DISAGIO PSICHICO - MALATTIA MENTALE
Nel corso della storia, i folli, i malati mentali non sono sempre stati considerati esseri umani.
Rinchiusi in carcere o isolati, nel medioevo venivano sottoposti a “trattamenti purificatori”
anche devastanti, o mandati al rogo, poiché ritenuti invasati: bisognava eliminare chi non era
in grado di svolgere un ruolo utile e attivo all’interno della società.
Nel XVI sec. prende piede con maggior consistenza la necessità di separare il ”mondo della
ragione” da quello della “non ragione”: in quest’ottica, nel 1547 Enrico VIII fece costruire a
Londra una sorta di ospedale – prigione, il St. Mary of Bethlehm, ma anche simile ad uno zoo,
in cui tutti i “diversi” rinchiusi e accomunati da una sorta di “sragionevolezza morale” (matti,
vagabondi, prostitute, bestemmiatori, disabili ecc..) potevano esibirsi e mostrare al pubblico
le “proprie stravaganze”.
Nel XVIII sec., con l’illuminismo e gli Stati Generali, emerge una nuova sensibilità nei confronti
delle persone in situazione di disagio e di marginalità (di pari passo con una nuova attenzione
nei confronti della disabilità, dell’infanzia, espressioni di bisogni propri e specifici…). Fu
Philippe Pinel ( 1745 – 1826), medico parigino, tra i primi ad evidenziare la necessità di
sottoporre i malati mentali a cure adeguate. Nasce la psichiatria (“cura dell’anima”) (in Italia
con V. Chiarugi) come branca della medicina che detta le norme per un trattamento medico
razionale della malattia mentale. Nel 1838 Esquirol pubblica, in Francia, un trattato in cui
compare una prima distinzione tra “pazzi” ( che arrivano alla follia dalla normalità) e
“deficienti mentali” (che presentano tratti di insufficienza dalla nascita). Successivamente gli
studi psichiatrici si affermano adottando l’osservazione clinica e il metodo anatomo –
patologico, in base al presupposto che all’origine della malattia mentale ci sarebbero
alterazioni o lesioni del cervello. Quest’impostazione organicistica si accompagna ad un
approccio descrittivo che punta alla classificazione delle malattie mentali sulla base dei
sintomi ( in Italia, Morselli). Con l’avvento della psicoanalisi, si passa dal livello descrittivo a
quello dinamico, in base al quale si sostituì l’interpretazione organicistica con quella
psicogenetica (studio dei processi e dei meccanismi psicologici che sono alla base della
malattia mentale). Questa novità metodologica portò alla separazione tra psichiatria (che, a
sua volta, si articolò in diversi indirizzi) e psicopatologia ( la malattia è intesa come processo le
cui cause vanno cercate in ambito psicologico con metodi diversi da quelli delle scienze
biologico – naturalistiche).
…Tra normalità e patologia…
Non è facile , nell’ambito della malattia mentale, distinguere tra normalità, anormalità, salute1
mentale ,disagio e disturbo psichico.
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SALUTE: “condizione di piena efficienza funzionale che, nell’uomo, comprende anche funzioni logiche, affettive, relazionali, in
contesti interpersonali e sociali. (…) Il concetto di salute va distinto da quello di norma, i cui parametri sono definiti dai sistemi di
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Il disagio psichico è un territorio ampio, indefinito, che può coinvolgere ogni essere umano.
Pensiamo, ad esempio, a come reagiamo di fronte a una costante inquietudine oppure ad
un’agitazione incontrollata che ci assale di tanto in tanto in situazioni diverse e in modo
apparentemente immotivato: spesso non siamo disposti a riconoscere il nostro malessere e,
soprattutto, non sappiamo come valutarlo. Sappiamo, dalla psicoanalisi, che la nostra psiche
vive di conflitti; ma quando i nostri conflitti sfociano nella patologia, nella malattia mentale?
Quando minano la nostra integrità psichica? Nell’ipotesi freudiana, i disturbi psichici si
riferiscono a modi disadattivi di rapporto con la realtà; non c’è una differenza qualitativa tra
normalità e patologia: sia la psiche della persona “normale” che quella della persona
“nevrotica” seguono gli stessi principi di funzionamento. La differenza è solo di tipo
quantitativo, perché diversa è la quantità di energia psichica mobilitata.
Dinanzi alle possibili difficoltà della vita non tutti reagiamo allo stesso modo; pur essendo tutti
esposti alla sofferenza, solo alcuni sviluppano un disturbo psichico. Se i disagi possono essere
tanti, i disturbi sono quegli scompensi in cui c'è qualcosa che non funziona bene, che
impedisce un buon adattamento alla realtà, un’adeguata elaborazione di ciò che si vive, dei
pensieri, dei ricordi, delle emozioni. Questo scompenso in genere non risiede in un'unica
causa, ma è dovuta al convergere di diversi fattori: cause remote, per cui ci possono essere
anche delle predisposizioni di tipo genetico; oppure altre cause remote possono riguardare le
pregresse esperienze infantili. Ma possono verificarsi anche cause recenti.
Se, in tempi meno recenti, il concetto di follia era posto “dentro” l’individuo, certamente
dipendente dalla biologia, anche se solo in parte, oggi si è più consapevoli che un ruolo
fondamentale sia svolto anche dal rapporto che l’individuo ha con il mondo: la follia non è più
solo una caratteristica del singolo ma si lega alle relazioni di questo con gli altri. Infatti le
continue sollecitazioni ambientali (STRESSORS) richiedono alla persona uno sforzo di
riadattamento alla nuova situazione; esse quindi vanno ad incidere sul benessere, attivando
una reazione di adattamento che può riportare a situazioni di benessere, nel caso abbia esito
positivo o, in caso negativo, a condizioni di disagio e disturbo mentale. Il processo che porta
all’aggravamento della condizione mentale viene definito DESTABILIZZAZIONE, mentre quello
inverso di trasformazione positiva è la RESTITUZIONE. Tali processi sono influenzati da fattori
biologici, sociali, psicologici, ecologici e sanitari; a seconda dell’influenza che hanno sul ciclo
vitale della persona, possono costituire fattori di rischio, qualora risultino deficitari,
opprimenti e spingano verso condizioni di disturbo, o fattori protettivi qualora costituiscano
elementi utili a ridurre la possibilità di destabilizzazione e diventino risorse efficaci per il
recupero del benessere.
