Numero Athene Noctua IV I nostri saggi Pausa e Ritmo. Sull'attacco della 5a di Beethoven Di Manuel E. Saccu Cotton 1 www.Athenenoctua.it 2 Indice: Introduzione ...............................................................................................2 Capitolo I – Il Silenzio.................................................................... 6 Capitolo II – Le Tre Crome.............................................................11 Capitolo III – La Minima .........................................................................15 Capitolo IV – Il Punto Coronato.....................................................23 Conclusioni..................................................................................25 Appendice.....................................................................................26 Bibliografia ..............................................................................................29 1 Introduzione “Se si deve filosofare si deve filosofare, e se non si deve filosofare si deve filosofare. In ogni caso, dunque, si deve filosofare. Se, infatti, la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, poiché essa esiste. Se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esista. Ma cercando filosofiamo, dal momento che la ricerca è la causa e l'origine della filosofia.”1 Con serrato argomento logico, tramite la riduzione all'assurdo, Aristotele nel Protreptico ci dimostra come il non filosofare sia impossibile. Cos'è, dunque, questa 'filosofia' di cui non si può, apparentemente, fare a meno? Etimologicamente essa vale il greco φιλεῖν (amare) e σοφία (sapienza), nel senso di 'amore per la sapienza'. Aristotele ci comunica, dunque, l'impossibilità di non amare la sapienza, dove sapienza indica nel pensiero antico lo stato di chi già sa prima di conoscere, giacché conoscere il vero si rivela sotto l’aspetto di ciò che inconsapevolmente ognuno sa. L'impossibilità di non ricercare la conoscenza è già detto dallo Stagirita in esordio della Metafisica, quando afferma che “Tutti gli uomini bramano per natura di conoscere” brama che è causa e origine della filosofia. Cos'è, dunque, la conoscenza? Esiste un metodo per cercarla? Se si, si tratta di un unico ed universale metodo o sono molteplici e particolari? La conoscenza assume definizione e valori semantici diversi in contesti differenti, e comunque ha il carattere di un’acquisizione consapevole di informazioni derivate da (od occasionate da) esperienza. Per Socrate, ad esempio, conoscenza della verità non è altro che lo svelamento, attraverso un processo pari al parto, di una conoscenza già compiuta e innata dentro di noi, che occorre lentamente portare alla luce attraverso il dialogo con un ostetrico-interlocutore. Platone rende ragione di questo socratico contenuto innato della verità, teorizzandone l’origine nella reminiscenza delle idee contemplate dall’anima, prima di nascere nel regno iperuranio. Origine che Aristotele attribuiva a un processo di astrazione dall'esperienza sensibile, depurata dalla materia sino a giungere a configurarne la sua forma universale e necessaria, cioè il concetto. Innatismo o astrazione sono stati per secoli i due poli opposti intorno al valore ontologico o epistemico della conoscenza , in cui, nel medioevo, un ruolo importante giocò la tesi cristiano-platonica della conoscenza come derivazione intuitiva dal Verbo divino. Un radicale mutamento si ebbe all'inizio del XVII secolo, con Galilei e Descartes, con l’identificazione dei fondamenti del conoscere nella matematizzazione del sapere. Scriveva Galileo nel 1623, nel § 6 de Il Saggiatore: 2 “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi, io dico lo universo, ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Kant, successivamente, con un pertinente esame logico, mostrò i confini della capacità umana nella ricerca della conoscenza. Il termine consapevole, venne in seguito messo in discussione dalle teorie psicanalitiche nascenti alla fine del XIX° secolo, ipotizzando una possibile conoscenza inconscia, quindi presente in noi, di cui ignoriamo l'esistenza. Da queste considerazioni, la teoria della conoscenza si potrebbe riassumere nella maniera proposta dal fisico e filosofo austriaco H. Von Foerster, nel suo saggio Non sapere di non sapere2 e schematizzata in: Figura 1. Schema del panorama conoscitivo proposto da H. Von Foester Il ragionamento di Von Foerster deriva dall’affermazione di Socrate “so di non sapere”, ritenendo che, in quest’ultima, il filosofo antico abitasse la conoscenza nel giudicare la sua ignoranza. Poiché, secondo lo scienziato austriaco, ci è data conoscenza a partire dal seme dell’ignoranza, egli introduce “un’ignoranza di secondo livello”, che nasce dalla consapevolezza di “non sapere di non sapere”. Grazie a questa radicale consapevolezza di un perenne “punto cieco” del sapere, si potrà quindi acquisire indefinitamente conoscenza. In questa tesi, si cercherà di mostrare come la conoscenza nasca da un processo cognitivo di interazione con la realtà, per poi affermare che i molteplici metodi di pensiero appartenenti a diverse discipline, creano un'unica rete di conoscenza di fondamentale importanza per lo sviluppo della ricerca. Questo rappresenterà lo scopo della tesi, ponendo come base gnoseologica lo schema sopracitato, e analizzando le prime due battute della 5a sinfonia di Beethoven. Ci si chiederà, in cosa la 5° di Beethoven potrebbe essere utile nella ricerca della conoscenza? Innanzi tutto bisogna valutare cosa rappresentò Beethoven, e successivamente la sua 5° sinfonia, 1 Elias 1900, p.3, 19-23 Von Foerster, H. (1990) “non sapere di non sapere”, in M. Ceruti, L. Preta (a cura di) Che cos’è la conoscenza, Laterza, Roma-Bari 2 3 per il suo tempo. L’estrema complessità della figura del compositore sembra essere custodita nel suo ruolo di transizione tra classicismo e romanticismo; egli è confine, terra di nessuno, tra l’uno e l’altro mondo, senza fare parte, in senso stretto, di alcuno dei due. La sua tecnica è classica, segue rigorosamente i “dictat” armonici e stutturali della scrittura musicale classica dell’epoca anteriore; ciò nonostante il risultato delle sue composizioni è strabiliante, emotivamente dirompente come un fiume in piena, ma soprattutto, diverso dalla musica che lo precede. Come mai, basandosi sulle stesse regole musicali dei classicisti, il suo risultato appare così differente dalla musica più “razionale”, controllata e controllabile di questi ultimi? Cosa ha visto d’altro il compositore di Bonn in quelle stesse regole? Come se non bastasse, egli non ha neppure quell’ espressività caratteristica dell’avvenire romantico, basata sulla ricerca di ulteriori regole, sulla modifica o addirittura l’abbandono di una musica tonale3. Qual’è, dunque, la soluzione all’ “enigma Beethoven”? Numerosi sono gli esempi, con relativi argomenti, che potrebbero dare una risposta, ma pochi sono così esaustivi ed emblematici come le prime due battute della 5° sinfonia. Figura 2. Le prime due battute della 5° sinfonia di Beethoven Quattro note, quattro colpi. La vox populi racconta che il compositore, per comporre il tema portante della 5°, si sia ispirato ad un semplice quanto banale evento: il postino che bussò quattro colpi alla sua porta. Tanto questo fatto lo colpì che qundo il suo primo biografo Anton Schindler chiese delucidazioni sul significato di un inizio così d’impatto egli rispose “ Sono i colpi del destino che bussa alla nostra porta” (“So pocht das Schicksal an die Pforte”4). Beethoven non sapeva, però, che i suoi quattro colpi avrebbero fatto aprire la porta al romanticismo musicale. 3 La musica tonale è quel tipo di musica che stabilisce una gerarchia tra la tonica (la prima nota della scala, che ne decide la tonalità) e tutti gli altri suoni della scala diatonica maggiore o minore. 