TRA LEGGI CANONICHE E DONI DEL SACRAMENTO UN ITINERARIO DI SPERANZA Il titolo già ci invita a riflettere: c’è forse una contrapposizione tra le leggi canoniche e i doni dei sacramenti? Oppure sono entrambi indirizzati allo stesso fine? Qual’ è la nostra percezione o concetto del Diritto nella Chiesa: questo è il punto da chiarire. Ricordandoci pure che la Chiesa non ci sta davanti, ma noi siamo la Chiesa: comunità dei battezzati, Corpo di Cristo. Questa premessa è d’obbligo: dobbiamo perciò lasciare da parte i nostri pre-concetti, pre-giudizi, i tanti luoghi comuni di cui oggi si sente molto parlare e, con cuore aperto e sincero cercare di “capire” una realtà che è umana ma anche divina e della quale noi facciamo parte. Viviamo oggi nel mondo della doxa, cioè delle opinioni: tutti sono opinionisti, dai mezzi di comunicazione alla politica; purtroppo costatiamo una situazione di estrema superficialità. Ci sono tuttavia delle verità e delle realtà che vanno chiamate con il proprio nome e questo richiede uno sforzo di comprensione serio e maturo. Tanto spesso ci nascondiamo dietro a questa marea di sotterfugi, quando in realtà dovremo semplicemente approfondire il senso, prima di puntare il dito. Questo vale non solo per i fedeli laici, ma anche e specialmente, con maggior gravità, per i reverendi chierici, il cui compito dovrebbe essere quello di informarsi, aggiornarsi, non semplificare le cose, perché la realtà non è semplice, non è neanche complicata ma è complessa. Quindi, è nostra responsabilità, per primi quella di saper dare ragione a chi ci domanda, quella di orientare con indicazioni precise e chiare la strada da percorrere insieme. “La salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa” leggiamo nel can. 1752, ultimo canone del Codice vigente di Diritto Canonico. Questo già ci dice che la legge della Chiesa non è come quella degli ordinamenti civili, essa non si può ridurre ad un cumulo di norme aride dettate dall’autorità ecclesiastica per governare in ordine il popolo dei fedeli. Nelle norme canoniche convergono tutte le leggi che la ragione umana orientata dalla fede ha stabilito nel corso dei secoli per aiutare i fedeli a realizzare il loro scopo: raggiungere la salvezza e lo si fa non da soli ma nella comunità, insieme. Ci sono norme di diritto divino positivo, in quanto è Gesù stesso che l’ha ordinato. Pensate ai sacramenti quindi: tutti senza eccezione sono regolati attraverso le norme canoniche, quindi non si tratta solo di diritto ma canonico: disciplina teologica, non in contrapposizione ma al servizio del Vangelo, cioè della volontà di Dio che vuole che tutti gli uomini siano salvi. 1 Ci sono poi norme di diritto naturale, quelle che l’uomo scopre con l’uso della propria intelligenza come facenti parti di un ordine nel creato, che noi non abbiamo stabilito; infine, ci sono le norme di diritto meramente ecclesiastico, come le formalità richieste per certi atti importanti che la Chiesa vuole custodire. Anche queste non sono mai arbitrarie ed ubbidiscono alla finalità della Chiesa, nel procurare la salvezza dei fedeli. Per questo motivo Gesù ha affidato a Pietro quello che chiamiamo “il potere delle chiavi”: “A te darò le chiavi del Regno dei cieli: quello che scioglierai sulla terra sarà sciolto nel cielo, quello che legherai sulla terra rimarrà legato anche nel cielo” Come hanno fatto gli apostoli da Pietro in poi ad amministrare quei doni ricevuti dal Signore che sono i sacramenti? Attraverso le norme canoniche e liturgiche, approfondendo teologicamente il senso di ognuno e sperimentando anche diversi percorsi attraverso la storia plurisecolare della Chiesa (si pensi ai diversissimi modi che ha avuto nella prassi il sacramento della confessione/ riconciliazione). Tutto questo fiume di storia, di vita pastorale, di approfondimento e di comprensione teologica, converge nei canoni del Codice, che diventa quindi non un nemico, ma la guida sicura ed illuminata con la quale Pietro e agli apostoli (Papa e vescovi oggi), annunciano la salvezza, non in astratto ma cercando di attuarla in maniera concreta, nella realtà storica sociale culturale umana e divina che è la Chiesa, che siamo tutti noi. Vista così, nella sua complessità, la legge della Chiesa, come