupa si mise a capo di un movimento dai forti accenti nazionalisti che apertamente contestava l’autorità degli abati di Sakya il cui potere terminò del tutto nel 1354. Jangchub Gyaltsen, l’uomo forte del clan Pamotrupa, formò un nuovo governo che venne riconosciuto dagli stessi khan mongoli ormai alla vigilia della fine del loro ruolo dirigente in Cina. Quando i Ming sostituirono gli Yuan alla guida dell’Impero di Mezzo, Jangchub Gyaltsen considerò esaurito e non più riproponibile il rapporto lama-patron e venne così a cadere quel particolare legame che univa il Tibet a una nazione straniera e il Paese delle Nevi poteva nuovamente considerarsi indipendente a tutti gli effetti. Il V Dalai Lama A partire dalla fine del 1400 comincia ad aumentare l’influenza dei lama di una delle principali linee di reincarnazione della scuola Gelug e Sonam Gyatso, il terzo di questi reincarnati, stabi9 lì una forte relazione con alcune tribù mongole che, sebbene non governassero più la Cina, rappresentavano ancora nell’Asia centrale una notevole forza politico-militare. Altan Kan, un discendente di Gengis, divenne discepolo di Sonam Gyatso e in segno di devozione insignì il suo maestro del titolo di Dalai Lama che da allora in poi contraddistinse tutte le successive reincarnazioni di questi maestri. Ben presto la figura dei Dalai Lama acquistò in Tibet, particolarmente nelle regioni centrali ed occidentali, un forte rilievo sociale, oltre che religioso. Il V Dalai Lama, Ngawang Lobsang Gyatso, era un uomo dotato di grandi capacità politiche e di un forte carisma personale. Sentiva profondamente il dramma che il suo paese stava vivendo a causa delle lotte interne che vedevano clan, principati e addirittura alcuni grandi monasteri combattersi per il potere. Infatti i primi decenni del 1600 erano stati drammatici per il Tibet, la forza dei re di Tsang si era indebolita ma non ne era emersa un’altra in grado di sostituirli. Gli anni del V Dalai Lama passarono alla storia come sinonimo di buon governo e di feconda stabilità nazionale. I problemi però cominciarono non appena il Prezioso Protettore (2) morì nel 1682. Il suo principale collaboratore, Desi Sangye Gyatso, nascose per diversi anni la morte del V Dalai Lama. Disse che la Presenza si era ritirata per un periodo di meditazione e che per qualche tempo non avrebbe preso parte a cerimonie pubbliche. Ovviamente anche in Tibet le bugie hanno le gambe corte e alla fine si dovette dire la verità ad un popolo tutt’altro che felice di essere stato tenuto per anni all’oscuro della scomparsa della più alta autorità della nazione. Desi Sangye Gyatso cercò di scusarsi adducendo una serie di motivi il principale dei quali era relativo alla costruzione del palazzo del Potala nella città di Lhasa. Dal momento che il V Dalai Lama aveva fatto iniziare i lavori di questo grande edificio (che da allora è rimasto la sede ufficiale di tutti i Dalai Lama) e questi lavori non erano completamente terminati Desi Sangye Gyatso sostenne che aveva tenuto nascosta la notizia della morte di Kundun nel timore che a causa di essa non si portasse più a termine l’edificazione del Potala. Fu in un contesto del genere che il V Dalai Lama, essendosi messo alla testa di un ampio fronte di oppositori, riuscì ad imporsi come l’unico effettivo antagonista dei re di Tsang che vennero definitivamente sconfitti, dopo un’aspra lotta dalle alterne fortune, solo nel 1642. La vittoria del Dalai Lama e dei suoi alleati fu possibile anche, e forse soprattutto, grazie all’alleanza che Ngawang Lobsang Gyatso aveva stretto con Gushri Khan, capo della potente tribù mongola Qosot. L’apporto degli eserciti mongoli si rivelò decisivo e dalla seconda metà del XVII secolo il V Dalai Lama poté governare un Tibet pacificato, unito e indipendente. Una nazione che finalmente aveva trovato un punto di riferimento nel quale tutti si potevano riconoscere tanto dal punto di vista spirituale che politico. Infatti da questo momento le incarnazione dei Dalai Lama cessano di essere solo i rappresentanti di uno dei principali lignaggi della scuola Gelug per divenire invece il simbolo stesso del Paese delle Nevi e di tutti i suoi abitanti, senza alcuna differenza di etnia, posizione sociale o tradizione religiosa. Ovviamente si tratta di una scusa che non regge e sui veri motivi dell’operato di Desi gli storici non sono concordi. Alcuni affermano che era spinto dalla preoccupazione, per altro ben motivata, che un vuoto di potere sarebbe sfociato in un altro periodo di scontri fratricidi vanificando così tutto il lavoro compiuto dal V Dalai Lama. Altri studiosi, meno benevoli, sostengono invece che il comportamento di Sangye Gyatso fosse dettato unicamente dalla sua avidità e dalla paura di essere estromesso dai vertici del governo. Comunque, quale sia stata la verità, il disappunto dei tibetani per l’inganno subito venne compensato dal fatto che insieme alla notizia della scomparsa del V Dalai Lama fu dato l’annuncio che era stata scoperta la nuova incarnazione del Prezioso Protettore e che stava giungendo a Lhasa per essere insediata nel Potala ormai terminato. 10 alleanze con Desi Sangye Gyatso. Approfittando del risentimento che i tibetani provavano verso Lhazang Khan, il quale tra l’altro aveva tentato di imporre un suo protetto come il “vero” VI Dalai Lama, gli Zungari invasero a loro volta il Tibet e nel 1717 conquistarono Lhasa e uccisero Lhazang Khan. Quanti avevano salutato con piacere la caduta dell’inviso despota straniero dovettero immediatamente ricredersi. Infatti i nuovi arrivati si dimostrarono ben presto un rimedio peggiore del male. Inebriati dalla vittoria si abbandonarono ad eccessi di ogni genere. Bruciarono monasteri, violentarono donne, uccisero gli uomini. Il martoriato Paese delle Nevi guardava attonito, disperato e impotente dissolversi tutto quello che l’abilità del V Dalai Lama aveva costruito. Inerme, non poteva che piegarsi alla spietata logica della violenza. L’influenza Manciù Il VI Dalai Lama fu una personalità eccentrica e il suo comportamento inusuale venne purtroppo usato come pretesto per l’intervento di forze e potenze straniere negli affari interni del “Tetto del Mondo”. In quegli stessi anni la Cina, il potente Impero di Mezzo, era teatro di profondi cambiamenti politici che avrebbero avuto nefaste ripercussioni per la storia tibetana dei secoli a venire. I Manciù (Ch’ing in mandarino), una popolazione nord-asiatica di origine extracinese, avevano preso il sopravvento e si erano insediati a Pechino e dalla capitale del Celeste Impero gettavano sguardi interessati verso gli stati confinanti, primo fra tutti il grande ed indifeso “Paese delle Nevi”. Il secondo imperatore Ch’ing, non volendo esporsi di persona, spinse un feroce e spregiudicato capo mongolo di nome Lhazang Khan ad entrare in Tibet. Il governo legittimo di Lhasa fu deposto con l’accusa di non essere in grado di mettere in riga il giovane e scapestrato Gyalwa Rinpoche e per di più di essere anche succube degli uomini di fiducia del precedente Dalai Lama. In modo particolare si accanirono contro Desi Sangye Gyatso che venne ucciso mentre tutti i ministri furono messi in prigione e lo stesso VI Dalai Lama posto agli arresti domiciliari. Lhazang Khan offrì il Tibet in dono all’imperatore manciù che ricambiò il favore nominando il mongolo governatore del “Tetto del Mondo”. Dopo essere stato catturato, il VI Dalai Lama fu inviato in Cina dove però non giunse mai. Morì infatti durante il viaggio in circostanze misteriose e mai del tutto chiarite anche se i tibetani ritennero che il loro Oceano di Saggezza fosse perito per mano di un sicario di Lhazang Khan. La tragica scomparsa del VI Dalai Lama e il brutale dominio del capo mongolo feriscono profondamente il popolo tibetano; violenze e atrocità di ogni genere vengono consumate in ogni angolo del “Paese delle Nevi” e, cosa ancora peggiore, la spregiudicata invasione di Lhazang Khan suscita gli appetiti di un’altra tribù mongola, quella degli Zungari, che in precedenza avevano stabilito relazioni ed Di tutto questo caos ne approfittò Kang Hsi, l’imperatore manciù, che inviò in Tibet un esercito potente e ben addestrato a combattere gli Zungari e scortare a Lhasa Kalsang Gyatso, il VII Dalai Lama, che era stato riconosciuto e viveva nel monastero di Kumbun, nella regione nordorientale dell’Amdo. Sia perché il suo intervento poneva fine al sanguinario potere degli Zungari, sia perché rendeva possibile il ritorno del Dalai Lama, l’arrivo dell’esercito cinese fu salutato con gioia sul Tetto del Mondo. Ancora una volta però, i tibetani dovettero accorgersi che in politica nessun aiuto è disinteressato. Infatti nel 1720 la settima incarnazione della Presenza si insediò sul Trono del Leone, ma in cambio l’imperatore pretese che il Tibet divenisse una sorta di protettorato mancese. Due suoi rappresentanti, gli Amban, si stabilirono a Lhasa e una guarnigione han forte di duemila uomini rimase nella capitale tibetana. Compito degli Amban era quello di curare gli interessi di Pechino in Tibet. Molti degli equivoci che concernono l’effettivo status del Paese delle Nevi nascono in quegli anni. La domanda è la seguente: si può considerare il Tibet, a partire dal 1720 parte integrante dell’Impero di Mezzo? La risposta dovrebbe essere 11 negativa. E vediamo perché. E’ fuor di dubbio che i tibetani furono costretti ad accettare la soluzione “imperiale” come il minore dei mali e formalmente non contestarono subito la pretesa di Kang Hsi di annettere il Tibet. Nel concreto però continuarono a comportarsi come se nulla fosse avvenuto confidando nel fatto che un effettivo e prolungato controllo della loro nazione sarebbe stato impossibile per i manciù. E infatti così andarono le cose. Una volta rientrato in Cina il grosso dell’esercito imperiale, il Tibet tornò ad essere governato dal Dalai Lama e dai suoi ministri mentre in pratica gli Amban si limitavano a svolgere le funzioni di normali ambasciatori. Nell’anno del Topo di Fuoco (1876) nacque Thubten Gyatso, il XIII Dalai Lama. Questi, contrariamente ai suoi ultimi predecessori, non solo vivrà a lungo ma riuscirà anche a governare il Paese delle Nevi con tale intelligenza e lungimiranza da essere ricordato con l’appellativo di “Grande Tredicesimo”. Nel periodo in cui il piccolo Thubten Gyatso veniva educato a Lhasa e trascorreva l’adolescenza dividendosi tra i giochi e gli studi, la Gran Bretagna, al culmine della sua espansione coloniale, cominciava ad interessarsi seriamente del Tibet. Preoccupato che il Tetto del Mondo potesse cadere sotto l’influenza russa dal momento che la forza dell’impero manciù declinava giorno dopo giorno, il Leone britannico voleva estendere la sua influenza sul grande vicino settentrionale dell’India inglese. Certo non si trattava di ambizioni militari, il sub-continente indiano era già abbastanza esteso, ma di mire economiche. Londra era intenzionata a concludere trattati commerciali con Lhasa, con le buone se possibile ma anche con le cattive ove necessario. Il VII e l’VIII Dalai Lama non esercitarono un grande ruolo politico ma preferirono dedicarsi alla vita spirituale e la conduzione degli affari dello stato venne affidata ad un Gabinetto (Kashag), costituito da quattro ministri (Kalon) di cui tre erano laici ed uno monaco. Questo assetto legislativo rimarrà in vigore, più o meno inalterato, fino al 1959. L’ottavo giorno dell’ottavo mese dell’anno della Pecora di Legno (1895), il XIII Dalai Lama assunse i pieni poteri e iniziò a guidare il Tibet nei non facili meandri del “Grande Gioco”. Nel 1904 la Gran Bretagna, dopo aver tentato inutilmente per oltre un anno di stabilire relazioni commerciali con il governo tibetano, armò una spedizione militare che al comando del colonnello Younghusband entrò in Tibet e giunse in breve tempo a Lhasa dopo aver sconfitto l’esercito tibetano. Younghusband stabilì alcuni accordi economici e dopo pochi mesi tornò in India con i suoi soldati. All’arrivo delle truppe britanniche il XIII Dalai Lama era partito per un lungo viaggio che lo aveva portato in Mongolia e poi a Pechino dove nel 1908, tra gli altri, incontrò sia il giovane imperatore Kuang-hsu sia l’Imperatrice vedova Tz’uhsi poco prima che entrambi morissero nel novembre di quell’anno. Nel 1909 il Prezioso Protettore tornò a Lhasa dopo circa sei anni di assenza ma ben presto dovette partire nuovamente, questa volta per riparare in India, poiché il Il “Grande Gioco” e il XIII Dalai Lama Gli ultimi anni del diciottesimo secolo segnano l’inizio di un lungo periodo di instabilità per il Tibet che nel 1792 poté respingere un attacco delle armate del vicino regno del Nepal solo grazie all’intervento degli eserciti Ch’ing. Nel 1804 muore l’VIII Dalai Lama e l’Impero di Mezzo riprende in grande stile i suoi tentativi di annettersi il Paese delle Nevi. Nonostante il XI, il X, l’XI e il XII Dalai Lama muoiano tutti in giovane o giovanissima età, il Tibet riesce a trovare la forza di resistere alla pressione manciù e alle ricorrenti aggressioni nepalesi. Pur tra mille difficoltà interne il governo di Lhasa mantiene il controllo della nazione e tenta di barcamenarsi come può in una situazione geopolitica che si va facendo sempre più complessa. Sono infatti entrati nel “Grande Gioco” asiatico due aggressivi imperi occidentali, la Russia zarista e la Gran Bretagna, ognuno dei quali teme che l’altro possa inglobare il Tibet nella propria sfera d’influenza. 