Molteplici sono le definizioni proposte per identificare la malattia mentale ma, più in generale,
quando si parla di malattia mentale si fa riferimento ad uno stato di intensa sofferenza
psichica, protratto nel tempo, che va ad incidere su tutti gli aspetti del vivere, favorendo
riferimento adottati. Come condizione di piena efficienza funzionale è qualcosa di più della semplice assenza di malattia, perciò non
può essere ricondotta a categoria medica.(…) Lo stato di salute ha riferimenti non solo organici ma anche culturali”
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l’insorgenza di molteplici altre problematiche (mancanza di lavoro e di relazioni significative,
dipendenze, sofferenza legata alla malattia stessa, ecc.).
Se pur difficile, anche per gli specialisti, fare chiarezza sulla distinzione tra salute mentale e
patologia, sono stati adottati diversi criteri che dovrebbero consentire di stabilire un confine
tra “normalità” e “anormalità”.
-
Criterio statistico: è normale ciò che è comune; è anormale ciò che è raro, ciò che devia
dalla norma…( un QI molto alto è raro o è normale?..);
-
Criterio socio – culturale: normalità/anormalità sono concetti riferiti ai modelli, alle norme
che caratterizzano il contesto in cui il soggetto vive (…ma quali modelli, vista la loro
molteplicità?; quante persone hanno espresso il loro genio non adattandosi ai modelli?..);
-
Criterio sintomatico – descrittivo: ci si concentra sulle manifestazioni dei comportamenti
ritenuti patologici perché: a) fuori dal comune; b) molesti per gli altri, c) interferiscono
sullo svolgimento delle attività quotidiane; d) rappresentano reazioni emotive
inappropriate e/o non giustificate dalle circostanze.
…La malattia mentale: i modelli psicopatologici
L’approccio alla malattia mentale, sempre molto complesso, varia a seconda dei modelli teorici
di riferimento.
L’indirizzo scientifico – naturalistico o medico – biologico: si rifà all’origine anatomo
– cerebrale e fisiologico – cerebrale della malattia mentale; è la malattia e non la persona del
malato il centro d’interesse. Oggi questo indirizzo, ancora alla base di molta prassi psichiatrica, si
avvale anche di altri contributi: della genetica ( per il ruolo dell’ereditarietà nella malattia
mentale); della neuropsicologia ( per i legami tra gli aspetti psicopatologici e le alterazioni
anatomiche); dell’endocrinologia ( per le alterazioni del sistema ormonale); ecc..
L’indirizzo psicodinamico: si avvale dei contributi della psicoanalisi e più in generale della
concezione psicodinamica. La malattia mentale è il risultato di conflitti interni non risolti. Nella
concezione freudiana, il conflitto tra le istanze della personalità può oltrepassare i limiti ed
emergere quando i meccanismi di difesa2 dell’Io sono insufficienti o impiegano un eccesso di
energie. Alla base della malattia c’è la storia individuale passata in cui si è prodotta qualche
disfunzione della personalità.
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RIMOZIONE: dimenticanza/blocco di esperienze a livello inconscio, che impedisce alla coscienza di accedervi.
PROIEZIONE: attribuzione di pensieri, emozioni, che causano angoscia ad altri piuttosto che a se stessi.
REGRESSIONE. Ritorno, con il pensiero/comportamento, ad un livello di sviluppo precedente.
SUBLIMAZIONE: trasformazione di un fine/desiderio socialmente inaccettabili in altri più accettabili.
FISSAZIONE: si verifica quando un parte della libido resta ancorata ad uno stadio precedente, rendendo difficile
l’accesso allo stadio successivo (è legata alla regressione).
IDENTIFICAZIONE:con qualcuno che si percepisce come desiderabile, ammirabile e inattaccabile dalla angoscia.
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L’indirizzo comportamentista: L’attenzione non è rivolta ai conflitti profondi ma ai
“sintomi”; la patologia coincide con i sintomi che presenta: l’interesse è rivolto solo a ciò che è
osservabile dall’esterno. Come per ogni comportamento, alla base del sintomo c’è
l’apprendimento cioè, in questo caso, un apprendimento “difettoso”. Come impariamo a parlare
così impariamo ad andare in ansia, ad aver paura, non solo nel caso di esperienze traumatiche
(condizionamento), ma anche indirettamente, osservando un’altra persona che si comporta in
modo da rivelare uno stato di ansia (funge, cioè da modello da “imitare”). Ancora, può verificarsi
un “difetto” di apprendimento che può essere alla base, ad esempio, della depressione: questa
può dipendere dal non possedere le abilità e le competenze sociali di base per cui, non avendole
apprese, non portano a rinforzi sociali, a gratificazioni; questo rende il soggetto più fragile e,
quindi, più esposto al disagio.
Per risolvere la malattia bisogna agire sul sintomo, per eliminarlo, perché è ciò che determina il
problema. In questo senso, la malattia psichiatrica rientra nel modello di malattia della medicina
in genere, per cui presenta: una propria eziogenesi (cause), un decorso, un esito. Da qui la
tendenza a medicalizzare i problemi psicologici, delegati prevalentemente alla psichiatria e
all’istituzione medico sanitaria, che possono fanno diagnosi e considerano la malattia nelle sue
fasi.
L’indirizzo umanistico – esistenziale: il modello medico fu largamente criticato dagli
esponenti di formazione umanistico – esistenziale: se la diagnosi può chiarire qualcosa sulla
malattia, di per sé non permette di comprendere l’esperienza reale del soggetto, il potenziale
che ha in sé, le sue risorse, l’aspetto relazionale, emotivo, affettivo. Secondo questo approccio,
le persone stanno male quando non riescono ad autodeterminarsi, ad esprimere le loro
potenzialità naturali. La sofferenza psichica è sempre frustrazione delle istanze umane
fondamentali; è il risultato del fallimento delle aspirazioni radicali dell’esistenza. L’essere umano
è protagonista delle sue vicende, sia quando sta bene, sia quando sta male.
L’antipsichiatria: nasce nell’ambito della pratica psichiatrica; prende le mosse in America con
la pubblicazione di T.S. Szazsc de “il mito della malattia mentale” (1961) e si diffuse in tutta
Europa tra gli anni ’60 e ’70 ( in Italia con F. Basaglia – L. 180 del 1978). Contribuisce al
rinnovamento nell’impostazione sella psicopatologia e dell’assistenza psichiatrica, con il rifiuto
della concezione manicomiale e di ogni trattamento coatto o imposto d’autorità, partendo dal
concetto che i disturbi mentali non possono essere curati come si curano le malattie
dell’organismo, perché nella gran parte dei casi le sofferenze psichiche sono il risultato non di
malattie o di disfunzioni, ma di condizionamenti ambientali o di contraddizioni sociali. Alla base
c’è la premessa teorica del carattere sociogenetico delle malattie psichiche: l’approccio medico –
biologico, attivo a livello clinico attraverso la farmacoterapia, agisce sul sintomo ma non scioglie
i nodi clinici legati alla manifestazione e alla svolgimento della malattia mentale. In Italia F.