il Diritto stesso, è strumento di salvezza: ogni norma canonica obbedisce ad una ragione, ad una causa, la cui finalità ultima è sempre evangelica, è sempre carità. Mai punizione, discriminazione o pregiudizio contro qualcuno o qualche categoria di persone nella Chiesa. Il postulato stesso di una simile insinuazione denota soprattutto una scarsa conoscenza della realtà della Chiesa. Non dobbiamo lasciarci ingannare dai discorsi dei propagatori di opinioni, che non hanno alcun fondamento e si rivelano il più delle volte, sintomi di ignoranza. Due sono le normative canoniche che suscitano grandi discussioni oggi in tale senso, in riferimento specifico a coppie di divorziati risposati o conviventi di fatto, sia sposati civilmente o no: quella riguardante la non partecipazione all’Eucaristia e quella riguardante il ruolo di padrino o madrina di battesimo. Ho esaminato i testi della Congregazione della Dottrina della fede, del Pontificio Consiglio per la Famiglia, dei due ultimi Pontefici, dell’attuale Cardinale di Milano e della Conferenza Episcopale Piemontese ed ho deciso di percorrere un'altra via espositiva. 2 In primo luogo, illustrare la situazione attuale, già accennata, delle opinioni, dove una vale l’altra, c’è grande confusione e in particolar modo quello che definirei: superficialità. Poi dare solo uno spunto, aprire uno squarcio che ci illumini il senso delle leggi nella Chiesa e la loro missione, al nostro servizio e del Vangelo, e questo l’abbiamo anche abbozzato, come la punta di un iceberg, per farvi capire quanti secoli di teologia, di pastorale e di prassi di sacramenti sono contenuti nelle norme del Codice. Ora vediamo, i due esempi alla luce della ratio legis, cioè del senso della legge, dei motivi per i quali una norma stabilisce un divieto. Per sua natura, cioè di per sé, l’argomento non richiederebbe neanche una speciale trattazione a parte, in quanto la normativa è derivata dalla natura stessa del sacramento. E questo conferma quanto siamo a volte lontani di conoscere in profondità il senso dei sacramenti che pretendiamo di celebrare con maturità e piena coscienza. Per l’Eucaristia, chiamata anche “comunione”, che esprime liturgicamente la comune unione, la comunione dei fedeli nella Chiesa con Cristo e tra di loro, è Gesù stesso che ci dice che se presentando l’offerta all’altare, lì ti ricordi che un fratello ha qualcosa contro di te… prima va a riconciliarti. Questa è una legge divina, in quanto è il Signore che lo chiede. Paolo poi, approfondirà ancora nella lettera ai Corinzi, richiamando i fedeli che partecipavano senza la dovuta disposizione alla comunione, diceva a loro non solo che non giova ma che è motivo di condanna. Quindi non dico nulla di nuovo, semplicemente ricordiamo in estrema sintesi le condizioni per partecipare alla comunione. Riguardo a chi convive, quindi in una forma pubblica, cioè notoria, dove la comunità sa che quella convivenza non è nel vincolo del matrimonio, già il fatto stesso sta dicendo un’anomalia, una situazione in contrasto con quanto la Chiesa, seguendo il mandato di Gesù stesso, ha sempre insegnato sul sacramento del matrimonio e sui rapporti anche intimi tra l’uomo e la donna. Non si tratta più di una questione di coscienza individuale ma di un fatto pubblico, come è pubblica la natura del sacramento del matrimonio. Risulta per tanto ovvio che in coscienza e senza che la Chiesa proibisca espressamente niente, il fedele che si trova in una simile situazione, non può accostarsi a ricevere la comunione. Non si può esprimere liturgicamente la comunione col gesto di comunicarsi, quando di fatto, nella realtà non si è in comunione con il sacramento del matrimonio. E’ una conseguenza che va da sé e tuttavia va anche ben capita. 