1. Il teorema di Pitagora nell`estrema antichità.

1. Il teorema di Pitagora nell’estrema antichità.
La prima testimonianza nota relativa al teorema
di Pitagora è contenuta in una tavoletta
paleobabilonese, databile tra il 1800 e il 1600 a.
C., in cui è disegnato un quadrato con le due
diagonali. Il lato del quadrato porta il numero 30,
lungo la diagonale troviamo i numeri (in
notazione sessagesimale) 1;24,51,10, cioè
1+24/60+51/602 +10/603 ,e 42;25,35, ovvero
42+25/60+35/602 , che ri-portati in forma
decimale danno 1,414213 e 42,42639. Il primo è
un’ottima approssimazione della radice di 2; il
secondo è la diagonale del quadrato di lato 30, ed
è uguale al prodotto di 30 per l’altro numero. Il
fatto che la diagonale del quadrato si ottenga
moltipli-cando il suo lato per la radice di 2
denota la conoscenza del teorema di Pitagora,
almeno nel caso del triangolo con i cateti uguali.
Più dubbie le altre attribuzioni. Quella più volte ripetuta, secondo la quale i geometri egizi, per
trovare un angolo retto, si servivano di una corda con segnati tratti di lunghezza 3, 4 e 5, che
formano i lati di un triangolo rettangolo, sembra sprovvista di ogni fondamento, e semmai ha a che
fare con l’inverso del teorema di Pitagora (vedi scheda).
Anche la figura cinese “hsuan-thu”, che risale
forse (ma la datazione è incerta) al 1200 a. C., è
stata vista da alcuni come una prova della
conoscenza del teorema di Pitagora, ma questa
affermazione è controversa. In effetti la figura
mostra un triangolo di lati 3, 4 e 5, con il
quadrato di lato 7=3+4 che contiene quello di
lato 5, a sua volta composto da quattro triangoli
e un quadratino di lato 1=4-3. Non c’è invece
traccia dei quadrati sui cateti 3 e 4. In generale,
se si indicano con a e b i cateti e con c
l’ipotenusa, il quadrato di lato a + b si può considerare composto di 8 triangoli e del quadratino
di lato b - a, o anche del quadrato sull’ipotenusa
c e di quattro triangoli, da cui si ricava la
relazione
4ab+ (b - a) 2 = c2 +2ab.
Sviluppando (b - a)2 = b2 + a2 –2ab, si ottiene
b2 + a2 = c2,
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e quindi il teorema di Pitagora, purché si conosca la formula del quadrato del binomio (b - a)2 =b2
+ a2 –2ab. Inutile dire che quest’ultima formula, specie nella sua versione geometrica che qui
sembra necessaria, non è per nulla più facile del teorema di Pitagora che si vuole dimostrare.
In ogni caso, non abbiamo né un enunciato preciso del teorema, né tanto meno una sua
dimostrazione.
2. Alcune dimostrazioni semplici.
Il primo enunciato preciso, e la prima dimostrazione inequivocabile del nostro teorema si trovano
nel primo libro degli Elementi di Euclide (circa 300 a. C):
Nei triangoli rettangoli, il quadrato del lato opposto all’angolo retto è uguale ai
quadrati dei lati che contengono l’angolo retto.
Oggi in genere il “lato opposto all’angolo retto” si chiama ipotenusa, mentre i “lati che contengono
l’angolo retto” prendono il nome di cateti. Inoltre, invece di “uguale” si preferisce dire equivalente,
o che ha la stessa area. Così una formulazione moderna può essere
Nei triangoli rettangoli, l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla
somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti.
o anche, dato che l’area del quadrato è uguale al quadrato del lato,
Nei triangoli rettangoli, il quadrato dell’ipotenusa è equivalente alla somma dei
quadrati dei cateti.
Se si indicano questi ultimi con a e b, e l’ipotenusa con c,
il teorema prende la forma algebrica
a
c
a2 + b2 = c2
b
Tra i teoremi classici, quello che porta il nome di Pitagora è forse quello che ha avuto più
dimostrazioni differenti. Tra tutte, la più semplice è probabilmente quella schematizzata dalle figure
seguenti.
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Il triangolo rettangolo in questione è uno di quelli in grigio. Il quadrato grande, che ha come lato la
somma dei cateti, nella prima figura è composto di quattro triangoli e dei due quadrati costruiti sui
cateti, mentre nella seconda è formato dagli stessi quattro triangoli disposti diversamente, e del
quadrato dell’ipotenusa. Siccome l’area del quadrato grande e quella dei quattro triangoli è la stessa
nei due casi, anche le aree delle figure che restano (cioè nella prima dei quadrati costruiti sui cateti,
e nella seconda del quadrato sull’ipotenusa) sono uguali.
Come si vede, la dimostrazione è molto facile, e soprattutto evidente: il risultato si vede prima
ancora di cominciare il ragionamento. Bisogna però stare molto attenti prima di accettare per buona
una dimostrazione visiva. A volte la vista può ingannare: quello che sembra un quadrato può essere
invece un rettangolo con i lati quasi uguali; due figure che sembrano uguali in realtà differiscono,
anche se di poco. Molti paradossi geometrici sono costruiti in questo modo.
Nel nostro caso, la dimostrazione è corretta, ma non ancora completa. Occorre infatti dimostrare
che le parti bianche delle due figure sono effettivamente dei quadrati, e precisamente i quadrati sui
cateti nella prima e quello sull’ipotenusa nella seconda. Nella prima figura questo è evidente per
costruzione; nella seconda, il quadrilatero in esame ha tutti i lati uguali all’ipotenusa, e dunque resta
solo da far vedere che i suoi angoli sono retti.
Consideriamo ad esempio quello con il vertice nel
punto A, che insieme ai due angoli grigi con lo stesso
vertice forma un angolo piatto. Ma anche la somma
degli angoli di un triangolo è uguale a un angolo piatto,
e quindi l’angolo bianco col vertice in A è uguale al
terzo angolo del triangolo, che è retto. Allo stesso
modo si dimostra che sono retti gli altri angoli (a rigore
questo non servirebbe, perché un rombo con un angolo
retto è un quadrato), e quindi la figura è un quadrato,
che ha come lato l’ipotenusa.
Una seconda dimostrazione si basa sulla figura seguente:
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La parte bianca insieme ai due triangoli in alto forma il quadrato dell’ipotenusa, mentre insieme ai
due triangoli in basso, uguali ai precedenti, dà i quadrati dei cateti. Naturalmente, anche qui
l’evidenza visiva deve essere accompagnata da una dimostrazione, che ognuno può fare da sé.
Sembra che la dimostrazione precedente sia stata trovata da G. B. Airy, astronomo dell’osservatorio
di Greenwich dal 1836 al 1881, intorno al 1855. Nella parte bianca della figura, Airy scrisse la
poesiola che segue:
Here I am, as you may see,
a2 + b2 – ab.
When two triangles on me stand,
Square of hypotenuse is plann’d;
But if I stand on them instead,
The squares of both sides are read.
la cui traduzione può essere:
Mi presento, signori, eccomi qui:
a2 + b2 – ab.
Coi triangoli sopra, come s’usa
Ecco il quadrato dell’ipotenusa.
Ma se questi di sotto stanno quieti
Si formano i quadrati dei cateti.
La dimostrazione seguente è attribuita al matematico arabo Thabit ibn Qurra (826-901).
A partire dal triangolo rettangolo ABC costruiamo il poligono irregolare ABDGLA aggiungendo al
triangolo i quadrati sui cateti ALHC e CBDE e il rettangolo HCEG. Quest’ultimo è diviso dalla
diagonale GC in due triangoli rettangoli, uguali al triangolo ABC.
Prendiamo ora LI uguale a BC e FD uguale ad AC; anche i triangoli rettangoli ALI e BFD sono
uguali ad ABC. Lo stesso è vero per il triangolo IGF, perché si ha GI=AC e GF=BC.
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Infine, il quadrilatero AIFB ha tutti i lati uguali e l’angolo IAB è retto, essendo uguale all’angolo
LAC (gli angoli LAI e CAB sono uguali e l’angolo IAC è comune); dunque AIFB è il quadrato
costruito sull’ipotenusa AB.
A questo punto la dimostrazione è immediata. Infatti il poligono irregolare ABDGLA si può
scomporre sia nei due quadrati sui cateti e nei tre triangoli uguali ABD, HCG e GCE, sia nel
quadrato sull’ipotenusa e nei tre triangoli (uguali ai primi) FBD, IFG e ILA.
3. Equivalenza ed equiscomponibilità di poligoni.
Ricordiamo che si chiamano equivalenti due poligoni (o più in generale due figure) che hanno la
stessa area. Sempre due figure piane si dicono equiscomponibili se una di esse si può dividere in un
numero finito di parti che ricomposte danno l'altra figura.