4 Schindler, Anton. Biographie von Ludwig Van Beethoven, 2° volume, 3a edizione, Ascendorff, Münster, 1860, p. 158 4 Egli non aprì la porta, si limitò a bussare. Come un postino. Un messaggero. Interessante è l’ambiguità del termine “pocht” in tedesco: nel contesto della frase riportata da Schindler prevale l’accezione di “ battere”, mentre il significato letterale è “pulsare”, quindi, la pulsazione scarna diventa, nel contesto, un battito. Proprio come nella musica, dove un insieme di pulsazioni formano una battuta. Beethoven è il legame continuo tra due mondi, con due modi radicalmente opposti di vedere e trattare la stessa cosa. Sembrerebbe che Beethoven si fosse accorto, almeno in ambito musicale, che lo sguardo e la maniera di leggere la realtà, incidono sulla natura dell’osservato, poiché gli si da un senso. Il materiale non differiva da quello in dotazione dai classicisti, ma differiva nel senso. Il compositore sordo, sapeva leggere oltre ciò che gli si presentava davanti. Qui si snoda “l’enigma Beethoven” e qui si vede come egli percorra un processo di scoperta, svelando il “nuovo” dal “vecchio”. Cercheremo di applicare questo stesso metodo di ampliamento della conoscenza ponendo come base già data, non le leggi musicali classiciste, bensì le quattro figure fondamentali delle prime due battute della 5° di Beethoven e spostare il piano di interpretazione dal sistema musicale a quello conoscitivo. In primo luogo analizzando il silenzio in musica. Una voce che tace, che genera dualità, nell’interazione con la voce che suona. La separatezza come base dell’unione. La diade come base per la conoscenza. Secondariamente introducendo la triade, generatrice di movimento nella sua costante asimmetria, scandita dall’unità duale. Si continuerà nell’auscultazione del ritmo come relazione tra diade e triade, che tesse il rapporto tra continuo e discreto. In quarto luogo, introducendo l’emotività come garante armonico della conoscenza. In fine, si chiuderà con l’apertura del contrappunto, nato dal legame tra armonia e ritmo. 5 Capitolo I - Il Silenzio Figura 3. Pause di croma cerchiate in rosso nelle prima due battute della 5° sinfonia di beethoven. Così inizia la 5a sinfonia di Beethoven, con un silenzio. In musica il silenzio o pausa (raffigurato nell'immagine, cerchiato in rosso) è una figura ritmica di una certa durata in cui non viene emesso alcun suono. In questo caso, il silenzio ha la durata di 1/8, in una battuta (delimitata da segmenti verticali che tagliano l'endecalineo ) del valore ritmico totale di 2/4 ( = 4/8), ossia, 2 pulsazioni da ¼ cada una. Proprio perché la battuta costituisce una totalità predefinita, la durata delle figure ritmiche al suo interno (silenzi o suoni che siano) può essere suddivisa indefinitamente. L’inizio di una composizione con una pausa, come nel caso della 5a di Beethoven, è detto acefalo (letteralmente: senza testa). Il silenzio, in realtà, è già presente nel pubblico in sala, prima dell’attacco. Ciò nonostante, la pausa iniziale della prima battuta, per quanto all’orecchio indistinguibile dal silenzio del pubblico, è condizione necessaria del ritmo, è intrinsecamente musica. La particolare importanza di questo elemento risiede proprio nella sua distinzione col suono, generando la loro inscindibile unione. Come nella teoria percettiva della Gestalt, secondo la quale le forme si definiscono per contrapposizione, ogni frequenza che sussegua la pausa è udibile grazie al contrasto con quest'ultima. Analogamente, un sordo dalla nascita (che non conosce, quindi, i suoni e le loro gradualità) non può concepire sequenze foniche, giacché è indispensabile un rapporto silenziorumore internalizzato per il riconoscimento di una qualsiasi sequenza discontinua che voglia costituire una configurazione ritmica sulla base di pausa e suono. La pausa è, dunque, attiva nel definire il suono, proprio per la sua natura di voce che si esprime attraverso il suo silenzio. Essa 6 è la presenza di un’assenza, caratterizzata dall’assenza di una presenza. Un vuoto pieno della sua vacuità. La dualità riscontrata dalla contrapposizione di due segnali opposti (pausa e suono / silenzio e rumore) conduce naturalmente al linguaggio matematico, come relazione fra diverse unità. Inizialmente i sistemi matematici avevano in comune la rappresentazione di un numero tramite un procedimento di tipo additivo (come in quello romano, in cui il valore del numero si ottiene con un veloce calcolo aritmetico per es. 1 = I ; 2 = II = I+I ; 3 = III = I+I+I ; 5 = V ; 4 = IV ossia uno prima di cinque, e così via). L’equivalente ritmico di questa rappresentazione è, dunque, una serie di elementi unitari legati fra loro da un vincolo aritmetico che non prevede discontinuità: come una musica che non contiene la pausa. Ma può considerarsi musica, senza pausa? Con l’avvento del sistema posizionale5 (come quello decimale di uso quotidiano), in cui il valore della cifra è definito rispetto alla sua collocazione all’interno del numero, si introdusse lo zero. Questa cifra, nei sistemi posizionali, permette di “saltare” una posizione e dare il giusto valore alle cifre che lo seguono o lo precedono all’interno dello stesso numero. Etimologicamente ‘zero’ deriva dall’arabo sifr, che vale anche per ‘vuoto’. Curiosamente anche il termine ‘cifra’ deriva dalla stessa radice. Si potrebbe, dunque, supporre che, così come il silenzio definisce il suono, il vuoto (lo zero) definisce il pieno (la cifra). Le basi per la rappresentazione del ritmo hanno, ora, un loro fondamento: lo zero, la pausa. Ma, nel sistema decimale, lo zero è ancora “una cifra tra dieci”, eclissando il suo ruolo nella dualità. Sarà un nuovo sistema posizionale a rafforzarne il valore: il sistema binario. Tale sistema racchiude l’essenza della dualità come descrizione, ponendo come uniche cifre 0 e 1. Le potenziali combinazioni di questi due unici elementi possono produrre un’infinita serie di numeri interi e rappresentare infiniti linguaggi con praticità e velocità di calcolo. Le sequenze binarie e la loro traduzione in impulsi elettrici, sono le fondamenta delle odierne scienze dell’informatica e della computazione6. Tornando alla musica, facendo corrispondere 0 e 1 ai concetti di pausa e suono, l’intrinseca e scarna elementarità di questo linguaggio combinatorio permette, finalmente, la rappresentazione del ritmo nella sua essenza. Se, fin’ora, abbiamo sviluppato un discorso sulla complicità tra pausa e suono per l’individuazione del ritmo, osserveremo, qui di seguito, la loro distizione in quanto altro da: la loro alterità. Questo concetto venne sviluppato da Platone nel Sofista,con l’argomento noto come il 5 6 Nota n°1 dell’appendice, per approfondimenti. Nota n°2 dell’appendice, per approfodimenti. 