Basaglia, proponendo esperienze rivoluzionarie e innovative in ambito psichiatrico ( A Gorizia e
a Trieste), sostiene la necessità di spostare il centro di interesse dalla malattia alla persona, al
contesto socio – culturale, etico – politico, istituzionale in cui vivono i pazienti.
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L’indirizzo cognitivista: partendo dal presupposto che l’individuo ha a che fare non tanto con
il mondo ma con l’esperienza del mondo che la sua mente elabora (come un sistema
informativo in cui i dati ambientali e sensoriali vengono organizzati secondo codici di entrata –
input – per l’immagazzinamento e l’elaborazione, e secondo codici di uscita – output – per le
risposte), il cognitivismo considera il disturbo psichico come l’effetto di una “dissonanza
cognitiva” che si verifica ogni volta che il soggetto sperimenta informazioni discordanti con la
sua struttura mentale; ciò produce una tensione che richiede necessariamente una
ristrutturazione del suo campo cognitivo. La malattia mentale è , quindi dovuta a “biases”, cioè a
distorsioni nell’elaborazione delle informazioni, ad errori di giudizio. I “biases” rientrano nel
normale funzionamento dell’attività cognitiva ma se ripetuti sistematicamente o combinati in
determinati modi, producono processi mentali dannosi, quindi patologici. Ad esempio, la
depressione per i cognitivisti può essere spiegata come il prodotto di una considerazione
negativa si sé, del mondo e del futuro. Fra gli errori cognitivi o distorsioni che possono essere
causa di depressione si evidenziano: a) il pensiero polarizzato (ed es. tutto buono o tutto
cattivo), b) pensieri catastrofici; c) l’ipergeneralizzazione (un azione sbagliata viene generalizzata
A tutte le azioni); d) l’astrazione selettiva ( tra tutti gli aspetti positivi si evidenzia l’unico
negativo); e) la personalizzazione (tutto è riferito a sé, in particolare gli aspetti negativi della
realtà).
L’indirizzo sistemico – relazionale: le teorie relazionali spostano il centro d’interesse
dall’individuo ai contesti sociali in cui vive, in particolare i piccoli gruppi e la famiglia. Questo
indirizzo, promossa dalla Scuola di Palo alto (Bateson, Wtzlawick,…) a partire dagli anni ’50,
considera la singola personalità come originariamente inserita in un sistema di comunicazione in
cui, come in ogni sistema, la parte può essere compresa solo a partire dal tutto: l’attività di ogni
elemento influenza ed è influenzata dall’attività di ogni altro elemento. La “spiegazione” del
disturbo psichico non va cercata nel passato, cioè in dati che non appartengono al sistema, ma
nelle regole interne al sistema stesso. La malattia, quindi, è dovuta non ai conflitti intrapsichici
(psicoanalisi), o agli apprendimenti (comportamentismo), o alle frustrazioni esistenziali
8indirizzo umanistico esistenziale) ne agli stili cognitivi (cognitivismo) ma al modo in cui si
sviluppa l’interazione e alle posizioni che le persone occupano nelle situazioni relazionali in cui
sono inserite.
Secondo la teoria sistemica, ad esempio, alla base della schizofrenia ci sono ripetute,
significative, incongruenti e paradossali relazioni familiari ( tesi del “doppio legame”3).
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DOPPIO LEGAME: traduzione dall’inglese “double blind”, che equivale anche a doppia trappola. Indica un particolare
tipo di situazione che si verifica quando la comunicazione interpersonale, in un contesto ad alta intensità relazionale e
affettiva, è caratterizzata da paradossi, obbligando il destinatario a trovare una soluzione solo uscendo da quello
schema. Bateson in “Verso un’ecologia della mente” (1972) evidenzia come una persona che si trova in una simile
situazione è in una posizione insostenibile e può cercare di rispondere alle ingiunzioni paradossali col tentativo
(impossibile) di non comunicare.” Ogni volta che un individuo si trova in una situazione di doppio legame la sua
capacità di discriminazione fra tipi logici subisce un collasso.(…) Avrà reazioni di tipo difensivo simili a quelle dello
schizofrenico”.
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Considerata al complessità di questa patologia psichiatrica però, questa posizione si è rivelata
poco fondata, almeno quando è riferita alla schizofrenia. Più accreditata, invece, è la tesi
secondo cui la malattia riveste “un ruolo informale funzionale” , cioè “una parte” che l’individuo
sostiene nel tentativo di mantenere l’equilibrio del gruppo e salvaguardare la stabilità,
l’integrità del sistema familiare. In altri termini, la presenza della malattia di un membro può
risultare funzionale alla vita del sistema familiare e all’equilibrio interno. In campo terapeutico si
è verificato, ad esempio, che quando un componente ammalato stava meglio, un altro
componente della famiglia presentava stati di sofferenza.
…La malattia mentale: classificazioni
a) I disturbi psichici secondo il D.S.M.
Nella classificazione delle malattie mentali, un sistema molto usato è quello dell’Associazione
psichiatrica americana, pubblicato nel Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali
(D.S.M.) del 1952, con successivi aggiornamenti. Il D.S.M. mira a rendere attendibili le diagnosi,
coinvolgendo esperti diversi per competenza, orientamento, nazionalità.
I criteri seguiti sono stati: a) la chiarezza del linguaggio; b) l’analiticità delle descrizioni ( descrizione
dettagliata dei comportamenti) .
Per evitare il sovrapporsi di diversi orientamenti e interpretazioni in campo psichiatrico e
psicologico, non considera l’eziologia (le cause) dei disturbi, mentre per ogni disturbo prende in
considerazione:
1. Caratteristiche diagnostiche
2. Manifestazioni e disturbi correlati
3. Caratteristiche collegate alla cultura di appartenenza ( età, genere, decorso, familiarità…)
Il D.S.M. inquadra il paziente secondo cinque assi:
 ASSE I: disturbi clinici (comprende le principali sindromi cliniche).
Ad esempio: dipendenza episodica dall’alcol.

ASSE II: disturbi di personalità e ritardo mentale (descrive i disturbi che possono
accompagnare i disturbi dell’ Asse I).
Ad esempio: deliri

ASSE III: condizioni mediche acute e disordini fisici (eventuali malattie organiche collegabili ai
problemi psicologici del paziente).
Ad esempio: cirrosi epatica da alcol
GRADI DI ADATTAMENTO ALL’AMBIENTE:
 ASSE IV: condizioni psicosociali e ambientali che contribuiscono al disordine.
Ad esempio: conflitto con il coniuge; divorzio

ASSE V: valutazioni globali del funzionamento (quanto l’individuo mostra di essere i grado di
sostenere gli impegni psicologici, affettivi, relazionali, sociali e lavorativi).