12 dell’Asia, tornò a chiudersi in uno “splendido” isolamento che costerà però caro, pochi anni più tardi, all’intera nazione. Il 6 luglio 1935, nell’anno del Maiale di Legno secondo il calendario tibetano, nasce a Takster, uno sperduto villaggio della regione orientale dell’Amdo, la 14° incarnazione del Prezioso Protettore. Riconosciuto secondo le tradizionali procedure da una delegazione inviata dal governo tibetano, il piccolo bambino viene quindi portato a Lhasa dove il 14° giorno del primo mese dell’anno del Drago di Ferro (22 febbraio 1940) viene formalmente insediato. generale cinese Chung-yin era entrato in Tibet e muoveva minaccioso alla conquista di Lhasa. La capitale tibetana venne conquistata facilmente e sottoposta a una dura repressione. Per la prima volta nella sua storia il Paese delle Nevi era militarmente conquistato da una potenza straniera e gli Amban potevano direttamente governare a Lhasa. L’occupazione fu però di breve durata. Nel 1911, travolto dalla rivoluzione di Sun Yat-sen, cade l’impero manciù e la Cina diventa una Repubblica. Sbandati e senza più alcuna effettiva guida militare, i soldati cinesi sono sopraffatti dalla popolazione di Lhasa e si arrendono dopo alcuni giorni di combattimenti. Il Tibet, dove non vi è più traccia di militari stranieri e da cui gli Amban sono stati definitivamente espulsi, torna ad essere governato dal Dalai Lama che rientra trionfalmente a Lhasa il sesto giorno del dodicesimo mese dell’anno del Topo d’Acqua (gennaio 1913). Il Prezioso Protettore, consapevole di quanto fosse difficile mantenere l’indipendenza raggiunta, iniziò un processo di apertura e modernizzazione del Paese pur nel rispetto delle tradizioni e delle sue radici culturali. Purtroppo una classe dirigente, sia laica sia religiosa, molto meno lungimirante della Presenza, non assecondò quei programmi con il necessario entusiasmo quando addirittura in segreto non li boicottò. Dunque la spinta riformatrice del XIII Dalai Lama non poté esprimersi in tutta la sua forza e quando, il tredicesimo giorno del decimo mese dell’anno dell’Uccello d’Acqua (17 dicembre 1933), Thubten Gyatso lasciò il suo corpo terreno a causa di un improvviso attacco di polmonite, le idee di modernizzazione e cambiamento morirono con lui. All’inizio degli anni ’40 il Tibet è un’oasi di pace al centro di un continente sconvolto da guerre e rivoluzioni. La Cina, dove per anni si erano sanguinosamente combattuti comunisti e nazionalisti, cerca ora di resistere come può all’invasione giapponese che appare sempre più irresistibile. Nell’India britannica il movimento indipendentista guidato da Gandhi guadagna terreno minando le basi della dominazione inglese e, a partire dal 1941, il Giappone entra nella seconda guerra mondiale a fianco di Germania ed Italia attaccando la base aerea navale statunitense di Pearl Harbour. Sfortunatamente in Tibet solo pochi, e anch’essi troppo tardi, si accorsero che minacciose nuvole portatrici di una tempesta senza pari si stavano addensando sul cielo del Tetto del Mondo dove, per la quasi totalità della popolazione, le giornate e gli anni continuavano a scorrere con i ritmi arcaici di sempre. Nel 1945 il Giappone sconfitto e umiliato dall’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, si arrende alle potenze alleate. Pochi anni dopo (1947) l’Inghilterra è costretta ad abbandonare la sua amata colonia indiana che si divide, in un bagno di sangue, in due stati rivali: il Pakistan musulmano e l’Unione Indiana a grande maggioranza induista. In Cina nel 1949 termina una delle più sanguinose guerre civili che la storia ricordi e il Partito Comunista prende il potere guidato dal suo carismatico leader Mao Tsetung. E sarà proprio quest’ultimo evento ad avere enormi e tragiche conseguenze sulla storia tibetana. E’ lo stesso Il XIV Dalai Lama e l’invasione cinese La classe dirigente tibetana, pensando che la particolare posizione geografica del Paese delle Nevi sarebbe bastata a difenderlo dai drammatici eventi che stavano radicalmente mutando il volto 13 ni di notevole autonomia. L’esercito comunista poté quindi entrare a Lhasa nel settembre 1951 portando così a termine l’occupazione del Tibet. Mao, mentre celebra a Pechino la nascita della Repubblica Popolare Cinese, ad affermare con forza che il Tibet dovrà essere riconquistato alla Madrepatria Cinese e strappato alle “forze imperialiste”. A Lhasa le affermazioni del leader comunista non giungono inaspettate. Il governo tibetano aveva già avuto sentore dei propositi della nuova classe dirigente cinese e aveva, invano, cercato di ottenere la solidarietà internazionale. Ma quell’isolamento che nei lontani e felici anni ’30 era sembrato così “splendido” oggi si ritorce come un boomerang contro il Paese delle Nevi. La Gran Bretagna risponde agli inviati di Lhasa che ormai è fuori dalle vicende politiche asiatiche, gli USA dicono che vedranno cosa si può fare ma poi non faranno nulla, il governo indiano, e soprattutto il suo Primo Ministro Nehru, tutto hanno in mente tranne che guastare i rapporti con la Repubblica Popolare Cinese e la neonata ONU (diretta discendente di quella Società delle Nazioni a cui il Tibet si era ben guardato dall’aderire) preferisce guardare da un’altra parte. Nel suo arduo tentativo di trovare una qualche forma di pacifica convivenza con l’occupante, nel 1954 il Dalai Lama compì una lunga visita di cortesia nella Repubblica Popolare Cinese. A Pechino il leader tibetano ebbe diversi incontri con Mao Tsetung, Ciu En Lai ed altri importanti dirigenti comunisti. Prima di partire per tornare a Lhasa, il Dalai Lama ricordò a Mao, che si disse d’accordo, quanto fosse importante che i cinesi rispettassero le tradizioni sociali e culturali del Tibet come del resto stabiliva lo stesso trattato in Diciassette Punti. Nonostante le assicurazioni ricevute a Pechino, il Dalai Lama trovò in Tibet una situazione estremamente deteriorata. Alle innumerevoli angherie e violenze compiute dai cinesi ai danni della popolazione e dei monasteri, i tibetani avevano risposto dando vita a un vasto movimento di resistenza attivo in pratica in tutta la parte nord-orientale del Paese. Gushi Gangdruk, letteralmente “Quattro fiumi e sei catene di montagne”, era il nome dell’organizzazione guerrigliera tibetana, nome che si richiamava a quello con cui le regioni dell’Amdo e del Kham erano chiamate dalla gente comune. Secondo stime attendibili alla fine del 1957 circa centomila guerriglieri combattevano per la libertà del Tibet, ma la disparità delle forze in campo non lasciava alcuna possibilità di successo alla pur eroica resistenza tibetana. Infatti i cinesi potevano contare su di un esercito armato di tutto punto, organizzato secondo una ferrea disciplina, perfettamente addestrato e che contava quattordici divisioni per un totale di oltre centocinquantamila uomini. Durante tutto il 1957 e il 1958 alle incursione della guerriglia Pechino rispose colpendo indiscriminatamente la popolazione civile, bombardando villaggi, uccidendo monaci, distruggendo monasteri e passando per le armi tutti coloro che, a torto o a ragione, erano accusati di aver aiutato i partigiani. La potente macchina bellica maoista fu responsabile in quegli anni, come appurarono in seguito due dettagliati rapporti In questo desolante quadro politico il 7 ottobre 1950 le truppe del potente vicino cinese attaccano la frontiera tibetana in sei luoghi diversi e travolgono facilmente la debole resistenza del suo piccolo esercito. A Lhasa il governo e l’intera popolazione vengono presi dal panico. In novembre, sotto l’incalzare degli eventi, sono conferiti i pieni poteri al Dalai Lama nonostante abbia solo 16 anni. Mai nella storia il Tibet era stato governato da un Dalai Lama così giovane. Dopo essere penetrato in territorio tibetano, l’esercito cinese non avanzò oltre le regioni nord orientali forse temendo una reazione internazionale. Nell’aprile 1951 il governo del Dalai Lama inviò in Cina una delegazione che era autorizzata ad esporre il punto di vista di Lhasa e ad ascoltare le posizioni cinesi ma non poteva firmare alcun accordo. A Pechino però, i tibetani furono sottoposti a minacce di vario genere e venne loro impedito ogni contatto con le autorità di Lhasa. In queste condizioni la delegazione tibetana fu costretta a firmare un trattato in Diciassette Punti secondo il quale il Tibet entrava a far parte della Cina sia pure in condizio14 segnasse inerme nelle mani dei militari cinesi. Il popolo era convinto che lo spettacolo non fosse altro che un pretesto per rapire la Presenza. Testimoni oculari dissero di aver visto tre aerei pronti a decollare sulla pista del piccolo aeroporto di Damshung a un centinaio di chilometri da Lhasa. Altri raccontavano di aver sentito Radio Pechino affermare che il Dalai Lama era atteso nella capitale per partecipare alla ormai prossima riunione dell’Assemblea Nazionale Cinese. Tutti si dicevano decisi a difendere Kundun anche a costo delle loro vite. Il clima era ormai pre-insurrezionale. La miscela rappresentata dai profughi delle regioni nord-orientali, dai membri della resistenza, dai pellegrini convenuti a Lhasa per le celebrazioni del Monlam e dalla gente normale esasperata da anni di occupazione, si rivelò esplosiva. Ognuno aveva la sua tragica storia da raccontare e i suoi rimedi da proporre. Ci si eccitava gli uni con gli altri e il numero dava l’errata sensazione di poter essere abbastanza forti da sconfiggere l’occupante. Il risultato di questo stato di cose fu un imponente assembramento di popolo che si riunì intorno al Norbulinka (4) dove si trovava il Dalai Lama. La gente chiedeva apertamente al governo di ripudiare il Trattato in Diciassette Punti e che i cinesi se ne andassero dal Tibet. Quello che la folla voleva ormai andava ben oltre la partecipazione del Prezioso Protettore allo spettacolo cinese. La parola d’ordine era, “Libertà e indipendenza ”. della Commissione Internazionale dei Giuristi (3), di un vero e proprio genocidio. Ad ogni azione dei guerriglieri seguivano sanguinose rappresaglie che dovevano servire a terrorizzare la popolazione e fare terra bruciata intorno agli uomini della resistenza. Dall’Amdo e dal Kham, sconvolti dalle battaglie, cominciarono ad affluire nelle province centrali di U-Tsang lunghe colonne di profughi. Dapprima si trattava solo di civili che cercavano di sfuggire alle violenze cinesi. Poi, man mano che si delineava l’inevitabile sconfitta militare, arrivarono anche nutriti gruppi di guerriglieri che speravano di potersi riorganizzare nel Tibet centrale per poi tornare nel nord-est. Ma si trattò di una speranza vana perché ormai la presenza cinese sul Tetto del Mondo era ben solida e capillare. Il potere dello stesso Dalai Lama in pratica non esisteva più e il campo d’azione del suo governo si limitava ai problemi di ordinaria amministrazione mentre per tutte le questioni importanti erano i generali dell’Armata Rossa a decidere e comandare. Nel volgere di poco tempo anche a Lhasa la tensione divenne intollerabile. I tibetani non solo erano costretti a subire ogni genere di violenze e soprusi ma dovevano anche assistere impotenti alle quotidiane umiliazioni inflitte al loro leader più amato, il Prezioso Protettore. All’inizio del marzo 1959 mentre nella capitale tibetana si celebrava il Monlam Chenmo, la Festa della Grande Preghiera forse la principale ricorrenza religiosa dell’intero anno, il Dalai Lama venne invitato a partecipare ad uno spettacolo che si sarebbe tenuto al quartier generale delle truppe cinesi. In realtà più che di un invito si trattò di una vera e propria convocazione dal momento che fu chiesto a Kundun di venire senza l’usuale scorta e accompagnato solo da un pugno di funzionari, peraltro disarmati. Il Dalai Lama, nonostante il parere negativo dei suoi ministri decise che un suo rifiuto avrebbe ulteriormente irritato i cinesi e quindi accettò di recarsi negli insediamenti militari cinesi alle condizioni che questi avevano posto. Ma quando i tibetani appresero la notizia decisero che non avrebbero permesso che il loro leader si con- Ovviamente i cinesi erano furiosi per quello che succedeva in città e pretendevano non solo che il Dalai Lama si recasse al loro quartier generale ma che il suo governo disperdesse con la forza gli “assembramenti non autorizzati”. Tenzin Gyatso era quindi in una difficilissima posizione. Da un lato sapeva bene che i timori della sua gente erano più che fondati ed era commosso dalla lealtà e dall’affetto dei suoi sudditi, dall’altro si rendeva perfettamente conto che nulla avrebbero potuto contro il micidiale apparato bellico dei loro nemici. Decise quindi di fuggire sperando in questo modo di calmare le acque, far scendere la tensione sotto il livello di guardia e poi ripren15 Il Tibet occupato tibetana e il volto del “nuovo” Tibet cominciava a prendere forma. Il 5 aprile 1959, accompagnato da una ingente scorta militare cinese, il Panchen Lama (4) fu fatto arrivare a Lhasa per esservi insediato come presidente del Comitato Autonomo della Regione Autonoma del Tibet, una organizzazione creata dai cinesi per dare l’impressione che i tibetani contassero ancora qualcosa nel loro Paese mentre in realtà ogni potere si trovava ormai nelle mani dei generali di Pechino. In pratica il Tibet venne smembrato e le sole regioni centrali di UTsang formarono la Regione Autonoma Tibetana (creata ufficialmente nel 1965) dal momento che il Kham e l’Amdo divennero parte delle province cinesi del Chingai, dello Sichuan, del Gansu e dello Yunnan. Così smembrato e ridotto ad un’area abitata da non più di due milioni di persone il Paese delle Nevi doveva essere, nelle aspettative dei suoi nuovi padroni, pronto per la normalizzazione e l’edificazione di una società socialista. Il forcipe che avrebbe dovuto facilitare questo non facile parto fu individuato dalle autorità cinesi nelle cosiddette “Tre educazioni” (alla coscienza di classe, al cambiamento socialista ed alla scienza e alla tecnica) e nelle “Quattro Pulizie” (del pensiero, della storia, della politica e della economia) che consistevano in una martellante campagna politica e poliziesca destinata a “ripulire” il Tetto del Mondo dai “reazionari, dalle armi illegali e dai nemici del popolo”. L’intera società tibetana venne divisa in sei classi secondo i rigidi schemi dell’ortodossia maoista. Da un giorno all’altro gli abitanti del Tibet scoprirono di essere “feudatari”, “agenti dei feudatari”, “ricchi”, “classe media”, “poveri” e “reazionari”. Le classi “media” e “povera” vennero considerate quelle da privilegiare mentre le altre subirono un vero e proprio martirio. Ben presto però i cinesi si accorsero che anche la grande maggioranza degli appartenenti alle classi “media” e “povera” non ne volevano sapere del governo di Pechino e quindi molti tibetani “medi” e “poveri” traslocarono nella più scomoda di tutte le classi, quella dei “reazionari ”. Mentre Kundun trovava rifugio in India, la Cina portava a termine la repressione della resistenza Ben presto i generali cinesi si resero conto che oltre il 90% dei tibetani era ancora fedele al Dalai dere la strada del dialogo e delle trattative. La notte tra il 17 e il 18 marzo il Dalai Lama e un piccolo gruppo di persone tra cui vi erano i suoi famigliari e alcuni ministri uscì segretamente dal Palazzo d’Estate per cercare rifugio nelle zone meridionali del Tibet ancora non del tutto controllate dai cinesi. Purtroppo le speranze del Dalai Lama che una sua partenza avrebbe potuto sistemare le cose si dimostrarono vane. La notte tra il 19 e il 20 marzo cominciò la battaglia di Lhasa. I cinesi bombardarono il Norbulinka, probabilmente sperando che la Presenza potesse morire sotto le bombe, e poi attaccarono la città. Vennero colpiti il Potala, il Jokhang, le abitazioni. La gente combatteva per le strade una lotta eroica ma impari. Le donne e gli uomini di Lhasa affrontavano un esercito moderno ed equipaggiato di tutto punto, armati con vecchi fucili, coltelli e bastoni. I soldati di Pechino furono implacabili e decine di migliaia di persone, in gran parte civili, morirono sotto i colpi di una repressione feroce. Il governo tibetano venne sciolto e tutte le autonomie riconosciute dal Trattato in Diciassette Punti abolite. Il Dalai Lama riuscì a stento a mettersi in salvo. Scortato da un pugno di uomini della resistenza raggiunse dapprima Lhuntse Dzong, una località vicina al confine indiano, dove in un primo tempo pensava di fermarsi in attesa di tornare a Lhasa. Ma di fronte al precipitare della situazione e alle notizie terribili che giungevano dalla capitale decise che non aveva altra scelta se non riparare in India dove giunse il 31 marzo dopo un viaggio che in tutto era durato due settimane e durante il quale aveva percorso oltre un migliaio di chilometri. Il governo di Nuova Delhi concesse immediatamente asilo politico al Dalai Lama che dall’India chiese aiuto alla comunità internazionale per il suo martoriato Paese sul quale erano calate le tenebre di una lunga notte di orrori e tragedie che non è ancora terminata. 