7 “parricidio di Parmenide”, suo maestro. Parmenide analizzò il contrasto dualistico tra essere e non-essere, concludendone che nel mondo non c'era posto per il non-essere, poiché entrava in contraddizione logica con l'essere. Una cosa non poteva essere se stessa e contemporaneamente non-essere un’altra cosa: sarebbe stata un' illegittima mescolanza tra essere e non-essere. Il filosofo di Elea sostenne, quindi, l'inesistenza del non-essere, giacché esso non è, ponendo l'essere come unico lògos. Non dimentichiamo che nella Grecia antica i piani logico e linguistico erano fusi al discorso ontologico, di conseguenza per Parmenide dire “non-essere” appariva assolutamente insensato. Ma così facendo, eliminando il non-essere dal piano ontologico, il lògos da lui teorizzato negava la sua stessa possibilità di essere in quanto essere, poiché, come abbiamo visto, una dualità è necessaria per poter distinguere almeno un'entità. Analogamente, se avessimo solo il giorno e non avessimo la notte, per noi il giorno non esisterebbe e non riusciremmo a concepirlo. Per Platone, che una cosa non fosse, non significava che non esistesse. Di conseguenza, il nonessere non significa non esistere, bensì essere altro da. Se uno dicesse che il violino non essendo un pianoforte, il pianoforte non esiste, non intende che il pianoforte non esista, poiché quest'asserzione non pregiudica assolutamente l'esistenza del pianoforte, mi indica soltanto che il violino è altro da (diverso da) un pianoforte. L'altro, héteron in greco, introduce, dunque, non solo un nuovo concetto di non-essere (non più come non esistenza ma come alterità), ma pervade l'essere di non-essere dando origine così alla determinazione dell'essere. Il non-essere non rappresenta quindi più l'ignoto, l'illimitato, meglio ancora l'indeterminato. Diventa, quindi, ciò che definisce l'essere, ciò che separa un elemento da un altro, ciò che li distingue, ciò che, appunto, lo determina. Estendendo questa osservazione sul piano della conoscenza, la distinzione tra un elemento ed un altro, crea una rete di elementi con somiglianze e differenze relazionali. A seconda, poi, del livello in cui si voglia posizionare un dato elemento, lo si può confrontare con elementi distinti. Più punti di confronto nascono, più si moltiplicano i concetti e i livelli di conoscenza. Tornando al discorso sul silenzio musicale, possiamo concludere che la pausa non sia una mera assenza di suono, piuttosto la presenza di un’assenza. Poiché, come abbiamo visto, nell’alterità il non-essere, semplicemente è. Abbiamo, dunque, tentato di ascoltare il binomio silenzio/rumore e la loro opposizione. Di consegunza, poiché si definiscono mutuamente, sono imprescindibili l’uno per l’altro, la loro separatezza garantisce la loro unione. La loro dissonanza garantisce la loro consonanza. Ma introducendo questi due termini, si effettua uno spostamento di livello. Infatti, poiché la dissonanza e la consonanza sono rappresentazioni internalizzate, 8 quindi soggettive, della relazione fra pausa e suono, entra qui in campo l’osservatore, nel nostro caso l’ascoltatore. Viene spontaneo tornare qui ad H. Von Foerster, che introdusse la cosiddetta ‘cibernetica di secondo ordine’, in cui il soggetto non è più un osservatore esterno di un dato sistema, bensì parte integrante del sistema stesso. Argomenta il filosofo “Gli oggetti e gli eventi non sono esperienze primitive. Oggetti ed eventi sono rappresentazioni di relazioni. Dato che ‘oggetti’ ed ‘eventi’ non sono esperienze primitive e così non possono rivendicare uno status assoluto (oggettivo), le loro interrelazioni, l’“ambiente”è un affare meramente personale, i cui vincoli sono fattori anatomici o culturali” e prosegue asseredo: “Quelle proprietà che si credeva facessero parte delle cose si sono rivelate essere proprietà dell’osservatore.”7 Sembra essere necessaria, dunque, la presa in considerazione dell’osservatore come facente parte di un dato sistema, nell’osservazione del sistema medesimo. Abbiamo, quindi, nel nostro caso: una pausa, un suono e un ascoltatore. La nostra diade evolve verso la triade. Un evento in particolare invitò a riflettere sul rapporto fra ascoltatore e la dualità silenzio/rumore: l’esecuzione in pubblico il 29 agosto del 1952 della composizione in tre movimenti del compositore sperimentale John Cage (1912-1992) , 4'33’’. 4'33’’ è dunque una composizione tripartita, di cui il primo movimento ha una durata di 30 secondi; il secondo movimento una durata di 2 minuti e 23 secondi; il terzo movimento una durata di 1 minuto e 40 secondi, per un tempo complessivo di, appunto, 4 minuti e 33 secondi. La peculiarità di questa composizione sta nel fatto che siano 4'33’’ di silenzio. Ma di un silenzio puramente strumentale, poiché nella sua esecuzione, la composizione si riempie dei rumori casuali provocati dagli orchestrali e dal pubblico (movimenti della sedia, posizionamento degli spartiti, colpi di tosse, respiri...etc. ). Ma non abbiamo detto che la musica nasce dal gioco di opposizione tra pausa e suono? Se non può darsi musica senza pausa, può darsi musica senza suono? In 4’33’’, John Cage, mostra come, in verità, l’assenza assoluta di suono, non sia possibile. Curioso è il fatto che il compositore statunitense scelse una durata 4'33, che corrispondono a 273 secondi, probabilmente, si racconta, in riferimento allo Zero assoluto fisico corrispondente a 273,15 °C, temperatura irraggiungibile, come il silenzio assoluto. Ecco di nuovo lo zero che torna come vuoto / non vuoto. Ma non solo, in 4’33’’, il pubblico, che fino a quel momento si considerava spettatore esterno, entra a far parte del sistema musicale. Questo cambio di livello, invita il pubblico a modificare “la percezione della propria percezione”, cioè lo spettatore osserva sé stesso nella sua percezione 9 del silenzio e del rumore, spostandone il contesto: quello che prima gli appariva come il vuoto musicale del silenzio strumentale, ora diventa un pieno definito dal ritmo dei rumori di cui lui stesso fa parte. La composizione tripartita di Cage mise dunque in dubbio il concetto di musica in primis, e secondariamente invitò lo spettatore a sentire la relatività di un concetto informativo. Il contenuto di un’informazione non può, quindi, prescindere dal suo collocamento contestuale. Cage rivoluzionò così il piano di percezione, e dunque il criterio con cui si concepiva la musica, esattamente come fece Beethoven con i classicisti. Di come il processo cognitivo porti a questa collocazione contestuale di un’informazione, tratterà il secondo capitolo. 7 Von Foerster, H. Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma , 1987 10 Capitolo II - Tre Crome Figura 4. tre crome cerchiate in rosso nelle prime due battute della 5° sinfonia di Beethoven. Al seguito della pausa, si susseguono tre crome (qui cerchiate in rosso) del valore di 1/8 cada una, completando così la prima battuta della 5a sinfonia di Beethoven, del valore complessivo, come abbiamo detto, di 2/4. Le tre crome in questione, hanno un ruolo emblematico nella 5° sinfonia, proprio perché esse concludono la prima battuta e al contempo, grazie alla natura dispari della figura che crea uno sbilanciamento, lasciano aperto il discorso musicale. Come se non bastasse, le tre crome hanno inoltre la peculiarità di essere identiche sia nella durata che nel suono, poiché rappresentano tutte la nota Sol. Si presenta, dunque, il seguente problema: se una ripetizione è, per definizione monotona e quindi stazionaria, il tre, dal suo canto, è, per la sua natura asimmetrica, sbilanciante e quindi mobile. Come possono convivere contemporaneamente quiete e movimento in un unico stato? Apparentemente, ciò non potrebe darsi, poiché la condizione necessaria per la presenza di uno dovrebbe essere l’assenza dell’altro. Le opzioni appaiono dunque due: la ripetizione ternaria o è quieta o è mobile. Per aiutarci a sciogliere il nodo, analizziamo come nella ripetizione, in verità, la staticità (immaginiamo di saltare sempre sullo stesso punto) sia puramente apparente, poiché essa è uno movimento ripetitivo. Nella ripetizione, ogni elemento, tranne il primo, presuppone la presenza degli elementi che lo precedono. È una sommatoria di una medesima unità nel tempo. Nel caso della ripetizione ternaria della croma nell’attacco della 5° sinfonia di Beethoven, potremmo figurarla, con una rappresentazione presa in prestito dall’insiemistica, in questo modo: 11 Figura 5. Rappresentazione insiemistica della ripetizione ternaria della croma La ripetizione non sussiste, però, di per sé nella sua sequenzialità, ma emerge nella memoria dell’uditore delle crome disposte in sequenza nel tempo. Ovvero, al suonare della terza croma, l’inclusione delle crome precedenti, viene percepita come ripetizione dall’uditore, grazie ad un processo mnemonico. Anche qui, rifacendoci all’affermazione di Von Foerster8, la proprietà che si credeva facesse parte della cosa, si è rivelata