Tesi di Laurea - Istituto Nazionale di Fisica Nucleare

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA
“TOR VERGATA”
Facoltà di scienze Matematiche, Fisiche e Naturali
Corso di Laurea triennale in Fisica
Tesi di Laurea
Studio della risposta di un rivelatore di cristalli di BGO
ad un fascio di elettroni di test
Relatore:
Laureando:
Dr.ssa ALESSIA FANTINI
ELISA MINUCCI
Relatore Esterno:
Dr.ssa RACHELE ANNA DI SALVO
ANNO ACCADEMICO 2009-2010
Introduzione
Il soggetto di questo lavoro di tesi è stato lo studio della risposta di un rivelatore di BGO ad un fascio di elettroni di test prodotto dalla Beam Test Facility di Frascati.
Nel corso di questo lavoro ho appreso i principi di funzionamento dei calorimetri elettromagnetici e più in generale i meccanismi dell'interazione radiazione­materia, sui quali si basa il funzionamento di ogni rivelatore.
Ho inoltre appreso i principi sui quali si basa l'elaborazione dei segnali provenienti da un rivelatore attraverso la costruzione di una catena elettronica opportuna. Il funzionamento della catena elettronica associata al nostro rivelatore è stata approfonditamente da me studiata e testata in laboratorio con misure di raggi cosmici, osservazioni all'oscilloscopio e attraverso l'utilizzo di programmi di acquisizione.
Nel corso di un esperimento a cui ho preso parte attivamente, ho partecipato all'installazione dell'apparato sperimentale e della catena elettronica nella sala sperimentale della BTF; ho partecipato alla presa dati relativa e ho lavorato sulla successiva analisi dei dati registrati, scrivendo un mio programma di analisi dei risultati in linguaggio C++ e utilizzando anche librerie di ROOT.
Nel primo capitolo ho descritto i principi generali dell'interazione radiazione­materia, con particolare attenzione ai meccanismi alla base della produzione degli sciami elettromagnetici sui quali si fonda il funzionamento dei calorimetri e.m. come quello da me studiato.
Nel secondo capitolo viene descritto l'apparato sperimentale, la catena elettronica e il test effettuato presso la BTF di Frascati.
Nel terzo capitolo infine viene presentata l'analisi dei risultati ottenuti, con particolare attenzione ai parametri di linearità e risoluzione dell'apparato sperimentale in studio.
i
Indice
Introduzione
i
Indice
ii
1. Interazione radiazione­materia 1
1.1 Interazione delle particelle cariche …....................................................................... 1
1.2 Interazione della radiazione neutra …....................................................................... 6
2. Descrizione dell'apparato sperimentale
10
2.1 I calorimetri elettromagnetici …................................................................................10
2.2 Il fotomoltiplicatore ….............................................................................................. 11
2.3 Descrizione del rivelatore …..................................................................................... 12
2.4 La catena elettronica …............................................................................................. 14
2.5 Il modulo ADC …..................................................................................................... 15
2.6 Descrizione dei test …...............................................................................................16
2.7 Banco di test …..........................................................................................................17
2.8Calibrazione dei cristalli con una sorgente di sodio …...............................................18
3. Analisi dati
20
3.1 Spettro energetico del fascio di test............................................................................20
3.2 Fit dello spettro elettromagnetico...............................................................................22
3.3 Linearità del rivelatore …..........................................................................................26
3.4Risoluzione relativa del rivelatore …......................................................................... 28
Conclusioni
30
ii
Capitolo 1
Interazione radiazione­materia
L'interazione della radiazione con la materia è il principio fondamentale su cui si basa lo studio delle particelle, in quanto permette di misurarne la posizione, l'impulso, l'energia e il tempo e anche di identificarle.
Distinguiamo due tipologie di radiazione: la radiazione carica e la radiazione neutra.
1.1 Interazione delle particelle cariche.
Il passaggio di particelle cariche attraverso un mezzo, che può essere solido, liquido o gassoso, produce due effetti fondamentali: la perdita di energia da parte delle particelle e la deflessione di queste rispetto alla loro traiettoria di incidenza.
Poiché la perdita di energia avviene con meccanismi diversi per particelle leggere (elettroni e positroni) e per particelle più pesanti (protoni, pioni, muoni...), è utile studiare questi due gruppi separatamente.
L'energia trasferita nella diffusione elastica, dovuta all'interazione coulombiana della particella incidente con il campo prodotto dai nuclei del mezzo, è trascurabile se la massa dei nuclei del materiale è grande rispetto alla massa della particella incidente.
Per le particelle pesanti la perdita di energia avviene principalmente attraverso l'urto anelastico sugli elettroni atomici del materiale attraversato; la sezione d'urto del processo è elevata, dell'ordine di  = 107­108 barn (1barn = 10­24 cm2); ciò significa che, anche se l'energia persa dalla particella in ogni singola collisione è piccola, il numero di urti subiti dalla particella stessa per unità di percorso è grande e quindi la perdita totale di energia sarà elevata. Il risultato di tale processo può essere l'eccitazione degli atomi o la ionizzazione di questi con la conseguente creazione di coppie ione­
elettrone.
La collisione anelastica è un meccanismo statistico. Le fluttuazioni dell'energia persa per singola collisione intorno a un valore medio sono piccole, per cui è possibile definire la perdita media di energia per unità di percorso, dE/dx, che dipende dal materiale attraversato, dalla carica e dalla velocità della particella incidente, ma non dalla sua massa.
Questa grandezza è ben descritta dalla formula di Bethe­Bloch, che è valida nelle seguenti ipotesi:
● la particella incidente deve essere molto più massiva dell'elettrone in modo da non subire una grande deflessione;
● la particella deve avere un'alta velocità così che gli elettroni possano essere considerati come a riposo e liberi ed il campo esercitato da ciascuno di essi sulla particella attraversante possa essere quindi considerato costante.