16 Tashilumpo. Accecate da un furore iconoclasta allucinato e allucinante le Guardie Rosse distrussero statue, dipinti, affreschi, edifici antichi di centinaia e a volte migliaia di anni producendo una ferita irreparabile alla civiltà tibetana. Ovviamente la furia dei giovani maoisti non si limitò alle cose ma prese di mira anche le persone e i tibetani passarono attraverso un inferno difficile a descrivere con le parole. Nella seconda metà degli anni ‘70, con la scomparsa di Mao e l’ascesa al potere di Deng Tsiao Ping, molte cose cambiarono nella Cina Popolare e il nuovo corso denghista comportò anche un diverso atteggiamento riguardo al Tibet. Il sistema di rigida collettivizzazione e delle comuni venne definitivamente smantellato. Alcuni monasteri furono parzialmente riaperti e qualche monaco poté essere nuovamente ordinato dai quei pochi che erano sopravvissuti ed alcune celebrazioni religiose ripresero ad essere tollerate. Nel 1980 Hu Yao Bang, allora segretario generale del Partito Comunista Cinese, visitò il Tibet ed essendo rimasto sconvolto da quello che aveva visto promise ai tibetani un rapido cambiamento della situazione. Contatti informali si stabilirono con il Dalai Lama che tra il 1979 e il 1982 poté inviare in Tibet alcune sue delegazioni. Quello che i rappresentanti di Dharamsala trovarono fu un Paese umiliato, sconvolto, ferito. Ma se quasi ogni traccia visibile dell’antica civiltà tibetana era stata spazzata via dalla furia iconoclasta di oltre un decennio di Rivoluzione Culturale, il ricordo del vecchio Tibet indipendente era ancora ben vivo nei cuori del popolo tibetano che accolse i delegati del Dalai Lama con un entusiasmo che non piacque alle autorità cinesi le quali nel 1982 dichiararono chiusa la breve stagione delle delegazioni. Lama e decisero quindi che per rendere la popolazione più disponibile ad accettare le “Riforme Democratiche” erano necessarie delle “sessioni di lotta ” collettive, i famigerati thamzing, dei veri e propri linciaggi pubblici degli elementi “controrivoluzionari ” a cui tutti dovevano partecipare attivamente. Chi non lo faceva, o non lo faceva con il necessario entusiasmo, rischiava di passare immediatamente dal ruolo di accusatore in quello di accusato. Oltre a queste “sessioni di lotta ”, per convincere il popolo tibetano a rispettare l’autorità di Pechino e a rompere con la “vecchia ” cultura, vennero chiusi o distrutti i monasteri e i monaci dispersi, fu proibita e perseguitata ogni manifestazione (sia pubblica sia privata) di fede religiosa, anche le più innocue espressioni di dissenso vennero represse e i dissidenti rinchiusi nei numerosi campi di lavoro forzato aperti in tutto il Paese. A questo scenario, di per sé tragico, si aggiunse lo spettro della fame e della carestia che tra il 1958 e il 1962 devastò la Repubblica Popolare Cinese come conseguenza del “Grande Balzo in Avanti” voluto da Mao per riconquistare il pieno controllo del Partito Comunista. Di fronte a questo drammatico stato di cose il Panchen Lama, che era rimasto in Tibet nella speranza di poter svolgere un ruolo di mediazione tra il suo popolo e le autorità cinesi, scrisse a Mao una lunga lettera in cui criticava severamente l’operato cinese in Tibet e chiedeva un immediato cambiamento di rotta. La risposta di Pechino non si fece attendere. Il Panchen Lama fu immediatamente arrestato, processato e sottoposto a thamzing insieme al suo tutore e ai suoi più stretti collaboratori. Nessuna umiliazione venne risparmiata al Panchen Lama che dopo il processo sparì nelle carceri cinesi da cui poté riemergere solo nel 1978. A completare l’opera di annientamento della cultura tibetana arrivò nel 1967 la Rivoluzione Culturale con il suo tragico corollario di violenze, distruzioni e deliri. Gruppi di giovani fanatici ed esaltati sciamarono sul Tetto del Mondo attaccando e fracassando ogni simbolo della “vecchia ” cultura del Tibet. Di quasi seimila monasteri e tempi se ne salvarono solamente tredici, tra cui il Potala a Lhasa, il Kum Bum a Gyantse, il monastero di Il Tibet negli anni ’80 e ‘90 L’inizio degli anni ‘80 segna anche l’apertura del Tibet al turismo internazionale. Dapprima solo a pochi viaggiatori selezionati e rigidamente inquadrati in seguito anche a gruppi più numerosi e 17 della resistenza tibetana e riuscirono a raggiungere il mondo esterno dove causarono una enorme impressione. Era il primo inoppugnabile documento visivo di quale sorte attende in Tibet chi osa dissentire. Mentre in Tibet si continua a inscenare brevi manifestazioni che cercano di sciogliersi prima dell’arrivo della polizia, il 15 giugno 1988 il Dalai Lama presenta nella sede del Parlamento Europeo di Strasburgo una ulteriore elaborazione del suo Piano di Pace in cui si dichiara disposto a rinunciare all’indipendenza in cambio di una effettiva autonomia di tutte e tre le province tibetane. Però nemmeno l’essersi spinto così avanti nelle sue concessioni servì al Dalai Lama per convincere Pechino ad aprire un reale negoziato. I dirigenti cinesi continuarono a porre inaccettabili condizioni al Dalai Lama o, peggio, a liquidare le sue dichiarazioni con poche e sprezzanti battute mentre significativi settori del popolo tibetano si dichiararono del tutto contrari ad una apertura che comportava la definitiva rinuncia all’indipendenza. Intanto in Tibet la tensione continuava ad essere altissima. Il 10 dicembre, anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, alcune centinaia di persone manifestarono nuovamente a Lhasa davanti al Jokhang chiedendo libertà civili e autodeterminazione. La polizia cinese reagì, ancora una volta, con brutalità sparando con armi automatiche sulla folla inerme causando diciotto morti e centinaia di feriti tra i quali anche una giovane olandese, Christa Meindersma che si trovava in Tibet in qualità di collaboratrice della Croce Rossa svizzera. meno controllabili di turisti, viene data la possibilità di visitare il Tetto del Mondo che sembra essere alla vigilia di importanti cambiamenti. Il turismo portò nel Paese delle Nevi migliaia di stranieri che il più delle volte simpatizzavano apertamente per la causa e le ragioni del popolo tibetano. Per la prima volta i tibetani, specialmente quelli di Lhasa e delle regioni centrali, poterono incontrare direttamente delle persone che parlavano con simpatia della loro cultura, sia religiosa sia laica del Tibet, e che in alcuni casi si dichiaravano anche discepoli di maestri spirituali tibetani e dello stesso Dalai Lama. Questi incontri prepararono il terreno per una rinascita della resistenza che riprese la lotta per la libertà del Tetto del Mondo. Il 21 settembre 1987, davanti alla Commissione per i Diritti Umani del Congresso statunitense, il Dalai Lama espose un Piano di Pace in Cinque Punti che costituiva una seria e articolata proposta per intavolare delle trattative su basi realistiche con il governo di Pechino per risolvere il problema del Tibet. Purtroppo la dirigenza cinese rispose negativamente al Piano del Dalai Lama e a Lhasa esplose la collera della gente. Il 29 settembre e il 1° ottobre migliaia e migliaia di persone diedero vita a manifestazioni di protesta che la polizia represse con inaudita violenza. Secondo fonti non ufficiali 32 tibetani vennero uccisi e oltre duecento feriti. Queste dimostrazioni segnano l’inizio di una nuova stagione della resistenza delle donne e degli uomini del Paese delle Nevi e da allora grandi e piccole manifestazioni avvengo quasi quotidianamente a Lhasa e in molte altre località del Tibet. Il 5 marzo 1988, al termine delle celebrazioni per il capodanno, a Lhasa monaci e laici iniziano a scandire slogan contro l’occupazione cinese e l’esercito apre il fuoco sulla folla in tumulto. Ore di scontri davanti al tempio del Jokhang si concludono con un tragico bilancio. Ventiquattro laici e dodici monaci sono uccisi, alcuni a colpi di manganello, davanti e dentro al Jokhang. In seguito parti di un video girato dalla stessa polizia cinese, contenente alcune terribili immagini di questo massacro, vennero trafugate da membri In questo clima rovente, il 28 gennaio 1989 muore, in circostanze misteriose, il 10° Panchen Lama che si trovava nel suo monastero di Tashilumpo per celebrare alcuni riti. Ufficialmente la causa del decesso fu attribuita ad un infarto ma il fatto che solo pochi giorni prima della sua scomparsa il Panchen Lama avesse rilasciato ad un giornale cinese una intervista in cui accusava apertamente Pechino di essere responsabile di molti errori in Tibet, fece ritenere ai tibetani che il Panchen Lama fosse stato avvelenato dai cinesi timorosi di una sua fuga all’estero. I 18 Lama il 23 e il 24 ottobre 1996. sospetti sulle vere cause del decesso della seconda autorità spirituale del Tibet gettano altra benzina sul fuoco della tragedia tibetana. Il 5 marzo oltre diecimila persone scendono in piazza a Lhasa dando vita alla più imponente manifestazione dai tempi dell’insurrezione del 1959. Per due giorni si scontrano a più riprese con l’apparato repressivo di Pechino riuscendo a tenere il centro di Lhasa per quasi un’intera giornata. La risposta cinese a queste dimostrazioni è durissima. Secondo fonti non ufficiali diverse centinaia di tibetani perirono negli incidenti e nella repressione che seguì. Tre uomini di affari occidentali che si trovavano nella capitale del Tibet in quei giorni parlarono di oltre cinquecento morti. Il 7 marzo viene imposta a Lhasa la legge marziale che rimarrà in vigore il 30 aprile del 1990. Nel mondo intanto la questione del Tibet comincia ad essere sostenuta da un numero sempre crescente di persone. Negli USA tre grandi Tibetan Freedom Concert a cui partecipano centinaia di migliaia di giovani rendono popolare la lotta del popolo tibetano tra i teenagers, nei colleges e nelle università. In Europa il 10 marzo del 1996 si tiene a Bruxelles una affollata manifestazione internazionale per la libertà del Tibet che sarà replicata con altrettanto successo a Ginevra nel 1997 e a Parigi nel 1998 anno in cui nelle sale di tutto il mondo escono diversi film sul Tibet e sul Dalai Lama. Tra l’altro nel dicembre 1997 la Commissione Internazionale dei Giuristi (C.I.G.) di Ginevra aveva pubblicato un secondo documento sul Tibet (6) che mette a nudo la gravità della situazione e chiede alle Nazioni Unite di intervenire. In particolare la C.I.G. chiede all’ONU di far discutere all’interno dell’Assemblea Generale il caso tibetano, di nominare un Inviato Speciale per indagare sulle effettive condizioni di vita dei tibetani, e di attivarsi per far svolgere in Tibet un referendum con il compito di accertare quali siano i veri sentimenti del popolo tibetano riguardo alla situazione del loro Paese. E poiché il popolo tibetano in Tibet non può parlare se non a rischio della vita o della prigione, gli esuli in India decidono di dar loro la voce. Il 10 marzo 1998 a New Delhi sei militanti della Tibetan Youth Congress (cinque uomini e una donna) iniziano uno sciopero della fame ad oltranza per sostenere le richieste della Commissione Internazionale dei Giuristi. Al 49° giorno di digiuno la polizia indiana interviene ospedalizzando con la forza i sei e impedendo loro di continuare fino all’estremo sacrificio la protesta. Sconvolto per questa ennesima prevaricazione contro il suo popolo, Tupthen Ngodup un tibetano di 50 anni che aveva accudito i digiunatori fin dall’inizio della loro lotta, si dà fuoco per protesta e muore dopo pochi giorni con oltre il 95% del corpo gravemente ustionato. La foto di Tupthen Ngodup avvolto dalle fiamme fa in poche ore il giro del mondo. E’ auspicabile che Questa nuova ondata di manifestazioni fa crescere nel mondo, sconvolto anche per l’eccidio di piazza Tienanmen, la simpatia per il popolo tibetano e la sua lotta civile e nonviolenta. Il conferimento al Dalai Lama del Premio Nobel per la Pace 1989, è il segno più evidente di questo interesse. A partire dal 1990 il Dalai Lama intensifica i suoi viaggi e sempre più spesso incontra capi di Stato, di governo e parlamentari. Mentre in Tibet, dove la repressione è tale da non consentire manifestazioni di massa, continua però lo stillicidio di piccole dimostrazioni a Pechino nessuno vuole dare risposte positive alle richieste del Dalai Lama. Piano di Pace in Cinque Punti e Proposta di Strasburgo continuano ad essere liquidati come “tentativi mascherati di dividere il Tibet dalla Grande Madrepatria Cinese ” e rimangono quindi senza risposta. Ma se il Dalai Lama non ottiene nulla da Pechino il suo messaggio viene invece recepito da molti uomini politici internazionali, in modo particolare dal Parlamento Europeo che dopo aver approvato numerose risoluzioni di condanna delle violazioni dei diritti umani in Tibet, il 13 luglio 1995 vota con schiacciante maggioranza un documento in cui si considerata il Tibet uno stato sotto occupazione illegale. E lo stesso Parlamento Europeo, nella sua sede di Strasburgo, accoglie ufficialmente e con grande calore il Dalai 19 leader di spicco che, nella passata legislatura, hanno svolto ruoli di primo piano in Tibet. E’ il caso di Zhou Yonkang, capo della Provincia del Sichuan all’epoca dell’arresto e della condanna a morte di Lobsang Dondhup e Tenzin Delek, ora assunto alla carica di Ministro della Pubblica Sicurezza, e di Chen Kuiyuan, ex segretario del Partito nella Regione Autonoma Tibetana negli anni ’90. Chen, sostenitore della “linea dura” e fautore delle tre campagne di “educazione patriottica”, “civilizzazione spirituale” e “colpisci duro”, è stato eletto membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese di cui figura tra i 24 vice presidenti. Promosso anche il tibetano Ragdi, uno dei vice segretari del Comitato del Partito Regionale Tibetano e presidente del Comitato Regionale del Congresso Nazionale del Popolo (CNP) in Tibet, che ha coronato la sua carriera politica divenendo uno dei 15 vice presidenti del Comitato Centrale dello stesso CNP. In Tibet, Ragdi, acceso sostenitore della politica iniziata dallo stesso Hu Jintao, non ha mai cessato di porre l’accento sull’importanza dello sviluppo economico e della tutela della stabilità sociale attraverso la lotta al separatismo e alla “clique” del Dalai Lama. quelle fiamme possano rischiarare la notte del popolo tibetano e contribuire a mettervi fine. Tratto da “Il Tibet nel Cuore”, di P. Verni TIBET OGGI Il sistema politico e l’attuale dirigenza Il Tibet, come tutta la Cina continentale, è strettamente governato dal Partito Comunista Cinese presente con propri distaccamenti in ogni provincia, prefettura autonoma e nella Regione Autonoma Tibetana (TAR). Subordinato al Partito, il Governo ne porta a compimento le direttive. Nella sola Lhasa sono attivi oltre sessanta tra Dipartimenti e Comitati molti dei quali lavorano in stretto contatto con i rispettivi uffici nazionali a Pechino. L’autonomia della TAR è quindi del tutto inesistente: di