essere proprietà dell’uditore. Ma cosa rappresenta dunque la ripetizione terziaria per l’uditore / osservatore? Per indagare questa questione, inizieremo utilizzando un noto aneddoto di guerra. Durante la Prima Guerra mondiale, i soldati fumatori che stavano in trincea, erano costretti ad accendersi una sigaretta con lo stesso cerino (che era preferibile non sprecare), non più di due alla volta. Questo perché l'accensione del suddetto cerino, indicava la posizione dei soldati al nemico (accensione della prima sigaretta), che nel frattempo aggiustava la mira (accensione della seconda sigaretta) e all’accensione della terza sigaretta sentiva di essere pronto per sparare. Per evitare dunque l'agguato di un possibile tiratore scelto, erano costretti a limitare a due le sigarette accese dallo stesso cerino. Questo portò alla credenza popolare per la quale accendersi tre sigarette con lo stesso cerino portasse sfortuna. Da questo esempio, notiamo come per l’osservatore (qui il tiratore scelto) nella ripetizione ternaria di uno stesso elemento (l’accensione della sigaretta), ognuno di loro tre rappresenti per lui un ruolo diverso a seconda della posizione in cui si trovi: la percezione di un evento, la conferma di tale evento, la reazione emotiva alla conferma dell’evento (che porterà all’azione) Vedremo però che il primo istante (il momento in cui il tiratore scelto localizza i nemici all'accensione della prima sigaretta) potrebbe essere anch'esso suddivisibile in tre parti consequenziali: 8 Vedere nota n°7 12 1- i suoi organi sensoriali (in questo caso la vista) gli segnalano un avvenimento (un bagliore nel buio) : la percezione. 2- il soggetto identifica l'elemento scatenante dell'avvenimento (il bagliore), associandolo ad un determinato elemento interiorizzato nella sua memoria ( è una fiamma): l’identificazione. 3- l’elemento identificato viene posto in un contesto ( è una fiamma artificiale di un cerino proveniente dal fronte nemico, nel quale un soldato è intento ad accendersi una sigaretta): il collocamento contestuale. In questa terza fase si adopera una scelta consistente nel distinguere l’elemento precedentemente percepito ed identificato in due modi: o come figura o come sfondo Mettiamo il caso, ad esempio, di un uomo che attraversi una strada trafficata: quest'ultimo udirà miriadi di suoni contemporaneamente. Egli sceglierà di identificarli come sfondo, poiché non potrebbe prestare attenzione ad oguno di loro allo stesso tempo. Se però un clacson suonerà in relativa vicinanza dell'uomo, quest'ultimo si girerà guardingo porgendo tutta la sua attenzione, poiché sceglierà di vederlo come figura. Ma lo stesso uomo, in un altro contesto, che potrebbe essere nel suo appartamento al quinto piano di un edificio, nel caso venisse a sentire rumori di traffico dall'esterno, compreso il clacson, li definirebbe,sempre internamente, tutti come sfondo. Tali decisioni, si potrebbe dire, sembrano essere dunque determinate dalle nostre necessità e desideri in un dato contesto nel quale avviene un evento. Poiché in contesti differenti, diverse sono le nostre necessità, variabile sarà la scelta di identificazione per uno stesso evento. Ma siamo ancora nel campo dell’automatismo, delle reazione istintive. Ci si potrebbe comunque imbattere in casi di indecisione. In questa circostanza, la scelta non è più automatica. Qui l’intervento della ripetizione, può contribuire a confermare la scelta ad un livello più cosciente. Passiamo al secondo ruolo nella ripetizione ternaria, che avevamo prima ipotizzato: il momento della conferma. A questo punto, per dare un esempio, riporteremo una barzelletta che fa proprio al caso nostro: Un uomo, ogni notte, al suo rientro a casa si toglie le scarpe per poi lanciarle a terra una dopo l’altra, provocando un gran frastuono. Finché una notte, dopo essersi tolto la prima scarpa lanciandola come suo solito, prima di togliersi la seconda, realizza che la sua maniera poco delicata di togliersi le calzature avrebbe potuto disturbare i vicini di sotto, e così, decide di poggiarla dolcemente. Il giorno dopo, quest’uomo incontra il vicino, che lo apostrofa furiosamente: “le tue dannate scarpe mi svegliano sempre, ma ieri è andata peggio: sono stato sveglio tutta la notte, in attesa che tu gettassi la seconda!” Notiamo qui come per il vicino l’evento che disturba quotidianamente il suo sonno, è la sua 13 ripetizione giornaliera, a sua volta reiterata dal doppio rumore delle scarpe lanciate. Poiché, per il vicino, la ripetizione quotidiana di questo evento rappresenta il contesto, egli non prevede l’assenza del secondo colpo della scarpa, e quindi della ripetizione. Egli vive un contesto proiettivo. Questo sfalsamento, mette in evidenza come il vicino, che qui assume il ruolo dell’osservatore, consideri oggettiva la propria rappresentazione del contesto e reagisca di conseguenza ( invece di essere contento per essere finalmente in silenzio, si arrabbia proprio per la mancata ripetizione da lui prevista e tanto attesa). È la stessa cosa che successe a parte del pubblico presente in sala quando John Cage presentò 4'33. Il contesto proiettato dal pubblico non prevedeva il contesto proposto dal compositore americano. Le reazioni degli spettatori furono duplici: una parte accolse il nuovo contesto, l’altra lo rifiutò proprio per la mancanza del contesto che si attendeva. Siamo arrivati al terzo ruolo della ripetizione ternaria, la reazione emotiva alla conferma. Come il tiratore avverte che è giunto il momento di sparare, l’ascoltatore dell’attacco della 5° di Beethoven alla terza croma della prima battuta, avverte, anche lui, che è giunto il momento. La tensione lo pervade. Da dove viene quindi questa tensione? Avevamo detto che la ripetizione è conferma, e la conferma, per sua natura, è sicurezza, solidità. All’opposto, la triade, per la sua natura dispari, è disequilibrante, mobile. Ne consegue che la loro sovrapposizione generi una ripetizione triadica, che produce tensione, come una corda tirata da due opposti. D’altro canto la triade, a differenze della dualità, proprio per il suo essere dispari, e per quello sbilanciamento che tende a cadere, produce un movimento che cerca la quiete e la decisione ( a questo proposito è utile notare come in vari contesti sportivi, due “round” possono far pareggiare i giocatori, mentre il terzo ”round” sarà decisivo per la loro vittoria o sconfitta). La stabilità della ripetizione, però, non permette alla triade manifestarsi in questo suo aspetto decisionale. Sarà necessario introdurre un quarto elemento che possa risolvere questa tensione. Beethoven scioglie il nodo aprendo la nuova battuta, con una nota decisiva, un Mi della durata di una minima. Il cecchino, presa la mira, spara. 