È evidente che due figure equiscomponibili sono equivalenti, dato che sono costituite dalle stesse
parti disposte in modo differente. Vogliamo mostrare che per i poligoni vale anche il viceversa: due
poligoni equivalenti, cioè con la stessa area, sono equiscomponibili.
A questo scopo, cominciamo a dimostrare che l'equiscomponibilità è transitiva, cioè che se una
figura A è equiscomponibile con una seconda figura B, e
quest'ultima è equiscomponibile con una terza figura C, allora A
è equiscomponibile con C. Siccome A e B sono
equiscomponibili, si può
dividere A in un certo numero
di parti che ricomposte danno
B. Supponiamo che la
divisione di B sia quella in
figura.
Questi pezzi possono essere ricomposti per formare la figura A
(che non importa mostrare).
Supponiamo ora che la stesa figura B possa essere spezzata (ovviamente in maniera diversa) per
dare una figura C, secondo le linee spesse come mostrato a destra.
Se ora si sovrappongono le due divisioni, si ottiene una
suddivisione della figura B, che può servire sia per comporre la
A (se si opera come se esistessero solo le linee sottili) sia per
ricomporre la C (se si prendono in considerazione solo le linee
grosse). Di conseguenza, partendo dalla A si può ottenere la C
passando prima attraverso la B e poi da questa alla C. Si può
allora concludere che A è equiscomponibile con C.
Osserviamo di passaggio, anche se non ne avremo bisogno nel seguito, che l'equiscomponibilità è
una relazione riflessiva (una figura è equiscomponibile con sé stessa) e simmetrica (se A è
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equiscomponibile con B, allora B sarà equiscomponibile con A). Avendo appena mostrato che è
anche transitiva, ne segue che l'equiscomponibilità è una relazione di equivalenza.
La transitività della relazione di equiscomponibilità è l'ingrediente essenziale per dimostrare che
due poligoni equivalenti sono equiscomponibili. La dimostrazione verrà fatta in sei passi.
1. Un triangolo è equiscomponibile con un parallelogramma con la stessa base e altezza metà.
Dato il triangolo ABC, sia ABDE un parallelogramma con la
stessa base AB e altezza GA metà dell’altezza di ABC, in modo
che CH=GA. I triangoli AGF e FHC hanno gli angoli in F
opposti al vertice (e quindi uguali) e sono rettangoli. Poiché per
costruzione GA=CH, essi hanno due angoli e un lato uguale e
quindi sono uguali. Si ha dunque AF=FC. I triangoli ADF e CEF
hanno gli angoli in F uguali e l’angolo in A uguale all’angolo in
C, dato che hanno i lati paralleli. Inoltre per quanto appena
dimostrato il lato AF è uguale al lato FC, e quindi ADF e FEC
sono uguali.
2. Un rettangolo è equiscomponibile con un parallelogramma che ha la stessa base e la stessa
altezza.
Sia ABCD il rettangolo e sia EAGF il parallelogramma con base EA=AB e altezza AC. Se si
segnano sulla retta CG i punti H e I tali che DH=HI=CD, e si tracciano le rette verticali passanti per
H e I, la figura mostra la scomposizione.
3. Due rettangoli con la stessa area sono equiscomponibili.
Sia ABCD il rettangolo con la base più corta. Prolunghiamo i lati AB e CD, e riportiamo l'altro
rettangolo AGIH in modo che un estremo coincida con A e l'altro cada in G sulla retta CD.
Prolunghiamo il lato HI fino a incontrare la retta AB in E.
I due triangoli rettangoli EAH e FGI sono uguali perché EA=FG e AH=GI, e quindi il
parallelogramma EAGF è equivalente al rettangolo AGIH e dunque al rettangolo ABDC. Poiché
ABDC e EAGF hanno la stessa altezza, dovranno avere anche la stessa base, e quindi EA = FG =
AB.
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Il parallelogramma EAGF ha base EA=AB e altezza AC, e quindi per quanto abbiamo visto sopra è
equiscomponibile con il rettangolo ABCD. D'altra parte lo stesso parallelogramma EAGF ha base
AG e altezza AH come il rettangolo AGIH; sempre per quanto abbiamo dimostrato nel punto
precedente è equiscomponibile con AGIH. I due rettangoli ABCD e AGIH sono dunque
equiscomponibili con lo stesso parallelogramma EAGF, e quindi sono equiscomponibili tra loro.
4. Un triangolo è equiscomponibile con un rettangolo che ha la stessa area e ha come base un
segmento dato AB.
Come abbiamo visto in 1., un triangolo è equiscomponibile con un parallelogramma con la stessa
base e altezza metà. Questo parallelogramma per quanto detto in 2. è equiscomponibile con un
rettangolo con la stessa base e la stessa altezza. Infine per 3. quest’ultimo rettangolo è
equiscomponibile con un rettangolo con la stessa area e base AB. Per la proprietà transitiva, il
triangolo di partenza è equiscomponibile con quest'ultimo rettangolo.
5. Un poligono è equiscomponibile con un rettangolo che ha la stessa area e ha come base un
segmento dato AB.
Un poligono si può dividere in un numero finito di triangoli, ognuno dei quali è equiscomponibile
con un rettangolo di base AB. Mettendo questi rettangoli uno sopra l'altro si ottiene un rettangolo di
base AB, equiscomponibile con il poligono dato.
6. Due poligoni P e Q con la stessa area sono equiscomponibili.
Il poligono P è equiscomponibile con un rettangolo con la stessa area e base AB. Lo stesso si può
dire di Q. Siccome P e Q hanno la stessa area, anche i due rettangoli avranno la stessa area, e dato
che hanno la stessa base avranno la stessa altezza, cioè saranno uguali. Ma allora P e Q sono
equiscomponibili con lo stesso rettangolo, e dunque tra loro.
Ci si può chiedere se un risultato simile valga in tre dimensioni. La risposta non è così semplice, e
questo era il terzo dei 23 problemi enunciati da David Hilbert nella sua conferenza al Congresso dei
Matematici del 1900,e che a suo dire avrebbero impegnato i matematici durante il XX secolo:
Problema 3: Due poliedri con lo stesso volume sono equiscomponibili?
Molti dei problemi enunciati da Hilbert non sono ancora stati risolti; questo invece ha avuto vita
molto breve, essendo stato risolto dopo pochi mesi da uno studente di Hilbert, Max Dehn.
La risposta è no: infatti Dehn ha dimostrato che un cubo e un tetraedro regolare con lo stesso
volume non sono equiscomponibili.
Per far questo, Dehn ha associato a ogni poliedro un numero, ora noto come invariante di Dehn, e
ha dimostrato che se due poliedri sono equiscomponibili allora hanno lo stesso invariante. D’altra
parte lo stesso Dehn ha calcolato gli invarianti del cubo e del tetraedro: il primo è 0 e il secondo no.
Pertanto il cubo e il tetraedro non sono equiscomponibili.
Il teorema di Dehn dice che se due poliedri sono equiscomponibili allora hanno lo stesso volume
(ovvio) e lo stesso invariante. Nel 1963 Jean-Pierre Sydler ha dimostrato che vale anche il
viceversa: se due poliedri hanno lo stesso volume e lo stesso invariante di Dehn allora sono
equiscomponibili.
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4. Figure simili.
1. Il teorema di Pitagora per figure simili.
Nell’enunciato del teorema di Pitagora, i quadrati possono essere sostituiti da altre figure, come ad
esempio triangoli, esagoni, o anche figure irregolari, purché simili tra loro.
Le figure simili sono quelle che differiscono solo per grandezza, ma non per forma. In altre parole,
due figure simili sono l’una l’ingrandimento dell’altra. Ad esempio, le due stelle a cinque punte
sono simili, mentre non sono simili una stella a cinque punte e una a quattro punte.
l
L
Analogamente, sono simili due triangoli con i latri doppi l’uno dell’altro, mentre non lo sono quelli
in figura
perché in questo caso l’ingrandimento si fa in una sola direzione. Osserviamo che tutti i quadrati
sono simili tra loro, come pure tutti i cerchi e tutti i poligoni regolari con lo stesso numero di lati.
Una proprietà delle figure simili, che spiega perché si possono sostituire ai quadrati nel teorema di
Pitagora, è che le loro aree sono proporzionali ai quadrati di segmenti corrispondenti. Ad esempio,
nel caso delle stelle a cinque punte, l’area è proporzionale al quadrato della distanza tra due punte
consecutive; in formule
A = kL2 .