fatto, la Regione gode di un’autonomia inferiore a quella delle altre province cinesi. E’ significativo che la massima carica del paese, quella di Segretario del Partito, non sia mai stata ricoperta da un tibetano. Queste “promozioni”, e abbiamo citato solo alcuni tra i casi più significativi, sembrerebbero indicare la determinazione del Partito e del governo di Pechino a mantenere il Tibet in una stretta morsa assicurando la continuità della linea politica. Il Partito Comunista mantiene in Tibet un numeroso contingente militare di occupazione (almeno 250.000 uomini). Soldati e poliziotti – spesso in abiti civili – controllano le vie della capitale e degli altri centri urbani. Soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’90, il Partito ha curato l’organizzazione di quadri fedeli alle sue direttive, destinati a controllare capillarmente il territorio tibetano, comprese le aree rurali, allo scopo di sradicare alla base ogni forma di separatismo e di eliminare ogni manifestazione di sostegno al Dalai Lama e al Governo Tibetano in Esilio. Anche il cambio della guardia ai vertici della Regione Autonoma Tibetana sembra avvalorare questa tendenza. Alla carica di nuovo Presidente del Tibet, al posto di Legchok, è stato eletto Jampa Phuntsog, ex vice segretario del Partito e ora chiamato a svolgere un ruolo di governo. Legchok ha sostituito alla presidenza del Comitato Nazionale del Congresso del Popolo (la più alta carica della TAR) il tibetano Ragdi, trasferito a Pechino dopo 18 anni di servizio nella Regione Autonoma. Le nomine di Phuntsog e di Legchok premiano i lunghi anni di lavoro in Tibet dei due neo eletti e la loro conformità alle direttive del regime. Il Congresso Nazionale del Popolo, riunito a Pechino nel marzo 2003 per la nomina della nuova dirigenza cinese (ricordiamo che il neo Presidente della Repubblica Popolare, Hu Jintao, ricoprì la carica di Segretario del Partito nella Regione Autonoma Tibetana alla fine degli anni ’80) ha premiato con incarichi importanti alcuni 20 definito questa misura “provocatoria” e ha accusato la Cina di volere deliberatamente esasperare la popolazione tibetana del Sichuan per poter pretestuosamente intervenire con la forza. Dal 2001, la provincia del Sichuan, che in passato aveva goduto di una relativa libertà di culto, è divenuta uno dei punti focali della campagna contro il Dalai Lama e la religione. Tra le personalità di grande spicco oggetto della repressione cinese figurano Geshe Sonam Phuntsok (che attualmente sta scontando una pena detentiva di cinque anni), Tenzin Delek Rinpoche (condannato a morte dopo un processo farsa) e l’abate di Serthar, Jigme Phuntsok, deceduto il 6 gennaio 2004 a Chengdu dopo un’operazione al cuore. A lungo era stato trattenuto dalla polizia mentre il suo monastero era distrutto e i monaci e le monache allontanati con la forza. Segretario del Partito è un cinese, Yang Chuantang, che ha sostituito Guo Jinlong, eletto al prestigioso incarico nel 2000 al posto del “duro” Chen Kuiyang. Nessun tibetano è mai stato eletto segretario del Partito, ruolo che, di fatto, garantisce la gestione del potere. Yang Chuantang è ritenuto molto vicino a Hu Jintao che lo volle con sé quando era Segretario del Partito in Tibet. La condizione dei tibetani In Tibet la situazione rimane grave. Continua l’afflusso dei coloni cinesi che hanno ormai ridotto i tibetani ad una minoranza all’interno del loro paese, con una presenza di sette milioni e mezzo di coloni han contro sei milioni di tibetani. Le attività religiose e la libertà di culto sono fortemente ostacolate, proseguono gli arresti e le detenzioni arbitrarie e i detenuti sono percossi e torturati. Il “miracolo economico”cinese non reca alcun concreto vantaggio ai tibetani che sono progressivamente emarginati dal punto di vista sia economico sia sociale. Le stesse grandiose infrastrutture (gasdotti, ferrovie, aeroporti), volute dal governo di Pechino, non sono di beneficio alla popolazione tibetana: favorendo, di fatto, l’afflusso di nuovi coloni, costituiscono un’ulteriore minaccia alla cultura e alle tradizioni peculiari del paese oltre a comprometterne seriamente l’equilibrio ambientale. Il gruppo d’informazione Tibet Information Network ha reso noto che il 29 agosto 2003 sei monaci residenti nella Contea di Kakhog, Prefettura di Ngaba, (Amdo) sono stati arrestati e condannati a pene detentive varianti da uno a dodici anni per aver distribuito volantini inneggianti all’indipendenza del Tibet. Dopo l’arresto dei religiosi, avvenuto nel corso dell’annuale “Yak Festival”, il personale dell’Ufficio di Pubblica Sicurezza ha fatto irruzione nella stanza di uno dei monaci ed ha confiscato numerose fotografie del Dalai Lama e una bandiera tibetana. T.I.N. rileva che questi arresti e le relative condanne costituiscono un fatto senza precedenti in Amdo e si inseriscono nella crescente ondata di repressione in atto nelle regioni al di fuori della Regione Autonoma Tibetana. Nonostante gli stretti controlli esercitati dalla polizia e dall’esercito, pacifiche dimostrazioni si susseguono sia all’interno della Regione Autonoma Tibetana, in particolare a Lhasa, sia nelle altre Regioni (Kham e Amdo). Le autorità cinesi rispondono inasprendo imposizioni e divieti. Fonti attendibili hanno riferito che i giorni 11 e 12 novembre 2003, speciali “gruppi di lavoro” composti di funzionari governativi si sono recati nei villaggi e hanno intimato alla popolazione tibetana delle contee di Kardze e Lithang (Sichuan), composta prevalentemente da contadini, di consegnare tutte le fotografie del Dalai Lama entro un mese, pena la confisca della terra. Il 21 novembre, il governo tibetano in esilio ha Anche nella Regione Autonoma continuano tuttavia gli arresti e le violenze. Il 2 dicembre 2004 si è appreso che Yeshe Gyatso, un tibetano di settantadue anni, ex funzionario governativo, arrestato a Lhasa nel giugno 2003 assieme a due studenti universitari, è stato condannato a sei anni di carcere. Il 16 dicembre 2004, TibetNet ha diffuso la notizia della morte, in un ospedale di Shigatse, di Tenzin 21 Phuntsok, sessantaquattro anni, arrestato il 21 febbraio 2003 perché sospettato di coinvolgimento in attività politiche “sospette”. I tibetani di Khangmar, suo paese natale, ritengono che Phuntsok, in ottima salute prima dell’arresto, sia morto in seguito alle torture subite durante gli interrogatori presso il centro detentivo di Nyari. Lascia la moglie e undici figli. La notizia della morte di Tenzin Phuntsog, giunta solo pochi mesi dopo quella della morte di un altro tibetano, Nyima Drakpa, le cui condizioni di salute si erano seriamente aggravate dopo le torture subite in carcere, propone il problema dell’effettivo rispetto da parte della Cina delle norme contenute nella Convenzione ONU Contro la Tortura, di cui Pechino è firmataria. Il 16 dicembre 2003, il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia (TCHRD) ha reso noto inoltre che Nyima Tsering, un insegnante sessantacinquenne, è stato condannato dal tribunale di Gyantse a cinque anni di carcere per “istigazione delle masse”. Il TCHRD ha fatto sapere che la sentenza contro Nyima, arrestato nel dicembre 2002 assieme ad un negoziante con l’accusa di aver divulgato libelli indipendentisti, è stata pronunciata nel giugno 2003. Il tibetano sta scontando la pena nella prigione di Drapchi, a Lhasa. 22 LO STATUS DEL TIBET Michael C. van Walt van Praag, noto esperto di diritto internazionale, in appendice ad un suo articolo scritto per la rivista International Relations, riassume i principali aspetti della questione tibetana sotto il profilo del diritto internazionale. Il governo tibetano in esilio, guidato da Sua Santità il Dalai Lama, ha costantemente sostenuto che il Tibet si trova sotto la illegale occupazione cinese in quanto la Cina ha invaso questo paese, politicamente indipendente, nel 1949/50. La Repubblica Popolare Cinese di contro insiste nel sostenere che i suoi rapporti con il Tibet sono semplicemente un suo affare interno poiché il Tibet è ed è stato per secoli parte integrante della Cina. La questione dello status del Tibet è essenzialmente una questione legale ma di grande rilevanza politica. La Repubblica Popolare Cinese non rivendica alcun diritto di sovranità sul Tibet come conseguenza della sottomissione militare e dell’occupazione del paese in seguito all’invasione armata del 1949/50. Difficilmente infatti potrebbe sostenere questa tesi poiché rifiuta categoricamente, in quanto illegale, ogni rivendicazione di sovranità basata sulla conquista, l’occupazione o l’imposizione di trattati ingiusti avanzate da altri Stati. La Repubblica Popolare cinese reclama invece il suo diritto sul Tibet asserendo che il Tibet è diventato parte integrante della Cina settecento anni fa. ni tra i due paesi e si afferma che “i tibetani potranno vivere felici nel Tibet ed i cinesi in Cina”. L’influenza mongola Nel tredicesimo secolo quando l’impero mongolo di Gengis Khan si espanse ad ovest verso l’Europa e ad est verso la Cina, i massimi esponenti della fiorente scuola di buddhismo tibetano Sakya stipularono un accordo con i dirigenti mongoli al fine di evitare la conquista del Tibet. Lama tibetani si impegnarono a garantire la fedeltà politica, la benedizione religiosa ed insegnamenti in cambio di patrocinio e protezione. Il legame religioso divenne così importante che quando, decenni più tardi, Kublai Khan conquistò la Cina instaurando la dinastia Yuan (12791368), invitò il capo della scuola Sakya a ricoprire la carica di Precettore Imperiale e Supremo Pontefice del suo impero. Il rapporto tra mongoli e tibetani, continuato fino al ventesimo secolo, testimonia la stretta affinità razziale, culturale e religiosa tra i due popoli dell’Asia centrale. L’Impero Mongolo fu un impero di importanza mondiale e, qualunque fosse la relazione tra i suoi governanti ed i tibetani, i mongoli non favorirono mai in alcun modo l’integrazione del Tibet con la Cina o con la sua amministrazione. Il Tibet ruppe i propri legami politici con gli imperatori Yuan nel 1350, prima che la Cina riguadagnasse la sua indipendenza dai mongoli. Negli anni che seguirono fino al diciottesimo secolo, il Tibet non subì alcuna influenza straniera. Le origini Sebbene la storia dello stato tibetano abbia inizio nel 127 a.C. quando prese il potere la dinastia Yarlung, il Paese, come lo conosciamo oggi, fu unificato per la prima volta nel settimo secolo sotto il re Song-tsen Gampo ed i suoi successori. Durante i tre secoli seguenti il Tibet fu una delle più grandi potenze dell’Asia come testimonia l’iscrizione riportata su una colonna alla base del palazzo del Potala, a Lhasa, confermata dai poemi cinesi del periodo Tang. Inoltre, un trattato di pace fra la Cina ed il Tibet fu siglato negli anni 821-823. In esso si delineano i confi- Rapporti con Manciù e Gorkha Il Tibet non stabilì alcun legame con la dinastia cinese Ming (1336-1664). Anzi, il V° Dalai Lama, che nel 1642 costituì il suo governo 23 per quanto riguardava le relazioni estere di questo paese, autorità che il governo imperiale britannico, nei suoi rapporti con Pechino e San Pietroburgo, definì come „controllo politico“. Le forze imperiali tentarono di ristabilire una supremazia reale sul Tibet invadendo il paese ed occupando Lhasa nel 1910. A seguito della rivoluzione cinese del 1911 e della caduta dell’impero Manciù, le truppe di Pechino si arresero all’esercito tibetano e rientrarono in Cina in ossequio ad un trattato di pace tra la Cina ed il Tibet. Il Dalai Lama riaffermò la più completa indipendenza sia all’interno emanando un proclama su tale status, sia all’esterno nei contatti con altri governi e stipulando un trattato con la Mongolia. sovrano sul Tibet con l’aiuto di un mecenate mongolo, strinse stretti rapporti religiosi con gli imperatori Manciù che conquistarono la Cina instaurando la dinasta Qing (1644-1911). Il Dalai Lama acconsentì a diventare guida spirituale dell’imperatore Manciù ed in cambio ne accettò la protezione. Questo rapporto di „guida spirituale-protettore“ (in tibetano Choe-Yoen), che i Dalai Lama mantennero anche con alcuni principi mongoli e nobili tibetani, costituì il solo legame formale tra i Tibetani ed i Manciù durante la dinastia Qing e non comportò alcuna influenza negativa sull’indipendenza del Tibet. A livello politico alcuni potenti imperatori Manciù riuscirono ad esercitare una certa influenza sul Tibet. Tra il 1720 ed il 1792, gli imperatori Kangxi, Yong Zhen e Quianlong inviarono quattro volte truppe imperiali in Tibet al fine di difendere il Dalai Lama da invasioni da parte dei mongoli e dei Gorkha oppure da agitazioni interne. Tali spedizioni fornirono agli imperatori Manciù il pretesto per esercitare una certa influenza sul Tibet. Vennero così inviati a Lhasa, capitale del Tibet, rappresentanti dell’imperatore alcuni dei quali, in seguito, esercitarono con successo pressioni sul governo tibetano, specialmente per quanto riguarda la politica estera. Nel momento di massima espansione dell’influenza Manciù, la posizione del Tibet non è stata mai molto diversa da quella che può verificarsi tra una superpotenza e uno stato satellite. Una situazione, quindi, che, sebbene politicamente rilevante, non annulla l’indipendenza dello stato più debole. Questo particolare rapporto durò alcuni decenni. Il Tibet non fu mai incorporato nell’Impero Manciù, tanto meno nella Cina, e continuò a portare avanti, di propria iniziativa, le relazioni con gli stati vicini. L’influenza Manciù non durò a lungo ed era completamente esaurita quando gli Inglesi, che per un breve periodo avevano occupato Lhasa, conclusero con i tibetani, nel 1904, un trattato bilaterale, noto come Convenzione di Lhasa. Nonostante tale perdita d’influenza il governo imperiale di Pechino continuò a reclamare una qualche autorità sul Tibet, soprattutto Il Tibet nel ventesimo secolo Lo status del Tibet, dopo il ritiro delle truppe Manciù, non è oggi oggetto di seri motivi di discussione. Qualunque fossero i legami tra il Dalai Lama e gli imperatori Manciù della dinastia Qing, essi ebbero fine con la caduta dell’impero e della dinastia. Tra il 1911 ed il 1950 il Tibet impedì con successo l’instaurarsi di indebite ingerenze straniere ed operò, sotto ogni punto di vista, come uno stato completamente indipendente. Il Tibet intrattenne relazioni diplomatiche con il Nepal, il Bhutan, la Gran Bretagna e più tardi con l’India indipendente. Le relazioni con la Cina si mantennero tese. I cinesi intrapresero una guerra di confine con il Tibet e nello stesso tempo fecero pressioni ufficiali affinché il Paese delle Nevi confluisse nella Repubblica cinese reclamando sempre ed ovunque che i tibetani erano una delle cinque razze cinesi. Nel tentativo di attenuare la tensione sino-tibetana, gli Inglesi convocarono, nel 1913 a Simla, una conferenza tripartita nella quale i tre stati si incontrarono a pari condizioni. Come fece presente il delegato inglese alla sua controparte cinese, il Tibet prese parte alla conferenza come una nazione indipendente che non riconosceva alcun legame con la Cina. La conferenza non ebbe un esito