14 Capitolo III - La Minima Figura 6. Minime cerchiate in rosso nelle prima due battute della 5° sinfonia di Beethoven. La seconda battuta della 5a sinfonia di Beethoven è interamente dominata da una minima. La minima (qui cerchiata in rosso) è una figura ritmica del valore di 2/4 (o ½). In questo caso, essendo la composizione in 2/4, essa ricopre la totalità della battuta. Il tema portante della 5a sinfonia è composto, dunque, da un silenzio susseguito da tre note intervallate ed infine un ultima nota dalla durata continua. Le due battute iniziali costituiscono, nell'insieme, un ritmo vero e proprio. Cos'è dunque il ritmo? L'enciclopedia Treccani ne dà la seguente definizione: Ritmo è “Il succedersi ordinato nel tempo di forme di movimento, e la frequenza con cui le varie fasi del movimento si succedono”. Il ritmo nasce quindi da una suddivisione misurata del tempo. In musica, ad esempio, esistono varie figure ritmiche che indicano la durata di un suono o di una pausa nel tempo. Queste figure ritmiche sono potenzialmente infinite, poiché infinita può essere la suddivisione del tempo definito. Nella storia dell’umanità è sempre stato un problema la definizione del concetto di infinito. Ad esempio Zenone di Elea, elaborò quattro argomenti che sostenevano l'impossibilità di una misura e di una riduzione logica del tempo, ma anche dello spazio, e quindi del movimento, del continuo9, criticando principalmente la scuola pitagorica. Quest'ultima, contrariamente a Zenone di Elea, non concepiva lo spazio ed il tempo come infinitamente divisibili, ed affermava che tutta la realtà era costituita da numeri e che l'universo potesse essere descritto in termini di rapporti tra numeri interi. Questa convinzione, però, fu messa in crisi dalla scoperta delle grandezze 9 Nota n°3 dell’appendice per approfondimenti 15 incommensurabili10. Successivamente, si scoprirono altri numeri con la medesima caratteristica, e vennero raggruppati nell’ordine dei “numeri irrazionali”. Questi ultimi sono dei numeri reali non scrivibili sotto forma di frazione11 e la cui numerazione è interminabile, non formando una sequenza periodica. Il libro decimo degli Elementi di Euclide tratta, difatti, delle grandezze incommensurabili12. Euclide considerava, però, questo libro come facente parte della geometria, piuttosto che dell’aritmetica. Probabilmente perché concepiva il problema dell’incommensurabilità un problema concreto. La scoperta delle grandezze incomensurabili portò, dunque ad un ampliamento di concetto di infinito, poiché un numero irrazionale (come può essere π, e o √2) rappresenta una grandezza finita definita infinitamente e, quindi, indefinitamente. Prima di proseguire, sarebbe opportuno notare come la stessa scrittura geometrica presenti delle aporie. Mettiamo il caso, ad esempio, di disegnare un punto. Ci renderemo subito conto che tale punto, per quanto piccolo esso sia, avrà sempre un’area. Lo stesso accadrà per una retta, la quale, teoricamente, dovrebbe essere una lunghezza senza larghezza. Purtroppo però, è evidente che una retta disegnata ha anche una larghezza, smentendo la definizione stessa di ‘retta’. Avvertiamo subito come l’applicazione fisica di un concetto matematico, tradisca la base matematica sui cui essa stessa si fonda. Come uscire da questa aporia? Una sottigliezza lingustica nel “dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” di Galileo Galilei, ci indica la via. Essa dice: “E prima noteremo questi due puni A e B (...)”13. Il termine “ noteremo” e, dunque, “notare” è qui di fondamentale importanza. ‘Notare’ deriva da ‘nota’, ovvero un simbolo od un grafema che sta per qualcosa. Essa ha un ruolo puramente rappresentativo, rimandando ad un contenuto fisico che non detiene. Parimenti il linguaggio scritto musicale è composto da note su di un pentagramma, le quali non sono di per sé dei suoni con le loro rispettive durate, ma li rappresentano. Quando Galileo scrive “noteremo” due punti A e B, egli sottointende l’impossibilità di trascrivere un punto, se non come rappresentazione di un qualcosa che ‘sta per’. In ugual modo, per i numeri irrazionali si scelsero grafemi appositi (come π ed e) o numeri indicanti un operazione aritmetica il cuale risultato sarebbe stato tale irrazionale (come √2 o √5). Questo permise di gestire comodamente grandezze incommensurabili. Riprendiamo la celebre citazione di Galileo contenuta nel Saggiatore. Egli afferma che la natura 10 Nota n°4 dell’appendice per approfondimenti con il numeratore e denominatore numeri interi, e il denominatore in questione, diverso da zero. 1212 “Quelle quantità, seranno dette comunicante, ouero comensurabile, alle quale serà una quantità numerante communamente quelle. Et quelle alle quale non serà una quantità numerante comunamente quelle seranno dette incommensurabile” Euclide, Elementi, Libro X, p.1 13 Galileo Galilei, Dialogosopra I due massimisistemi del mondo, Pdf 11 16 è scritta in linguaggio matematico, i cui caratteri sono triangoli, cerchi, quadrati...etc. Galileo ha un metodo di scoperta basato sull’esperimento e la sua riproducibilità in un contesto controllato, grazie al quale misurerà e, conseguentemente, descriverà matematicamente (in maggior parte geometricamente) , i rapporti tra gli enti di un dato esperimento ( o evento ). Questa matematizzazione della fisica, e quindi di un mondo dagli effetti apparentemente continui, influenzò, certamente, l’approccio dei fisici ad un metodo di descrizione matematica. Ma soprattutto i matematici, i quali resero la loro disciplina molto più applicabile, aumentando notevolmente la ricerca matematica per una descrizione (e, quindi, anche per la previsione) di un dato fenomeno. Notare, che prima di questa “rivoluzione galileiana” gran parte degli studiosi, si occupavano sia di matematica che di fisica ( ma anche di altre discipline come le arti, la musica o la filosofia). La settorizzazione disciplinare non era marcata come lo può essere ai giorni nostri, ciò nonostante, mai la matematica fu così affine alla fisica come con Galileo, creando i fondamenti di una scienza matematica. La geometria e l’algebra furono messe in connessione grazie al sistema di riferimento cartesiano, che è anche un metodo per localizzare un punto nello spazio. Come abbiamo visto precedentemente, il punto “notato” di Galileo, che quindi graficamente rappresentiamo con un grafema che ‘sta per’, nel caso del piano cartesiano, il punto è perfettamente collocabile; non solamente lo rappresenta, ma lo definisce nello spazio come rapporto tra due o più dimensioni. Individuare un punto in uno spazio (o una retta che sia) diventa molto più facile e preciso grazie ad un metodo di definizione spaziale in cui la sua posizione è detrminata dal rapporto ortogonale di ascisse e ordinate. Sapendo che, se si dovesse tracciare una retta, gli infiniti punti sarebbero velocemente localizzabili e la retta stessa sarebbe definibile con una funzione (f) ovvero il collegamento o relazione esistente fra due o più variabili: l’insieme di punti che ad una x (detta variabile indipendente) fanno corrispondere una sola y ( detta variabile dipendente) tale che y = f(x). Come fare, però, con una curva? Come definire la sua forma se gli infiniti punti che la costituiscono sono di posizione variabile e graduale? Di questo si occuparono contemporaneamente, ma indipendentemente, Leibniz e Newton. Essi, grazie a questo metodo, introdussero il calcolo infinitesimale, base per la misura e la matematizzazione del continuo. Il calcolo infinitesimale (e quindi l’analisi matematica), rappresentò un punto di svolta nella storia della matematica, poiché, esso permetteva l’analisi di sistemi fisici continui. Sfruttando le grandi potenzialità del sistema cartesiano, si provò ad individuare un punto in una curva (come poteva presentarsi in ambito fisico), ma data la sua gradualità, una misurazione precisa era pressoché impossibile. 