(Naturalmente, invece che la distanza tra due punte si sarebbe potuto prendere un lato l della stella;
in questo caso si avrebbe A = h l 2 , con una costante h diversa da k).
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Se ora prendiamo un triangolo rettangolo, e adattiamo tre stelle ai suoi tre lati, come nella figura,
a
c
b
l’area della stella sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree sui cateti.
Infatti per il teorema di Pitagora si ha a2 + b2 =c2 , e moltiplicando per k, avremo k a2 + k b2 = k
c2 . Ma per quanto appena detto, le quantità k a2 , k b2 e k c2 sono le aree delle tre stelle, e quindi
l’area della stella sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree di quelle sui cateti.
L’osservazione precedente è alla base di un’elegante dimostrazione del teorema di Pitagora. Basta
osservare che i triangoli ABC e ADB nella figura sono simili, essendo rettangoli e avendo in
comune l’angolo in A. Per la stessa ragione risultano simili i triangoli ABC e BDC, e quindi i tre
triangoli sono figure simili.
Poiché il triangolo ABC è composto dagli altri due, la sua area è la somma delle aree di questi
ultimi:
area (ABC) = area (ABD) + area (BDC).
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Siccome i triangoli sono simili, le loro aree sono proporzionali ai quadrati delle loro ipotenuse, e
quindi
k AC2 = k AB2 + k BC2
e dividendo per k si trova
AC2 =AB2 +BC2 ,
cioè il teorema di Pitagora.
2. Le lunule di Ippocrate.
Un caso interessante è quando le figure simili sono semicerchi. Ancora una volta la somma dei
semicerchi sui cateti è uguale al semicerchio sull’ipotenusa
Se ora ribaltiamo quest’ultimo, e togliamo sia al semicerchio grande che ai due piccoli le parti più
scure in comune, le figure che restano, cioè il triangolo e le due figure gialle a forma di luna (che si
chiamano lunule, dal latino lunulae, piccole lune), avranno area uguale.
Se poi il triangolo è isoscele, una
lunula è uguale a mezzo triangolo.
Questo è il primo caso storicamente
accertato (la dimostrazione è
attribuita a Ippocrate di Chio) in cui
si è dimostrato che una figura
rettilinea (il triangolo) è uguale a
una curvilinea (la lunula).
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5. Parallelogrammi e trapezi.
Il teorema di Pitagora si può enunciare anche in una forma un po’ diversa: La somma dei quadrati
della base e dell’altezza di un rettangolo è uguale al quadrato della diagonale. Infatti la diagonale
di un rettangolo è l’ipotenusa del triangolo rettangolo che ha come cateti la base e l’altezza. Se poi
prendiamo ogni quadrato due volte, avremo che
La somma dei quadrati dei lati di un rettangolo è uguale alla somma dei quadrati delle
diagonali.
Lo stesso risultato vale anche per un parallelogramma non rettangolo.
Consideriamo il parallelogramma ABCD. Per il teorema di Pitagora applicato al triangolo
rettangolo BED, il quadrato della diagonale BD è uguale alla somma dei quadrati di ED e di BE,
colorati in verde e giallo. Analogamente, il quadrato della diagonale AC è uguale al quadrato rosso
più quello multicolore. La somma delle aree dei quadrati delle diagonali è allora uguale a quella
delle aree dei quattro quadrati disegnati nella prima figura.
La seconda figura è ottenuta dalla prima spostando alcuni pezzi senza cambiare l’area complessiva,
e quindi la somma delle area dei quattro quadrati della prima figura (che era uguale alla somma dei
quadrati delle diagonali) è uguale a quella dei sei quadrati della seconda. D’altra parte, sempre per il
teorema di Pitagora, i due quadrati rossi sono uguali al quadrato del lato CD, e i due verdi al
quadrato del lato AC, e dunque la somma delle aree dei sei quadrati è uguale a quella dei quadrati
dei lati. Possiamo allora concludere che
In un parallelogramma la somma delle aree dei quadrati delle diagonali è uguale alla
somma delle aree dei quadrati dei quattro lati.
Un risultato simile vale anche per i trapezi:
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La somma delle aree dei quadrati dei lati è uguale alla somma delle aree dei quadrati
delle diagonali, più il quadrato della differenza tra la base maggiore e la minore.
In questo caso la migliore dimostrazione è quella per via
algebrica. Riferendoci alla figura che segue, dobbiamo
dimostrare che
L2 + l2 + B2 + b2 = D2 + d2 + (B - b)2 .
Cominciamo applicando il teorema di Pitagora ai
triangoli di lati h, q, L e h, p, l. Si ha:
h2 + q2 =L2
h2 + p2 = l2
Analogamente, applicando il teorema di Pitagora ai triangoli di lati h, D, b + q e h, d, b + p, risulta:
D2 = (b + q)2 + h2 = b2 +q2 + 2bq + h2 = b2 +L2 + 2bq
d2 = (b + p)2 + h2 = b2 +p2 + 2bp + h2 = b2 +l2 + 2bp
e sommando
D2 + d2 = L2 + l2 + 2b (b + p+ q) = L2 + l2 + 2bB.
Osserviamo per inciso che quest’ultima formula, tradotta in termini geometrici, dice che
In un trapezio, la somma dei quadrati delle diagonali è uguale alla somma dei quadrati
dei lati non paralleli, più due volte il rettangolo delle basi.
Per arrivare al risultato voluto, facciamo uso della formula (B - b)2 = B2 + b2 – 2Bb, ossia
2Bb = B2 + b2 – (B - b)2 , che introdotta nella
precedente, dà
D2 + d2 = L2 + l2 + B2 + b2 – (B - b)2 ,
che è quello che si voleva dimostrare.
Nel caso di un trapezio rettangolo, si può dare una
rappresentazione visiva molto semplice. Nella figura
che segue, applicando il teorema di Pitagora ai
triangoli ABC ed ABD, abbiamo che la somma dei
quadrati delle diagonali è uguale ai quattro quadrati
disegnati. Di questi, i tre gialli sono i quadrati dei lati
rispettivi, mentre il quadrato del lato CD si ottiene
aggiungendo a quello verde il quadrato di DE, cioè
della differenza delle basi.
Se dunque ai quadrati delle diagonali si aggiunge
quello della differenza delle basi, si ottiene la somma
dei quadrati dei lati.
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6. Il teorema di Pitagora e i teoremi di Euclide.
Ricordiamo gli enunciati di questi teoremi:
Teorema di Pitagora: In un triangolo rettangolo, i due quadrati costruiti sui cateti sono equivalenti
al quadrato sull’ipotenusa.
Teorema di Euclide I: In un triangolo rettangolo, il quadrato su un cateto è equivalente al
rettangolo che ha come lati l’ipotenusa e la proiezione del cateto sull’ipotenusa.
In realtà negli Elementi di Euclide non
c’è un teorema a sé con questo
enunciato; il risultato viene provato nel
corso della dimostrazione del teorema
di Pitagora. In effetti, una volta
dimostrato il teorema di Euclide, quello
di Pitagora segue immediatamente.
Infatti per il teorema di Euclide il
quadrato ABGF è equivalente al
rettangolo AILM, il quadrato BCDE è
equivalente al rettangolo ICNL, e
quindi la somma dei quadrati ABGF e
BCDE è equivalente alla somma dei
rettangoli AILM e ICNL, e dunque al
quadrato ACNM.
Dal primo teorema di Euclide (e dal
teorema di Pitagora che ne consegue)
segue un secondo teorema di Euclide:
Teorema di Euclide II: In un triangolo rettangolo, il
quadrato sull’altezza relativa all’ipotenusa è
equivalente al rettangolo che ha come lati le
proiezioni dei cateti sull’ipotenusa.
La dimostrazione è molto semplice: per il primo
teorema di Euclide il quadrato ABGF è equivalente
al rettangolo AILM. D’altra parte per il teorema di
Pitagora, il quadrato ABGF è equivalente ai due
quadrati BEDI e AIPN. Ma allora i due quadrati
BEDI e AIPN sono equivalenti al rettangolo AILM,
e tolto il quadrato AIPN in comune, il quadrato
BEID è equivalente al rettangolo NPLM, che ha
come lati NP = AI (proiezione del cateto AB
sull’ipotenusa) e NM=AM–AN=AC–AI=IC,
proiezione del cateto BC sull’ipotenusa.
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I due teoremi di Euclide si possono derivare ambedue dal solo teorema di Pitagora. Vediamo come.
Applicando il teorema di Pitagora al triangolo ABI, avremo
ABGF ≈ AIPN + BEDI
(abbiamo indicato con ≈ l’equivalenza).