positivo poiché non riuscì a risolvere le controversie esistenti tra Cina e Tibet 24 ma fu importante perché riaffermò l’amicizia anglo-tibetana, suggellata da una accordo commerciale tra i due paesi e dalla sistemazione di alcuni problemi di confine. Nella dichiarazione congiunta la Gran Bretagna ed il Tibet si impegnarono a non riconoscere mai la sovranità cinese o altri diritti speciali sul Tibet a meno che la Cina non avesse sottoscritto la Convenzione di Simla che, tra l’altro, garantiva al Tibet una più ampia estensione, l’integrità territoriale e la piena autonomia. Poiché la Cina non firmò mai la Convenzione, rimane in vigore quanto espresso nella dichiarazione congiunta. Il Tibet intrattenne le proprie relazioni internazionali sia attraverso contatti con missioni diplomatiche britanniche, cinesi, nepalesi e bhutanesi a Lhasa, sia inviando proprie delegazioni governative all’estero. Quando l’India divenne indipendente la missione britannica a Lhasa fu sostituta da una missione indiana. Durante la seconda guerra mondiale il Tibet assunse una posizione neutrale nonostante forti pressioni esercitate dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Cina affinché venisse consentito il passaggio di armamenti in territorio tibetano. Il Tibet non ha mai intrattenuto rapporti con molti stati, ma quelli con i quali ha avuto contatti hanno trattato il Tibet come uno stato sovrano. Di fatto il suo status internazionale non era affatto differente da quello del Nepal. Così quando il Nepal, nel 1949, chiese di diventare membro delle Nazioni Unite citò, tra l’altro, le sue relazioni diplomatiche con il Tibet a sostegno della sua piena personalità internazionale. presenza di 40.000 militari, la minaccia di un’imminente occupazione di Lhasa e la prospettiva di una totale eliminazione del Tibet lasciavano ai tibetani pochissime possibilità di scelta. Conclusioni Nel corso dei suoi 2.000 anni di storia, il Tibet è stato soggetto all’influenza straniera solo per brevi periodi nel corso del tredicesimo e diciottesimo secolo. Pochi paesi indipendenti possono oggi rivendicare un passato così illustre. Come ha fatto notare l’ambasciatore d’Irlanda alle Nazione Unite nel corso di un dibattito dell’Assemblea Generale sulla questione del Tibet... „per migliaia di anni o in ogni caso per almeno duemila anni, [il Tibet] è stato libero e ha avuto il pieno controllo dei suoi affari interni quanto e come altre nazioni rappresentate in questa Assemblea ed ancora mille volte più libero di quanto potessero essere molte delle Nazioni qui presenti...“ Nel corso dei dibattiti alle Nazioni Uniti molti altri Paesi hanno fatto dichiarazioni che riflettono analoghi riconoscimenti dello status indipendente del Tibet. Così, per esempio, il delegato delle Filippine ha dichiarato: “È chiaro che alla vigilia dell’invasione, nel 1950, il Tibet non era soggetto al governo di nessun Paese straniero.“ Il delegato della Thailandia ha ricordato all’Assemblea che “...la maggioranza degli Stati rifiuta l’opinione che il Tibet sia parte della Cina.“ Gli Stati Uniti si sono uniti alla maggioranza degli altri Stati membri delle Nazioni Uniti nel condannare l’aggressione cinese e l’invasione. Nel 1959, 1960 ed ancora nel 1965 l’Assemblea Generale delle Nazioni Uniti ha approvato tre risoluzioni (1353 [XIV], 1723 [XVI] e 2079 [XX]) che condannano le violazioni dei diritti umani da parte dei cinesi e richiamano la Cina a rispettare ed a garantire i diritti umani e le libertà fondamentali del popolo tibetano incluso il diritto all’autodeterminazione. Dal punto di vista giuridico il Tibet non ha mai perso la sua caratteristica di stato. È una nazione indipendente oppressa da una occupazione illegale. Né l’invasione milita- L’invasione del Tibet Il momento critico della storia del Tibet sopraggiunse nel 1949 quando l’esercito di Liberazione della Repubblica Popolare Cinese invase il paese. Dopo aver sconfitto il piccolo esercito tibetano ed aver occupato metà del territorio, nel maggio 1951 il governo cinese impose al governo tibetano il cosiddetto „Accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet“. Tale accordo, poiché sottoscritto forzatamente, non ha validità secondo il diritto internazionale: la 25 re cinese né l’occupazione continua da parte dell’Esercito di Liberazione della Repubblica Popolare della Cina hanno potuto trasferire la sovranità del Tibet alla Cina. Come sottolineato in precedenza il governo cinese non ha mai rivendicato di aver acquisito la sovranità sul Tibet per mezzo della conquista. Infatti anche la Cina riconosce che l’uso o la minaccia della forza (eccetto le condizioni eccezionali stabilite dalla Corte delle Nazioni Unite), l’imposizione di un trattato ingiusto e la continua, illegale occupazione di un Paese non possono in alcun modo garantire all’invasore il diritto di proprietà del territorio occupato. Le rivendicazioni cinesi sono basate esclusivamente sul preteso assoggettamento del Tibet da parte di pochi potenti governanti cinesi durante il tredicesimo ed il diciottesimo secolo. 26 IL BUDDHISMO DEL TIBET Il Buddhismo delle origini indissolubilmente legate all’esperienza umana a causa di una ignoranza che impedisce di cogliere la realtà “così come essa è” ma considerando nel contempo possibile, anzi quasi doveroso, per l’essere umano liberarsi dal peso di questo fardello, il Buddha elaborò una psicologia spirituale e delle tecniche introspettive basate sulla meditazione e sullo yoga che possono consentire a quanti lo desiderano realmente di ottenere la liberazione dal dolore raggiungendo l’Illuminazione, vale a dire uno stato di consapevolezza totale in cui non c’è più spazio per ignoranza alcuna e le sofferenze da essa generate. Il Buddhismo afferma che non vi è alcun Dio esterno che potrà regalarci l’Illuminazione ma che questa è una meta che dobbiamo raggiungere da noi stessi attraverso un complesso cammino di autoanalisi, di conoscenza e di introspezione da percorrere anno dopo anno ed esistenza dopo esistenza. Al termine di una predicazione durata oltre quarant’anni il Buddha lasciò il suo corpo terreno nel 486 a. C. (secondo altre fonti nel 476) entrando così nel nirvana, lo stato primigenio al di là della nascita e della morte. Il Buddhismo è quella religione che prende il nome dal suo fondatore Gautama Siddharta Sakyamuni, detto il Buddha (l’Illuminato) che nacque, visse e insegnò nell’India centro settentrionale tra il quinto e il quarto secolo a. C. Figlio del re Suddhodhana e della regina Maya Devi, Gautama Siddharta era il primogenito di una famiglia di stirpe reale che regnava su di un piccolo principato i cui territori si estendevano su una parte di quello che è oggi lo stato indiano del Bihar. All’età di 29 anni il giovane Gautama però scelse di abdicare alle sue funzioni regali per dedicarsi alla vita spirituale. Abbandonò la reggia, la moglie, la famiglia per intraprendere la vita errabonda degli asceti itineranti che a quel tempo popolavano le foreste indiane praticando lo yoga e la meditazione. Dopo una lunga ricerca durata diversi anni una notte, mentre meditava sotto un albero pipal nella località dell’India centrale oggi nota con il nome di Bodhgaya, raggiunse la definitiva Illuminazione interiore divenendo così il Buddha, il Risvegliato. Qualche tempo dopo aver ottenuto l’Illuminazione si recò in una foresta vicino la città di Varanasi (Benares) e lì tenne il suo primo insegnamento pubblico rivolto a sei asceti con i quali aveva in precedenza vissuto. Subito dopo la scomparsa dell’Illuminato la comunità buddhista si divise in un gran numero di scuole. Una serie di concili, indetti con l’intento di preservare nella sua originaria purezza l’insegnamento del Buddha, diedero vita a due indirizzi: mahasangika e sthaviravadin che a loro volta si suddivisero in più di venti diverse tradizioni. Sarebbe troppo arduo, in questo contesto, entrare nello specifico delle differenze e delle similitudini delle varie correnti del Buddhismo indiano qui basterà accennare ai tre veicoli (yana in sanscrito) principali in cui l’insegnamento del Buddha si articola, Hinayana (Piccolo Veicolo), Mahayana (Grande Veicolo), Vajrayana (Veicolo del Vajra). Questo discorso, noto come “Le Quattro Nobili Verità” rappresenta il cuore della dottrina buddhista, vale a dire la “Nobile Via di Mezzo” che si pone tra i due estremi del materialismo e dell’ascetismo esasperato e si fonda sulla consapevolezza di quattro verità relative all’esistenza: la verità del dolore, la verità dell’origine del dolore, la verità della fine del dolore, la verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore. Partendo dalla constatazione che le dimensioni del dolore e della sofferenza sono Hinayana letteralmente significa "piccolo vei27 colo" ma sarebbe più esatto chiamarlo "la via stretta" dal momento che è "piccolo" o "stretto" nel senso che una precisa disciplina meditativa delimita e doma il lavorio nevrotico della mente conducendo il praticante ad uno stato di tranquilla quiete mentale. Attraverso la disciplina dello Hinayana si può avere una diretta esperienza della natura della mente e del mondo fenomenico. Lo Hinayana conferisce grande importanza alla pratica della meditazione e all'etica. Durante la sua vita Buddha Sakyamuni stabilì delle regole di comportamento che devono essere rigorosamente osservate nella vita monastica. Il complesso di queste norme è chiamato vinaya in sanscrito e dulwa in tibetano. Entrambi questi termini significano "domare" e quindi, parlando in generale, possiamo intendere con vinaya qualsiasi disciplina interiore che pratichiamo per domare in nostro universo interiore. Secondo l'Hinayana l'unico modo per guidare noi stessi è quello del vinaya, il sentiero della disciplina. Applicando correttamente i principi del vinaya l'essere umano è in grado di "domare" il corpo, la parola e la mente ed è così in grado di raffreddare il "fuoco" della nevrosi. In questa condizione mentale si può mettere in pratica la più importante delle aspirazioni hinayana, non danneggiare noi stessi né gli altri e, basandoci sulla "presenza mentale" acquisita tramite la meditazione, raggiungere la liberazione individuale. "perfezioni" (paramita in sanscrito) e la realizzazione dei "Dieci Livelli Spirituali" (Bhumi). La più importante caratteristica del Mahayana è dunque la compassione nei confronti del mondo che però non si basa sull'autonegazione o sul martirio al contrario scaturisce dallo sviluppo di una genuina cordialità e da una attitudine mentale espansiva ed accogliente. Il Mahayana, o "grande veicolo" è come una grande autostrada sulla quale continuare il percorso iniziato lungo il sentiero dello Hinayana. Il Mahayana va oltre l'ideale della liberazione individuale. Il suo scopo è la liberazione di tutti gli esseri senzienti e ogni forma di vita è compresa nella sua visione. Il Mahayana esprime un'attitudine del Buddhismo più orientata in senso sociale e il suo modello archetipico è il bodhisattva, colui che rinuncia al nirvana per rimanere su questa terra ad aiutare tutti gli esseri senzienti a raggiungere lo stato di Buddha. La compassione è la qualità principale del bodhisattva, il cui stile di vita comporta la pratica delle sei Il Buddhismo che arrivò in Tibet fu fondamentalmente quello Vajrayana e il principale artefice della sua diffusione fu Padmasambhava, chiamato anche Guru Rimpoche, un maestro tantrico che arrivò nel Paese delle Nevi nell'ottavo secolo su invito del re Trisong Deutsen che voleva diffondere tra i suoi sudditi la dottrina del Buddha. Padmasambhava cominciò la sua missione convertendo i membri della famiglia reale e diversi nobili di corte. Ebbe così inizio quella che viene definita la "Prima diffusione della Dottrina", della quale furono protagonisti anche altri maestri indiani tra i quali il monaco Santarakshita e Vimalamitra, e che vede il suo Vajrayana significa letteralmente "Veicolo di diamante o indistruttibile". L'idea di indistruttibilità, in questo caso, riguarda la scoperta dello stato illuminato della mente, la natura vajra. Questo veicolo particolarmente connesso con le tecniche dello yoga, usa meditazioni e visualizzazioni estremamente complesse e fa ampio uso di materiali psicologici, simbolici ed archetipici. Viene ritenuto in grado di muovere energie psichiche molto potenti ed è considerato l'approccio più diretto per realizzare quell'unione di upaya (i mezzi abili e in generale la dimensione maschile) e prajna (la consapevolezza discriminante e in generale l’elemento femminile) ritenuta indispensabile per realizzare la Illuminazione interiore. Il Vajrayana è il punto di arrivo della via spirituale buddhista e non può essere praticato senza prima aver percorso le strade dello Hinayana e del Mahayana. Il Buddhismo del Tibet 28 dunque a propagarsi in Tibet. Quel poco che si era salvato dalle persecuzioni si riorganizza, i vecchi templi sono riaperti, i contatti con l'India vengono ristabiliti, nuovi maestri giungono sul Tetto del Mondo e nuovi monasteri sonoedificati. Gli storici sono soliti chiamare Tam-Pa Nga-dar (Prima diffusione della Dottrina) il periodo di tempo compreso tra il settecento e il novecento quando vennero tradotti in tibetano i Tantra Antichi (Sang-Nags Nga-a-Gyur) mentre i secoli decimo e undicesimo sono noti come Tan-Pa Phyi-Dar (Seconda diffusione della Dottrina). In questo periodo, ad opera di rinomati traduttori come Rinchen Zangpo (958-1051), Drogmi Sakya (993-1050) e Marpa Chokyi Lodro (1012-1099), vengono tradotti i Nuovi Tantra (Ngags Sarma) con i quali l'intero corpo dottrinario buddhista è trasmesso in Tibet. momento più emblematico nella costruzione di Samye, il primo monastero buddhista del Tibet alla cui edificazione partecipò lo stesso Guru Rimpoche. Nella prima metà dell'ottavo secolo, sotto il patronato di Trisong Deutsen, vengono portati dall'India numerosi testi buddhisti (tantra) che sono tradotti in tibetano da un gruppo di 108 traduttori. Padmasambhava conferisce numerose iniziazioni, dà molteplici insegnamenti in differenti luoghi del Tibet centrale e in breve tempo riunisce un nutrito gruppo di discepoli, venticinque dei quali furono considerati i principali. Questi, a loro volta, si impegnano in una vasta opera di diffusione del Buddhismo che inizia a divenire popolare anche fuori dagli ambienti di corte. Si celebrano le prime ordinazioni monastiche, si tengono i primi grandi raduni religiosi, si sviluppa un'ampia comunità buddhista che comprende sia monaci sia laici. In poco meno di due secoli il Buddhismo vajrayana si diffonde in Tibet, particolarmente in quello centrale, e un numero sempre maggiore di tibetani si converte all'insegnamento del Buddha. Durante il regno del re Langdarma (decimo secolo) il Buddhismo fu sottoposto a una repressione di tale intensità che di questa tradizione quasi non rimase traccia. Il lignaggio che Padmasambhava, e gli altri maestri avevano portato nel Paese delle Nevi venne preservato solo da alcuni yogin che, nell'isolamento dei loro eremi sperduti, salvarono i testi e le relative pratiche spirituali. Per quanto riguarda invece la tradizione monastica che era stata