Magistratura di Sorveglianza: problemi attuali e prospettive Sommario: 1. Premessa. 2. Il problema del concorso di pene. 3. (segue) Il cumulo materiale. 4. (segue) Il reato continuato. 5. Sospensione della esecuzione della pena prima della esecuzione e Magistratura di Sorveglianza. 6. Il differimento della esecuzione della pena. 7. Misure alternative. Affidamento in prova e detenzione domiciliare generica. 8 (segue). Le prescrizioni dell'affidamento in prova. Le prescrizioni tipiche. 9. (segue) Le prescrizioni atipiche e il principio di legalità e tassatività. 10. L'esito dell'affidamento in prova. La revoca. 11. (segue) La dichiarazione di cessazione della misura, la declaratoria di estinzione o non estinzione, le pronunce di annullamento. 12. La liberazione anticipata. 13. Le misure di sicurezza. 14. Magistratura di sorveglianza e tutela dei diritti dei soggetti ad esecuzione di pena. 15. (segue) la tutela semplificata. 16. (segue) La sentenza 26/1999 C.Cost. e le posizioni giuridiche tutelabili. 17. (segue) il procedimento applicabile. 18. (segue) l’effettività della tutela. 19. La sospensione delle ordinarie regole di trattamento ex art. 41 bis O.P. La prova della permanenza dei collegamenti con la criminalità organizzata. 1. Premessa. Nell'ambito del corpo della Magistratura, quella di Sorveglianza è indubbiamente quella che mostra la maggior vitalità e tasso di innovazione dell'arco degli ultimi decenni. Ciò non tanto per l'entità quantitativa di riforme che hanno investito il relativo settore, non superiore certo a quelle che hanno riguardato altri campi quali il processo penale o, in minor misura, quello civile, ma per la profonda rivisitazione del senso della relativa funzione. Senza addentrarsi in troppi particolari e solo a livello di descrizione generale del fenomeno, è sufficiente rilevare come, schematicamente, il Magistrato di Sorveglianza sia nato, storicamente, come Garante dei diritti delle persone sottoposte a pena, in uno scenario ove l'esecuzione concerneva, in buona sostanza, l'esecuzione della pena del carcere. Il sistema si è profondamente modificato fino ad affiancare alla funzione di tutela dei diritti quella che, ormai preminente, è la funzione della Magistratura di Sorveglianza come giudice della pericolosità sociale. Il giudice che determina l'effettivo trattamento penale che dovrà essere applicato al condannato, in considerazione della sua pericolosità sociale. Le direttrici della modifica sono essenzialmente due. La prima, rilevante sul piano tecnico giuridico, è la progressiva erosione delle funzioni collegiali, a vantaggio di quelle monocratiche.1 La seconda, rilevantissima in generale, è la decarcerizzazione del sistema, tale che attualmente, il sistema penale non ha più la sua pietra angolare nell'istituto penitenziario, ma nelle misure (ma sarebbe ormai meglio dire pene) alternative. Le sanzioni penali eseguite fuori dal carcere sono ormai la assoluta maggioranza. Si impone qualche precisazione. 1 Simboleggiata dallo spostamento delle decisioni in tema di liberazione anticipata dal Tribunale al Magistrato, dalla introduzione di poteri cautelari e anticipatori, dalla attribuzione di tutte le nuove funzioni inerenti la esecuzione (esempio, espulsione, visti sulla corrispondenza, ecc.) all'organo monocratico. Di misure alternative si può in effetti, parlare in almeno due accezioni distinte. La prima, più ristretta, è quella di sanzioni penali, applicate dopo che il giudice della cognizione abbia inflitto la pena detentiva, in luogo di tutto o parte di essa, e che non implichi neppure un parziale contatto con il carcere. La seconda, prescinde dalle due limitazioni appena dette, comprendendo, da un lato, anche sanzioni diverse dalla detenzione inflitte fin dal giudice della cognizione e, dall’altro, anche sanzioni che comprendano il contatto parziale con il carcere. Nella prima accezione, si intendono, restrittivamente, l’affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la