Sempre dal teorema di Pitagora applicato al
triangolo BIC abbiamo
BCTS ≈ BEDI + ICRQ
e quindi
ABGF + BCTS ≈ AIPN + ICRQ + 2 BEDI
D’altra parte
ACUM ≈ AIPN + ICRQ + NPLM + QRUL
e siccome i due rettangoli NPLM e QRUL sono
uguali
ACUM ≈ AIPN + ICRQ + 2 NPLM.
Per il teorema di Pitagora applicato al triangolo
ABC avremo ACUM ≈ ABGF + BCTS e quindi
AIPN + ICRQ + 2 BEDI ≈ AIPN + ICRQ + 2
NPLM
da cui segue che BEDI ≈ NPLM, che è il secondo teorema di Euclide. Quanto al primo, basta
ricordare che ABGF ≈ AIPN + BEDI e tener conto del secondo teorema di Euclide appena
dimostrato. Si ha allora
ABGF ≈ AIPN + NPLM ≈ AILM
e cioè il primo teorema di Euclide.
7. Un triangolo non rettangolo.
1. Il teorema di Pappo e i teoremi di Euclide e di Pitagora.
Nella Collezione Matematica di Pappo, un matematico greco del V secolo d. C., troviamo la
seguente costruzione, valida anche se il triangolo ABC non è rettangolo. Su uno dei lati AB
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costruiamo un parallelogrammo qualsiasi ABGF, sul cui lato FG prolungato prendiamo a piacere un
punto H. Tiriamo la retta HB, che prolungata incontra il lato AC in I. Preso il segmento IL uguale
ad HB, costruiamo il parallelogramma AILM. Questo parallelogramma è equivalente ad ABGF.
Per dimostrarlo, prolunghiamo il lato AM
fino ad incontrare FH in P. Il
parallelogramma ABGF è equivalente ad
ABHP, dato che hanno la stessa base AB e
stanno tra le parallele AB e FH. Per lo stesso
motivo ABHP è equivalente a AILM, dato
che la base HB è uguale a IL per costruzione,
e stanno tra le parallele HL e MP. Di
conseguenza, i parallelogrammi ABGF e
AILM sono equivalenti.
Il teorema di Pappo contiene come caso
particolare il teorema di Euclide. Infatti
supponiamo che l’angolo ABC sia retto, che
il parallelogramma ABGF sia un quadrato, e
prendiamo il punto H in modo che la retta
HB sia perpendicolare ad AC. Allora l’angolo
GHB è uguale all’angolo ACB (hanno i lati a
due a due perpendicolari), gli angoli HGB e
ABC sono retti e inoltre i segmenti AB e BG
sono uguali (perché ABGF è un quadrato). I due
triangoli HGB e ABC sono allora uguali, e
dunque HB è uguale ad AC. Ma per costruzione
IL=HB e quindi IL=AC. Per il teorema di Pappo
il quadrato ABGF sul cateto AB è uguale al
rettangolo AILM, che ha come lati l’ipotenusa
AC e la proiezione AI di AB sull’ipotenusa.
Torniamo al teorema di Pappo. Se si
costruiscono due parallelogrammi, uno per
ciascuno dei due lati, e se come punto H si
prende quello in cui si incontrano i
prolungamenti dei lati FG e DE, tirando la retta
HB e completando la costruzione di Pappo da
entrambi i lati, viene a determinarsi il
parallelogrammo ACNM, costruito sulla base
AC e con il lato AM uguale e parallelo al
segmento HB. Il teorema di Pappo ci dice allora
che la sua area è uguale alla somma delle aree
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dei parallelogrammi di partenza.
In questa versione, il teorema di Pappo è una
generalizzazione del teorema di Pitagora, che si ritrova nel
caso particolare in cui il triangolo sia rettangolo e i due
parallelogrammi dei quadrati.
Infatti in questo caso il segmento HI è perpendicolare ad
AC, come si può dimostrare avvalendosi della figura
accanto.
Il rettangolo HEBG è uguale al rettangolo ABCT, dato che
per costruzione HE=AB e BE=BC: Ma allora i triangoli
HEB ed ABC, ognuno metà del rispettivo rettangolo,
saranno anch’essi uguali, e in particolare saranno uguali gli
angoli IHE e CAE. Dato che HE è perpendicolare ad AE,
anche HI sarà allora perpendicolare ad AC.
Possiamo allora applicare il teorema di Euclide ai due
quadrati ABGF e BCDE, e ottenere il teorema di Pitagora.
2. Un piccolo approfondimento.
Dal teorema di Pappo segue che in un triangolo acutangolo il quadrato sul lato maggiore
(l’ipotenusa nel caso del triangolo rettangolo) è minore della somma dei quadrati degli altri due lati
(i cateti, se il triangolo è rettangolo). E se il triangolo è ottusangolo il quadrato sarà maggiore.
18
Prendiamo un triangolo acutangolo ABC, di cui
AC è il lato maggiore. Dal vertice B tiriamo la
perpendicolare BI ad AC e sul suo
prolungamento prendiamo il punto H in modo
che HB=AC. Da H tiriamo HF parallela ad AB
e HD parallela a BC, e costruiamo i rettangoli
ABGF e BCDE. Per il teorema di Pappo, essi
saranno equivalenti rispettivamente ai rettangoli
AILM e ICNL, e quindi insieme saranno
equivalenti al quadrato ACNM.
A questo punto chiediamoci: il rettangolo
BCDE sarà maggiore o minore del quadrato su
BC? Per rispondere tiriamo AQ perpendicolare
a BC. Poiché l’angolo γ è acuto, il punto Q
cadrà tra C e B. I triangoli AQC e HEB sono
uguali; infatti sono rettangoli con HB=AC, e
inoltre gli angoli EHB e ACQ sono uguali
avendo i lati perpendicolari. Ne deriva che
BE=CQ<BC, e quindi il rettangolo BCDE è
minore del quadrato su BC. Analogamente si
dimostra che il rettangolo ABGF è minore del
quadrato su AB, e quindi il quadrato sul lato
maggiore AC è minore della somma dei
quadrati sugli altri due lati.
Se invece l’angolo γ è ottuso il punto Q cade fuori del segmento BC e dunque BE risulterà
maggiore del lato BC e il rettangolo BCDE maggiore del quadrato su BC. Di conseguenza il
quadrato sul lato AC sarà maggiore della somma dei quadrati sugli altri due.
Usando un po' di trigonometria è possibile scrivere di quanto il quadrato su un lato si discosta dalla
somma degli altri due.
Poiché CQ = BC −BQ = b – a cos γ, l’area del rettangolo BCDE sarà b(b – a cos γ). In modo
analogo si trova che l’area del rettangolo ABGF è a(a – b cos γ). Dunque, per il teorema di Pappo,
abbiamo c2 = a(a − b cos γ) + b(b − a cos γ) ossia
c2 = a2 + b2 − 2ab cos γ,
un risultato noto come teorema di Carnot.
8. La diagonale del quadrato e gli irrazionali.
1. L’incommensurabilità del lato e della diagonale del quadrato.
Una delle scoperte più importanti della scuola pitagorica è senza dubbio quella
dell’incommensurabilità del lato e della diagonale del quadrato.
19
Due segmenti L e D sono commensurabili quando hanno un sottomultiplo comune, cioè quando L e
D sono multipli di uno stesso segmento H:
L = m H,
D=nH
con m e n interi.
I pitagorici scoprirono che se L è il lato e D la diagonale di un quadrato, questa relazione è
impossibile. Quale fosse il loro ragionamento non si sa; tra quelli proposti, due sembrano
particolarmente semplici, uno più geometrico, l’altro algebrico.
Il primo si basa sul fatto che se due segmenti L e D sono commensurabili, e L < D < 2L, allora
sono commensurabili anche D – L e 2L – D. Infatti si ha
D – L = (n – m) H , 2L – D = (2m – n) H
e quindi anche D – L e 2L – D hanno H come sottomultiplo.
Supponiamo ora per assurdo che il lato L e la
diagonale D di un quadrato siano commensurabili,
e sia H un sottomultiplo comune. Dividiamo in
due parti uguali l’angolo ABP, e dal punto E
tiriamo la perpendicolare EF alla diagonale. I due
triangoli ABE e BEF sono uguali (sono rettangoli,
hanno gli angoli in B uguali, e il lato BE comune);
quindi BF = AB = L, e PF = D - L. Il triangolo
PEF è isoscele (infatti l’angolo EPF è di 45
gradi), e dunque si ha AE = EF = FP = D - L, ed
EP = L – (D – L) = 2L - D.
Completiamo ora il quadrato EFPG. Siccome
avevamo supposto che il lato L e la diagonale D
avessero un comune sottomultiplo H, anche il lato
EF = D – L e la diagonale EP = 2L – D del
quadrato piccolo avranno lo stesso sottomultiplo
H.