La formula di Bethe­Bloch può essere così espressa:
[
2 m e 2 2 c 2
−dE
Z z2
∝N A 
ln
−2
2
dx
A
I
dove :
me: massa dell’elettrone NA: numero di Avogadro = 6.022x1023 mol­1
Z: numero atomico del materiale
1
]
A: numero di massa atomica del materiale
: densità del materiale
z: carica della particella incidente in unità di e
v
= della particella attraversante
c
1
=
della particella attraversante
 1−2
I: potenziale di eccitazione medio
Studiando l'andamento della dE/dx in funzione dell'energia cinetica, si può osservare che per energie non relativistiche domina il termine 1/ e l'energia persa per unità di percorso diminuisce quindi all'aumentare della velocità, fino a raggiungere un minimo, detto di energia di minima ionizzazione, per v ≈ 0.96 c ovvero per  ≈ 3.4. Al di sopra di questo valore, il termine 1/
diviene costante e la dipendenza da  diventa logaritmica, producendo così una debole risalita detta “risalita relativistica”.
Per energie estreme bisogna introdurre delle correzioni alla formula di Bethe­Bloch dovute a:
● l'effetto della densità per le alte energie;
● l'effetto di shell per le basse energie. Infatti quando la velocità della particella incidente diventa confrontabile con quella degli elettroni, cade l'ipotesi che gli elettroni siano a riposo;
● infine per bassissime energie la curva raggiunge un massimo per poi riscendere; questo effetto è dovuto al fatto che la particella, avendo una velocità molto bassa, riesce a catturare gli elettroni del mezzo e ciò scherma la carica effettiva della particella incidente.
La formula di Bethe­Bloch con le correzioni suddette diventa:
[
2 me 2 2 c2
−dE
Z z2
 C
∝N a 
ln
−2− −
2
dx
A
I
2 Z
]
con C/Z: termine di shell
: termine di densità Nella Figura 1 è mostrato un esempio dell'andamento della dE/dx per diverse particelle.
Poiché l'andamento della curva a energie al di sotto del minimo di ionizzazione differisce per le diverse particelle, lo studio della dE/dx in funzione dell'energia cinetica permette di discriminare particelle non relativistiche diverse. Figura 1: Esempio della dipendenza della dE/dx per varie particelle. 2
Consideriamo ora l'interazione di particelle leggere, come elettroni e positroni, con la materia per le quali la perdita di energia avviene principalmente mediante collisioni anelastiche e per emissione di radiazione di frenamento (“bremsstrahlung”).
In questo caso la formula di Bethe­Bloch deve essere modificata, perché non valgono le ipotesi fatte precedentemente: in primo luogo, la massa della particella incidente è comparabile con quella degli elettroni atomici e pertanto la particella viene deflessa nell'urto; in secondo luogo, nel caso di elettroni, la collisione avviene tra particelle identiche e perciò indistinguibili. Come conseguenza l'energia cinetica massima trasferibile in un singolo urto dalla particella attraversante è pari alla metà della sua energia iniziale, cosicché l'energia può essere persa in uno o due urti. La formula di Bethe­Bloch per elettroni e positroni, che descrive la perdita di energia per unità di percorso per collisione alle basse energie è:
[
−dE
Z 1
 2 2
∝N a 
ln
dx
A 2
2  I /m e c 22
]
dove  è l’energia cinetica della particella in unità di mec2.
Alle alte energie la perdita di energia per collisione diventa trascurabile rispetto a quella per radiazione di frenamento.
Rispetto a quanto accade per le particelle pesanti che seguono una traiettoria rettilinea, nel caso degli elettroni si deve considerare la diffusione che devia l'elettrone dalla sua traiettoria: l'elettrone segue una traiettoria a zig­zag e l'energia persa nel singolo urto può fluttuare molto di più rispetto alle particelle pesanti. A causa della sua piccola massa l'elettrone raggiunge il minimo della ionizzazione anche per energie cinetiche dell'ordine di pochi MeV e, per energie superiori, l'energia persa per collisione è praticamente indipendente dall'energia iniziale.
La perdita di energia per radiazione è dovuta al fatto che l' elettrone, attraversando il campo elettrico generato dai nuclei del materiale, subisce delle accelerazioni e irradia energia sotto forma di fotoni. Il processo di “bremsstrahlung” e  e' +  non può avvenire nello spazio libero, perché non ci sarebbe la conservazione del momento e dell'energia, ma può avvenire se l'elettrone si muove in uno spazio in cui è presente un campo elettrico.
In Figura 2 è mostrato schematicamente il processo di “bremsstrahlung”. Figura 2: Processo di “bremsstrahlung”
3
L'emissione per “bremsstrahlung” dipende dall'intensità del campo elettrico subito dall'elettrone e pertanto dal numero atomico Z del materiale attraversato. La sezione d'urto è inoltre inversamente proporzionale al quadrato della massa della particella attraversante e pertanto la perdita di energia per “bremsstrahlung” è trascurabile per particelle pesanti.
L'andamento della perdita di energia in funzione dell'energia cinetica è :
N
dE
∝ a Z 2 E f
dx b A
 
−
dove f è una funzione dell’energia e della frequenza del fotone emesso, che per alte energie varia debolmente con la frequenza.
La (dE/dx)b per radiazione ha quindi un andamento lineare rispetto all'energia e dipende fortemente dal materiale (proporzionalità a Z2). La dipendenza dall'energia può essere sintetizzata con l'espressione: dE
−E
 =
dx b X 0
e cioè:
−x
E  x =E 0 exp

X0
Il parametro X0 , che è detto “lunghezza di radiazione”, rappresenta la distanza a cui l'energia dell'elettrone si è ridotta di un fattore 1/e rispetto a quella iniziale. Per ogni materiale si può definire una energia critica Ec, in corrispondenza della quale la perdita di energia per collisione è uguale a quella per radiazione:

dE
dE
 =

dx coll dx b
Al di sopra di questo valore la perdita di energia per “bremsstrahlung” diventa l'effetto dominante.
La lunghezza di radiazione X0 di un materiale può essere così espressa in funzione del numero atomico Z e della densità  del materiale:
1  Z  Z1
k
∝
ln 1/ 3  X0
A
Z
Anche l'energia critica dipende dal numero atomico Z attraverso la formula :
E c≈
800 MeV
Z
I parametri di densità, numero atomico e lunghezza di radiazione (i cui valori per alcuni materiali sono riportati in Tabella 1) sono molto importanti nella costruzione di rivelatori per elettroni: infatti più è piccolo il valore di Ec e prima inizia a dominare il fenomeno di “bremsstrahlung” che comporta una perdita maggiore di energia per unità di percorso rispetto alla collisione; inoltre, utilizzando materiali con piccolo valore di X0, è possibile costruire rivelatori compatti che permettano la rivelazione di tutta l'energia del fascio.