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Ad esempio: grave deterioramento della situazione in ambito lavorativo, nelle relazioni familiari e
nell’umore
La classificazione D.S.M. IV (1994) riporta le categorie diagnostiche principali suddivise a loro volta
in sottovoci. Dal 1952 il D.S.M. è stato rivisto e sottoposto, in seguito a studi e ricerche di
approfondimento, a successivi aggiustamenti. L’utilizzazione su vasta scala di questo strumento ha
evidenziato aspetti positivi, quali:
1. Avere un’unica base di confronto per specialisti anche di diverso orientamento;
2. Pervenire ad una maggiore attendibilità delle diagnosi ( confermata dalla verifica sul
campo.
Ma sono emerse anche delle critiche, quali:
1. Favorisce “un’etichettatura” ( la diagnosi si “attacca” alla persona, identificata con la
malattia);
2. Estende il campo di applicazione della psichiatria anche a disturbi, come ad esempio quelli
dell’apprendimento, che dovrebbero essere di competenza dello psicologo clinico, dello
psicopedagogista…;
3. Non permette un approfondimento psicologico ( che tenga conto della complessità della
condizione umana);
4. Manca di riferimenti teorici, e quindi di comprensione profonda dei casi.
b) Un’altra classificazione: le reazioni anomale, le nevrosi, le psicosi, i problemi di
personalità
Malgrado la complessità della diagnosi della malattia mentale, in quanto alcuni comportamenti
(sintomi) sono presenti in diversi disturbi psichici, secondo questa classificazione si possono
individuare, ai fini pratici, quattro grandi categorie di disturbi:
 Reazioni anomale: Sono considerate situazioni in cui la persona reagisce in modo esagerato
e/o inadeguato ad uno stress importante. La differenza tra reazione “normale” e quella
patologica non è qualitativa ma quantitativa. Ad esempio, l’elaborazione psicologica di un lutto
e l’adattamento alla nuova situazione possono essere ostacolate dalla profonda sofferenza e
da condizioni di vita che compromettono la capacità di adattamento dell’individuo,
minacciandone la “resistenza”.
 Le nevrosi: ci si trova di fronte, in questo caso, ad una fragilità specifica dell’organizzazione
psicologica della persona, legata alle fasi del suo sviluppo. Una situazione traumatica, un
conflitto preesistente, può essere rimosso o “spostato” ed espresso con un sintomo che lo
ricorda solo in modo simbolico (nevrosi fobico - ossessiva, nevrosi isterica) . L’individuo evita il
conflitto, ma riesce ad essere cosciente del suo sintomo e comportarsi “normalmente” in tutte
le situazioni in cui esso non ha importanza. Rispetto alla gravità del disturbo, di solito colpisce
solo uno o pochi aspetti della vita della persona (può essere vista come una “reazione
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parziale”); il disturbo è, in genere, vissuto come invalidante per l’individuo ma molto meno
per la sua famiglia o per la società. E’ sempre presente la coscienza della malattia ed è
mantenuta la capacità di discriminare tra realtà esterna e realtà interna (mondo interiore). La
sfera affettiva, anche se colpita dal disturbo, resta comprensibile, perché simile a quella delle
persone “normali” (o comunque con differenze solo quantitative).
 DISTURBI D’ANSIA
ANSIA GENERALIZZATA: si parla di disturbi d’ansia quando questa diventa così persistente e
pressante da impedire comportamenti abituali, cioè diventa sproporzionata, o addirittura
immotivata, rispetto agli eventi che la originano. L’ansia è un modo di sentirsi inadeguati,
impreparati, disorganizzati e non all’altezza delle situazioni. Nell’ansia generalizzata non c’è una
situazione precisa in cui ci si sente a disagio: può comparire in momenti diversi e accompagna la
persona per un certo periodo di tempo. Si manifesta con stati di tensione, senso di fallimento,
pensieri fissi, disturbi fisiologici come l’aumento della sudorazione, insonnia, tachicardia, disturbi
gastrointestinali, cefalea.
FOBIE: sono paure intense, non realistiche e sproporzionate rispetto alla valutazione oggettiva del
pericolo percepito. I sintomi sono, in generale, quelli degli attacchi di ansia. Il soggetto è
consapevole dell’irrazionalità delle paure ma, incapace di affrontare l’oggetto fobico, mette in atto
meccanismi di evitamento che risultano, però, inefficaci nelle situazioni scatenanti. Per questo le
fobie sono “invalidanti”, nel senso che intralciano il quotidiano e compromettono una buona
qualità della vita. In assenza dell’evento fobico, il soggetto non presenta sintomi.
I disturbi fobici sono piuttosto diffusi, soprattutto nei paesi sviluppati, e colpiscono circa il 6% della
popolazione.
In generale, tra le situazioni e i luoghi che scatenano manifestazioni fobiche ricorrenti sono i
trasporti pubblici, i luoghi chiusi e/o senza via d’uscita, il “viaggiare”, nel senso del “lasciare2,
allontanarsi da punti di riferimento e di sostegno sicuri.
…alcune fobie…:
Agorafobia: Paura dei luoghi aperti. È definita come una paura persistente, anormale e ingiustificata dei
luoghi dai quali non sia possibile fuggire immediatamente verso un luogo considerato "sicuro" a giudizio del
fobico. Si tratta della fobia più comune, per la quale la maggior parte delle persone chiede un consulto.
L'agorafobico teme tutti quei luoghi dove non si sente “sicuro” o non possa “ricevere aiuto”. Colui che
presenta questo tipo di disordine suole rifugiarsi a casa sua ed esce rare volte, poiché in quelle occasioni
sperimenta una grande ansietà. Questa è una fobia che suole presentarsi con più frequenza nelle donne
che negli uomini. L'ansietà può essere innescata dal fatto di ritrovarsi tra la moltitudine, dal fatto di dover
realizzare viaggi corti o lunghi. I sintomi caratteristici sono il timore a stare da solo, il timore a stare in un
luogo dal quale sia difficile uscire, il timore di perdere il controllo in un luogo pubblico, sentimento
d'indifferenza o di abbandono da parte degli altri (il fobico suole isolarsi), sentimento di abbandono, idea che il
proprio corpo o l'ambiente sono irreali, ansietà o attacco di panico.