Se ripetiamo in questo quadrato la costruzione che abbiamo fatto nel precedente, otteniamo un
nuovo quadrato, ancora più piccolo, il cui lato e la cui diagonale hanno ancora H come
sottomultiplo. Continuando sempre nello stesso modo, otteniamo dei quadrati sempre più piccoli,
tutti però con il lato e la diagonale che hanno H come sottomultiplo comune.
Ma questo non è possibile, perché il lato e la diagonale diventano sempre più piccoli, e dopo un
certo numero di passi finirebbero per diventare minori di H, cioè di un loro sottomultiplo. Siamo
dunque arrivati a un assurdo, e quindi il lato e la diagonale di un quadrato non possono essere
commensurabili.
2. Una dimostrazione algebrica.
20
Una seconda dimostrazione, di tipo più algebrico, è probabilmente quella evocata da Aristotele
quando dice
Una dimostrazione di questo tipo, ad esempio, è quella che stabilisce l'incommensurabilità della
diagonale [e del lato del quadrato], che si fonda sul fatto che se si suppone che siano commensurabili, i
numeri dispari risultano uguali ai numeri pari.
Per preparare il campo, osserviamo che due lati consecutivi e la diagonale di un quadrato formano
un triangolo rettangolo, e quindi si ha
D2 = L2 + L2 = 2 L2 .
Supponiamo ora che D e L siano commensurabili, e cioè che risulti L = m H e D = n H. Si
avrebbe allora n2 H2 = 2 m2 H2 , e quindi
n2 = 2 m2 .
Nell’equazione precedente possiamo eliminare tutti i fattori comuni a m e a n (se ce ne sono), e
quindi possiamo supporre che m e n siano primi tra loro, cioè non abbiano fattori comuni. In
particolare, non possono essere ambedue pari.
Osserviamo ora che n2 è pari, dato che è uguale a 2 m2 che è pari, e quindi n è pari e m è
dispari. Si può allora scrivere n = 2 p, e pertanto, essendo n2 = 4 p2 , dall’equazione precedente si
ricava 4 p2 = 2 m 2 , e dividendo per 2:
2 p2 = m 2 .
Ragionando come sopra, avremo allora che m 2 è pari, e dunque anche m è pari. Questo è assurdo,
perché m era dispari.
Possiamo rivedere questo risultato da un punto di vista leggermente diverso, osservando che
abbiamo dimostrato che l’equazione n2 = 2 m2 non ha nessuna soluzione in numeri interi, ovvero
che non esistono due interi m e n tali che n2 /m2 = 2. Estraendo la radice quadrata, possiamo
concludere che non esiste nessuna frazione n/m uguale alla radice di 2.
I numeri che si possono esprimere per mezzo di frazioni si chiamano razionali; quelli che non sono
uguali a nessuna frazione si dicono irrazionali. Possiamo allora affermare che √2 è un numero
irrazionale.
3. Un’altra dimostrazione algebrica.
Un’altra dimostrazione, sempre a carattere algebrico, fa uso del fatto che ogni numero intero o è
primo o può essere scritto in un solo modo come prodotto di numeri primi. Ad esempio 5 è primo,
mentre 30 si può scrivere come 2×3×5, e questa decomposizione è la sola possibile (a parte l’ordine
dei fattori).
Prendiamo ora un numero intero N. Se N è un quadrato perfetto, cioè se esiste un intero n tale che
N=n2, allora N conterrà esattamente tutti i fattori primi di n, ognuno due volte. In altre parole, ogni
fattore primo di N compare un numero pari di volte. Viceversa, se ciò avviene, N è un quadrato
21
perfetto; basta infatti prendere come n il prodotto di tutti i fattori primi diversi di N, presi ognuno la
metà delle volte che compare in N.
Ciò premesso, possiamo dimostrare che se N non è un quadrato perfetto, allora la sua radice è un
numero irrazionale.
Supponiamo per assurdo che la radice di N sia il numero razionale a/b, ovvero che sia N2 b2 = a2.
Siccome a2 e b2 sono quadrati perfetti, e quindi ogni loro fattore primo compare un numero pari di
volte. Invece per ipotesi N non è un quadrato perfetto, e quindi avrà sarà almeno un fattore primo
che compare un numero dispari di volte. Questo fattore comparirà un numero dispari di volte anche
nel prodotto Nb2 (come si è detto, in b i fattori vanno a coppie). Ma allora deve comparire un
numero dispari di volte anche in a2, e questo è assurdo, perché a2 è un quadrato perfetto.
Non è escluso che la frase di Aristotele riportata sopra si riferisse a una dimostrazione di questo
tipo.
9. La scala musicale pitagorica e altre scale.
1. Le consonanze.
La scoperta delle leggi matematiche che regolano le consonanze musicali è attribuita
concordemente dalle fonti antiche a Pitagora e alla sua scuola. Benché le fonti parlino di vasi con
acqua a diversi livelli o di dischi di diverso spessore, è molto probabile che gli studi che hanno
portato alla formazione della scala musicale siano stati eseguiti su
un monocordo, un semplicissimo strumento con una sola corda,
mantenuta tesa ad esempio mediante l’applicazione di un peso.
Pizzicando la corda, si otterrà un suono, una nota, che dipende dal
materiale e dal diametro della corda, dalla tensione a cui è sottoposta
e dalla sua lunghezza. Vogliamo vedere cosa succede se, lasciando
inalterato tutto il resto (materiale, diametro e tensione) facciamo
variare la lunghezza della corda.
Il nostro punto di riferimento sarà un monocordo di lunghezza L,
che come si è detto quando viene pizzicato emette una certa nota.
Costruiamo ora un secondo monocordo di lunghezza l<L, e
facciamoli suonare insieme. Normalmente quello che si sente è un
suono piuttosto disarmonico, una dissonanza. Questo quasi sempre. Ma per certe lunghezze,
avviene al contrario che i due suoni si accordino insieme molto bene e producano un risultato
piacevole, una consonanza.
Ad esempio, questo avviene quando la corda più corta è esattamente la metà della più lunga. In
questo caso le due corde producono essenzialmente lo stesso suono, solo quello emesso dalla corda
più corta è più alto: si tratta della stessa nota nell’ottava superiore. Questa è la prima osservazione,
che è alla base non solo della scala pitagorica, ma di tutte le scale musicali escogitate dai vari
popoli: due corde le cui lunghezze stiano nel rapporto 2:1 emettono lo stesso suono in due ottave
22
consecutive1. Di conseguenza è possibile limitarsi a considerare una sola ottava (cioè i suoni
prodotti da corde di lunghezza compresa tra L/2 e L) perché poi i suoni si ripetono, più alti o più
bassi a seconda se le lunghezze sono minori di L/2 o maggiori di L.
Il secondo passo è quasi immediato: visto che il rapporto 2:1 produce una consonanza (addirittuta
suonano all’unisono, cioè producono la stessa nota) cosa succede se prendo altri rapporti? Si può
pensare a rapporti molto semplici; ad esempio 3:2 o 4:3. Un esperimento mostra che le note
prodotte sono diverse, ma ognuna di esse, suonata insieme alla principale, dà ancora una
consonanza. Sono quelli che si chiamano intervallo di quinta (3:2) e di quarta (4:3). Questi intervalli
sono alla base della scala pitagorica, e a questi intervalli fanno riferimento tutte le fonti antiche2.
Qui conviene fare una prima osservazione. I rapporti di cui parliamo sono sempre del tipo L/l, dove
L è la lunghezza el nostro monocordo di riferimento, che rimane sempre fissa, e l è quella variabile
delle varie corde corrispondenti alle diverse note, quest’ultima sempre compresa tra L/2 e L. Si
tratta sempre di rapporti compresi tra 1 e 2; più corta è la corda (e quindi maggiore è il rapporto
L/l), più acuto il suono che produce. Noi sappiamo –ma questo lo sapeva anche Pitagora– che il
suono è connesso con le vibrazioni della corda; inoltre –e questo Pitagora non lo sapeva– il suono è
tanto più acuto quanto maggiore è il numero di vibrazioni che la corda fa in un secondo, o più
precisamente la frequenza delle vibrazioni. Se la corda di riferimento ha una certa frequenza ν (cioè
se fa ν vibrazioni al secondo), quella di lunghezza metà (che suona la stessa nota nell’ottava
superiore) ha frequenza 2ν, mentre la frequenza della quinta è 3ν/2 e quella della quarta 4ν/3. In
altre parole, i rapporti 2:1, 3:2, 4:3 tra la lunghezza della corda di riferimento e quelle delle corde
che danno l’ottava, la quinta e la quarta sono anche i rapporti tra le frequenze di queste note e quella
della nota di riferimento: la frequenza di una nota è inversamente proporzionale alla lunghezza della
corda che la produce.