4
Materiale
Densità (g/cm3)
X0 (cm)
Aria
36,20
30050
H2O
36,08
36,1
NaI
9,49
2,59
Pb
6,37
0,56
Cu
12,86
1,43
Al
24,01
8,9
Fe
13,84
1,76
BGO
7,98
1,12
BaF2
9,91
2,05
Scintillatori
43,8
42,4
Tabella 1: densità e lunghezza di radiazione per vari materiali.
In Figura 3 è illustrato l'andamento della perdita di energia per collisione e per radiazione di frenamento di un elettrone in funzione della sua energia cinetica. Il punto di intersezione tra le due curve determina il valore dell'energia critica a partire dalla quale la perdita di energia per radiazione diventa il fenomeno dominante. Nella stessa figura è riportato per confronto l'andamento della perdita di energia per collisione di un protone. Figura 3: Andamento delle dE/dx per gli elettroni Un altro fenomeno che avviene nel passaggio di una particella carica in un materiale è l'effetto Cherenkov. La particella polarizza il mezzo che attraversa e muovendosi cambia la polarizzazione, generando onde elettromagnetiche. Se la velocità della particella supera la velocità che la luce ha nel mezzo, allora si crea un'interferenza costruttiva tra le onde.
La perdita di energia che si ha per effetto Cherenkov è trascurabile. 5
1.2 Interazione della radiazione neutra
L'interazione della radiazione elettromagnetica con la materia avviene seguendo fondamentalmente tre fenomeni:
● l'effetto fotoelettrico;
● l'effetto Compton;
● la creazione di coppie e+/e­
L'importanza relativa di tali fenomeni dipende dall'energia della radiazione incidente.
Le caratteristiche della radiazione elettromagnetica sono le seguenti:
1. essa è più penetrante della radiazione carica, in quanto i processi hanno piccole sezioni d'urto;
2. il fascio di fotoni viene degradato in intensità, ma non in energia, poiché il singolo fotone in tutti i processi suddetti viene rimosso dal fascio principale per assorbimento (effetto fotoelettrico e creazione di coppia) o perché deflesso (effetto Compton): si riduce pertanto il numero di fotoni uscenti che non hanno subito alcuna reazione e quindi mantengono la loro energia iniziale.
L'intensità del fascio incidente ha un andamento esponenziale in funzione dello spessore x attraversato: I  x =I 0 e− x
dove I0 = intensità del fascio incidente, x = spessore di assorbimento,  = coefficiente di assorbimento.
L'effetto fotoelettrico (Figura 4) consiste nell'assorbimento di un fotone da parte di un elettrone atomico legato (non può essere assorbito da un elettrone libero, perché non ci sarebbe conservazione del momento), che viene liberato ed esce dall'atomo con un'energia pari a E=hv­B.E. , dove B.E. è l'energia di legame dell'elettrone e hv è l'energia del fotone.
La sezione d'urto è inversamente proporzionale all'energia e dipende fortemente dal numero atomico del materiale; l'effetto fotoelettrico è pertanto l'effetto dominante per energie inferiori a 0.1 MeV.
Figura 4: Effetto fotoelettrico.
Per energie minori del MeV si può verificare la diffusione del fotone da parte di un elettrone atomico, che può essere considerato a riposo visto che, per queste energie, hv>>B.E.: questo processo è chiamato effetto Compton (Figura 5), e ha quindi come conseguenza quella di emettere un fotone con direzione ed energia diversa da quella iniziale. In generale si cerca di ridurre tale 6
effetto nei rivelatori, poiché i fotoni diffusi possono essere persi nella rivelazione.
Figura 5: Effetto Compton
La creazione di coppia (Figura 6), consiste nel decadimento di un fotone in una coppia elettrone­
positrone, dovuto all'interazione con un campo elettrico estremamente intenso generato dal nucleo. Il processo è possibile solo se l'energia del fotone è maggiore dell'energia di soglia, ovvero dell'energia necessaria per creare una coppia elettrone­positrone (E> 1.02 MeV), ed è dominante alle alte energie. Figura 6: Creazione di coppia elettrone­positrone
Questo meccanismo non può avvenire nello spazio libero, ma solo in presenza di un campo coulombiano generato da un elettrone atomico o da un nucleo che assorbe il momento di rinculo.
L'energia del fotone che eccede l'energia di soglia viene ripartita tra le due particelle prodotte, sotto forma di energia cinetica.
La sezione d'urto totale del processo, per energie maggiori dell'energia di soglia, ha un termine quadratico in Z dovuto al campo coulombiano nucleare e un termine lineare in Z dovuto al campo coulombiano degli elettroni atomici e quindi è del tipo :
 pair ∝ Z  Z 1
7
mentre per energie prossime all'energia di soglia (da 1 a 5 MeV) l'andamento è più complicato a causa dell'elevata energia di rinculo degli elettroni atomici.
L'andamento della sezione d'urto in funzione dell'energia è logaritmico per basse energie:
 pair ∝ ln h 
mentre è praticamente costante per le alte energie:
7
 pair ∝  Z Z 1
9
Pertanto, alle alte energie, il libero cammino medio di un fotone è proporzionale alla lunghezza di radiazione dell'elettrone per “bremsstrahlung”: 9
 pair = X 0
7
Abbiamo visto che il fenomeno più importante alle alte energie nell'interazione tra un fascio di elettroni e la materia è quello di “bremsstrahlung”, mentre per un fascio di fotoni è la creazione di coppie. Combinando questi due fenomeni si genera quello che viene chiamato sciame elettromagnetico, che rappresenta il fenomeno su cui si basa il funzionamento dei calorimetri elettromagnetici.
Il fotone ad alta energia, attraversando la materia, decade in una coppia elettrone­positrone, i quali emettono a loro volta un fotone per “bremsstrahlung”; questo si convertirà di nuovo in una coppia elettrone­positrone, e così via. Si genera così una cascata di fotoni, elettroni e positroni e il processo continua fino a quando l'energia del fotone è sufficiente per creare coppie e + /e­ e l'energia degli elettroni e positroni sarà pari all'energia critica al di sotto della quale essi perderanno energia soprattutto per collisione.