liberazione condizionale. Nella seconda, il campo di attenzione si allarga fino a comprendere la semilibertà, ma anche le sanzioni sostitutive della semidetenzione, libertà controllata, permanenza domiciliare et similia. A ben vedere, nell’economia del discorso odierno, tale distinzione è importante per la chiarezza concettuale, ma non decisiva, e possiamo, quindi, tranquillamente ritenere il discorso, almeno a livello introduttivo generale, esteso a tutto il ventaglio di sanzioni diverse dalla mera detenzione in carcere, salvo qualche riferimento, specifico, alla materia delle misure alternative in senso stretto. Semmai, il problema è che non tutte le sanzioni diverse dal carcere sono amministrate dal Magistrato di Sorveglianza: né la distinzione passa per il soggetto che applica tali sanzioni: ce ne sono di applicate dal giudice della cognizione che sono amministrate dal magistrato di sorveglianza (le sanzioni sostitutive della libertà controllata e della semidetenzione) e altre che non lo sono (ad esempio, quelle inflitte dal Giudice di Pace). Posta questa prima premessa, per così dire qualitativa, è il caso di svolgerne una di tipo quantitativo, relativa, cioè, alla dimensione, giuridica e sociologica del fenomeno di cui trattiamo. Dal punto di vista giuridico, si può osservare che si tratta di un vero e proprio sottosistema, la cui complessità, a partire dal 1975 e per giungere ad oggi, si è andata costantemente ampliando. Anche solo limitandosi a considerare le misure alternative in senso stretto, basti osservare che esistono almeno tre tipi di affidamento in prova (ordinario, affidamento per persone malate di AIDS, affidamento terapeutico2), due tipi di liberazione condizionale (ordinaria e per collaboratori di giustizia3), addirittura otto tipi di detenzione domiciliare (i quattro tipi previsti dall’art. 47 ter O.P.: per ultrasettantenni delinquenti primari, ordinaria, c.d. generica, c.d. umanitaria;4 la detenzione domiciliare per malati di AIDS,5 la detenzione domiciliare speciale per le detenute madri e la detenzione domiciliare speciale c.d. di prosecuzione;6 la detenzione domiciliare per i collaboratori di giustizia7). Non solo, ma, allargando il discorso, non è più nemmeno possibile parlare di una unica pena detentiva in carcere, visto che, almeno, devono distinguersi dalla carcerazione ordinaria il regime del c.d. carcere duro di cui all’art. 41 bis O.P. e, all’altro estremo di una ipotetica “scala di durezza”, la custodia attenuata per persone con problemi di tossicodipendenza. Si tratta, insomma, di uno strumentario giuridico che, già da queste semplici considerazioni, mostra tutta la sua imponenza. 2 Rispettivamente, art. 47 e 47 quater Ordinamento Penitenziario, art. 94 d.p.r. 309/1990. 3 Rispettivamente, art. 176 c.p. e 16 nonies L. 45/2001. 4 Rispettivamente, i commi 01, 1, 1 bis e 1 ter dell’art. 47 ter O.P. 5 Art. 47 quater O.P. 6 Art. 47 quinquies O.P. 7 Art. 16 nonies l. 45/2001. E tale rilevanza non viene certo meno, se si consideri il fenomeno dal lato, per così dire, sociologico. E’ sufficiente l’esposizione di un dato numerico. A decorrere dall’anno 2000,8 sono più numerose le persone che espiano la pena fuori dal carcere, che non quelle che la espiano all’interno del carcere. E tale tendenza è in via di costante consolidamento. Tale dato, che stupisce persino gli addetti ai lavori, concerne non centinaia, non migliaia di persone, ma decine di migliaia di condannati in tutta Italia. Per esprimere lo stesso concetto in altro modo, ciò significa che oltre il 60% delle condanne penali passa al vaglio del Tribunale di Sorveglianza per la eventuale concessione di misure alternative (in senso stretto), prima ancora dell'inizio della esecuzione. Praticamente la totalità delle condanne a pena detentiva non sospesa condizionalmente, poi, se non altro per la liberazione anticipata o la concessione di forme di graduzione della