[Qui, volendo, si può parlare della proporzionalità diretta e inversa e delle loro rappresentazioni
grafiche]
2. La scala pitagorica.
Ma torniamo alla nostra scala e alle sue note, che finora, se non contiamo come diverse note che
differiscono per un’ottava, sono solo tre. E con tre sole note si fa poca musica. Si può però provare
a ripetere quello che si è fatto. Se un intervallo di quinta è gradevole, cosa succede se faccio la
quinta di una quinta? Più precisamente, siccome un intervallo di quinta corrisponde a prendere una
corda lunga i 2/3 della fondamentale, che emette cioè una nota di frequenza 3/2 ν, un secondo
intervallo di quinta produrrà una nota di frequenza 3/2 × 3/2 ν, cioè 9/4 ν. Ma 9/4 è maggiore di 2, e
quindi per riportarsi all’ottava prescelta (quella con le lunghezze tra L/2 e L) occorrerà prendere la
metà, cioè 9/8 ν. Allo stesso modo, potremo fare la quarta di una quarta, che corrisponde a una
frequenza 4/3 × 4/3 ν = 16/9 ν, un valore buono perché sta tra ν e 2ν. Ecco dunque inserite due
nuove note, che con le altre vanno a formare una prima scala a cinque note, o pentatonica.
E se faccio la quarta di una quinta? Dovrò moltiplicare 3/2 × 4/3 ν = 2ν, che non è una nuova nota,
ma è quella fondamentale nell’ottava superiore. Questo è da notare: componendo un intervallo di
quarta con uno di quinta (o che è lo stesso, un intervallo di quinta con uno di quarta) si ottiene un
intervallo di ottava.
1
Naturalmente, a parità di tutto il resto: tensione, materiale e diametro della corda. Questo lo daremo sempre per
scontato e non lo ripeteremo più.
2
Si veda il pannello 11: Armonie.
23
Possiamo riassumere quello che abbiamo detto nello schema qui sotto. I numeri in alto
corrispondono alle frequenze, che abbiamo diviso tutte per quella fondamentale ν che rimane
sempre fissa. In basso abbiamo riportato le note corrispondenti, che volendo si possono suonare sul
pianoforte, cominciando dal RE3.
Se si vogliono aggiungere altre note, si può introdurre la quinta del MI, moltiplicando 9/8 × 3/2 =
27/16 e la quarta del DO: 16/9 × 4/3 = 64/27. Siccome questo numero è maggiore di 2 si divide per
2, ottenendo 32/27. Con queste due nuove note si completa la scala pitagorica diatonica (di sette
note).
La figura qui accanto mostra un'ottava del pianoforte dal
RE al RE superiore. Da notare che tra il MI e il FA, come
anche tra il SI e il DO, non ci sono tasti neri. Questo
corrisponde al fatto che questi due intervalli sono dei
semitoni. Gli altri intervalli sono dei toni, e tra loro sono
stati successivamente aggiunte delle note intermedie, che
vengono chiamate aggiungendo il termine diesis alla nota
precedente o il termine bemolle alla successiva. Ad
esempio tra il RE e il MI c'è una nota che si può chiamare
RE diesis o MI bemolle. Possiamo ora dire perché gli intervalli si chiamano di ottava, di quinta o di quarta. Si tratta di
termini utilizzati già nella Grecia classica, dove si chiamavano diapason, diapente e diatesseron,
che vogliono dire “attraverso tutto”, “attraverso cinque” e “attraverso quattro”. Infatti nella scala
diatonica per andare da una nota all’ottava adiacente si “attraversano” tutte le note, per un intervallo
di quinta se ne attraversano cinque (contando quella di partenza e quella di arrivo), mentre per la
quarta se ne passano quattro. Da notare che non tutti gli intervalli di quinta (né tutti quelli di quarta)
sono uguali. Ad esempio l’intervallo MI-SI, (cioè il rapporto tra la frequenza del SI e quella del MI)
è 27/16 : 9/8 = 3/2, come 3/2 vale anche l’intervallo DO-SOL, cioè il rapporto tra la frequenza del
SOL (preso nell’ottava superiore) e quella del DO. E così valgono 3/2 tutti gli intervalli di quinta,
ad eccezione di SI-FA, che vale 64/27 : 27/16 = 1024/729 ≈ 1,4, sostanzialmente minore di 1,5 che
è il valore degli altri. Corrispondentemente (si ricordi che componendo una quinta con una quarta si
ottiene un’ottava) le quarte valgono tutte 4/3, con l’eccezione di FA-SI, che vale 27/16 : 32/27 =
729/512 ≈ 1,42, maggiore del valore 1,33 delle altre quarte.
3
Questo in modo da usare solo i tasti bianchi. Se avessimo cominciato, come si usa, dal DO, avremmo dovuto utilizzare
anche i tasti neri.
24
Questo è dovuto al fatto che gli intervalli (cioè i rapporti delle frequenze) tra due note consecutive
non sono tutti uguali, come si può vedere nello schema qui sotto:
Tra due note consecutive ci sono dunque di due tipi di intervalli: un tono, che corrisponde a un
rapporto di 9/8, e un semitono, che vale 256/243. Si vede allora da dove viene l'anomalia
dell'intervallo di quinta SI-FA: è composta da due semitoni (SI-DO e MI-FA) e due toni (DO-RE e
RE-MI); tutti gli altri intervalli di quinta contengono tre toni e un solo semitono.
3. Una digressione: i logaritmi.
Se si guarda alla distribuzione delle note sulla scala, si vede che segmenti che corrispondono a
intervalli uguali sono tutti diversi tra loro. Ad esempio, il segmento DO-RE è molto più grande del
segmento RE-MI, anche se ambedue corrispondono all'intervallo di un tono; il semitono SI-DO è
quasi uguale al tono RE-MI. Questo dipende dal fatto che l'intervallo tra due note è il rapporto, e
non la differenza tra le rispettive frequenze; di conseguenza i segmenti che intercorrono tra due note
diventano sempre più grandi via via che si sale con le frequenze. Se si vuole avere una
rappresentazione fedele, in cui a intervalli uguali corrispondano segmenti uguali, bisogna riportare
sulla scala non le frequenze (come abbiamo fatto) ma i loro logaritmi. Infatti si ha
log
v1
= log v1 − log v 2
v2
e quindi se l'intervallo tra due note è ad esempio un tono (il che corrisponde a un rapporto
v1/v2=9/8) il segmento corrispondente è sempre lungo log 9 – log 8, indipendentemente da dove le
note corrispondenti sono situate. Di conseguenza tutti i segmenti corrispondenti agli intervalli di un
tono sono uguali e valgono all'incirca 0,05, mentre quelli corrispondenti a un semitono valgono
pressappoco 0,0234. La figura seguente (nella quale i logaritmi sono stati moltiplicati per 1000)
mostra la posizione delle note5:
4
Per calcolare questi valori abbiamo usato i logaritmi a base 10. Se avessimo preso un'altra base A, dato che risulta
logA x = logA 10 log10 x
tutti i logaritmi (e di conseguenza le lunghezze dei segmenti) sarebbero stati moltiplicati per lo stesso fattore logA 10,
che corrisponde a un cambio di scala.
5
Abbiamo fatto cominciare la scala da 0; naturalmente se si vuole che i numeri rappresentino i logaritmi delle
frequenze (moltiplicati per mille) bisogna aggiungere a tutti il logaritmo della frequenza del RE di base, anch'esso
moltiplicato per mille.
25
4. La scala tolemaica.
La scala pitagorica è stata costruita per quinte e quarte, a partire dai due rapporti fondamentali 3/2 e
4/3. Ci sono però altri modi per intercalare altre note tra le tre fondamentali RE, SOL, LA, o se si
vuole di costruire la scala diatonica a partire dagli intervalli di quarta e di quinta. Uno di questi, che
soppiantò quello pitagorico, è dovuto a Claudio Tolomeo, uno scienziato alessandrino del secondo
secolo d. C., noto soprattutto per le sue opere astronomiche e per aver dato il nome al sistema
tolemaico.
Il punto di partenza di Tolomeo è l'introduzione di un nuovo intervallo accanto a quelli classici di
quarta e di quinta: quello che oggi è noto come intervallo di terza maggiore, che corrisponde a un
rapporto di frequenze 5:4. Abbiamo così quattro note; le altre tre si ottengono componendo due
quinte (e si ottiene il rapporto 9/8, lo stesso della scala pitagorica), la terza maggiore con la quarta
(cioè 5/4 × 4/3 = 5/3) e la terza maggiore con la quinta (5/4 × 3/2 = 15/8). Quest'ultimo intervallo è
preferito a 16/9, ottenuto componendo due quarte. La figura qui sotto mostra gli intervalli nella
scala tolemaica.