Questo è un meccanismo statistico, di cui però possiamo costruire un modello semplificato, illustrato in Figura 7, per avere una stima delle particelle prodotte e della loro energia media.
Supponiamo di mandare un fotone di energia E0; in media dopo una lunghezza di radiazione questo si sarà trasformato in una coppia e+ /e­ e l'energia delle due particelle prodotte sarà E0 /2; dopo circa due lunghezze di radiazione l'elettrone e il positrone avranno emesso radiazione per “bremsstrahlung” di energia circa metà dell'energia delle due particelle; a questo punto sono presenti quattro particelle: un elettrone, un positrone e due fotoni con energia pari a E 0/4. Dopo tre lunghezze di radiazione i due fotoni si trasformano in coppie e + /e­, mentre l'elettrone e il positrone emetteranno radiazione per “bremsstrahlung”. Il numero totale di particelle prodotte sarà otto e la loro energia pari a E0 /8.
Figura 7: Modello semplificato della propagazione dello sciame elettromagnetico 8
E' facile quindi concludere che il numero di particelle prodotte dopo n lunghezze di radiazione sarà mediamente N=2n e l'energia delle particelle prodotte a tale profondità di penetrazione è:
E=
E0
2n
Se consideriamo che per E = Ec lo sciame elettromagnetico termina, possiamo determinare il numero massimo nmax di lunghezze di radiazione per il quale:
E c=
E0
2
n max
E0
Ec
 n max =
ln 2
ln
Pertanto il numero massimo di particelle prodotte nello sciame sarà:
N max =
E0
Ec
che è linearmente proporzionale all'energia iniziale del fascio.
Un altro parametro importante per descrivere la dimensione trasversale dello sciame è il raggio di Molière RM, che è definito come quella distanza dall'asse dello sciame tale che il 95% dello sciame sia contenuto entro 2RM. Tale parametro può essere così espresso in funzione della lunghezza di radiazione e dell'energia critica del materiale: R M =X 0
21 MeV
Ec
La conoscenza del profilo longitudinale e trasversale dello sciame elettromagnetico è molto importante per la costruzione di calorimetri elettromagnetici.
9
Capitolo 2
Descrizione dell'apparato sperimentale
Il rivelatore utilizzato nel lavoro descritto in questa tesi è costituito da sei cristalli di BGO(ossogermanato di bismuto) che rappresentano i costituenti di un calorimetro elettromagnetico omogeneo. Il BGO è un materiale ad alto Z ed elevata densità, adatto alla rivelazione di elettroni e fotoni di alta energia. È stata studiata la risposta di questo rivelatore a un fascio di elettroni di test prodotto dalla Beam Test Facility (BTF) dei Laboratori Nazionali di Frascati. Nel seguito descriveremo il principio di funzionamento dei calorimetri elettromagnetici, il loro sistema di lettura e i test effettuati. 2.1 I calorimetri elettromagnetici
I calorimetri elettromagnetici sono dispositivi che permettono la misura dell'energia totale di elettroni, positroni, fotoni e particelle che decadono in fotoni come il 0 e l’. Le particelle danno luogo a sciami elettromagnetici, sulla base dei meccanismi descritti nel precedente capitolo, depositando così tutta la propria energia nel rivelatore. Poiché la misura dell'energia è un processo distruttivo, il calorimetro elettromagnetico va posto dopo i rivelatori di identificazione e tracciamento, come gli scintillatori plastici e le camere a fili.
Le caratteristiche di questi rivelatori sono:
● sensibilità sia a particelle cariche che neutre;
● proporzionalità del segnale all'energia;
● la risoluzione relativa migliora all'aumentare dell'energia;
● la dimensione longitudinale necessaria al contenimento di tutto lo sciame, normalizzata a X0, aumenta solo logaritmicamente con l'energia;
● non sono necessari campi magnetici;
● alcuni calorimetri sono abbastanza veloci da poter essere utilizzati come “trigger”.
La risposta del calorimetro è proporzionale all'energia, in quanto il segnale prodotto dal rivelatore è proporzionale alla somma delle lunghezze di tutte le tracce nel calorimetro data da:
n max
segnale ∝L= X 0 ∑ n i∝X 0
i=1
E0
Ec
I calorimetri sono quindi dei rivelatori a risposta lineare.
Per quel che riguarda la risoluzione dei calorimetri elettromagnetici, essendo l'emissione di particelle un fenomeno stocastico, esso è regolato dalla statistica di Poisson, per cui l'incertezza sul numero di particelle prodotte è:
 N = N max
max
10
e pertanto l'incertezza relativa sull'energia è data da:
  E   N max
1
1
∝
∝
∝
E
N max  N max  E
e per questa ragione la risoluzione relativa del rivelatore migliora all'aumentare dell'energia.
Ricordiamo a questo proposito che la risoluzione totale di un calorimetro elettromagnetico comprende anche altri termini (oltre a quello statistico appena esaminato) e può essere così espressa:

E
a 2 2 c 2
= 
 b  
E
E
E
Il primo è il termine statistico legato alle fluttuazioni del numero di particelle prodotte nello sciame e alle fluttuazioni del numero di foto­elettroni emessi nel fotocatodo; il secondo termine è un valore costante che domina alle alte energie, dovuto alla disuniformità del calorimetro, alle fluttuazioni della temperatura e alla precisione della intercalibrazione dei diversi settori del calorimetro; il terzo temine, che rappresenta una risoluzione costante rispetto all'energia, è dovuto al rumore elettronico.
Infine grazie al fatto che la profondità massima di penetrazione aumenta solo logaritmicamente con l'energia, i materiali con un alto Z e alta densità sono in grado di contenere sciami di elettroni e fotoni anche molto energetici in dimensioni contenute.
2.2 Il fotomoltiplicatore
La luce di scintillazione prodotta da un cristallo del calorimetro e.m. viene trasformata in un segnale elettrico amplificato rispetto a quello iniziale mediante un dispositivo chiamato fotomoltiplicatore. Il fotomoltiplicatore consiste in un tubo sotto vuoto contenente:
● una finestra di ingresso trasparente alla luce di scintillazione del cristallo,
● un catodo di materiale fotosensibile,
● un sistema di raccolta di elettroni;
● una regione moltiplicativa di elettroni (costituita da una serie di dinodi);
● un anodo da cui viene estratto il segnale.