Claustrofobia: È definita come una paura persistente, anormale e ingiustificata di permanere in uno spazio
chiuso. Questa fobia può essere conseguenza di una cattiva esperienza (ad esempio, essere rimasto chiuso
in uno spazio chiuso) o anche indirettamente (aver ascoltato racconti di persone a cui sia successo qualcosa
di simile). Le persone che patiscono la paura degli spazi chiusi (si stima che tra un 2 e un 5% della
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popolazione) di solito evitano di conseguenza gli ascensori, la metro, i tunnel, le case piccole, fino alle porte
girevoli possono presentare difficoltà, così come anche l'uso di equipaggiamenti per tecniche di diagnosi
medica come la TAC. Non temono lo spazio chiuso in se stesso, ma le possibili conseguenze negative
derivanti dal fatto di trovarsi in quel luogo. Ad esempio, temono di restare chiusi per sempre o morire
soffocati, ciò dovuto al fatto che credono che non vi è sufficiente aria in spazi chiusi. Allo stesso modo,
molti spazi piccoli e chiusi implicano poca libertà di movimenti, ciò fa che le persone claustrofobiche si
sentano molto vulnerabili. Tra coloro che soffrono di questa fobia chi entre in uno spazio chiuso sente
un'ansietà intensa e sintomi quali la mancanza di aria, capogiri, palpiti, ecc. I fobici tendono a evitare gli
spazi chiusi, che descrivono con la sensazione di essere intrappolati senza uscita.Si può riconoscere una
persona che soffre di claustrofobia se presenta alcune delle seguenti condotte: entrando in una stanza,
controlla dove sono le uscite, si colloca vicino ad esse e si sente secondo se le porte o le finestre sono
chiuse; evita di guidare o entrare in un'automobile durante l'ora di picco del traffico; evita di usare
l'ascensore e sceglie le scale, anche se sono molti i piani; in una festa piena di gente, sceglie di situarsi
vicino alle uscite; sente panico se si chiude una porta nella stanza dove si trova. La claustrofobia si tratta
con psicoterapia, tecniche di rilassamento e visualizzazione, terapia cognitiva comportamentale e in alcuni
casi medicine, come gli antidepressivi o gli ansiolitici. Alcuni specialisti mettono in relazione la claustrofobia
con l'agorafobia (paura degli spazi aperti) perchè le considerano le due faccie della stessa moneta.
Entrambe le fobie, chi le patisce riconosce che i loro timori sono irrazionali, ma non possono controllarli. I
sintomi di ansietà sperimentati sono simili. e in entrambi i casi, la soluzione alla fobia inizia facendo fronte
ai propri timori.
Acrofobia: È definita come una paura persistente, anormale e ingiustificata dei luoghi alti. Questa paura è
solita presentarsi in situazioni tipiche quali sporgersi dai balcone, restare in un belvedere o vicino a un
burrone. Come altre fobie, genera forti livelli di ansietà in quelli individui che ne soffrono e che cercheranno
di evitare la temuta situazione. Gli specialisti trattano questa e altre fobie con esercizi di “abituazione”.
Patofobia: È definita come una paura persistente, anormale e ingiustificata delle malattie.
Ereutrofobia:È definita come una paura persistente, anormale e ingiustificata di arrossire.
Ancor quando non si tratta di una delle fobie più riconosciute nella nostra società, è abbastanza comune tra
gente che presenta tendenza ad arrossire, così come tra chi è particolarmente sensibile alle percezioni e
giudizi altrui, e di solito arrossisce in qualsiasi momento di una situazione in cui si senta osservato o
valutato. L'arrossamento eccessivo è una reazione fisica scatenata come risposta a pensieri emotivi
associati alle preoccupazioni in eccesso dalle reazioni altrui. Non solo queste persone arrossiscono come
risposta a situazioni in cui altri possono giudicarli, si preoccupano anche per quello che loro sembrano
dinanzi altri. Sviluppare una preoccupazione eccessiva porta all’ereutrofobia. Queste persone hanno paura
di come si vedono davanti ad altri che arrossiscono. Si preoccupano del fatto di essere o no arrossati e di
come si vede la loro pelle. Questa fobia non solo è irrazionale, ma è anche una profezia autocompiuta: la
preoccupazione sulla loro parvenza può risultare in un incremento dell’arrossamento. Questo può essere
un circolo vizioso per molti fobici, tanto più temono di arrossire tanto più arrossiscono. Per persone che
non hanno mai patito questo problema, l'ereutrofobia può sembrare stupida e molto difficile da
comprendere. Tuttavia, non è motivo di derisione. Per quelli che soffrono questa fobia si tratta di una
preoccupazione seria e reale. La tendenza ad arrossire in eccesso, combinata a una paura irrazionale
scatena maggior arrossimento, può affliggere tutti le componenti della vita quotidiana. È comune che la
gente con ereutrofobia sviluppi fobie sociali addizionali a misura che cercano il modo di evitare di arrossire.
E' molto probabile che sperimentino sensi di irrequietezza e si allontanino da situazioni che richiedono
l'interazione umana a ogni livello. Con frequenza finiscono in depressione. Nella misura in cui si prende
coscienza del problema, il pubblico in genere diventerà sicuramente più comprensivo per la seria natura di
questo problema. In questo modo, coloro che ne soffrono potranno sentire meno timidezza per il loro
disordine.
Sociofobia/Fobia sociale: È definita come una paura persistente, anormale e ingiustificata della società o
della gente in generale. Paura di essere giudicato negativamente. Chi patisce di questa patologia
sperimenta molte difficoltà nella sua vita quotidiana, poiché la sua paura è fare fronte a qualsiasi situazione
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in cui inter-attuare con altre persone. Temono di essere il centro dell’attenzione, essere guardati e criticati,
sentono una terribile ansietà quando devono conoscere persone nuove e si sentono molto scomodi in
luoghi pieni di gente. Questa fobia frequentemente inizia nell'adolescenza come una paura di essere
guardato e giudicato da altre persone, e porta ad evitare situazioni sociali. A differenza di quanto succede
nella maggior parte delle fobie, la fobia sociale è allo stesso modo comune a uomini e donne. Il disordine
può essere circoscritto (ad esempio, ristretto alle interazioni con il sesso opposto, a mangiare in pubblico, a
parlare in pubblico) o può esser globale, coinvolgendo in pratica ogni situazione sociale al di fuori della
propria famiglia. La fobia sociale di frequente è accompagnata da bassa autostima e paura delle critiche. Il
contatto visivo diretto può essere particolarmente stressante in alcune culture. Il disordine può presentarsi
al principio come arrossimento, tremore delle mani, nausee o urgenza per urinare –la persona crede che
una di queste manifestazioni di ansietà sia il problema principale. I sintomi possono progredire fino a
giungere ad attacchi di ansia e panico in presenza di altri. Evitare altre persone può essere una condotta
estrema, e può risultare in un completo isolamento sociale.. 4
GLI ATTACCHI DI PANICO: rappresentano episodi acuti, di breve durata,
di ansia intensa
accompagnata da sintomi fisici quali palpitazione, sudorazione, sensazione di soffocamento,
dolore al petto ( che ricorda l’infarto), paura di morire o di impazzire. Alcuni attacchi colgono di
sorpresa, costringendo ad una vita “in allarme”, nella paura che compaiano, altri si presentano in
determinate situazioni (in luoghi chiusi e senza via d’uscita, ecc), che vengono il più possibile
evitate, limitando la possibilità di azione del soggetto.
sono stati d’ansia caratterizzati da pensieri e/o azioni
persistenti. Le ossessioni possono essere pensieri, immagini, impulsi ricorrenti, a cui il soggetto
non riesce a opporre resistenza: anche se c’è consapevolezza della loro insensatezza/irrazionalità
queste tornano, lasciando la paura di non poterle controllare.