Il vantaggio più evidente di quest'ultima rispetto alla scala pitagorica è che gli intervalli sono
rapporti di numeri molto piccoli. C'è un leggero svantaggio, che si vede quando si calcolano gli
intervalli tra due note consecutive.
Abbiamo tre diversi intervalli: due, 9/8 e 10/9, sono quasi uguali tra loro (l'intervallo tra i due è
81/80) e considerevolmente più grandi del terzo 16/15. Invece di un tono ci sono dunque due toni, il
tono maggiore 9/8 e il tono minore 10/9, ai quali si aggiunge un semitono 16/15. La successione dei
toni e dei semitoni è spostata rispetto alla scala pitagorica: in questa avevamo la sequenza
TsTTTsT,
mentre nella scala tolemaica, indicando con M il tono maggiore e con m il minore, si ha
MmsMmMs.
Se non ci curiamo della differenza tra il tono maggiore e minore, si passa dalla scala pitagorica alla
tolemaica semplicemente prendendo l'ultima nota DO (non RE, che è semplicemente la prima
nell'ottava superiore) e mettendola all'inizio. Questo naturalmente se vogliamo suonare solo con i
tasti bianchi. la successione delle note sarà allora quella familiare che comincia dal DO, come nella
figura che segue:
26
5. La scala temperata.
Nella scala pitagorica un tono vale 9/8 = 1,125 e un semitono 256/243 ≈ 1,053. Componendo due
semitoni si ottiene 1,053 × 1,053 ≈ 1,11, minore di un tono. Al contrario, nella scala tolemaica il
tono maggiore vale sempre 9/8 = 1,125, il minore 10/9 = 1,11, mentre il semitono è 16/15 ≈ 1,067 e
componendone due si ottiene circa 1,138, più grande del tono maggiore 9/8. In effetti, quello che si
perde introducendo due toni minori viene riguadagnato dai semitoni, che risultano cos' maggiori del
dovuto.
D'altra parte non è possibile dividere un tono in due semitoni razionali uguali. Infatti per farlo si
dovrebbe trovare una frazione a/b tale che (a/b)2 = 9/8. Ma allora risulterebbe 8a2 = 9b2, e quindi si
avrebbe 2=9b2/4a2, e dunque
2=
3b
.
2a
La radice di 2 sarebbe dunque un numero razionale, mentre già i pitagorici avevano dimostrato che
questo non era possibile (vedi la scheda sull’incommensurabilità). In modo simile si dimostra che
non si può dividere il tono minore 10/9 in due semitoni razionali uguali.
Si può provare a dare una dimostrazione di questa affermazione per i ragazzi più bravi. In primo
luogo si fa vedere come prima che se si potesse trovare una frazione a/b tale che (a/b)2 = 10/9,
allora si avrebbe 10 = 9a2/b2 e dunque la radice di 10 sarebbe razionale. Questo è assurdo perché 10
non è un quadrato perfetto (vedi la scheda sull’incommensurabilità).
Tornando alla scala musicale, l'introduzione di nuove note per dividere gli intervalli di un tono e
avere così un'ottava divisa in dodici semitoni. Questo è necessario soprattutto per poter trasportare
una musica da una tonalità a un'altra. Per capire di cosa si tratta, supponiamo (nella scala pitagorica)
di partire dal RE e di cantare in successione sette note separate dagli intervalli TsTTTsT. Come
abbiamo visto, questi sono esattamente gli intervalli della scala pitagorica, e quindi la melodia (?)
sarà RE MI FA SOL LA SI DO RE.
Mettiamo invece che con gli stessi intervalli si cominci a cantare da un'altra nota, ad esempio dal
DO. Allora da DO mi devo spostare di un tono, e viene RE, poi di un semitono, che però non c'è
nella scala, perché la nota successiva al RE, il MI, dista di un tono intero. Allora occorre inserire tra
il RE e il MI un nuova nota, che funge da semitono, e che chiameremo RE diesis (RE#) o MI
bemolle (MIb). Ci spostiamo ora di un tono, e troviamo il FA (con un semitono andiamo da MIb a
MI e con un secondo semitono da MI a FA), poi con altri due toni troviamo SOL e LA. A questo
punto, dovendo spostarci di un semitono, abbiamo bisogno di un'altra nota intermedia tra LA e SI, e
sarà LA# o SIb, e con l'ultimo tono torniamo a DO. La nostra melodia trasportata di un tono sarà
allora DO RE MIb FA SOL LA SIb DO, per cantare la quale abbiamo dovuto introdurre due nuove
note..
27
Se si comincia da una nota differente, avremo bisogno di altre note ancora, finché con cinque nuove
note avremo diviso l'ottava in dodoci semitoni, e sarà possibile trasportare una melodia come
vogliamo.
Ma attenzione! Gli intervalli di un semitono non saranno tutti uguali, e quindi gli intervalli in una
melodia trasportata non saranno esattamente gli stessi di quelli originali. Perché questo si verifichi,
sarebbe necessario dividere un'ottava in (almeno) dodici intervalli uguali, ognuno dei quali dovrà
dunque essere uguale alla radice dodicesima di 2.
Nasce così nel Seicento la scala temperata di dodici suoni a intervalli regolari, ognuno pari a 12 2 . Il
vantaggio di avere tutti gli intervalli uguali non è gratis; infatti si paga col fatto che gli intervalli non
sono più rapporti di interi piccoli (se si prende la scala tolemaica, il massimo intero è 15) ma
addirittura numeri irrazionali. Ora, siccome la consonanza è legata ai rapporti razionali tra le
frequenze, potrebbe sembrare che la nuova scala sia piuttosto cacofonica. Per fortuna il nostro
orecchio non è in grado di apprezzare la differenza tra frequenze abbastanza vicine, e quindi i
rapporti irrazionali possono andare bene, purché cadano vicini alle note "naturali". Calcoliamo
allora le frequenze delle dodici note di una scala temperata e confrontiamole con quelle della scala
tolemaica:
Scala temperata:
Scala pitagorica
Scala tolemaica
Come si vede, la corrispondenza è molto buona e la discrepanza tra le frequenze delle scale
"naturali", pitagorica o tolemaica, non supera mai il 2%. In particolare si ha una concordanza quasi
perfetta per gli intervalli fondamentali di quarta e di quinta, con un divario di meno del 2 per mille.
28
10. I solidi regolari.
Tra le scoperte attribuite a Pitagora c'è quella delle figure cosmiche, ossia dei solidi regolari. Per
capire di che si tratta dobbiamo prima dire due parole sui poligoni.
Un poligono è una figura piana delimitata da una spezzata, i cui segmenti sono i lati del poligono. I
punti in cui due lati si toccano si chiamano vertici del poligono; gli angoli che i lati formano a ogni
vertice sono gli angoli del poligono. Ogni poligono ha lo stesso numero di lati, di vertici e di angoli;
esso prende il nome da questo numero. Ad esempio un poligono con tre angoli (dunque con tre lati
e tre vertici) si chiama triangolo, quello con quattro quadrangolo, con cinque pentagono (dal greco
penta, cinque e gonios, angolo) e poi di seguito esagono, ettagono, eccetera. Lo stesso nome
poligono viene da polys, molti e gonios.
Un poligono si dice regolare se ha tutti i lati e tutti gli angoli uguali. Per costruirne uno, si può
dividere una circonferenza nel numero desiderato di parti, e unire i punti di divisione. Così un
esagono regolare si ottiene dividendo la circonferenza in sei parti uguali, come in figura.
Una proprietà dei poligoni regolari di cui ci serviremo è che i loro angoli aumentano all'aumentare
del numero dei lati; gli angoli di un triangolo equilatero sono di 60 gradi, quelli di un quadrato di 90
gradi, il pentagono regolare ha angoli di 108 gradi, l'esagono regolare di 120 gradi, eccetera.
Passiamo ora ai poliedri o solidi regolari, solidi le cui facce sono dei poligoni regolari tutti uguali
tra loro. Le facce si attaccano lungo gli spigoli, i quali a loro volta confluiscono nei vertici, punti
attorno ai quali sono situate tre o più facce.
A differenza dei poligoni regolari, che possono avere un qualsiasi numero di lati, ci sono solo
cinque solidi regolari: tre con facce triangolari, uno con facce quadrate e uno con facce pentagonali.
Per capire il motivo di questo comportamento, prendiamo un solido regolare, e guardiamo cosa
succede intorno a un suo vertice, lasciando solo le facce che stanno attorno a questo vertice, e
tagliando via tutte le altre. Se ora facciamo ancora un taglio lungo uno spigolo, la superficie che
resta si può stendere su un piano.