17 Il filosofo, matematico e studioso multidisciplinare tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (16461716) non si arrese ad un idea di infinito incalcolabile. Egli scriveva14: “ Le vrai infini, à la rigeur, n’est que dans l’absolu, qui est antérieur à toute composition et n’est point formé par l’addition des parties”15, d’altra parte “ on se trompe en voulant imaginer un éspace absolu, qui soit un tout infini, composé de parties. Il n’y a rien de tel”16 ma egli continua asserendo “Prenons une ligne droite, et prolongeons-là, en sorte qu’elle soit double de la première. Or, il est clair que la seconde, étant parfaitement semblable à la première, peut être doublée de même pour avoir la troisième qui est encore semblable aux précedentes; et la même raison ayant toujours lieu, il n’est jamais possible qu’on soit arrêté; ainsi la ligne peut être prolongée à l’infini; de sorte que la considération de l’infini vient de celle de la similitude ou de la même raison, et son origine est la même avec celle des vérités universelles et nécessaires”17 . Indubbiamente l’immagine spaziale è inadeguata all’idea pura di infinito; non è sull’immagine spaziale che la realtà dell’ infinito poggia, è un processo dell’intelletto, del quale i cartesiani si erano serviti per provare l’esistenza di un infinito, trascendente alla potenza propriamente umana. Da qui l’originalità di Leibniz, che scrive (a proposito di Père Du Tertre) “ L’auteur ajoute que dans la prétendue connaissance de l’infini, l’ésprit voit seulement que les longuers peuvent être mises bout à bout et répétées tant que l’on voudra. Fort bien; mais cet auteur pouvait considérer que c’est déja connaître l’infini que de connaître que cette répétition se peut toujours faire”18. Leibniz sapeva che il suo argomento era valido per un approccio matematico dell’infinito, riducendolo alla somma di identità, ma per quanto riguardava la fisica sarebbe stata un altra cosa; egli scrive così in una corrispondenza con Clarke: “ Ce seul principe suffit pour démontrer toute l’arithmétique et toute la géometrie, c’est à dire tous les principes mathématiques. Mais pour passer de la mathématique à la physique, il faut encore un autre principe”19. A questo punto, soffermiamoci ad analizzare, in concreto, quali problemi crei l’idea di infinito nel panorama conoscitivo. 14 Brunschvicg, L., Les étapes de la philosophie mathématique, Librairie scientifique et technique, Parigi, 1972, p.213 sgg. 15 “Il vero infinito, rigorosamente, non sussiste che nell’assoluto, anteriore a qualsivoglia composizione e non è affatto formato dalla somma delle parti” 16 “Ci si sbaglia a voler immaginare uno spazio assoluto, infinito, composto per parti. Non esiste nulla di tutto ciò” 17 “prendiamo una linea retta, e prolunghiamola, in maniera tale che misuri il doppio della prima. È, dunque, chiaro che la seconda, essendo perfettamente simile alla prima, può essere duplicata a sua volta, risultandone una terza simile alle precedenti; e se il processo continuasse, sarebbe impossile essere interrotti; così la linea potrà essere prolungata all’infinito; in maniera tale che la considerazione di infinito derivi da quella di similitudine o dalla stessa logica, e la sua origine è la stessa delle verità universali e necessarie” 18 ” L’autore aggiunge che nella pretesa conoscenza dell’infinito, lo spirito vede solamente che le lunghezze possano essere sommate da capo a capo e che l’operazione sia ripetibile ad libitum. Benissimo. Ma questo autore poteva considerare che è già un conoscere l’infinito, il fatto di conoscere che questa ripetibilità si possa sempre fare”. 19 “Basta solo questo principio per dimostrare tutta l’aritmetica e tutta la geometria, ovvero tutti i principi matematici. Ma per passare dalla matematica alla fisica, ci vuole ancora un altro principio” 18 Se prendiamo, ad esempio, la frangia visibile dello spettro elettromagnetico e ne osserviamo le diverse gradualità che passano da un colore all’altro, con agli estremi il rosso ed il violetto, ci si renderà subito conto della difficoltà nel definire le miriadi di tonalità che la compongono. L’unica soluzione sembra dunque contare sulla percezione, ma per la rappresentabilità della varietà in un sistema contiunuo si rende necessario fare appello ad un sistema discreto, un sistema graduale. La gradualità (dal latino gradus, grado, scalino) è l’approssiazione maggiore alla quale l’uomo possa giungere nella rappresentazione dell’infinito. Leibniz ci indica, difatti, un metodo graduale per concepire l’infinito, un metodo basato sulla sommatoria infinita di una stessa unità. Come abbiamo detto in precedenza, base della ripetizione e della definizione è la diade. Per che ci sia questa dualità è necessaria la finitezza, poiché soltanto il limite ci consente la descrizione e, quindi, il confronto. Difatti, non sembra affatto casuale l’utilizzo del termine limite in analisi matematica. Il limite è un concetto che permette la misurazione del continuo, poiché esso sostituisce l’idea di punto con quella di intervallo. Immaginiamo, in una funzione, un intervallo AB sul piano dell’ascisse (x) al quale corrisponderà un intervallo A’B’ sul piano dell’ordinata (y). Più piccolo sarà l’intervallo, più sarà circoscritto un dato punto. L’utilizzo del limite permise un calcolo e una misurazione di molteplici eventi e fenomeni fisici. Poiché un intervallo (AB) è costituito da una diade, che è definizione e finitezza, esso sembra l’unico metodo di orientamento in un sistema continuo. L’approssimazione massima ad un dato valore. Ma ci rediamo subito conto che una rappresentazione del continuo tramite intervalli finiti è pur sempre un metodo graduale (ovvero per scale, “step”). Come ci insegna Leibniz tramite una tautologia, per poter effettuare un’infinita somma delle parti, è necessario concepire l’infinito. Ciò nonostante, il filosofo tedesco, asserisce che un’infinita somma delle parti, non è sufficiente per definire il “vero” infinito che abita l’assoluto. Sicuramente, ma il “vero infinito” deve essere definibile, come poterlo concepire sennò? In ugual modo, poiché per definire si necessita la finitezza, limitare l’illimitato per definire quest’ultimo, non presenterebbe forse un aporia? Poiché sappiamo che la definizione nasce necessariamente dalla dualità,come possiamo definire la finitezza se non tramite il confronto con l’infinito? Nel concepire la dualità, distinguiamo le differenze tra un dato ed un altro, concepiamo quindi l’assenza, e lavorando ad un meta-livello, possiamo porre l’assenza della diade, ponendo la dualità tra “diade” e “assenza della diade” e quindi tra finitezza ed infinito. Pensiamo dunque la finitezza tramite la sua assenza, l’infinito, e l’illimitato come riflesso della finitezza, proprio per il fatto che continuo e discreto costituiscono 19 un sistema nel quale questi due si definiscono mutuamente. L’unica maniera quindi per concepire l’infinito “assoluto”, sembra essere, non definirlo direttamente, incappando nella precedente aporia, ma tramite il riflesso della finitezza. Ad esempio la lingua italiana utilizza solo parole in negativo quali: infinito ; illimitato ; indefinito. Nella teoria egli insiemi, difatti, non è rappresentabile “l’insieme di tutti gli insiemi” o “l’insieme universo” se non come il complementare di un insieme vuoto. Analogamente accade con la teologia negativa, introdotta da Plotino, in cui di Dio (infinito) possiamo dire solo “quello che egli non è, ma non diciamo quello che Egli è. Diciamo di Lui partendo dalle cose che sono dopo di Lui”20. Abbiamo dunque infinito e finito che si definiscono mutuamente, tramite la diade, l’alterità, la loro interferenza. Per introdurre questo termine, prendiamo l’esempio di un segnale continuo, che viene interrotto a intervalli regolari: ne risulterebbero segnali indistinti, udibili solo grazie al silenzio, alla pausa, che li separa. Ora mettiamo un segnale continuo interrotto ad intervalli irregolari: questa volta, ne risulterebbero diversi segnali di diversa lunghezza, non solo udibili grazie alla pausa, ma distinguibili proprio dal rapporto che ognuno intrattiene con il silenzio, generando un segnale modulato. La modulazione potrebbe, quindi, essere definita come un differente rapporto tra il continuo ed il discreto, tra segnale ed interferenza. Le prime due battute della 5° sinfonia di Beethoven cosituiscono anch’esse un segnale modulato: pausa, tre note corte, una nota lunga; un ritmo. Curioso è il fatto che, proprio l’attacco della 5° sinfonia, venne utilizzata durante la seconda guerra mondiale da Radio Londra per annunciare la trasmissione dei messaggi alleati, poiché, tradotto in codice Morse, l’attacco della 5a (– – – — ) rappresenta la “V” di “Victory”. Si può dunque reinterpretare la musica come un insieme di segnali morse, e viceversa il linguaggio è traducibile in musica tramite il medesimo codice. La traduzione non è, però, essa stessa una modulazione? La traduzione si effettua tramite un processo di analogia, di uguaglianza o similitudine tra i termini, in questo caso tra linguaggio musicale e codice morse. Poiché, a causa della nostra soggettività, la conoscenza è una mera traduzione del reale, e poiché ogni sistema coerente (come può essere, la matematica, una data lingua, la musica...etc.) è una diversa modulazione del reale, la traduzione di un dato può essere effettuata in un qualsiasi linguaggio coerente, a prescindere dall’oggetto osservato. Cosicché uno stesso problema, a seconda del linguaggio che si adoperi, porterà (avendo ogni sistema logiche differenti) a conclusioni differenti. Ad esempio, proponiamo un celebre indovinello: Collegare tutti e nove i punti utilizzando quattro rette senza mai alzare la penna. 