Le compulsioni sono atti ripetitivi, stereotipati, di solito preceduti o accompagnati da
un’ossessione (ad es. ossessione: paura di aver lasciato il gas aperto; compulsione: controllo
continuo delle manopole del gas). I due tipi di rituali compulsivi più frequenti sono quelli legati al
controllo dell’ambiente e alla pulizia. Nei disturbi ossessivo – compulsivi il soggetto è consapevole
dell’irrazionalità dei motivi scatenanti ma non riesce a controllarsi; se prova a resistere subentra
l’ansia. Questi disturbi implicano una sofferenza interiore profonda, che può compromettere la
vita familiare e sociale dell’individuo.
DISTURBI OSSESSIVO – COMPULSIVI:

NEVROSI ISTERICA
è una forma psiconevrotica caratterizzata da manifestazioni somatiche e psichiche che insorgono
generalmente sulla base di una personalità isterica, i cui tratti più tipici sono: labilità e immaturità
affettiva, intensa partecipazione affettiva, suggestionabilità, dipendenza, teatralità, esibizionismo,
tendenza alla drammatizzazione e all'esagerazione. È legata a uno spostamento sul piano organico
di problematiche psicologiche; è anche detta isteria di conversione.
Le manifestazioni somatiche possono interessare qualsiasi organo o apparato: paralisi, disturbi
della sensibilità, spasmi muscolari, tremori, disturbi della parola, disturbi gastrointestinali e del
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respiro, ecc. Tra i sintomi psichici si possono osservare: disturbi della coscienza e della memoria,
depressione, euforia, oltre ai tratti caratteristici della personalità.
 Le psicosi: diversa e più grave è la situazione caratteristica della psicosi, che rappresenta una
“reazione totale”, cioè tende a colpire la totalità della vita di una persona, che si sente
nell’impossibilità di delinearsi come tale. L’individuo vive all’interno di un orizzonte affettivo
limitato e il suo IO non è ben delimitato rispetto a quello delle persone a cui è legato: egli vive
in loro e loro vivono in lui (meccanismo di identificazione proiettiva). la coscienza di malattia
spesso è assente ed è compromessa la capacità di discriminare tra realtà esterna e realtà
interna: la realtà oggettiva esterna viene percepita in modo distorto oppure, come nelle psicosi
depressive, ha scarso significato per il soggetto. I sintomi lo coinvolgono e, in quanto persona,
incidono sulla sua personalità mettendo a dura prova il rapporto con la realtà.5 Spesso le
emozioni sono qualitativamente differenti da quelle “normali” ( ad es. nelle schizofrenie); altre
volte sono così esagerate da occupare tutta la vita del paziente ( ad es. nelle manie).
 DISTURBI DELL’UMORE
LA DEPRESSIONE MAGGIORE: fa riferimento alla depressione grave, che vede il soggetto incapace di
reagire, distinta da quegli stati depressivi, che possono essere occasionali e prevedono un
recupero, almeno parziale, grazie a situazioni di sollievo e/o a relazioni sostenenti. La depressione
maggiore è, tra tutti i disturbi dell’umore, quello più frequente e rilevante: nelle nazioni
occidentali almeno una persona su cinque ne è colpita ed interessa maggiormente il genere
femminile ( su tre persone depresse, due di solito, sono donne). Negli ultimi anni sembra
aumentata, anche tra i giovani e tra i bambini, l’esposizione a tale patologia.
I due sintomi rivelatori della depressione maggiore sono 1) l’umore depresso (assenza di
speranza, sentimento di unibilità, di abbandono, irritabilità…); 2) diminuzione o assenza di
interesse/piacere per tutte o quasi le attività. Altri sintomi, se associati ai due sintomi rivelatori,
possono suggerire una depressione: perdita o aumento significativo di peso o dell’appetito;
disturbi del sonno: insonnia o ipersonnia; rallentamento o agitazione psicomotoria; affaticamento,
perdita di energia; eccessivi e inappropriati sentimenti di autosvalutazione o di colpa; difficoltà di
concentrazione, di memoria, indecisione; ricorrenti pensieri di morte e idee di suicidio.
Spesso si confonde la stanchezza con gli stati depressivi o con la depressione: la persona depressa,
a differenza della persona stanca o ansiosa, percepisce che il suo malessere viene dall’interno o,
addirittura, ignora il problema : ha resistenze a consultare il medico, non crede nelle terapie. La
sua sofferenza è costante e duratura: rinuncia a comunicare e a lottare; ciò che lo circonda non lo
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Si pensi a pazienti depressi che non si lamentano della loro depressione ma la vivono pienamente, nella sua
drammatica “totalità”; si pensi, ancora, a pazienti schizofrenici immersi, senza capacità critica, in un’esperienza
delirante e allucinatoria che li estranea completamente dalla realtà degli altri.
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preoccupa più, il futuro è buio: non ha speranza di uscire dalla sua situazione. Se il suo stato è
grave prova un desiderio di morte.
Alcune tra le situazioni più ricorrenti che possono sfociare nella depressione, sono:
Stress: legato ad eventi dolorosi scatenanti come lutti, separazioni, frustrazione e/o a situazioni di
sofferenza legate ad isolamento affettivo e sociale; problemi di salute, disabilità.
Eventi naturali: nella donna possono manifestarsi sintomi depressivi transitori durante ciclo
mestruale, o nella menopausa,; la depressione post – parto, colpisce molte madri più spesso entro
le prime quattro settimane dopo la nascita ( ma anche fino a 12 mesi dopo), e può trasformarsi da
una forma transitoria e moderata ad una conclamata (specie nei casi di maggior vulnerabilità).
Malattie: esistono malattie che possono favorire lo scatenarsi della depressione: malattie della
tiroide, problemi neurologici ( morbo di Parkinson, Alzheimer, sclerosi multipla), che spesso
esordiscono con sintomi depressivi; patologie autoimmuni (Lupus), tumori, malattie croniche
come il diabete, la tubercolosi, l’artrite e anche l’alcoolismo ha una certa relazione con i disturbi
depressivi; in soggetti predisposti la depressione può essere scatenata anche da alcuni farmaci (
ad. es. gli antiipertensivi, cortisonici, estro progestinici, ecc).