3 Non si tratta di una punizione, non si tratta nemmeno di un giudizio di condanna, perché le situazioni singolari sono tutte diverse le une dalle altre, ma resta il fatto di una anomalia, di una realtà esistente, concreta e per di più conosciuta pubblicamente che sappiamo non essere in armonia con quanto Gesù ci chiede e ribadì con forza sul matrimonio. Alcuni chiarimenti: la comunione non si vieta per il fatto di essere “divorziati” ma per quello della convivenza. Questo va ricordato soprattutto ai sacerdoti, che tante volte impediscono ai fedeli, che magari hanno dovuto subire il divorzio, non per propria scelta, di fare la comunione. Il matrimonio produce effetti civili molto importanti, non solo patrimoniali ma anche riguardo agli eventuali figli e più doveri a cui sono tenuti gli sposi. La sentenza di cessazione degli effetti civili, conosciuta più comunemente con il nome di divorzio è talvolta un atto dovuto e non vuol dire necessariamente che gli sposi per ciò siano stati favorevoli al divorzio. E’ una grave semplificazione e purtroppo spesso devo chiarire questo alle parti che in tribunale mi dicono che il parroco gli ha detto che non potevano fare la comunione perché divorziati: questo non è affatto vero. Procediamo ancora nell’analisi: abbiamo detto il motivo per il quale i conviventi, e solo loro, non possono comunicare liturgicamente. Aggiungiamo, non è una questione di opinione personale o della propria coscienza, come nel caso che uno sia convinto e dica “io so che il mio matrimonio era stato nullo solo che non lo posso dimostrare in tribunale”. Intanto, solo la Chiesa può pronunciarsi e con duplice sentenza conforme sulla nullità o meno del “sacramento”, bene pubblico “della” Chiesa, che non è a disposizione del giudizio individuale del singolo fedele. Poi il fatto è pubblico. La retta coscienza per ricevere l’eucaristia ci vuole sempre, non possiamo sapere se chi comunica lo fa in grazia o meno, solo Dio lo sa. Nel caso della convivenza, essendo notorio e pubblico c’è anche la possibilità di scandalo. Come spiegare ai fedeli l’eccezione in questo caso? essa comporta un rischio ancora peggiore, sappiamo quanto il Signore voglia evitare lo scandalo nei piccoli. Quindi ancora i preti, pastori d’anime, non fanno assolutamente un buon servizio ai fedeli e alla Chiesa se decidono ‘loro’ che questi tali possono, basta che lo facciano in un’altra parrocchia o cose del genere. Non hanno l’autorità per farlo e creano scandalo, confusione e l’idea che nella Chiesa basta trovare il prete buono… che poi buono non lo è. In questo campo ricordo un caso particolare di una cara amica dell’Argentina… 4 Resta da chiederci cosa possono fare i fedeli che si trovano in questa situazione di convivenza fuori del matrimonio? Dobbiamo ricordare a tale scopo due o tre punti fondamentali della nostra fede. Primo: i sacramenti sono doni del Signori, mezzi per aiutarci a raggiungere la Salvezza, e tali restano. Mentre il Signore è la Salvezza. Ora: se io non posso servirmi di qualche mezzo, per importante che esso sia, vuol dire che sono fuori della Salvezza e della comunione col Signore? La risposta è: assolutamente NO. Anzi, Il Signore ci ha salvato nella Pasqua, con la sua croce, morte e risurrezione e questo mistero è rappresentato nell’Eucaristia. Che io non possa prendere l’Eucaristia non vuol dire che non possa essere in comunione di vita e di amore intimamente col Signore, nel cuore e centro del mistero d’amore che l’Eucaristia rappresenta, offrendo con Lui ed in Lui la mia croce personale, con la quale mi unisco attivamente ed efficacemente alla stessa redenzione del mondo, completando in me, in quanto membro del Suo Corpo, la Chiesa, quello che manca alla Passione di Cristo, fino al giorno in cui verrà Lui a giudicarci. In fine, sul Giudizio Finale: forse il Signore ci chiederà quante volte abbiamo ricevuto l’Eucaristia, quante volte ci siamo confessati, quante volte abbiamo ricevuto l’unzione degli infermi, o piuttosto ci chiederà se abbiamo messo in pratica il suo comandamento nuovo dell’amore, consapevoli che qualunque cosa abbiamo fatto ad uno dei nostri fratelli più piccoli l’abbiamo fatto a Lui? Come vedete il criterio ultimo, discriminante e decisivo per entrare o rimanere esclusi definitivamente dalla Salvezza, cioè la comunione piena ed eterna col Signore, non deriva dalla frequenza o meno dei sacramenti, che rimangono mezzi per questa vita, ma dipende dall’amore concreto che abbiamo saputo donare ai nostri fratelli, sull’esempio di Gesù. Allora lui, che conosce i nostri cuori ci dirà: venite benedetti dal Padre mio, l’avete fatto a me! Come giudice del Tribunale per le cause matrimoniali, so bene che il fallimento del matrimonio non è mai una