20 Figura 7. Indovinello dei nove punti Mettiamo il caso che un matematico specializzato in geometria ed un pittore puntinista si cimentino a risolverlo. Entrambi hanno una concezione di spazio, modulata però secondo i propri linguaggi (geometrico e puntinista). L’enigma viene così risolto: Figura 8. Indovinello dei nove punti risolto. Per quanto all’apparenza impossibile, la soluzione sta nel non concepire i nove punti come un quadrato entro il quale non possiamo muoverci, rompendo questo vincolo, è dunque possibile risolvere il problema. Probabilmente, tornando al matematico ed al pittore puntinista, il primo tarderà di più a trovare la soluzione giacché, essendo abituato a pensare forme geometriche definite, penserà subito ad un quadrato entro il quale non si potrà muovere. A differenza del pittore che, considerando lo spazio come un continuum senza confini, non avrà problemi a rompere il suddetto vincolo, e concludere, così, il compito. Modulando, quindi, il contesto nel quale si situa il medesimo dato, poiché ogni oggetto definisce ed è ridefinito da ciò che lo circonda, arriveremo a differenti conseguenze logiche e quindi 20 Plotino, Enneadi, V, 3 21 diverse conclusioni. La modulazione potendo essere definita come il rapporto tra segnale contiunuo e discreto, può rappresentare un ritmo, rapporto tra pausa e suono. Ogni sistema lingustico coerente, quindi, rappresenta un ritmo differente. Questa sembra essere la chiave all’enigma Beethoven, che con le stesse leggi armoniche dei classicisti, porta diversi risultati. Beethoven ritma quelle leggi soggettivamente. Questo spiega il cambio di veduta. Ma come capire la dirompenza della 5° sinfonia e delle sue composizioni? Come dare profondità, e quindi tridimensionalità, alla conoscenza? Grazie all’emotività, accento ritmico e garante armonico della conoscenza. 22 Capitolo IV – Il Punto Coronato Figura 9. Punti coronati cerchiati in rosso nelle prime due battute della 5° sinfonia di Beethoven. Il punto coronato (qui cerchiato in rosso) è una figura espressiva musicale che prolunga la durata della nota su di cui è posta a discrezione dell’esecutore o del direttore d’orchestra. Non si tratta quindi più di tempi misurabili oggettivamente, prevedibili, razionalizzabili in una certa durata, bensì di un tempo emotivo, quindi soggettivo ed unico. La profondità di una poesia, ad esempio, non sta nei possibili virtuosismi linguistici, o nel senso che essa contiene, ma nell’emozione provata d’innanzi a tale senso, nel “senso del senso”. L’emotività dona la tridimensionalità. In musica, ad esempio, la stessa 5° sinfonia diretta da un più “dilatato” e soffice Bruno Walter, o da un più “ristretto” e dinamico Herbert Von Karajan, presenta emozioni differenti e quindi modulazioni differenti della stessa cosa.. La musica è l’arte effimera per eccellenza, poiché, non può essere conchiusa razionalmente. Essa è nel tempo, nel divenire: non si ha il tempo di percepire una nota che ne arriva un altra, portando con se tutt’altro bagaglio di quella precedente e a sua volta scomparirà, lasciando il presente alle seguenti. Una composizione è nella sua totalità. Un solo movimento della 5° sinfonia non costituisce la sua interezza e coerenza, essa sarà la 5° quando tutti i suoi movimenti la comporrano in ordine. Ciò nonostante, mai udiremo la sinfonia nella sua interezza, ma solo nota pere nota e, come con la ripetizione, con il ricordo delle note precedenti. Razionalmente, la potremmo concepire, analizzando armonicamente le sue strutture. Ma la sua caducità, il suo essere infinitesimale, è percepibile e vivibile solo tramite l’emozione. l ‘emozione agisce sul presente. Nel rimembrare un dato ricordo, l’evento mnemonico è passato, ma l’emozione che si prova d’innazi a quel ricordo è presente. L’emozione permette di dialogare nel qui ed ora, essa ci porta a decisioni, dandoci un 23 impressione di cìo che potrebbe rappresentare per noi un beneficio od un pericolo. Essa permette il dubbio, ad esempio, nel seguire una data ipotesi piuttosto che un’altra o incuriosirci a tal punto da cercarne il più possibile. L’emotività è ciò che permette una presa di posizione rispetto agli eventi, dando loro un senso. È, nel discorso musicale, l’accento ritmico. L’accento, in musica, è ciò conferisce una particolare importanza ad una nota rispetto alle altre. È l’ememento che crea distinzione tra una nota e l’altra, assegnando un ruolo differente. Ogni soggetto, proprio per la sua soggettività, accentua un dato ritmo in maniera unica. Avendo supposto, nel capitolo precedente, che ogni sistema linguistico coerente possa essere rappresentato da un ritmo a sé stante, l’espressività di ogni soggetto porta, dunque, ad interpretare in maniera unica ogni sistema linguistico coerente, ponendo l’accento secondo criteri affini al soggetto. Ma da cosa è determinata l’affinità di questi criteri con il soggetto? Qui è utile introdurre il concetto di risonanza. La risonanza può essere definita come l’eco che è prodotto in noi da un dato evento, associando tale evento all’emozione di una propria esperienza vissuta, facendoci sentire che è legato a noi stessi, non essendo, tuttavia, riducibile a noi stessi. Ciò che sentiamo è scolpito, amplificato e creato da noi stessi. La risonanza rappresenta l’armonia nella conoscenza. Il termine armonia (dal greco armonìa) , difatti, vale collegamento, disposizione, proporzione; a sua volta, dal greco armòzein, connettere, collegare, essere d’accordo. Sembra naturale, poiché ne abbiamo parlato lungo la tesi, il collegamento al termine sistema, dal greco systema, composto dalla particella syn, ovvero con, insieme, e stênai, stare, collocare. Vale quindi stare insieme. L’emotività sembra dunque essere il garante armonico della conoscenza, esattamente come l’armonia è ciò che colora la musica. Abbiamo finalmente: pausa, ritmo, accento ed amronia. L’attacco della 5° sinfonia di Beethoven è completo, possiamo, ora, proseguire con l’ascolto. 