fondata da Santarakshita, fu salvata da tre monaci che fuggirono dal Tibet centrale e si rifugiarono nelle regioni orientali. Qui, lontano dalla furia iconoclasta del sanguinario Langdarma, poterono mantenersi fedeli ai loro voti e quando, dopo circa un secolo, dieci loro discepoli tornarono nella zona di Lhasa il monachesimo tibetano riprese a vivere anche nel Tibet centrale. Il Paese delle Nevi è nuovamente attraversato da una grande ondata di entusiasmo per il Buddhismo che adesso si diffonde in ogni angolo della nazione e diviene così la religione di gran lunga maggioritaria e tale è rimasta fino ai nostri giorni. Le vie che collegano India e Tibet sono affollate in entrambi i sensi. Alcuni tra i più rinomati maestri spirituali giungono dalle montagne himalayane e dalle pianure gangetiche e gruppi sempre più numerosi di giovani tibetani affrontano viaggi lunghi e pericolosi per andare a ricevere il prezioso insegnamento del Buddha direttamente dai guru che vivono ancora nel sub-continente indiano. Con i primi decenni dell'undicesimo secolo cominciano a prendere forma in Tibet i differenti indirizzi buddhisti che ben presto daranno vita a numerose scuole le quali, se da un lato si riconoscono tutte nelle idee generali del Buddhismo vajrayana, dall'altro divergono sui mezzi più idonei per metterle in pratica. A partire dal decimo secolo il Buddhismo torna di Piero Verni 29 LA SOCIETÀ TRADIZIONALE La società tibetana tradizionale si poteva, in linea di massima, dividere in quattro aree sociali: i nobili, i mercanti-commercianti, i contadini ed i nomadi mentre un gruppo a parte era costituito dal clero. L’aristocrazia feudale costituiva l’ossatura della società laica, dai suoi ranghi uscivano tutti i più influenti funzionari dello stato, i governatori, i principi che, insieme con i rappresentanti del clero, amministravano il paese. La nobiltà era in genere costituita da due classi, i grandi (chuda) e i piccoli (nyamchung) proprietari terrieri. Il rapporto tra queste due componenti era di tipo gerarchico e i piccoli, che per lo più possedevano dei modesti appezzamenti di terreno, dovevano fornire alcuni servizi ai grandi proprietari. Questi in cambio davano delle ricompense in denaro o, più spesso, generi alimentari e di prima necessità. Grandi e piccoli proprietari erano obbligati, proporzionalmente alla loro ricchezza, a pagare una tassa al governo centrale che la riscuoteva tramite appositi funzionari. Il Tibet, grazie alla sua centralissima posizione geografica, si è da sempre trovato nelle migliori condizioni logistiche per intraprendere commerci con il resto del continente asiatico. A nord le vie carovaniere conducevano verso i mercati della Cina e della Mongolia, mentre a sud c’erano gli stati himalayani (segnatamente Nepal e Bhutan) e quelli dell’India centro-settentrionale. Era ovvio quindi che nel Paese delle Nevi si sviluppasse una intraprendente classe di mercanti e commercianti che nel corso dei secoli riuscì ad avviare attività economiche così redditizie che alcune famiglie, grazie ai capitali accumulati, poterono esercitare un’influenza sociale e politica in alcuni casi superiore a quella di molti clan aristocratici. Le immagini di lunghe carovane che percorrono l’altopiano del Tibet furono tra le più suggestive “immagini” del Tetto del Mondo di cui parlarono i primi visitatori occidentali. Nelle città di Lhasa, Gyantse, Shigatse e Chamdo (oltre che in numerosi villaggi), il mercato era il cuore civile dell’abitato quanto il monastero ne incarnava quello religioso. Si esportavano lana, tappeti e sale, si importavano sete e broccati (dalla Cina), generi di artigianato (dalla Cina e dall’India), stoffe (dal Bhutan). Un ristretto numero di famiglie aveva il monopolio dei grandi traffici commerciali e gestiva una rete di vere e proprie agenzie mercantili a Lhasa, Gyantse, Shigatse e nelle principali città estere con cui vi erano rapporti d’affari. La rimanente parte del commercio costituiva la fonte di reddito di quei nuclei famigliari le cui condizioni economiche risultavano molto diversificate. Alcuni erano piuttosto benestanti mentre altri riuscivano con un certa difficoltà a procurarsi il necessario per vivere decorosamente. I contadini rappresentavano, come dire, la “gente comune” del Tibet. Sovente legati ad un’economia essenziale non vivevano però in condizioni di miseria e la fame era sconosciuta (anche grazie alla previdente tradizione di ammassare una parte del raccolto per poter far fronte ad eventuali carestie). Quasi mai la terra che coltivavano era loro ma avevano la proprietà delle greggi, delle bestie per il lavoro nei campi, dei cavalli e dei muli che servivano per gli spostamenti. Il rapporto tra quanto producevano e quello che dovevano pagare al governo o al padrone del terreno (nobiltà, monastero o Stato) era per lo più equo o almeno non ferocemente iniquo e le relazioni dei contadini con l’autorità sono sempre state buone e non si ha memoria di rivolte o ribellioni organizzate contro il potere. Il potere nel Tibet tradizionale veniva esercitato sia a livello centrale sia a livello locale. A livello centrale, a partire dalla riunificazione del Tibet compiuta nel 17° secolo dal V Dalai Lama, il paese era governato da Lhasa da un organo legislativo al cui vertice si trovava il Dalai Lama (o il Reggente durante la minore età del nuovo Dalai Lama) ed era composto da un gabinetto (Kashag) di quattro ministri (tre laici e un monaco) e da una Assemblea Nazionale (Tsong-du). I ministri venivano sempre nominati dal Dalai Lama mentre dell’Assemblea Nazionale facevano parte i rappresentanti di ogni settore, sia laico sia religioso, della società tibetana Il Tibet era diviso in circa 100 distretti ognuno dei quali era posto sotto l’autorità di due funzionari, Dzong-pon (uno laico e uno religioso), che dipendevano direttamente dal Kashag. A livello locale invece ogni villaggio era amministrato da un capovillaggio incaricato di raccogliere le tasse e consegnarle ai funzionari preposti per la raccolta. Il capovillaggio era in genere eletto per un determinato periodo di anni (normalmente tre) da una sorta di consiglio degli anziani. Il capovillaggio poteva essere rieletto per un numero indefinito di volte e nei casi di personalità particolarmente prestigiose rimaneva in carica fino alla morte. (di Piero Verni ) TENZIN GYATSO, IL XIV DALAI LAMA Lobsang Tsewang, vestiva quelle del capo delegazione. Rinpoche aveva con sé un rosario appartenuto al 13° Dalai Lama: il bambino che era nella casa lo riconobbe e chiese che gli fosse dato. Kewtsang Rinpoche promise che glielo avrebbe consegnato se avesse riconosciuto chi fosse. Il piccolo rispose “Sera aga” che, nel dialetto locale, significa “un lama di Sera”. Allora Rinpoche gli chiese quale dei due arrivati fosse il capo della delegazione e il bambino disse correttamente il nome del lama; conosceva inoltre anche il nome del vero servitore. A questa, seguì un’altra serie di prove tra cui il riconoscimento di una serie di oggetti appartenuti al 13° Dalai Lama. Il positivo esito delle prove fornì la certezza che la reincarnazione era stata trovata e fu avvalorata dal significato delle tre lettere che erano state viste nel lago di Lhamo Lhatso: Ah per Amdo, il nome della provincia; Ka per Kumbum, uno dei più grandi monasteri nelle vicinanze e le due lettere Ka e Ma per il monastero di Karma Rolpai Dorje, il monastero dal tetto verde e oro sulla montagna sopra il villaggio. Sua Santità Tenzin Gyatso, 14° Dalai Lama del Tibet, è il capo temporale e spirituale del popolo tibetano. Nato con il nome di Lhamo Dhondrub il 6 luglio 1935 in un piccolo villaggio chiamato Taktser, nel nordest del Tibet, da una famiglia di contadini, all’età di due anni fu riconosciuto come la reincarnazione del suo predecessore, il 13° Dalai Lama e, secondo la tradizione buddista tibetana, come reincarnazione di Avalokitesvara, il Buddha della Compassione che scelse di tornare sulla terra per servire la gente. La ricerca della reincarnazione Quando il 13° Dalai Lama morì, nel 1935, il compito che il Governo Tibetano dovette affrontare non fu quello della semplice nomina di un successore ma la ricerca del bambino in cui il “Buddha della Compassione” si fosse reincarnato. Il Reggente si recò al lago sacro di Lhamo Lhatso a Chokhorgyal, circa 90 miglia a sud-est della capitale, Lhasa. Da secoli i tibetani, quando dovevano prendere decisioni importanti per il loro futuro, osservavano le acque di questo lago la cui superficie rifletteva immagini significative e forniva utili indicazioni. La cerimonia di investitura ebbe luogo il 22 febbraio 1940 a Lhasa, capitale del Tibet. In qualità di Dalai Lama, Lhamo Dhondrub fu ribattezzato con i nomi di Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso (Signore Santo, Mite Splendore, Compassionevole, Difensore della Fede, Oceano di Saggezza). I Tibetani solitamente si riferiscono a Sua Santità come Yeshe Norbu, la Gemma [che esaudisce i desideri] o semplicemente come Kundun, la Presenza. Il Reggente vide tre lettere dell’alfabeto tibetano, Ah, Ka e Ma, accompagnate dall’immagine di un monastero dal tetto di giada verde e oro e di una casa con tegole turchesi. Nel 1937 alti lama e dignitari, messi al corrente della visione, furono inviati in tutte le regioni dell’altopiano alla ricerca del luogo che il Reggente aveva visto nelle acque. Il gruppo di ricerca che si indirizzò verso est era guidato dal Lama Kewtsang Rinpoche, appartenente al monastero di Sera. L’educazione in Tibet Il Dalai Lama iniziò la sua educazione all’età di sei anni e conseguì il diploma di Geshe Lharampa (o Dottorato in Filosofia Buddista) all’età di 25 anni, nel 1959. A 24 anni, sostenne gli esami preliminari in ciascuna delle tre università monastiche di Quando arrivarono in Amdo, trovarono un luogo che corrispondeva alla descrizione della visione segreta. Il gruppo si recò verso la casa con le tegole turchesi. Kewtsang Rinpoche indossava le vesti di un servitore mentre l’effettivo servitore, 31 Con la costituzione del Governo Tibetano in esilio, il Dalai Lama comprese che il suo primo obbiettivo doveva essere la preservazione della comunità tibetana e della sua cultura. I rifugiati tibetani furono inseriti in insediamenti agricoli. Fu sostenuto lo sviluppo economico e fu organizzato un sistema scolastico basato sull’insegnamento della cultura tibetana affinché i figli dei rifugiati potessero acquisire la piena conoscenza della loro lingua, storia, cultura e religione. Nel 1959 fu creato l’Istituto Tibetano delle Arti e lo Spettacolo e l’Istituto Centrale di Studi Tibetani Superiori divenne una Università per i tibetani in India. Allo scopo di preservare il vasto corpo degli insegnamenti del Buddismo tibetano, essenza del sistema di vita del popolo del Tibet, furono rifondati nell’esilio oltre 200 monasteri. Nel 1963, Sua Santità promulgò una costituzione democratica, che servisse da modello per un futuro Tibet libero, basata sia sui principi del Buddismo sia sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Oggi i membri del parlamento sono eletti direttamente del popolo che, dalla primavera 2001, elegge direttamente anche il Kalon Tripa, o Primo Ministro, del governo tibetano. Il Primo Ministro, a sua volta, designa i componenti del proprio governo. Sua Santità ha continuamente sottolineato la necessità di democratizzare l’amministrazione tibetana e ha pubblicamente dichiarato che quando il Tibet avrà ottenuto l’indipendenza, non manterrà alcuna carica politica. Nel 1987 a Washington, in occasione della riunione del Comitato del Congresso per i Diritti Umani, il Dalai Lama propose un Piano di Pace in Cinque Punti come un primo passo verso la soluzione del futuro status del Tibet. Questo piano chiedeva la trasformazione del Tibet in una zona di pace, la fine dei massicci trasferimenti di popolazione di etnia cinese in Tibet, il ripristino dei fondamentali diritti umani e delle libertà democratiche, l’abbandono da parte della Cina dell’utilizzo del territorio tibetano per la produzione di armi nucleari e lo scarico di rifiuti radioattivi e, infine, auspicava l’avvio di “seri negoziati” sul futuro del Tibet. A Strasburgo, in Francia, il 15 giugno 1988, il Drepung, Sera e Ganden. L’esame finale ebbe luogo nel Jokhang, a Lhasa, durante la festività del Monlam che si svolge ogni anno durante il primo mese del calendario Tibetano. L’assunzione delle responsabilità di governo Il 17 Novembre 1950, dopo l’invasione del Tibet da parte di 80.000 soldati dell’Esercito di Liberazione Popolare, fu chiesto a Sua Santità di assumere i pieni poteri politici come capo di Stato e di Governo. Nel 1954 si recò a Pechino per avviare un dialogo pacifico con Mao Tse-Tung e altri leader cinesi, fra i quali Chou En-Lai e Deng Xiaoping. Nel 1956, durante una visita in India in occasione del 2.500° anniversario del Buddha Jayanti, ebbe una serie di incontri con il Primo Ministro Nehru e con il Premier Chou En-Lai in cui fu discusso il progressivo deterioramento della situazione all’interno del Tibet. I suoi tentativi di soluzione pacifica del conflitto Sino-Tibetano furono vanificati dalla spietata politica perseguita da Pechino nel Tibet Orientale, politica che scatenò la sollevazione popolare e la resistenza. La protesta si diffuse nelle altre regioni del paese. Il 10 marzo 1959 nella capitale, Lhasa, esplose la più grande dimostrazione della storia tibetana: il popolo chiese alla Cina di lasciare il Tibet e riaffermò l’indipendenza del paese. La sollevazione nazionale tibetana fu brutalmente repressa dall’esercito cinese. Il Dalai Lama fuggì in India dove ottenne asilo politico. Circa 80.000 tibetani lo seguirono e, attualmente, i profughi in India sono più di 120.000. Dal 1960, il Dalai Lama risiede a Dharamsala, una cittadina situata nello stato indiano dell’Himachal Pradesh, conosciuta anche come “la piccola Lhasa” e sede del Governo Tibetano in esilio. Nei primi anni dell’esilio, Sua Santità si appellò alle Nazioni Unite per una soluzione della questione tibetana. L’assemblea Generale, rispettivamente nel 1959, 1961 e 1965, adottò tre risoluzioni nelle quali si esortava la Cina a rispettare i diritti umani dei tibetani e la loro aspirazione all’autodeterminazione. 