pena, viene trattata dalla Magistratura di Sorveglianza. Si può pertanto senza alcuna possibilità di smentita che la magistratura di sorveglianza è il cardine della esecuzione ed effettività della pena. Per quello che possono valere i nomi, si potrebbe tranquillamente dire che essa, ben più che della sorveglianza, è il giudice della pena (o della esecuzione penale, se ci si vuole riportare alla denominazione che tale funzione ha, ad esempio, in Francia) Non può che lasciare allora più che perplessi, stupefatti, il sostanziale cono d'ombra in cui le funzioni di sorveglianza vengono lasciate. Richiamata con la massima forza l'importanza dei temi che andremo a trattare e la conseguente necessità di sensibilizzazione della cultura giuridica, si possono esaminare alcune questioni attuali. Si privilegeranno le questioni strutturali e la rilevanza concreta delle questioni. A livello di impostazione, si userà come falsariga la distinzione tra funzioni di giudizio della pericolosità sociale e tutela dei diritti. 2. Il problema del concorso di pene Un tipico problema strutturale che affligge il diritto della esecuzione penale è correlato alla concorrenza di più titoli esecutivi. Tale problema è la conseguenza di due premesse. La prima è che, dagli anni '80, la legislazione ha abbandonato l'impostazione per così dire classica del diritto penitenziario. Secondo tale concezione, deve esistere un unico regime penitenziario legale e la unica variabile, a livello normativo deve essere quella quantitativa: il trattamento penitenziario si determina in durata della pena. Determinata dal giudice della cognizione l'entità di questa, non esiste alcuna categoria particolare di condanne: i condannati si distinguono solo per la durata della sanzione: per il resto, le uniche differenze sono quelle individuali. Detto in altre parole, a tutti si applica lo stesso regime, l'unica differenza essendo il grado di rieducazione (e la pericolosità residua, valutate singolarmente). Questo sistema evidentemente non è stato ritenuto soddisfacente, posto che il legislatore, a partire dalla disciplina c.d. “antimafia” degli anni '80, lo ha abbandonato, cominciando a introdurre una serie di regole con un denominatore comune: distinguere tra tipologie di condannati, a seconda del titolo di reato commesso. Si tratta di una rivoluzione copernicana per il diritto della esecuzione penale: la discriminazione qualitativa (la cui norma principe è l'art. 4 bis O.P.) è ormai un cardine del diritto penitenziario moderno: ormai non esiste un solo regime penitenziario, da adattare al singolo, ma un complesso sottosistema di regimi penitenziari, che dipendono dal reato commesso. 8 Fonte: statistiche Ufficiali Ministero della Giustizia, reperibili sul relativo sito web, alla url www.giustizia.it. Un altro dato strutturale che va sottolineato è che, bisogna dirlo con chiarezza, tale rivoluzione normativa è la evidente risposta alla insoddisfazione per la resa del regime precedente. Tale regime si ritenne non adeguato a garantire le esigenze di sicurezza contro la criminalità più allarmante. Poiché in realtà il regime previgente non imponeva (ma consentiva soltanto) margini più ampi di quello attuale, quanto all'accesso a misure alternative, rimettendosi la valutazione, caso per caso, alla discrezionalità della Magistratura di Sorveglianza, deve sottolinearsi che tale intervento è, a ben vedere, una reazione a un esercizio della discrezionalità della Magistratura di Sorveglianza che il legislatore valutò negativamente. Anche sotto questo aspetto, tale vicenda è istruttiva, posto che è anche essa un dato che si è avviato a diventare strutturale.9 Ciò ha comportato che la stessa persona può essere considerata particolarmente pericolosa rispetto a certi fatti e ordinariamente pericolosa rispetto ad altri. Il legislatore, il cui livello di elaborazione è, per la materia penitenziaria, talvolta lontano dalla conoscenza della consistenza