In Figura 8 è mostrato un fotomoltiplicatore con le sue parti costituenti principali.
Il fotone proveniente dal cristallo colpisce la superficie sensibile del catodo e per effetto fotoelettrico viene emesso un elettrone; il foto­elettrone emesso viene diretto e accelerato da un campo elettrico, verso il primo dinodo e colpendolo trasferisce parte della sua energia agli elettroni del dinodo, con la conseguente emissione di elettroni secondari. Questi verranno a loro volta accelerati dalla differenza di potenziale tra i vari dinodi e in questo modo si avrà una cascata di elettroni che sarà raccolta dall'anodo e trasformata in segnale elettrico. Tale segnale è quindi amplificato rispetto a quello iniziale e può analizzato attraverso un'opportuna catena elettronica.
Il catodo e la catena di dinodi hanno una risposta lineare e pertanto il segnale uscente dal fototubo sarà direttamente proporzionale al numero di fotoni incidenti che a sua volta è proporzionale 11
all'energia della particella rivelata nel calorimetro.
Figura 8: Fotomoltiplicatore nelle sue parti fondamentali.
2.3 Descrizione del rivelatore
Come abbiamo già detto, il rivelatore utilizzato è costituito da sei cristalli di BGO che rappresentano i costituenti di un calorimetro elettromagnetico omogeneo, disposti in una matrice 3x2.
La matrice con i sei cristalli e la loro disposizione è mostrata in Figura 9.
Cristallo
n.1 Cristallo Cristallo
n.2
n.3
Cristallo Cristallo Cristallo
n.4
n.5
n.6
Figura 9: Schema della matrice dei sei cristalli con la loro disposizione.
12
Le caratteristiche dei cristalli di BGO sono:
● lunghezza di radiazione X0 = 1.13 cm
3
● densità =7.13 g/cm
● raggio di Molière RM=2.5 cm
Il cristallo ha una forma a tronco di piramide con una base quadrata di area circa 2x2 cm 2 da un lato e 6.5x6.5 cm2 dall'altro e una lunghezza di 24 cm, corrispondente a circa 21 lunghezze di radiazione. Queste dimensioni garantiscono un buon confinamento dello sciame all'interno del cristallo. L'apertura angolare dei cristalli è in media di 8°. Grazie alla forma a tronco di piramide,si migliora la raccolta di luce al fotocatodo. Ogni cristallo è ricoperto da una sottile strato di mylar alluminato, materiale riflettente che evita che la luce esterna penetri nel cristallo e favorisce la riflessione della luce di scintillazione all'interno del cristallo. Alla base più grande è incollato il fotomoltiplicatore con un grasso ottico avente un indice di rifrazione intermedio tra quello del cristallo e quello del fotomoltiplicatore, per evitare che ci siano fenomeni di riflessione totale della luce. Ogni fotomoltiplicatore ha una propria curva di efficienza piccata intorno a una certa frequenza, quindi è importante sapere quale è la frequenza media dei fotoni provenienti dal cristallo per scegliere il fotomoltiplicatore con il massimo di efficienza di conversione in quel “range”.
Il cristallo di BGO emette fotoni con una frequenza intorno al verde (480 nm). In Figura 10 è mostrata una visione schematica del cristallo e del suo fototubo.
Figura 10: sezioni schematiche del cristallo di BGO
13
2.4 La catena elettronica
La catena elettronica che permette di acquisire i segnali provenienti dal rivelatore è schematizzata in Figura 11.
6 cristalli 6 cristalli ADC TRIGGER
COIN DUAL UNIT TIMER MIXER START
RESET
VETO
TRIGGER PC I/O REG DISCR
Figura 11: Schema della catena elettronica.
I moduli utilizzati sono dei moduli di standard NIM (Nuclear Instrument Module) e VME.
Il segnale proveniente da ogni cristallo viene mandato a un modulo di “mixer” che permette di ridurre, con vari fattori di attenuazione selezionabili dall'esterno, l'intensità del segnale prodotto dalle particelle rivelate, in modo da renderlo compatibile con il “range” dell'ADC (Analog to Digital Converter). I sei segnali in uscita dal mixer vanno direttamente all'ADC che converte il segnale da analogico a digitale, i segnali possono essere così registrati e analizzati. L'ADC non acquisisce tutti i segnali, ma solo quelli che giungono all'interno di una finestra temporale definita dal “trigger”. Nel nostro esperimento il segnale di “trigger” è fornito da uno scintillatore plastico posto davanti alla matrice dei sei cristalli. Lo scintillatore plastico adoperato è un rivelatore veloce, sensibile solo alle particelle cariche, quindi adatto a fornire informazioni temporali. Quando un elettrone attraversa lo scintillatore plastico, questo produce un segnale che, amplificato e discriminato, entra in un modulo di coincidenza (“COINCIDENCE UNIT”). Tale modulo in generale verifica la coincidenza tra più segnali in entrata: se sono tutti uguali a 1 allora fornisce un segnale in uscita, altrimenti no. Nel nostro caso, il segnale dello scintillatore non è messo in coincidenza con nessun altro segnale e fornisce sia lo START per il DUAL TIMER che il segnale di “trigger” per l'ADC. Il DUAL TIMER è un modulo che, all'arrivo di un segnale di START, alza un livello di corrente per un intervallo di tempo che viene definito dall'esterno, generando così un segnale elettrico che serve a dare il VETO al modulo di coincidenza. Fintanto che il segnale di VETO è attivo, la coincidenza non produce nuovi segnali di trigger. Abbiamo posto pari ad infinito l'intervallo di durata del livello di corrente nel DUAL TIMER e pertanto il segnale di VETO dura fino a che non viene fornito al modulo un segnale di RESET. Tale segnale viene fornito dal programma di acquisizione mediante un modulo di INPUT/OUTPUT REGISTER. Il segnale proveniente dal PC entra in questo modulo e successivamente in un discriminatore che manda in uscita un segnale logico di ampiezza definita pari a ­0,7 V. In realtà il segnale proveniente 14
dall'INPUT/OUTPUT REGISTER è già un segnale logico, ma il passaggio nel discriminatore assicura di avere in uscita un segnale di ampiezza standard. Il segnale in uscita dal discriminatore dà il RESET al DUAL TIMER che annulla il VETO della COINCIDENCE UNIT, in modo che la catena elettronica sia pronta ad accettare nuovi segnali. 2.5 Il modulo ADC
Il modulo ADC da noi utilizzato per la digitalizzazione dei segnali è l'ADC a campionamento AVM­16 della ditta Wiener, un modulo di nuova concezione dotato di 16 canali e frequenza di campionamento di 160 MHz (pari a 6,25 ns per campionamento). L'ADC possiede due importanti caratteristiche. In primo luogo l'ADC permette di campionare il segnale all'interno di un intervallo temporale che può essere definito dall'utente. Tale finestra temporale può avere inizio anche prima del segnale di “trigger”. In secondo luogo, l'ADC dedica un certo numero di “sample” iniziali (almeno quattro) alla determinazione della “baseline” dell'evento e fa questa operazione per ogni evento, sottraendo automaticamente il valore determinato al segnale. In questo modo il segnale che esce è stato ripulito nel miglior modo possibile da eventuali rumori di fondo.