32 l’Arcivescovo di Canterbury, dr. Robert Runcie e altri leader della Chiesa Anglicana. Ha incontrato inoltre i massimi rappresentanti della Chiesa Cattolica Romana e delle Comunità Ebraiche e ha tenuto un discorso durante un incontro interreligioso che si è tenuto in suo onore al Congresso Mondiale delle Religioni. Queste le sue parole: “Credo sempre che sia molto meglio avere una varietà di religioni e filosofie diverse piuttosto che una singola religione o una singola filosofia. E’ necessario a causa della diversa disposizione mentale di ciascun essere umano. Ogni religione ha le sue peculiari idee e pratiche: imparare a conoscerle può solo arricchire la fede di ciascuno.” Dalai Lama elaborò il Piano di Pace in Cinque Punti proponendo la creazione di un Tibet democratico ed autonomo, “all’interno della Repubblica Popolare Cinese.” Il 9 ottobre 1991, durante un discorso tenuto alla Yale University negli Stati Uniti, Sua Santità disse che desiderava visitare il Tibet personalmente per valutare la situazione politica. Disse: “Temo che una situazione così esplosiva possa portare alla violenza. Voglio fare del mio meglio per impedirlo … Il mio viaggio dovrebbe costituire una nuova opportunità per promuovere la comprensione e creare le basi per una soluzione negoziale.” Dopo quasi dieci anni di assenza di qualsiasi contatto formale tra Cina e Governo Tibetano in Esilio, nel settembre 2002 e nel giugno 2003 due delegazioni tibetane hanno potuto recarsi un visita in Cina e Tibet. Secondo Dharamsala, si è trattato di incontri preparatori ad un eventuale, futuro negoziato, miranti a creare le indispensabili premesse di distensione e fiducia. Premi e Riconoscimenti Sin dalla sua prima visita in Occidente, all’inizio del 1973, numerose università ed istituzioni occidentali hanno conferito al Dalai Lama Premi per la Pace e Lauree ad Honorem, in segno di riconoscimento per gli approfonditi testi sulla filosofia buddista e per il ruolo svolto nella soluzione dei conflitti internazionali, nella questione dei diritti umani e in quella, a carattere globale, dei problemi ambientali. Nel 1989, nel proclamare l’assegnazione del premio Raoul Wallemberg per i Diritti Umani del Congresso, il deputato statunitense Tom Lantos disse: “La coraggiosa lotta di Sua Santità il Dalai Lama fa di lui un eminente sostenitore dei diritti umani e della pace nel mondo. I suoi continui sforzi per porre fine alle sofferenze del popolo Tibetano attraverso negoziati pacifici e la riconciliazione hanno richiesto un enorme coraggio e sacrificio.” I contatti con l’Occidente A partire dal 1967, Sua Santità ha intrapreso una serie di viaggi che lo hanno portato in circa 46 nazioni. Nell’autunno del 1991, ha visitato gli Stati Baltici su invito del Presidente Vytautas Landsbergis ed è stato il primo leader straniero a tenere un discorso davanti al Parlamento Lituano. Il Dalai Lama ha incontrato Papa Paolo VI in Vaticano nel 1973. Durante una conferenza stampa a Roma, nel 1980, ha espresso le sue speranze alla vigilia dell’incontro con Giovanni Paolo II: “Viviamo in un periodo di grande crisi, un periodo in cui il mondo è scosso da turbolenti sviluppi . Non è possibile trovare la pace dell’anima senza la sicurezza e l’armonia fra le genti. Per questo motivo aspetto con fede e speranza di incontrare il Santo Padre; per avere uno scambio di idee e sentimenti e per raccogliere i suoi suggerimenti, per aprire la strada ad una progressiva pacificazione fra i popoli.” Il Dalai Lama incontrò Papa Giovanni Paolo II in Vaticano nel 1980, 1982, 1986, 1988 e 1990. Nel 1981, Sua Santità incontrò a Londra Il Premio Nobel per la Pace La decisione del Comitato Norvegese per il Premio Nobel di assegnare il Premio Nobel per la Pace 1989 a Sua Santità il Dalai Lama è stata accolta in tutto il mondo, unica eccezione la Cina, con applausi e consensi. L’annuncio del Comitato così recita: “Il Comitato vuole sottolineare il fatto che il Dalai Lama, nella sua lotta per la liberazione del Tibet, si è continuamente oppo33 sto all’uso della violenza. Ha appoggiato invece soluzioni pacifiche basate sulla tolleranza e sul reciproco rispetto con l’obiettivo di conservare l’eredità storica e culturale del suo popolo. Il Dalai Lama ha sviluppato la sua filosofia di pace sulla base di un grande rispetto per tutti gli esseri viventi e sull’idea di responsabilità universale che abbraccia tutto il genere umano così come la natura. E’ opinione del Comitato che il Dalai Lama abbia formulato proposte costruttive e lungimiranti per la soluzione dei conflitti internazionali, del problema dei diritti umani e dei problemi ambientali mondiali”. Il 10 Dicembre 1989, Sua Santità accettò il premio a nome di tutti gli oppressi, di tutti coloro che lottano per la libertà e la pace nel mondo e a nome del popolo tibetano. Nel suo commento disse: “Questo premio costituisce un’ulteriore conferma delle nostre convinzioni: usando come sole arma la verità, il coraggio e la determinazione, il Tibet sarà liberato. La nostra lotta deve rimanere non violenta e libera dall’odio.” In quell’occasione, lanciò anche un messaggio di incoraggiamento al movimento democratico guidato dagli studenti cinesi. “Nel giugno di quest’anno, in Cina, il movimento popolare democratico è stato schiacciato da una forza brutale. Ma non credo che le dimostrazioni siano state vane perché lo spirito di libertà si è riacceso nel popolo cinese e la Cina non può rimanere estranea allo spirito di libertà che si va diffondendo in molte parti del mondo. I coraggiosi studenti e i loro sostenitori hanno mostrato ai leader cinesi e al mondo il volto umano di una grande nazione.” Un semplice monaco buddista Sua Santità dice spesso: “Sono un semplice monaco buddista, niente di più e niente di meno.” Conduce la stessa vita dei monaci buddisti. Vive in una piccola casa a Dharamsala, si alza alle 4 del mattino per meditare, prosegue con un ininterrotto programma di incontri amministrativi, udienze private, insegnamenti religiosi e cerimonie. Prima di ritirarsi, conclude la sua giornata con altre preghiere. Quando vuole spiegare quali sono le sue più importanti fonti di ispirazione, spesso cita i suoi versi preferiti, tratti dagli scritti di Shantideva, un celebre santo buddista dell’VIII° secolo: Finché esisterà lo spazio E finché vi saranno esseri viventi, Fino ad allora possa io rimanere Per scacciare la sofferenza dal mondo Informazioni tratte dal sito ufficiale del governo tibetano in esilio 34 AMBIENTE TIBET: UN PROBLEMA CRUCIALE Introduzione sta che asserisce l’interdipendenza di tutti gli elementi esistenti sulla terra, siano essi viventi o non viventi. Questa credenza era ulteriormente rafforzata dalla stretta osservanza di una norma che potremmo definire di “autoregolamentazione”, comune a tutti i buddisti tibetani, in base alla quale l’ambiente deve essere sfruttato solo per soddisfare le proprie necessità e non per pura cupidigia. Per quasi duemila anni il Tibet, composto dalle tre regioni amministrative denominate Kham, Amdo e U-Tsang, è esistito come nazione sovrana. La Cina comunista, che ha invaso e occupato il paese nel 1949, considera invece ai nostri giorni come “Tibet” la cosiddetta “Regione Autonoma Tibetana” (TAR), creata nel 1965 e comprendente, in larga parte, quella che per secoli è stata la regione dello U-Tsang. Dopo l’occupazione del Tibet, l’attitudine amichevole e armoniosa dei tibetani nei confronti della natura fu brutalmente soppiantata dalla visione consumistica e materialista dell’ideologia comunista cinese. All’invasione fecero seguito devastanti distruzioni ambientali che causarono la deforestazione, il depauperamento dei pascoli, lo sfruttamento incontrollato delle risorse minerarie, l’estinzione della fauna selvatica, l’inquinamento da scorie nucleari, l’erosione del suolo e le frane. Ne consegue che, ai nostri giorni, lo stato dell’ambiente in Tibet è altamente critico e le conseguenze di questo degrado saranno avvertite ben oltre i suoi confini. Dal 1949, più di 1.200.000 tibetani, circa un sesto del totale della popolazione, sono morti in Tibet come conseguenza della persecuzione politica, degli arresti, delle torture e della carestia. Oltre 6000 monasteri sono stati distrutti. Sua Santità il 14° Dalai Lama, capo politico e spirituale di sei milioni di tibetani, nel 1959 è stato costretto a lasciare il paese e a cercare rifugio in India. Con lui, sono fuggiti dal Tibet 85.000 tibetani che hanno trovato rifugio in India, Nepal e Buthan. Il Tibet, comunemente conosciuto come “il Tetto del Mondo”, è situato nel cuore dell’Asia e, dal punto di vista ambientale, è una delle più importanti regioni del mondo. Situato a nord dell’India, del Nepal, del Buthan e della Birmania, a ovest della Cina e a sud del Turkestan orientale, si estende per circa 2.500 chilometri da ovest a est e per 1.500 da nord a sud, raggiungendo una superficie di 2.5 milioni di chilometri quadrati (equivalenti a più di due terzi dell’India). Ha un’altitudine media di 3.650 metri sopra il livello del mare e molte delle sue montagne superano gli 8.000 metri: una per tutte, il monte Everest che, con i suoi 8.848 metri, è la vetta più alta della Terra. L’altopiano tibetano è il più alto e il più esteso del mondo e domina tutta la parte centrale del continente asiatico. Gli fanno corona a sud la catena dell’Himalaya e a nord le montagne dell’Altyn Tagh e del Gangkar Chogley Namgyal. A occidente si fonde con le cime del Karakorum mentre a oriente scende in modo graduale verso le vette del Minyak Gangkar e del Khawakarpo. Le condizioni ambientali prima dell’occupazione cinese Prima dell’occupazione cinese, il Tibet era, dal punto di vista ecologico, un territorio equilibrato e stabile perché la conservazione dell’ambiente era parte essenziale della vita quotidiana dei suoi abitanti. I tibetani vivevano in armonia con la natura grazie alla loro fede nella religione buddi- Il Tibet possedeva il più efficace sistema di protezione ambientale di tutte le terre abitate del mondo moderno. Parchi naturali e riserve, a salvaguardia della flora e della fauna, non erano 35 dii scoscesi della regione sud orientale del paese. Erano foreste di conifere tropicali e subtropicali, per la maggior parte costituite da abeti rossi sempreverdi, pini, larici, cipressi, betulle e querce. Le foreste tibetane erano di vecchia crescita, con piante di più di duecento anni. La densità media della vegetazione era di 272 metri cubi per ettaro ma nella regione dello U-Tsang poteva raggiungere anche i 2.300 metri cubi per ettaro, la più alta densità del mondo per una vegetazione di conifere. necessari in quanto il Buddismo insegnava alla gente l’interdipendenza di tutti gli elementi, viventi e non viventi, presenti sul pianeta. Il Buddismo proibiva l’uccisione degli animali e insegnava la compassione per gli esseri viventi e l’ambiente. E, soprattutto, il governo tibetano proibiva la caccia. Flora In Tibet crescevano più di 100.000 specie di piante ad alto fusto, alcune delle quali rare ed endemiche. Vi erano più di 2.000 varietà di piante medicinali usate, non solo in Tibet ma anche in India e in Cina, per preparare i medicamenti secondo i sistemi tradizionali. Molto diffuse erano lo zafferano, il rabarbaro di montagna, l’elleboro, la serratula alpina himalayana e il rododendro di cui esistevano, sull’altopiano tibetano, ben 400 specie diverse, quasi il 50% delle varietà esistenti sulla terra. Minerali Il Tibet era anche ricco di risorse minerali mai sfruttate. Nel suo sottosuolo vi sono 126 tipi di minerali tra i quali oro, litio, uranio, cromite, rame, borace e ferro. Il Tibet possiede inoltre i maggiori giacimenti d’uranio del mondo. I giacimenti di petrolio della regione dell’Amdo consentono l’estrazione annuale di più di un milione di tonnellate di greggio. Uccelli In Tibet esistono 532 specie di uccelli raggruppate in 57 famiglie. Vi sono cicogne, cigni selvatici, il martin pescatore, oche, anatre, rapaci, fringuelli, l’uccello pigliamosche della giungla, tordi, pappagalli, cutrettole, vari tipi di uccelli canori, avvoltoi, e una particolare, bellissima specie di picchio. L’uccello più raro e famoso è la gru dal collo nero, chiamata dai tibetani “trung trung kaynak”. Fiumi In Tibet nascono alcuni dei più grandi fiumi dell’Asia. Tra i tanti, ricordiamo il Brahmaputra, l’Indo, il Mekong, lo Yangtse e il Fiume Giallo. Lasciato il Tibet, i fiumi bagnano l’India, la Cina, il Pakistan, il Nepal, il Buthan, il Bangladesh, la Birmania, la Tailandia, il Laos e la Cambogia, assicurando, assieme ai loro tributari, il fabbisogno idrico necessario a milioni di persone. Alcune ricerche hanno dimostrato che i fiumi che nascono in Tibet assicurano la vita al 47% della popolazione mondiale e all’85% dell’intera popolazione asiatica. La questione ambientale tibetana non è quindi soltanto un problema locale, ma è di cruciale rilevanza a livello internazionale. Preservare l’Altopiano Tibetano dalla devastazione ecologica è essenziale non solo per la sopravvivenza dei tibetani ma anche per la salvezza di una metà dell’intera umanità. Animali selvatici Le montagne e le foreste del Tibet davano un tempo rifugio ad un grande numero di animali selvatici rari e in via di estinzione quali il leopardo delle nevi, il leopardo maculato, la lince, l’orso nero himalayano, il burdocade tibetano (un ruminante tipico del Paese delle Nevi), lo yak selvatico, il cervo muschiato, la gazzella tibetana, l’antilope tibetana, la lepre dell’Himalaya, il panda gigante, il panda rosso e molti altri. La distruzione dell’ambiente dopo l’occupazione cinese Foreste Le foreste tibetane ricoprivano un’area di oltre 25 milioni di ettari. La maggior parte ricopriva i pen- Violando le leggi e le normative internazionali, la 36 dimenticati nei capannoni oppure marciscano nell’acqua, lungo le rive dei fiumi. Il rimboschimento è minimo e spesso senza successo a causa della poca cura prestata alle giovani piante. Cina ha invaso e occupato il Tibet. La resistenza tibetana e la repressione cinese portarono, il 10 marzo 1959, all’insurrezione nazionale tibetana brutalmente soffocata dall’intervento dell’Esercito di Liberazione Cinese che, secondo stime fornite da Pechino, causò la morte di oltre 87.000 tibetani nel solo Tibet centrale. Effetti della deforestazione a) Erosione del suolo e inondazioni: La massiccia deforestazione, il proliferare delle miniere e una politica agricola basata sullo sfruttamento intensivo dei campi contribuiscono ad aumentare l’erosione del suolo. Il fango che si riversa nei fiumi che scendono dall’altopiano tibetano (l’Indo, il Brahmaputra, il Sutley, il Mekonk, il Fiume Giallo e lo Yangtse) scende nei paesi a valle innalzando il letto dei fiumi e causando devastanti inondazioni che, a loro volta, provocano estese slavine. Di conseguenza, si riduce l’estensione delle terre coltivabili con gravi danni per l’economia di milioni di persone. Secondo gli esperti, le frequenti inondazioni che si verificano nel Bangladesh sono in diretta relazione con la deforestazione attuata in Tibet, nella parte superiore dei fiumi. Decimazione della fauna selvatica Prima dell’invasione cinese in Tibet era rigorosamente vietata la caccia agli animali selvatici. I Cinesi non hanno rispettato questo divieto ma hanno anzi attivamente incoraggiato lo sterminio degli animali rari o in via di estinzione. Il leopardo delle nevi, per fare un esempio, è cacciato per la sua pelliccia, venduta a prezzi elevatissimi sul mercato internazionale. I permessi per cacciare l’antilope tibetana oppure l’argali , un raro tipo di pecora selvatica, costano rispettivamente 35.000 e 23.000 dollari americani. La carne delle antilopi, delle gazzelle e degli yak selvatici è venduta nei mercati cinesi e anche europei. Deforestazione In nome dello “sviluppo”, più di 70.000 cinesi sono addetti al taglio indiscriminato delle piante secolari che costituiscono le ricche foreste delle regioni orientali e meridionali del territorio tibetano. La medesima situazione è riscontrabile in