24 Conclusioni In musica, il contrappunto è un intreccio di voci o linee melodiche indipendenti che formano, nel loro rapporto, una totalità che supera la somma delle parti. Nel corso di questa tesi si è cercato di mostrare come la conoscenza possa essere concepita sotto forma di contrappunto musicale a partire da quello che abbiamo definito “l’enigma Beethoven”. Il fulcro di tale enigma sembra, dunque, aver trovato un possibile dispiegamento, grazie all’analisi di tutte le figure che compongono l’attacco della 5° sinfonia: il compositore tedesco ha cambiato la chiave di lettura nel leggere le leggi armonice classiciste. Analogamente a quanto accade nel solfeggio musicale, nel quale la lettura di una stessa disposizione delle note su di un pentagramma, varia a seconda della chiave (come può essere quella di violino o di basso). Mai si è parlato però di melodia. Ora è il momento di farlo, poiché essa nasce con la chiusura delle prime due battute della 5° e dall’unione di ritmo e armonia. Date le osservazioni che abbiamo riportato lungo questa tesi, potremmo dire che un sistema linguistico coerente adottato da un osservatore, costituisce una possibile melodia della conoscenza. Poiché essa unisce l’elemento ritmico di un sistema linguistico coerente all’elemento armonico del bagaglio interno di un osservatore. Quando veniamo a considerare, quindi, la conoscenza come un contrappunto, essa diviene un intreccio di linguaggi indipendenti suonati dalle nostre soggettività, in cui il loro rapporto viene a creare una totalità che supera l’insieme delle parti. Questa visione contrappuntistica della conoscenza è stata usata, in questa tesi, come metodo di ricerca e approfondimento per l’esposizione stessa di questa visione nella tesi. Cercando di mostrare, come la stessa conoscenza sia ‘proprietà dell’osservatore’ e quindi riutilizzabile per allargare gli orizzonti, cambiando chiave di lettura. “Questo è il mio punto di vista. Se non ti piace, ne ho degli altri...” Groucho Marx 25 Appendice 1. Il nostro sistema numerico tradizionale è a base 10 (i cui elementi sono le cifre che vanno da 0 a 9) ed è un sistema posizionale (contrapposto al sistema additivo, come quello romano, in cui il valore del numero si calcola con un veloce calcolo aritmetico per es. 1 = I ; 2 = II = I+I ; 3 = III = I+I+I ; 5 = V ; 4 = IV ossia uno prima di cinque, e così via). Il sistema posizionale da il valore alla cifra rispetto a dove si trovi rispetto al numero. Procedendo da destra a sinistra avremo: le unità; le decine; le centinaia; le migliaia e così facendo ogni posizione aumenta il proprio valore esponenzialmente di m x 10^n (in cui: n = numero di posizione da sinistra a destra, 0 per la prima posizione, 1 per la seconda 2 per la terza ...etc. ; m = la cifra raffigurata in data posizione ; 10 = la base numerica del sistema decimale) . Per esempio: 389 sarà, 9 x 10^0 = 9 Per la prima posizione ; 8 X 10^1 = 80 per la seconda posizione ; 3 X 10^2 = 300, dando 300 + 80 + 9 = 389. Nel caso di 309 invece avremo 300 (3 centinaia) 0 (nessuna decina) 9 (unità). Lo zero permette di 'saltare' una posizione, in questo caso quella mediana delle decine. Per quanto riguarda il sistema binario (a base 2), è sempre un sistema posizionale (avente però solo 0 e 1 come cifre) e seguirà, quindi, la stessa logica esponenziale, vista poc'anzi, per il passaggio da una posizione all'altra, (procedendo sempre da sinistra a destra) ovvero: m x 2^n (in questo caso il '2' rappresenta la base 2 del sistema binario). Per esempio: 101 sarà, 1 X 2^0 = 1 per la prima posizione ; 0 x 2^1 = 0 per la seconda posizione ; 1 x 2^2 = 4 per la terza posizione, dando 4 + 0 + 1 = 5 (nel nostro sistema decimale) 2. Nel linguaggio computazionale, una cifra binaria è detta bit (binary digit), per cui il numero 3 (in codice binario 11) è una cifra a 2 bit. Mettiamo il caso, ad esempio, di voler descrivere l'alfabeto italiano, composto da 21 lettere, in sistema binario, numerando le lettere alla A alla Z. 21 in sistema binario corrisponde a 10101, ovvero 5 bit. Quindi per poter usare l'alfabeto della lingua italiana occorre un sistema di codifica a 5 bit. Vediamo come questa dualità fisica ci porti ad un sistema descrittivo della realtà tramite questi due segnali, 0 e 1 3-Il primo argomento tratta dell'impossibilità di attraversare infiniti punti spaziali o temporali che siano, ponendo il seguente paradosso: Mettiamo il caso di voler arrivare da un punto A ad un punto B. Per poter arrivare a B è necessario passare per la metà di questo segmento (che chiameremo A'), successivamente per poter giungere ad A' dobbiamo passare per la meta del 26 segmento A-A' (che chiameremo A''), notiamo che questo processo di “bisezione” può continuare all'infinito. La logica sembra dunque indicarci l'impossibilità di movimento nello spazio, cosa evidentemente smentita dall'esperienza quotidiana, generando un paradosso. Il secondo argomento, quello di “Achille e la tartaruga”, non è dissimile dal primo. Esso consiste in un'ipotetica gara fra, appunto Achille ( simbolo di velocità) ed una tartaruga (simbolo di lentezza) nella quale quest'ultima parte con un vantaggio concessole da Achille. Quando però Achille dovrà raggiungere la tartaruga, dovrà arrivare alla posizione (A) occupata da quest'ultima, una volta giunto in A la tartaruga avrà comunque guadagnato distanza nel frattempo, ripetendo il processo all'infinito se ne conclude che, parafrasando Aristotele che parla al riguardo, ' un mobile più lento non può essere raggiunto da uno più rapido' per quanto appena spiegato e risulta, dunque, che ' il primo conserva sempre un vantaggio sul secondo'. Il terzo argomento pone come base il lancio di una freccia, affermando che la frecca in moto è in quiete: (DK 29A26) “tutto ciò che è lungo uno spazio uguale a sé, o è in quiete o si muove; ma è impossibile che si muova lungo uno spazio uguale a sé: dunque è in quiete. Ora, la freccia si muove, siccome si trova lungo uno spazio uguale a sé in ciascuno degli istanti di tempo durante i quali si muove, sarà in quiete; se è in quiete in tutti gli istanti di tempo che sono infiniti, sarà in quiete anche in tutto il tempo. Ma si era posto che essa fosse in movimento: dunque la freccia in movimento sarà in quiete.” Il quarto argomento riguarda tre “masse” uguali ( A, B e C) posizionate una parallela all'altra ( non sulla stessa retta ) al centro di uno stadio. Mettiamo che la massa A si muova verso l' “inizio” dello stadio alla sinistra,e che, contemporaneamente e ad egual velocità, la massa C si muova verso la fine dello stadio alla destra, ed, infine, la massa B ,centrale ed immobile. Quando la massa A sarà avanzata di 1 rispetto a B, ugualmente avrà fatto C con B. Ma contemporaneamente A rispetto B (e viceversa) sarà avanzato di 2, andando al doppio della velocità nel medesimo istante, evidenziando quindi una contraddizione. Il paradosso in verità non sussiste, giacché, la due diverse velocità sono calcolate in rapporto a due diversi punti di riferimento. 4.Tale è la dimostrazione per assurdo che le introdusse: Siano D e S la diagonale ed il lato di un quadrato, (per il teorema di Pitagora D2 = S2 + S2 ) ed assumiamo che essi siano commensurabili (che il loro rapporto sia, dunque, un numero razionale) uguale p/q dove p e q sono primi fra loro, senza, quindi, fattori comuni. Si ipotizza 27 che: 2 = p2 : q2 , e quindi p2 = 2q2, dal quale si deduce che p2 è pari, e dunque è pari anche p, si ha, ovvero, p = 2r per un intero positivo r. Dato che p è pari si deduce, poiché p e q sono primi fra loro che q è dispari. Si ha, d’altronde, 2q2 = 4r2, ovvero q2 = 2r2, da cui si deduce che q2 è pari. Quindi q è pari oltre che dipari, risultato contraddittorio. 5. Il piano cartesiano consiste in n rette ortogonali (rappresentanti ogni una una dimensione) che si intersecano in un origine O , il piano cartesiano (rappresentante un sistema di rifrimento a due dimensioni) è composto da un’ascisse orizzontale (x) e da un’odrinata verticale (y) che si intersecano perpendicolarmente in un origine (O). 6. Mettiamo un altro caso, ad esempio, della divisione di un qualsiasi numero n ≠ 0 per 0. Sappiamo che se effettuassimo l’operazione: 8/0 sulla calcolatrice, essa ci scriverebbe “ERRORE” sul display. Proviamo, dunque, a dividere 8 per numeri vicini allo 0, come: 8/0,1 = 80 ; 8/0,01 = 800 ; 8/0,001= 8000 Ovviamente, più piccolo sarà il numero al denominatore, più grande sarà il valore della frazione. Quindi, nonostante l’operazione n/0 non abbia senso, possiamo dire che il limite di una frazione il cui denoinatore tende a zero, è infinito, matematicamente scivibile come: limx->0 n/x = ∞ ( con n ≠ 0). 28 Biliografia - Bateson, G., verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976, 23 ed. - Bonazzi, M.; Cardullo,R.L.; Casertano, G.; Spinelli, E. 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