La risoluzione dell'ADC è il parametro che detrmina la precisione con la quale l'informazione del segnale viene conservata. Nella Figura 12 è illustrato un segnale campionato in una finestra temporale di 800 ns. Figura 12: Immagine del segnale campionato 15
2.6 Descrizione dei test
I test per lo studio della risposta del rivelatore sono stati effettuati alla “Beam Test Facility” presso i Laboratori Nazionali di Frascati. Figura 13: Fotografia della sala sperimentale della BTF.
La BTF è un'area attrezzata per effettuare test di rivelatori di particelle e fa parte dell'acceleratore DAϕNE. Gli elettroni immessi nell'anello di accumulazione sono prodotti dal LINAC con un 'energia di 510 MeV. Il fascio prodotto intercetta un bersaglio di rame con tre diversi spessori, che corrispondono a tre diverse lunghezze di radiazione: 1.7X 0, 2.0X0, 2.3X0 che serve per attenuare l'intensità del fascio da circa 1010 elettroni che sono contenuti in un impulso del LINAC fino a pochi elettroni. Successivamente è posto uno spettrometro composto da un dipolo magnetico e da un sistema di slitte poste prima e dopo il dipolo che, opportunamente posizionate, permettono di selezionare una certa energia del fascio.
Lo spettro del fascio all'uscita del bersaglio è illustrato in Figura 14.
Figura 14: Spettro degli elettroni dopo aver attraversato la targhetta.
Come si può vedere dalla Figura 14, selezionando una certa energia si seleziona anche la molteplicità massima del fascio, ovvero il numero di elettroni per pacchetto, che può essere poi ulteriormente ridotto con opportuni collimatori.
I nostri test sono stati effettuati selezionando un'energia di 450 MeV e quindi è stato possibile selezionare pochi elettroni; in questo modo il fascio è molto collimato ed ha una larghezza di circa 16
1cm.
La risoluzione dichiarata della BTF, per un fascio di 500 MeV (un solo elettrone) è dell' 1%.
2.7 Banco di Test
Per allestire il banco di test abbiamo installato il “mixer” e tutta l'elettronica nella sala di controllo,fuori dall'area sperimentale, al fine di ridurre il rumore elettronico e avervi accesso anche durante la presa dati.
I sei cristalli, inseriti in un cestello di PVC nero a formare una matrice 3x2, sono stati posti nella sala sperimentale dietro lo scintillatore utilizzato per il “trigger”. Abbiamo effettuato il cablaggio dei cavi di segnale e dell'alta tensione dei sei cristalli, i primi sono stati collegati a una griglia nella sala sperimentale le cui uscite vengono prese nella sala di controllo e i cavi collegati poi al mixer, mentre i cavi dell'alta tensione sono stati inseriti nel modulo di alimantazione posto nella sala sperimentale.
Abbiamo quindi allineato il piano del cestello di cristalli con il fascio utilizzando gli strumenti di allineamento e i riferimenti spaziali presenti in sala. Abbiamo poi effettuato la centratura del fascio rispetto ai due cristalli centrali (cristallo n.2 e cristallo n.5), in modo da avere il migliore contenimento possibile dello sciame elettromagnetico.
Fatte queste operazioni, abbiamo allestito la catena elettronica, verificando il segnale di ingresso e di uscita di ciascun modulo tramite un oscilloscopio, ed effettuando la messa in tempo dei vari segnali.
Nella Figura 15 è illustrato lo schema del banco di test utilizzato. Rivelatore matrice di 6 cristalli
scintillatore
fascio
Figura 15: schema del banco di test
17
2.8 Calibrazione dei cristalli con una sorgente di sodio
Prima di fare le misure con il fascio di elettroni,i sei cristalli sono stati calibrati utilizzando una sorgente radioattiva di sodio Na22 il cui spettro energetico presenta due picchi, il primo a 0,545 MeV e il secondo a 1,275 MeV. La sorgente è stata gestita dai responsabili di radioprotezione del laboratorio. Questa procedura è molto importante perché permette di equalizzare il segnale dei sei cristalli e cioè di avere una risposta simile per tutti i cristalli ad un uguale energia.
Un esempio di spettro in canali di ADC del segnale di sorgente è riportato in Figura 16.
Figura 16: Spettro della sorgente Na22 (in unità di canali ADC) con il fit che permette l'estrazione del valore del secondo picco.
Per calibrare i cristalli si è deciso di fissare il secondo picco al canale 1280 dell'ADC (su una scala di 65536) per tutti i cristalli. Per ottenere questo bisogna modificare la tensione applicata ai fotomoltiplicatori. Questa operazione può essere fatta manualmente agendo sul modulo di alimentazione o da remoto in modo automatizzato, utilizzando un programma in grado di modificare il valore della tensione se la risposta del cristallo non corrisponde al canale desiderato.
Durante questa procedura bisogna fare attenzione ai valori impostati per la tensione, poiché i fotomoltiplicatori vengono danneggiati al di sopra di una certa tensione massima. In particolare per i nostri fototubi è bene non superare una tensione di 1800 V. Questo tipo di calibrazione è molto veloce, impiega una decina di minuti e può essere ripetuta prima e dopo la presa dati.