altre aree del Tibet, quali Markham, Gyarong, Nyarong e alcune zone del Kham e del Kongpo. b) Effetti climatici a livello globale: Il ruolo dell’Altopiano Tibetano sul sistema climatico del globo è rilevante. Gli scienziati hanno evidenziato una correlazione tra la vegetazione spontanea del Tibet e la regolarità dei monsoni. Le piogge monsoniche, indispensabili per la sopravvivenza delle regioni dell’Asia meridionale, costituiscono il 70% delle piogge che ogni anno cadono in l’India. Tuttavia, un monsone troppo violento è causa di immani calamità naturali. Alcuni scienziati, tra i quali ad esempio lo statunitense Elman Reiter, hanno dimostrato che l’ambiente dell’Altopiano esercita una diretta influenza sui cosiddetti “jet strems”, i venti d’alta quota che soffiano sul Tibet, che, a loro volta, sono la causa dei tifoni che si scatenano sull’oceano pacifico e del fenomeno conosciuto come “El Nino”,una corrente calda che rimescola le acque dell’oceano ed ha causato la distruzione della catena alimentare marina danneggiando l’economia delle zone costiere della California, del Peru e dell’Ecuador. Contemporaneamente, paesi quali La superficie boschiva del Tibet che, nel 1959, si estendeva su 25.2 milioni di ettari, nel 1985 si era ridotta a soli 13.57 milioni di ettari, pari alla distruzione del 46% delle foreste. La deforestazione è ancora drammaticamente in atto e si calcola che, ai nostri giorni, l’80% delle foreste siano state abbattute. Radio Lhasa ha dato notizia che solo tra il 1959 e il 1985 la vendita del legname ha fruttato alla Cina più di 54 miliardi di dollari americani. Ancora oggi, più di 500 automezzi carichi di legname tibetano lasciano la località di Gonjo, nel Kham, diretti verso la Cina, ma a volte accade che, per incuria e cattiva organizzazione, molti carichi vengano abbandonati lungo la strada, 37 posizione di cittadini di seconda classe nella loro stessa patria, e, di conseguenza, violando i diritti fondamentali del popolo tibetano garantiti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite. la Nuova Zelanda, l’Indonesia, l’Australia, l’India e il Sud Africa hanno attraversato un periodo di terribile siccità. c) Cattiva amministrazione agricola: Nel corso degli anni ’60, il governo cinese ha introdotto, in Tibet, in campo agricolo, alcune riforme che hanno portato il paese alla carestia. La sovrapproduzione e lo sfruttamento agricolo intensivo hanno inoltre causato la scomparsa di molte erbe medicinali e di piante commestibili e hanno distrutto gli esemplari che costituivano la riserva di cibo invernale per gli animali selvatici. Questa politica agricola sconsiderata ha fatto sì che il suolo venisse eroso sia dal vento sia dall’acqua dando avvio ad un processo di desertificazione. Secondo dati forniti dal governo cinese, in Cina e in Tibet la desertificazione per opera di interventi umani interessa una superficie pari a circa 120.000 chilometri quadrati di territorio. Le autorità cinesi obbligano gli agricoltori tibetani a comperare e usare fertilizzanti chimici e insetticidi. I contadini sostengono che questi fertilizzanti sono estremamente pericolosi sia per il raccolto che per l’ambiente. La centrale idroelettrica Il più assurdo e catastrofico, dal punto di vista ambientale, dei cosiddetti “progetti di sviluppo” cinesi è costituito dalla costruzione della centrale idroelettrica di Yamdrok Tso (il lago Yamdrok), a circa un centinaio di chilometri da Lhasa. A causa di questo progetto, il lago, che i tibetani considerano sacro, è destinato a scomparire. Nel 1993, tutte le sorgenti d’acqua potabile della zona si sono prosciugate e i contadini tibetani sono stati costretti a bere l’acqua del lago. Ciò ha causato gravi problemi alla loro salute quali diarrea, perdita di capelli e malattie della pelle. A causa del progetto, i tibetani della zona hanno inoltre perduto, in modo irreversibile, il 16% della terra coltivabile. Lo sfruttamento delle risorse minerarie In Tibet, lo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie è iniziato negli anni ’60. Il governo cinese ha enormemente intensificato l’estrazione di borace, cromo, sale, rame, carbone e uranio per garantire le materie prime necessarie allo sviluppo industriale. Ai nostri giorni, nei distretti di UTsang e di Amdo, esistono numerose miniere sia pubbliche sia private. L’aumento delle attività minerarie riduce ulteriormente la vegetazione e fa aumentare il pericolo di frane, l’erosione del suolo, l’inquinamento dei torrenti e dei fiumi oltre a danneggiare l’habitat degli animali selvatici. La metà delle riserve di uranio della terra si trova nelle montagne attorno a Lhasa. In Tibet si trova inoltre il 40% delle riserve di ferro della Cina oltre a cospicui giacimenti di carbone, oro, rame, piombo, borace e petrolio. Secondo l’agenzia ufficiale cinese Xinhua, il 31 ottobre 1995 la Cina ha incrementato lo sfruttamento delle risorse minerarie della Regione Autonoma Tibetana. Gli introiti derivanti da questo sfruttamento sono stimati nell’ordine di 78.27 miliardi di dollari americani. Il trasferimento della popolazione Uno dei più gravi pericoli che minacciano il popolo tibetano, la sua cultura e l’ambiente è costituito dal massiccio trasferimento nel paese, soprattutto in questi ultimi anni, di personale civile e militare cinese. Ai nostri giorni, i sei milioni di tibetani residenti sono sopravanzati numericamente da sette milioni e mezzo di cinesi. A Lhasa, il rapporto tra tibetani e cinesi è di due a uno. In seguito a questo trasferimento di popolazione, i tibetani sono stati emarginati in campo economico, educativo, politico e sociale e la tradizionale e ricca cultura tibetana sta rapidamente scomparendo. In Tibet, sotto il regime totalitario cinese, i “progetti di sviluppo” non tengono in alcun conto i parametri di Valutazione di Impatto Ambientale. Inoltre, questi “progetti di sviluppo” favoriscono solo gli immigrati cinesi e incoraggiano il loro insediamento nel paese relegando i tibetani a una 38 Scorie nucleari e militarizzazione L’esistenza di scorie nucleari in Tibet è stata denunciata dal Dalai Lama nel 1992, nel corso di una conferenza stampa rilasciata a Bangalore (India). In quell’occasione Pechino negò che in Tibet esistessero scorie nucleari inquinanti. Tuttavia, più recentemente, la Cina ne ha ammesso l’esistenza. Il 19 luglio 1995, l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha infatti dichiarato che, nella Prefettura Autonoma Tibetana di Haibei, vicino alle rive del lago Kokonor, il più grande lago dell’altopiano tibetano, vi è “una discarica di venti metri quadrati utilizzata per il deposito di materiale radioattivo”. test hanno causato un notevole aumento dei casi di cancro e di morte infantile senza che tuttavia sia stata attuata alcuna ricerca medica adeguata. Nella stessa zona vi è quella che i cinesi chiamano “Nona Accademia” oppure “Fabbrica 211”: si tratta, in realtà, di un vero e proprio centro nucleare circondato dal più assoluto segreto. La dottoressa Tashi Dolma, che ha lavorato all’ospedale di Chabcha, situato a sud del centro, ha dichiarato che sette piccoli nomadi, addetti al pascolo del bestiame nelle vicinanze della città nucleare, si sono ammalati di cancro e i loro globuli bianchi sono aumentati a livelli incontrollabili. Un medico americano che ha condotto alcune ricerche presso lo stesso ospedale, ha reso noto che i sintomi erano simili a quelli dei casi di cancro causati dalle radiazioni dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki del 1945. Negli anni compresi tra il 1989 e il 1990, cinquanta persone sono morte a Thewo, nell’Amdo, per causa ancora non accertate. Nel 1990, dodici donne hanno partorito ma i piccoli sono nati morti o hanno cessato di vivere subito dopo la nascita. A Drotsang, 63 chilometri a est di Siling, è sorto un nuovo centro di produzione di missili conosciuto con il numero di codice 430. I missili vengono testati nel lago Kokonor. A Nagchuka sono stati posizionati 20 missili balistici a raggio intermedio e 70 a raggio medio. Anche nella città di Payi, nella Regione Autonoma Tibetana, vi è un grande deposito sotterraneo di missili (numero di codice 809). Durante le esercitazioni, i missili vengono portati allo scoperto e lanciati sia verticalmente sia orizzontalmente contro bersagli prestabiliti. Considerato un tempo come un pacifico stato cuscinetto tra l’India e la Cina, il Tibet è ora altamente militarizzato: ospita infatti 300.000 soldati cinesi e un quarto della forza missilistica del paese. La militarizzazione dell’altopiano tibetano costituisce una minaccia per l’equilibrio geo-politico della regione ed è causa di serie tensioni internazionali. Tutti i test nucleari apertamente dichiarati da Pechino, sono stati eseguiti a Lopnor, nella provincia del Xinjiang, a nord-ovest del Tibet. Questi A cura del Dipartimento Informazioni e Relazioni Internazionali Amministrazione Centrale Tibetana Secondo International Campaign for Tibet, la prima testata nucleare fu portata in Tibet nel 1971 e posizionata a Tsaidam, nell’Amdo del nord. Fonti diverse asseriscono la presenza di missili nucleari a Nagchuka, situata a 150 miglia da Lhasa. E’ stato inoltre confermato che nella regione dell’Amdo e, più esattamente nel bacino di Tsaidam, geograficamente isolato e a grande altezza, vi sono tre località adibite a deposito di missili nucleari. 39 LA BANDIERA NAZIONALE TIBETANA LA STORIA dichiarò che sarebbe stata adottata da tutti i corpi militari di difesa. La composizione pittorica e il simbolismo della bandiera nazionale Tibetana contengono tutte le caratteristiche del Tibet: la conformazione geografica del territorio, la sua natura religiosa, gli usi e le tradizioni della società Tibetana, l’amministrazione politica del governo Tibetano, e cosi via. In ognuna delle tre regioni di cui si compone il paese, la bandiera nazionale, ereditata dagli antichi padri, è universalmente accettata come un comune inestimabile tesoro e, come in passato, è rispettata e stimata. La bandiera nazionale Tibetana è strettamente legata alla storia del Paese delle Nevi e a quella delle dinastie reali del Tibet, entrambe vecchie di migliaia d’anni. Nell’anno Reale Tibetano 820, ovvero nel settimo secolo dell’era cristiana, durante il regno del re tibetano Song-tzan Gampo, il territorio del Tibet venne diviso in distretti di varia grandezza conosciuti come “gö-kyi tong-de” e “yung-g’i mi-de”. A un esercito di 2.860.000 uomini, provenienti da questi distretti, fu affidato il compito di presidiare i confini del paese, permettendo quindi al popolo tibetano di vivere in condizioni di sicurezza. Il coraggio e l’eroismo dei tibetani di quel tempo, capaci addirittura di conquistare e di governare il confinante impero della Cina, sono ben conosciuti nella storia del mondo. SIMBOLOGIA La gloriosa e bellissima montagna bianca, situata al centro, simboleggia la grande nazione tibetana, famosa per le montagne innevate che la circondano. E’ storicamente provato che a quei tempi il reggimento di Yö-ru tö aveva una bandiera militare con una coppia di leoni di montagna contrapposti; il reggimento di Yä-ru mä ne aveva una con un leone di montagna e con un bordo superiore di colore chiaro; in quella di Tzang Ru-lao era raffigurato un leone in posizione eretta lanciato verso il cielo mentre la bandiera di Ü-ru tö aveva una fiamma bianca su sfondo rosso, e così via. Con il proseguire di questa tradizione, all’inizio del ventesimo secolo ogni reggimento dell’esercito Tibetano possedeva una bandiera raffigurante con due leoni di montagna contrapposti oppure un leone di montagna proteso verso il cielo. I sei raggi di luce rossa diretti verso il cielo simboleggiano le sei tribù del Tibet: Se, Mu, Dong, Tong, Dru e Ra. L’alternanza del colore rosso e del colore azzurro del cielo simboleggia la continua ricerca della retta condotta morale necessaria per mantenere e proteggere la legge spirituale e la legge temporale sancita dalle due divinità tutelari, una rossa e una nera, che hanno protetto il Tibet nel corso dei tempi. I raggi emanati dal sole nascente sopra il picco della montagna innevata, simboleggiano l’eguale godimento, da parte di tutti i cittadini tibetani, della luce della libertà, della felicità spirituale e materiale e della prosperità. Nel ventesimo secolo, il XIII° Dalai Lama, eminente capo spirituale e temporale del Tibet, attuò molti cambiamenti in campo amministrativo in sintonia con le usanze internazionali. Prendendo spunto e migliorando gli stendardi militari esistenti, Sua Santità disegnò l’attuale, moderna bandiera nazionale e, con un proclama ufficiale, L’aggressiva posizione della coppia di intrepidi leoni di montagna, il cui coraggio è suggerito dalle cinque sporgenze sulla sommità della loro testa, simboleggia il totale successo contro tutte le 41 leggia l’osservanza della dirittura morale secondo le somme tradizioni rappresentate dai dieci precetti divini di virtù e dalle sedici regole etiche della vita laica. avversità delle azioni intraprese dal governo spirituale e secolare della nazione. I tre gioielli colorati sopra ai leoni, bellissimi e radiosi di luce, simboleggiano la continua venerazione da parte del popolo Tibetano delle Tre Preziose Gemme, oggetti del rifugio. Il bordo giallo simboleggia il fiorire e lo sviluppo degli insegnamenti del Buddha, paragonabili all’oro purissimo, attraverso spazio e tempo senza limiti. Il mulinello della gioia, sorretto dai leoni, simbo- 42 L’Associazione Italia-Tibet L’Associazione Italia-Tibet è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro, legamente costituita. Fondata nel 1988, l’Associazione si propone di sostenere il lavoro del Dalai Lama, massima autorità politica e religiosa del Tibet e del suo governo in esilio, affinché al popolo tibetano venga riconosciuto il diritto all’autodeterminazione e gli siano garantite le fondamentali libertà civili. Per promuovere la conoscenza della effettiva realtà tibetana, l’Associazione ItaliaTibet: • Organizza manifestazioni politiche e culturali per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla storia e gli sviluppi del problema tibetano. • Mantiene contatti con il mondo politico, con le organizzazioni per i diritti umani e con tutti i gruppi sensibili a queste tematiche. • Pubblica materiale informativo di agile consultazione sugli aspetti sociali, culturali e religiosi del popolo tibetano. • Mantiene il sito web: www.italiatibet.org L’Associazione Italia-Tibet aiuta inoltre concretamente la comunità tibetana in esilio, sostenendo progetti di cooperazione allo sviluppo e promuovendo le adozioni a distanza. Come associarsi Il modo migliore per aiutare e rimanere in contatto con l’Associazione Italia-Tibet è quello di iscriversi ad una delle seguenti quattro categorie di soci previste. Quote annuali: • • • • Studenti o famigliari di soci Socio ordinario Socio sostenitore Socio benemerito € € € € 25,00 50,00 100,00 300,00 € 12,00 Acquisto bandiera del Tibet: Per informazioni contattare: Associazione Italia-Tibet 20133 MILANO - Via Pinturicchio, 25 Tel./fax 02.70638382 - [email protected] www.italiatibet.org (spedizione compresa)