cosa festosa, è sempre un dramma doloroso nella vita, una vera e propria croce, che come tutte le esperienze negative può essere trasformata in amore ed in crescita di vita umana e di fede. Avete un motivo in più degli altri per essere più vicino al Signore, in piena comunione con Lui, che quando tutti lo dicevano “fallito”, è stato proprio lì che ha vinto l’odio con l’amore, le opinioni con la verità, facendoci passare dalla morte alla vita, donandoci la nuova vita di figli di Dio, che nessuno ci potrà mai togliere, perché dono suo. 5 Per quanto riguarda l’essere padrino o madrina di battesimo, mi limito a fare alcuni rilievi, evidenziando che non c’è molta uniformità nell’interpretazione. Il primo è chiederci: cosa significhi essere padrino di battesimo: cosa intendiamo noi e cosa invece intende la Chiesa. Scopriamo che ci sono almeno tre posizioni diverse. Per i fedeli cristiani, il padrino/madrina è un parente o amico molto caro ai genitori e che poi dovrà ricordarsi sempre del suo ruolo specie in occasioni di compleanni, anniversari, onomastico, Natale, ecc. con il dovuto regalo. Per le norme canoniche, cioè quello che la Chiesa stabilisce attraverso la legislazione universale, la figura del padrino/madrina è un semplice suggerimento, come una cosa consigliata ma non obbligatoria, potrebbe non esserci e questo è chiaro dalle parole del canone. Poi, in questa prospettiva canonica, qualora lo si scelga, s’impongono delle condizioni, tra le quali al can. 874 § 1, n. 3 si dice in forma generica: “conduca una vita conforme alla fede e all’incarico che assume” e nel n. 4: “non sia irretito da alcuna pena canonica legittimamente inflitta o dichiarata”. Si deduce facilmente che la situazione è come per l’Eucaristia, vige lo stesso ragionamento e quindi gli stessi criteri applicativi: se si è conviventi non si conduce una vita conforme ai principi della fede cattolica, poi c’è la proibizione espressa emanata dalla Congregazione della Dottrina della Fede sulla partecipazione all’Eucaristia, la quale sebbene non sia una pena in senso tecnico, tuttavia conferisce a chi si trova in tale situazione un ulteriore criterio di discernimento per capire che c’è un grave impedimento per poter considerarsi idoneo al ruolo di padrino o madrina. In fine a livello pastorale, le singole Conferenze Episcopali possono apporre dei requisiti più specifici, particolari e differenziati. Come quanto vi è scritto espressamente nel foglio per la dichiarazione d’idoneità, redatto a modo di autocertificazione anche nella nostra diocesi: “non sussistono in me ragioni di ordine morale che mi impediscano di compiere validamente il mio ufficio, quali il matrimonio solo civile, il divorzio, la sola convivenza”. Come facilmente avrete notato, si esige di più di quanto non sia previsto per l’Eucaristia. La mia proposta è che si dovrebbero unificare i criteri perché si crea confusione, quindi il divorzio “tout court”, come espresso, andrebbe a rigore logico tolto. Poi tale espressione suscita più problemi di quanto non risolva. In primo luogo, una simile dicitura sembra dare ragione a quei parroci che erroneamente vogliono impedire ai fedeli di accostarsi alla comunione “per il solo fatto di essere divorziati”, senza vedere prima se si tratta o meno di conviventi pubblici, ecc. 6 Siamo inoltre in una materia che di suo non è neanche obbligatoria, ribadiamo che il Diritto non esige necessariamente la figura del padrino, e della madrina non si parla nemmeno nel Codice! Questi sono entrati nella tradizione pastorale attraverso la prassi, bisognerebbe vedere come, e da quanto tempo. Certamente non tantissimo, se pensate com’era concepito il battesimo prima del Concilio, cioè prima dello sviluppo teologico e liturgico in materia: c’è un grandissimo cambiamento. In realtà si deve approfondire l’evento teologico ed ontologico, che è della massima importanza: il neo battezzato entra a far parte della Chiesa e diventa “figlio di Dio”. Quindi è un evento ecclesiale, è il risultato dell’aver accolto Cristo, il Verbo incarnato, nella propria vita ed il voler impegnarsi a vivere secondo il Vangelo: “a coloro che l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”, come leggiamo nel Prologo di Giovanni. Un fatto di tale