In Tabella 2 sono riportati i valori di tensione e di canale del picco (diviso per un fattore 32) per i sei cristalli. 18
HV Canale picco
Cristallo n.1
1544.8 V
1283
Cristallo n.2
1477.0 V
1302
Cristallo n.3
1734.0 V
1122,5
Cristallo n.4
1565.5 V
1304
Cristallo n.5
1596.0 V
1265
Cristallo n.6
1716.4 V
1252
Tabella 2: Valori della tensione e del canale del picco per i singoli cristalli.
Il cristallo n.3 ha un valore del canale più piccolo degli altri perché non era possibile alzare ulteriormente la tensione applicata.
Conoscendo l'energia del picco e il canale a cui corrisponde quell'energia, è possibile calcolare la costante di calibrazione, per ogni cristallo che permetterà di determinare l'energia in MeV corrispondente ad ogni canale. La scala tra 0 e 65536 è fissata dal numero di bit dell'ADC che è pari a 16. A questo punto, noto il canale a cui è stato posizionato il secondo picco della sorgente per ciascun cristallo e nota l'energia corrispondente ad esso, si può determinare l'energia per canale cioè la costante di calibrazione,riportata in Tabella 3, di ciascun cristallo.
Costante di calibrazione= C = 1,275 MeV/can_peak
Costante di calibrazione(KeV)
Cristallo n.1
0,99
Cristallo n.2
0,98
Cristallo n.3
1,13
Cristallo n.4
0,98
Cristallo n.5
1,00
Cristallo n.6
1,01
Tabella 3: Costante di calibrazione dei singoli cristalli.
Per determinare l'energia reale in MeV raccolta dai sei cristalli bisogna tener conto anche del fattore di attenuazione utilizzato nel mixer pari a 36 db e pertanto moltiplicare il valore misurato per un fattore 63.
Quindi
Qtot (MeV)= Qtot(canali)*C*63 19
Capitolo 3
Analisi dati.
3.1 Spettro energetico del fascio di test
Il fascio prodotto dalla BTF è costituito da elettroni di energia pari a 450 MeV. Come abbiamo visto dalla descrizione della BTF, gli elettroni possono arrivare al rivelatore singolarmente o in gruppi di più elettroni. In tal caso l'energia depositata nel nostro rivelatore è un multiplo dell'energia del singolo elettrone.
Il numero massimo di elettroni, all'energia da noi selezionata, non è comunque mai superiore a 10­
12 elettroni. L'energia rilasciata in ciascuno dei sei cristalli è illustrata in Figura 17. Figura 17: Energia rilasciata nei sei cristalli singoli.
Da questa immagine si può vedere che la maggior parte dell'energia viene rilasciata nei due cristalli centrali della matrice (cristallo n.2 e cristallo n.5), a seguito del centraggio del rivelatore rispetto al fascio.
Nel grafico dell'energia depositata nei singoli cristalli, non è possibile individuare i picchi corrispondenti all'energia rilasciata da gruppi di elettroni di molteplicità diversa.
Se invece esaminiamo la somma delle energie raccolte nei due cristalli centrali, come illustrato in Figura 18, osserviamo apparire dei picchi; se oltre ai cristalli centrali, consideriamo l'energia rilasciata nel cristallo n. 4, come illustrato in Figura 19, i picchi di energia diventano sempre più nitidi.
20
Figura 18: Energia depositata nei cristalli n.2 e n.5.
Figura 19: Energia rilasciata nei cristalli n.2, n.4 e n.5. Considerando infine l'energia depositata in tutti i cristalli, illustrata in Figura 20, si possono separare chiaramente bene i vari picchi, che corrispondono a energie multiple di 450 MeV, e a gruppi di elettroni di molteplicità diversa che arrivano al rivelatore. Nella Figura 20 il primo picco corrisponde pertanto ad un elettrone di energia pari a 450 MeV; il secondo, terzo etc. picco corrisponde a due, tre etc. elettroni di energia totale pari a 900 MeV, 1350 MeV, etc. e pertanto ci attendiamo che la posizione di tali picchi sia approssimativamente doppia, tripla, etc. di quella del singolo elettrone.
All'aumentare dell'energia si distingue sotto i picchi una distribuzione continua di energia dovuta al fatto che, all'aumentare dell'energia aumentano le perdite di energia nel rivelatore e si verificano effetti di saturazione, in particolare nel fototubo del cristallo n.5. Tali effetti sono evidenti nella Figura 29, in cui sono illustrate le variazioni percentuali dell'energia ricostruita rispetto alla 21
linearità. La diversa altezza dei vari picchi ci indica il fatto che, all'energia da noi selezionata, l'acceleratore produce con maggiore probabilità pacchetti di 5­6 elettroni.
Figura 20: Energia rilasciata in tutti i cristalli. 3.2 Fit dello spettro energetico.
I parametri fondamentali che descrivono il comportamento di un rivelatore sono la linearità e la risoluzione. Allo scopo di estrarre tali parametri abbiamo scelto di fare separatamente un fit per ogni singolo picco, utilizzando una funzione gaussiana ed una retta che serve ad approssimare il fondo continuo descritto precedentemente.
Figura 21: Energia rilasciata in tutti i cristalli con sovrapposti i fit per singolo picco.
22
Figura 22: Fit del primo picco in energia corrispondente alla rivelazione di un singolo elettrone di energia 450 MeV.
Figura 23: Fit del secondo picco in energia corrispondente alla rivelazione di due elettroni di energia totale 900 MeV.
23
Figura 24: Fit del terzo picco in energia corrispondente alla rivelazione di tre elettroni di energia totale 1350 MeV.
Figura 25: Fit del quarto picco in energia corrispondente alla rivelazione di quattro elettroni di energia totale 1800 MeV.
24
Figura 26: Fit del quinto, sesto, settimo e ottavo picco in energia.