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Attorno al vertice di un cubo
e di un icosaedro.
Quello che vediamo è un certo numero (tre o più ) di poligoni regolari uguali, che si toccano tutti
nel vertice, più un certo angolo che si produce quando si apre il poliedro per distenderlo sul piano.
La somma degli angoli che stanno attorno al vertice è dunque minore di 360 gradi, e siccome
attorno al vertice ci sono almeno tre poligoni, questi devono avere angoli minori di un terzo di 360
gradi, cioè minori di 120 gradi.
Ma come abbiamo visto ci sono solo tre poligoni regolari con angoli minori di 120 gradi: il
triangolo, il quadrato e il pentagono. Già l'esagono ha angoli di 120 gradi, e dunque tre esagoni
riempiono tutto lo spazio attorno al vertice e non lasciano nessun angolo per richiudere il poliedro.
Sono dunque possibili solo solidi regolari con facce di tre, quattro o cinque lati. Nei due ultimi casi
intorno a un vertice ci possono essere solo tre facce (quattro quadrati riempiono tutto lo spazio
attorno al vertice, quattro pentagoni fanno più di 360 gradi); i solidi rispettivi sono il cubo e il
dodecaedro, il primo con sei facce quadrate, il secondo con dodici facce pentagonali. Nel caso di
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facce triangolari, ognuna delle quali ha un angolo di 60 gradi, attorno a un vertice ci possono essere
tre, quattro o cinque facce, ma non sei, che riempirebbero tutto lo spazio disponibile. I solidi
corrispondenti sono il tetraedro che ha in totale quattro facce, l'ottaedro con otto, e l'icosaedro con
venti.
11. Terne pitagoriche.
Una delle tante formulazioni del teorema di Pitagora dice che se a e b sono i cateti di un triangolo
rettangolo e c è l'ipotenusa, si ha a2 + b2 = c2. Vale anche il viceversa:
Se i lati a, b e c di un triangolo verificano la relazione a2 + b2 =c2, allora il triangolo è
rettangolo, a e b sono i cateti e c l'ipotenusa.
La dimostrazione è molto semplice. Costruiamo un triangolo rettangolo con i cateti a e b, e sia d la
sua ipotenusa. Per il teorema di Pitagora si ha d2 = a2 + b2, mentre per ipotesi a2 + b2 = c2. Ne
deriva che d2 = c2, dunque d = c, cosicché i due triangoli hanno i tre lati uguali, e dunque sono
uguali. Ma il secondo era per costruzione un triangolo rettangolo con i cateti a e b, e quindi lo
stesso vale per il primo.
Il risultato precedente ci dà un metodo molto semplice per costruire triangoli rettangoli senza
bisogno di misurare gli angoli. Infatti basta trovare tre numeri a, b e c, che verifichino la relazione
a2 + b2 = c2; il triangolo di lati a, b e c sarà automaticamente rettangolo.
Un esempio è il triangolo di lati 3, 4 e 5; siccome 32 + 42 = 9 + 16 = 25 = 52, il triangolo con questi
lati è rettangolo. Altri triangoli rettangoli sono quelli di lati 5, 12 e 13, oppure 8, 15 e 17.
Notiamo che i lati di tutti questi triangoli sono numeri interi. Per il teorema di Pitagora questo non è
necessario; basta che sia verificata la relazione a2 + b2 = c2, come ad esempio nel triangolo che ha i
cateti uguali a 1 e l’ipotenusa uguale a √2. D'altra parte i triangoli con lati interi sono più
interessanti, anche perché i loro lati debbono essere scelti con cura; ad esempio non se ne può
scegliere uno a piacere e cercare poi gli altri due.
Se tre numeri interi a, b e c verificano la relazione a2 + b2 = c2 si dice che formano una terna
pitagorica. Ad esempio 3, 4 e 5 sono una terna pitagorica, ma non 1, 1 e √2, perché quest'ultimo
numero non è intero.
Le terne pitagoriche sono tutte descritte dalla formula
31
(1)
a = m2 - n2, b = 2mn, c = m2 + n2,
dove m ed n sono due numeri interi, con m>n.
Che i numeri a, b e c formino una terna pitagorica, si verifica facilmente. Infatti si ha
a2 = (m2 – n2)2 = m4 + n4 – 2m2 n2
b2 = (2mn)2 = 4 m2 n2
e quindi
a2 + b2 = m4 + n4 – 2m2 n2 + 4 m2 n2 = m4 + n4 + 2m2 n2 = (m2 + n2)2 = c2.
Più difficile è dimostrare che la formula (1) dà tutte le possibili terne pitagoriche. Ecco come si può
fare.
Cominciamo con l’osservare che se a, b e c formano una terna pitagorica, lo stesso vale per ha, hb
e hc . Ci si può quindi limitare a considerare terne con a e b primi tra loro; tutte le altre si otterranno
moltiplicando a, b e c per lo stesso numero.
Facciamo ora vedere che a e b devono essere uno pari e uno dispari, e di conseguenza c deve essere
dispari.
Che a e b non siano ambedue pari dipende dal fatto che sono primi tra loro. Che non possano essere
ambedue dispari, è un po’ più delicato.
Se a e b fossero dispari, lo sarebbero anche a2 e b2 , cosicché c2 , somma di due numeri dispari,
sarebbe pari, e quindi c sarebbe pari. D’altra parte, se a e b sono dispari si deve avere a = 2k+1 e
b=2h+1, da cui a2 = (2k+1)2 = 4k2 +4k+1, b2 =4h2 +4h+1, e sommando si ottiene
c2 =a2 +b2 = 4(k2 +k+h2 +h) + 2 .
Da questa formula segue che dividendo c2 per 4 si ottiene il quoziente k2 +k+h2 +h e il resto 2. In
particolare, c2 non è divisibile per 4, e questo è assurdo, dato che c è pari.
Riassumendo, se a, b e c formano una terna pitagorica, i due numeri a e b devono essere uno pari e
uno dispari (ad esempio b pari ed a dispari), e di conseguenza c deve essere dispari.
Nella relazione a2 +b2 = c2 portiamo a2 a secondo membro; si ha b2 = c2 – a2 = (c + a)(c – a).
Siccome a e c sono dispari, c + a e c – a sono pari. Se poniamo b = 2s, c + a = 2x e c – a = 2y,
avremo s2 = x y.
Anche x e y sono primi tra loro; infatti se avessero un fattore comune q, anche a = x – y sarebbe
divisibile per q, e lo stesso sarebbe vero per b2 , e dunque per b, in contraddizione con l’ipotesi che
a e b fossero primi tra loro. Siccome il prodotto xy è un quadrato, x e y sono essi stessi dei
quadrati: x=m2 e y=n2 . Si avrà allora in conclusione a = x – y = m2 – n2 ; c = x + y = m2 + n2 e
b2 = 4xy = 4m2 n2 , per cui b = 2mn. La formula (1) è così dimostrata.
32
Dando a m e n successivamente differenti valori, sempre primi tra loro, e uno pari e l’altro dispari,
troviamo tutte le possibili terne pitagoriche, come nella tabella seguente.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
m
n
2
3
4
4
5
5
6
6
7
7
7
1
2
1
3
2
4
1
5
2
4
6
a = m2 - n2
b=2mn
3
5
15
7
21
9
35
11
45
37
13
4
12
8
24
20
40
12
60
28
56
84
c = m2 + n2
5
13
17
25
29
41
37
61
53
65
85
Si potrebbe procedere all'infinito, ottenendo sempre nuove terne pitagoriche. Notiamo che quando n
= m – 1, si ha anche b = c – 1, cosa che chi legge potrà dimostrare facilmente.
Dalla considerazione delle terne pitagoriche, Pierre Fermat (1601-1665) trasse lo spunto per cercare
se fosse possibile trovare delle terne di numeri interi, tutti diversi da zero, che verificassero la
relazione
x3 + y3 = z3
o più in generale
xn + yn = zn
con n>2. Nel margine della sua copia dell'Arithmetica di Diofanto, un autore greco del vissuto
intorno al III secolo d. C., al punto dove veniva spiegata la generazione delle terne pitagoriche,
Fermat scrisse:
Non è invece possibile dividere un cubo in due cubi, un quadratoquadrato in due
quadratoquadrati, e in generale nessuna potenza diversa dal quadrato in due potenze dello
stesso ordine. Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non può
essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina.
Questo risultato, che è stato chiamato l'ultimo teorema di Fermat, ha stimolato le ricerche di molti
tra i maggiori matematici degli ultimi tre secoli, ed è stato dimostrato completamente solo nel 1994
da Andrew Wiles.
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