I DISTURBI BIPOLARI: o sindrome maniaco – depressiva, in cui si alternano periodi di euforia a
periodi di depressione profonda. Il soggetto passa da uno stato all’altro: dalla presenza dei sintomi
classici della depressione allo situazione in cui è iperattivo, si sente benissimo, ha una ideazione
formidabile ma inconcludente: esprime idee in continuazione, fa progetti, parla rapidamente, ma il
suo pensiero manca di capacità critica; è infaticabile e perde facilmente il controllo se viene
contrastato. Durante le fasi di euforia può perdere in parte la percezione della realtà, assumendo
comportamenti assurdi e addirittura pericolosi. Nega il problema e rifiuta di farsi curare.
All’improvviso dall’euforia piomba nel pessimismo più nero, nella depressione più profonda. La
durata e il ritmo di alternanza di questi periodi sono praticamente imprevedibili: possono durare
giorni o mesi, fino ad avere tre o quattro episodi all’anno. Se diagnosticata in modo adeguato, il
disturbo bipolare è tra le malattie mentali meglio curabili.

LA SCHIZOFRENIA:
il termine, coniato da Bleuler nel 1911, significa letteralmente "mente divisa" (da schizo divido e
frenos mente). La schizofrenia è una malattia mentale grave caratterizzata da dissociazione, che
fa assumere al soggetto comportamenti incoerenti e contraddittori, che altera il linguaggio,
l’affettività, la percezione di sé e i meccanismi associativi del pensiero ed influisce negativamente
sulle capacità di adattamento di un individuo. La schizofrenia è da “sintomi positivi e negativi”.
I sintomi positivi sono caratterizzati da comportamenti e vissuti assai evidenti e si distinguono in:
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Allucinazioni: sono percezioni, rappresentazioni mentali, che esistono solo nella mente
del paziente. Pur potendo interessare tutti i sensi (udito, vista, tatto, gusto ed olfatto), la
forma più frequente è data dall’udire delle voci. Le voci possono conversare con lui, avvertirlo
di eventuali minacce o impartirgli degli ordini.
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Deliri: sono convinzioni personali irrazionali ed erronee, che pur non avendo nessun
riscontro oggettivo ed evidente, vengono strenuamente sostenute dal paziente. Le convinzioni
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deliranti, possono essere di vario tipo: 1) delirio di riferimento: per il soggetto schizofrenico
qualunque cosa avvenga è collegata alla sua persona; 2) delirio di controllo: credere di essere
controllato attraverso forze esterne; 3) delirio di persecuzione: credere di essere oggetto di
azioni malvagie e persecutorie da parte di familiari o conoscenti, 4) delirio di grandezza:
credere di avere poteri particolari o talenti speciali come controllare terremoti o essere in
comunicazione con Dio…
Pensiero disorganizzato: i pensieri più intimi, i sentimenti, sono spesso vissuti come
condivisi o conosciuti dalle altre persone. I pensieri, sembrano non avere nessi logici e il
discorso della persona può essere difficile da seguire per la rapidità con cui il paziente passa
da un concetto ad un altro o da un soggetto ad un altro. A volte le persone pensano che i loro
pensieri siano trasmessi, rubati, controllati o influenzati da agenti esterni (demoni,
extraterrestri)
Disturbi del linguaggio: La terminologia e la sintassi possono essere bizzarre e
possedere un senso solo per chi parla. Il paziente schizofrenico non è in grado di partecipare
attivamente alle conversazioni: tende a perdere il filo del discorso o a restare assente; invia
messaggi contradditori e a volte compare l’ecolalia (ripetizione compulsiva di ciò che dice
l’altro) o l’utilizzo di parole prive di senso (neologismi). I disturbi del linguaggio non sono solo
legati alle difficoltà di pensiero, ma assumono una valenza comunicativo relazionale
Disturbi dell’affettività: presentano freddezza, distacco, scarsa esperienza di sentimenti
ed emozioni; le reazioni emotive possono essere ambigue o inappropriate.
Disturbi della sfera motoria: alcuni pazienti presentano comportamenti motori
grossolani e disorganizzati : possono assumere posture bizzarre e starne; possono
manifestare rigidità catatonica, cioè resistere alla mobilizzazione passiva; a volte presentano
ecoprassia, cioè la ripetizione compulsiva di azioni di un’altra persona.
Disturbi della socialità: il paziente può trasgredisce le regole della convivenza sociale (si
denuda in pubblico), manifestare comportamenti incongruenti con la situazione (ride ad un
funerale), o pericolosi.
I sintomi negativi, sono quelli più insidiosi, quelli che si insinuano silenziosamente, impoverendo
progressivamente la vita del paziente, togliendo l’impalcatura alla sua esistenza.

Appiattimento emotivo: spesso, i pazienti con schizofrenia non riescono ad esprimere
emozioni e possono non avere nessuna reazione in presenza di eventi tristi o felici oppure
possono reagire in maniera non appropriata. La fissità della mimica facciale e la monotonia
dell’eloquio sono alcune manifestazione di questo appiattimento.

Perdita di slancio vitale: la mancanza di interesse per la vita, per il lavoro o le attività
ricreative, si manifestano nell’inattività completa che porta il paziente a trascorrere giorni
interi senza fare niente ed addirittura trascurando la propria igiene o alimentazione.

Ritiro sociale: si riferisce ai problemi nell’allacciare e mantenere amicizie, coloro che
soffrono di schizofrenia possono avere poche relazioni intime ed avere contatti superficiali e
sporadici con il prossimo. Nei casi estremi possono chiudersi totalmente alla vita sociale.

Povertà del pensiero: il pensiero è poco ricco e male articolato, la povertà espressiva
delle frasi brevi, delle risposte a monosillabi, dei silenzi interminabili, testimoniano questa
difficoltà. Può verificarsi anche che lo schizofrenico parli liberamente usando parole
convenzionali che, combinate tra loro, non conferiscono significato al discorso (insalata di
parole).
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Accade spesso che in un individuo, tutti questi sintomi, non si presentino contemporaneamente.