importanza non può essere lasciato alla discriminazione sentimentale dei singoli fedeli né agli scarsi criteri distintivi dei singoli parroci. Faccio questa riflessione: il problema in tutto questo è che forse non si spiega bene la “ratio” cioè: i motivi delle esigenze. Se analizziamo deduttivamente, alla luce di quanto abbiamo già visto per l’Eucaristia, vediamo che c’è una consequenzialità lineare e non dovrebbero sussistere motivi di dissenso o incomprensione. Non c’è alcuna discriminazione: la Chiesa esige certe condizioni perché intende la figura del padrino come “esemplare” di una realtà di fede creduta e vissuta in pieno. Già può trattarsi del battesimo di un figlio di genitori conviventi o addirittura di una ragazza madre, quindi, se è vero e lo è certamente che “i bambini imparano da quello che vivono”, la Chiesa vuole garantire attraverso la figura del padrino un esempio di “normalità”, di qualcuno che vive in armonia con quanto il Vangelo ci chiede a tutti i livelli. Dovremo chiederci piuttosto se effettivamente i padrini e le madrine che sono stati preposti in piena regola al momento del battesimo, poi abbiano adempiuto al loro compito secondo quello che la Chiesa si attende da loro. Facendo un’attenta analisi, nella maggioranza dei casi essi rispondono solo alle attese sentimentali e d’amicizia dei genitori, cioè non mancano di fare i dovuti doni nelle feste comandate… mi sembra assai poco. Per tutto ciò dobbiamo sincerarci, seriamente, affrontando il problema alla radice, prima di lamentarci perché la Chiesa o quel determinato parroco fedele al suo ruolo non vuole ammettere una determinata persona, come se lo facesse arbitrariamente. I genitori vanno edotti sulle esigenze del ruolo del padrino, che ha una funzione molto seria ma vicaria, perché i primi catechisti sono loro, i genitori che si sono impegnati solennemente in tale compito, quello che hanno sottoscritto con vincolo di giuramento al momento del 7 processicolo prematrimoniale, cioè: l’educare l’eventuale prole secondo i principi della fede cattolica. Se si è trattato poi di un matrimonio di mista religione, il coniuge non cattolico ha dovuto addirittura promettere solennemente di non impedire alla parte cattolica di adempiere detto compito, anzi ha dovuto promettere che gli eventuali figli sarebbero stati educati entro i principi della fede cattolica come conditio sine qua non per poter celebrare detto matrimonio. Vedete quanto la Chiesa ci tiene e prepara già da lontano il terreno. Questo perché i battesimi si fanno negli ultimi tempi facendo totale affidamento sulla fede dei genitori, ed è quindi questo il punto ultimo sul quale interrogarci alla luce di tutte queste problematiche: c’è ancora quella fede nei genitori che pretendono ed esigono il battesimo per i loro figli? Credo onestamente che non si possa dare mai per scontata la fede vissuta ed il convincimento profondo dei così detti “fedeli”. Fedele è colui che ascolta la Parola del Signore e la mette in pratica, colui che si sente parte del suo Corpo, che vive l’amore del Signore essendo pronto a dare la vita per i fratelli. Non sto chiedendo o nulla di fuori luogo o di troppo, soltanto ricordando quello che Gesù ci ha chiesto per diventare suoi discepoli. Lui poi, non obbliga nessuno, siamo una comunità di “fratelli” e “liberi”, dovremo sentirci membri della Chiesa, per libera scelta, e gioiosi di esserci! Se Lui non ha obbligato mai nessuno, perché dovremo farlo noi: “se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Una scelta libera che non finisce nella croce semplicemente, ma sa e crede fermamente che bisogna morire per risorgere; che la croce non ha l’ultima parola, ma è il passaggio obbligato per manifestare la coerenza dell’amore incarnato: passiamo alla gioia della risurrezione! Siamo chiamati a ripensare sempre alla nostra vita e alle nostre scelte di vita, nell’ottica del mistero Pasquale, di morte e risurrezione del Signore, mite ed umile di cuore, nostra Salvezza, che sovrasta e contiene in Sé tutti i mezzi transeunti, che ci portano a Lui. Che la Luce di Cristo Risorto illumini nella speranza il nostro cammino di fede, affinché essa s’incarni in tante opere buone, frutto di carità! Buona Pasqua! d. Marcelo Heinzmann 8