Nella tabella che segue abbiamo riportato il valor medio dell'energia e della risoluzione estratti dal fit dei singoli picchi. E_nominale (MeV)

E
(MeV)

E
eV)
E (MeV)
 E
eV)
2rid
450
446.6
1.8
23.7
1.5
0.8
900
900.8
1.0
35.0
0.8
1.55
1350
1354.0
0.8
47.8
0.7
2.6
1800
1799.0
0.7
58.3
0.8
3.4
2250
2227.0
0.8
67.25
0.9
2.7
2700
2632.0
1.3
74.3
1.8
1.2
3150
3004.0
1.7
73.9
2.2
0.9
3600
3354.0
3.8
74.8
5.5
0.8
Tabella 4: Valor medio dell'energia e risoluzione con i relativi errori ottenuti dal fit corrispondenti ai singoli picchi.
25
I fit illustrati sono stati estratti per cinque differenti set di dati acquisiti nell'arco di due giorni. Poiché si presentavano delle leggere fluttuazioni dei valori medi, al fine di poter sommare tutta la statistica senza perdere in risoluzione, abbiamo deciso di normalizzare la posizione del secondo picco a 900 MeV. 3.3 Linearità del rivelatore
I parametri estratti dai fit ci permettono di tracciare la curva di linearità del nostro rivelatore. In Figura 27 sono riportati in ascissa i valori nominali dell'energia e in ordinata i valori estratti dal fit con i rispettivi errori dovuti alla risoluzione. Figura 27: Curva di linearità che descrive i valori dei primi cinque picchi di energia.
Abbiamo interpolato linearmente i valori dei primi cinque picchi poiché in essi è ancora trascurabile l'effetto della saturazione del fototubo. Come si può vedere dai valori dei parametri del fit riportati in figura, il comportamento è ben descritto da una retta di pendenza uguale a uno e passante per l'origine.
Rappresentando nel grafico i valori degli ulteriori picchi, come illustrato in Figura 28, si osserva una deviazione dalla linearità, sempre più evidente all'aumentare dell'energia. 26
Figura 28: Curva di linearità che descrive i valori dei primi cinque picchi di energia e confronto con i valori del sesto, settimo e ottavo picco.
Le deviazioni dalla linearità sono tuttavia contenute e possono essere ben visualizzate attraverso l'andamento in funzione dell'energia della variazione percentuale, definita come:
E meas−E nom
⋅100
var.% =
E nom
In Figura 29 è rappresentato l'andamento di tale curva che, come si vede, raggiunge valori massimi di discostamento dalla linearità del 7% per un'energia di 3.3 GeV.
Figura 29: Andamento della variazione percentuale in funzione dell'energia.
27
Osservando la figura 29, si può notare che i primi quattro punti, che rappresentano il discostamento percentuale dell'energia misurata da quella attesa quando giungono sul rivelatore uno, due, tre o quattro elettroni, è circa lo stesso, mentre per un numero maggiore di elettroni, e quindi di energia rilasciata nel rivelatore stesso, la variazione aumenta.
Ciò è dovuto sia al fatto che non tutta l'energia dello sciame e.m viene raccolta nel rivelatore, sia, e principalmente, ad un effetto di saturazione dei fototubi, che si manifesta per energie rilasciate nel singolo cristallo superiori a 1500 MeV. 3.4 Risoluzione relativa del rivelatore.
Definiamo la risoluzione relativa del rivelatore come la risoluzione ottenuta dai fit dei picchi normalizzata all'energia misurata:

 norm =
E
L'errore sulla risoluzione relativa è dato da:
   2
  norm =  =
 2
E
E
E
Tenendo conto che l'energia del fascio della BTF è noto con una precisione dell'1%, abbiamo rappresentato in Figura 30(a) l'andamento della risoluzione misurata in funzione dell'energia (punti tondi), della risoluzione della BTF (quadratini) e della risoluzione del nostro apparato di rivelazione (triangoli), ottenuta dalla sottrazione in quadratura delle prime due:
 BGO=  meas  − BTF 
2
2
Abbiamo effettuato un fit dell'andamento sia della meas che della BGO utilizzando la funzione:
p0
p
E 1
dove p0 e p1 sono parametri liberi.
I risultati ottenuti per measeBGO sono rappresentati rispettivamente in Figura 30(b) e 30(c).
Per effettuare il fit abbiamo utilizzato solo i primi sei picchi dove l'effetto di saturazione è trascurabile.
I parametri p0 e p1 estratti dal fit danno come risultato: p0=2.7 0.5
p1 = 1.0 
cosicché la risoluzione relativa risulta essere :  2.7
=
1.0
E E
Il risultato non totalmente soddisfacente per la risoluzione totale del nostro rivelatore ci fa concludere che i valori utilizzati per la risoluzione della BTF non siano del tutto corrispondenti a quelli reali, nel caso di energie diverse da 500 MeV e molteplicità superiori a uno. 28
(a)
(b)
(c)
Figura 30: (a) Andamento della risoluzione misurata, di quella della BTF e di quella dell'apparato di rivelazione in funzione dell'energia; (b) Fit della risoluzione misurata; (c) Fit della risoluzione dell'apparato di rivelazione. 29
Conclusioni
Studiando la risposta di un rivelatore costituito da una matrice 3x2 di cristalli di BGO, al fascio di elettroni della linea di test della BTF presso i Laboratori Nazionali di Frascati, abbiamo potuto studiare in dettaglio la struttura in molteplicità del fascio, che poteva essere costituito da gruppi di uno o più elettroni. Gli spettri energetici, da noi ricostruiti sommando l'energia depositata in più cristalli, mette bene in evidenza il contributo quasi monocromatico di gruppi di elettroni di molteplicità diversa. Dal fit gaussiano dei singoli picchi, abbiamo estratto i parametri che caratterizzano il rivelatore, in particolare l'energia media misurata e la sua risoluzione. Utilizzando questi parametri, abbiamo verificato che la linearità del comportamento dell'apparato sperimentale allestito è rispettata, fino al punto in cui gli effetti di saturazione dei fotomoltiplicatori (causati dall'elevata energia rilasciata in un singolo cristallo) cominciano a produrre leggere deviazioni dalla linearità dell'ordine di qualche percento.
La risoluzione relativa segue l'andamento caratteristico dovuto agli effetti di tipo statistico. I valori ottenuti sono leggermente superiori a quelli attesi. Il risultato fa pensare che sia necessario studiare meglio la risoluzione del fascio di test adoperato. 30
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