Una sindrome schizofrenica infatti, può essere caratterizzata anche da soli sintomi negativi6 e,
spesso, in assenza di elementi palesemente disturbanti, come possono essere le manifestazioni
comportamentali dei sintomi positivi, accade che quelli che sono segnali allarmanti passino
inosservati o banalmente additati come indici di esasperata introversione. È la individuazione di
tali tipologie sintomatologiche ad assumere un ruolo chiave per effettuare una diagnosi di
schizofrenia. Il DSM IV stabilisce come primo criterio diagnostico la rilevazione, nel paziente
psichiatrico, di almeno due sintomi appartenenti alla tipologia positiva o negativa prima descritta,
per il periodo di un mese, o meno, se trattati con successo. La sintomatologia, positiva o negativa
che sia, trascina sempre con sé l’allegato della disfunzione lavorativa e sociale. Il lavoro, le
relazioni interpersonali, la cura di sé, della persona schizofrenica, si trovano sempre notevolmente
al di sotto del livello raggiunto prima della malattia. La malattia dunque non consente alla persona
di conservare il suo abituale comportamento o stile di vita, ma ne influenza negativamente
davvero tutti gli aspetti.
La schizofrenia si presenta sotto quattro forme cliniche:
o Forma simplex: centrata su un impoverimento progressivo della personalità, sul piano
affettivo, cognitivo, ideativo. Il paziente diventa inattivo; non produce particolari dissociazioni
ideative; il pensiero è povero di contenuti, fino ad arrivare alla mancanza di pensiero astratto;
il comportamento è strano e non sono presenti deliri e allucinazioni.
o Forma paranoidea: è caratterizzata dalla presenza sistematica di deliri e allucinazioni; è
particolarmente presente in soggetti intelligenti che possono mantenere un discreto
adattamento sociale: questi regrediscono meno rapidamente degli altri, mantenendo contatti
con l’ambiente sociale, anche se dimostrano sospetto, opposizione e, a volte, violenza.
o Forma ebefrenica: manifesta incongruità e bizzarrie del comportamento, discordanze affettive,
deliri di grandezza, preoccupazioni deliranti riguardo l’immagine del proprio corpo. Il soggetto
ebefrenico è apatico, distaccato, ride spesso, dà l’idea di una personalità povera e disgregata.
Con il progredire della malattia le capacità cognitive si indeboliscono sempre di più e si
accentuano le alterazioni del linguaggio (insalata di parole).
o Forma catatonica: presenta stati di immobilità (catalessia) a volte quasi completa (stupore
catatonico); dopo una fase di ansia e di eccitazione, il soggetto può diventare completamente
inattivo: non è in grado di muoversi, badare a se stesso, nutrirsi; mostra estrema indifferenza
anche di fronte al pericolo. Sembra particolarmente compromessa la volontà: può rimanere
AUTISMO: Derivato dal greco autòs che significa “sé stesso” il termine “autismo” (considerato equivalente a “introversione “ o
“ritiro in se stessi”) è stato introdotto nel 1911 dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler per indicare un modo di pensare e percepire
il mondo che si caratterizza per due aspetti principali: a) – la perdita di contatto con la realtà esterna (che si manifesta, appunto,
come ritiro o disinteresse nei confronti dell’ambiente); b) – il predominio della vita interiore, che deriva dal fatto che l’universo dei
fantasmi a poco a poco si sostituisce al mondo reale.
Il soggetto “autistico” vive completamente ripiegato su se stesso, non è interessato ad avere rapporti con gli altri, il suo pensiero è
completamente dominato da fantasie personali, sogni ad occhi aperti, deliri e allucinazioni. Quando è presente in modo marcato
l’autismo è uno degli aspetti tipici della schizofrenia, e come tale è stato descritto da Bleuler (1911); secondo questo autore gli
aspetti fondamentali del pensiero schizofrenico sono da un lato il distacco dalla realtà, dall’altro il ripiegamento verso “la vita
interiore che assume una preponderanza patologica”. L’autismo dell’adulto va distinto, almeno secondo Kanner (1943),
dall’autismo infantile precoce, che non può essere considerato uno dei vari tipi di schizofrenia, dal momento che, mentre lo
schizofrenico adulto ritira il suo interesse dal mondo esterno, il bambino autistico non lo instaura neppure; secondo altri, invece
(Giordano et al.1987), l’autismo infantile precoce sarebbe la forma assunta dalla schizofrenia.
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fermo in posizioni scomode anche per lunghi periodi; manifesta ecolalia, deliri allucinazioni. In
questi pazienti il rischio di cronicizzazioni irreversibili è particolarmente elevato.
Generalmente le sindromi psicotiche, e in particolare la schizofrenia, presentano tre fasi evolutive:



Fase premorbosa: deriva da una vulnerabilità biologica di base, carenze psico – affettive, eventi
traumatici, condizioni ambientali difficili…;
Fase acuta: quando la malattia si manifesta;
Fase cronica: in cui si attua il processo di cronicizzazione e di marginalizzazione sociale.
L’evoluzione è varia; si possono avere:
 Andamenti episodici;
 Un episodio acuto e poi una remissione dei sintomi;
 Evoluzioni lente e progressive che portano alla cronicità;
 Esordi lenti con remissioni graduali,
 Forme miste
La prognosi di miglioramento è, in generale, a lungo termine (per metà dei casi, circa, è
sfavorevole) ed è legata prevalentemente a fattori di tipo ambientale, quali:
 Ambiente familiare;
 Risorse “difensive” del paziente;
 Il mantenimento o la perdita di competenze sociali, affettive, strumentali, dopo un periodo di
cura;
 Le risorse territoriali ( possibilità di integrazione, socializzazione, efficienza dei servizi…
 Risposte terapeutiche adeguate
Rspetto alle cause della schizofrenia, non esiste nessuna correlazione significativa tra fattori
ereditari ed evoluzione della malattia, né sufficienti dati in grado di avvalorare l’ipotesi organica.
La malattia sembra essere il risultato di un insieme di fattori patogeni convergenti: biologici,
predisponenti costituzionali, psicologici, sociali e culturali. Anche in questo caso, quindi, l’eziologia
è multifattoriale.
 Problemi di personalità: cioè disturbi del comportamento che rappresentano forme meno
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gravi di quelle anomalie che non derivano da patologie organiche e non rinviano a quadri
psicotici. Solitamente sono considerati reattivi ad un ambiente affettivamente e socialmente
deprivato e si manifestano con problemi di sviluppo della personalità, tratti nevrotici, difficoltà
di apprendimento. Si esprimono, attraverso lo sviluppo di modalità di comportamento stabili
(tratti di carattere) che servono ad evitare lo stress, nelle:
a) psicopatie o sociopatie (comportamenti devianti, ad es. comportamenti criminali) che si
manifestano con passaggi all’atto (corto circuito del comportamento): la persona vive in
continuo contrasto con le regole alla base di un’integrazione sociale riuscita;
b) sindromi marginali o borderline ( disturbi al confine, a metà strada tra nevrosi e psicosi): la
persona, apparentemente “normale” è disturbata e sofferente a causa dalla disarmonia
sostanziale che la caratterizza e che la induce al restringimento delle esperienze possibili.
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