dei problemi reali, non ha, in buona sostanza, calcolato che lo stesso soggetto non solo può trovarsi a subire, in tempi diversi, pene per reati diversi, ma anche trovarsi a subirle in un unico torno di tempo. Ciò ha determinato uno dei problemi più ricorrenti del diritto penitenziario: quello del cumulo di pene. Il problema non esisterebbe, è ovvio, se le pene avessero tutte il medesimo regime penitenziario, ma esiste ed è complesso quando, come nell'ordinamento attuale, siano previste differenze. Esemplificando, un soggetto può trovarsi ad espiare un cumulo di pene in cui rientra: a) una pena per un delitto del c.d. Primo gruppo dell'art. 4 bis; b) una pena per un delitto compreso nel c.d. Secondo gruppo; c) una pena su cui è stata riconosciuta la recidiva art. 99 comma 4 c.p.; d) una pena, per così dire, normale. Uno dei problemi più complessi del diritto penitenziario è regolare tali casi. Mancando la disciplina normativa, la soluzione non può che desumersi dai principi generali. In primo luogo, va individuato il fondamento razionale del sistema. Esso è, evidentemente una presunzione assoluta di maggior pericolosità sociale dell'autore dei reati che il legislatore individua come oggetto di una disciplina penitenziaria restrittiva. Tale presunzione assoluta ha come contenuto l'imporre una maggior durata10 o l'indefettibilità del trattamento penitenziario,11 in assenza di certe circostanze.12 La durata obbligatoria del trattamento in carcere viene tarata sulla pena per il reato ostativo. La applicazione di tale sistema è evidentemente complessa quando siano in esecuzione concorrente pene disciplinate diversamente. Vale subito la pena di osservare che il diritto penale prevede, come noto, due diverse forme di cumulo delle pene. La semplice somma aritmetica (cosiddetto cumulo materiale), ovvero un regime 9 Per rimanere nell'ambito della esecuzione penale, si pensi alla ratio di molte norme della legge c.d. Ex Cirielli: la discriminazione quantitativa dei recidivi ben avrebbe potuto (e forse dovuto) farsi nell'ambito della discrezionalità giudiziaria: il legislatore è verosimilmente intervenuto per correggere quella che ha valutato come un'inadeguatezza della giurisdizione. 10 Il senso delle norme che prevedono quote di pena maggiorate per certi reati (ad esempio l'espiazione di metà pena invece che un quarto di pena per accedere ai permessi premio in caso di rapina aggravata) è proprio quello di ritenere che il rapinatore non possa essere maturo per il permesso premio se non ha espiato metà della pena. 11 Ad esempio, per l'associazione a delinquere di stampo mafioso e i delitti del c.d. primo gruppo di cui all'art. 4 bis.. 12 Tipicamente, l'aver collaborato con la giustizia. legale (non aritmetico, c.d. cumulo giuridico). Esempio principale13 del secondo tipo è evidentemente il reato continuato. 3. (segue) Il cumulo materiale L'individuazione del regime penitenziario applicabile è relativamente semplice, sul piano concettuale e poste le premesse di cui sopra, rispetto al c.d. cumulo materiale. Formalmente, l'art. 76 c.p. prevede che le pene cumulate si considerano pena unica: ciò in un primo momento creò l'interrogativo: ma se è pena unica, è da considerarsi pena tutta ostativa o non ostativa ? Sia pure progressivamente, si è fatta strada una interpretazione illuminata dalla ratio sopra detta: in tali casi non può valere l'unificazione, per il semplice fatto che se essa valesse, il condannato che si vede le pene cumulate si troverebbe irragionevolmente discriminato in senso favorevole (se la pena cumulata si dovesse ritenere tutta non ostativa) o sfavorevole (se la pena cumulata si dovesse ritenere tutta non ostativa, come in un primo tempo si ritenne), rispetto a quello che, a parità di reati e condotta, semplicemente non si fosse visto cumulare le pene. In effetti la effettuazione del cumulo dipende dalla attività del pubblico ministero e non dipende dalla condotta del condannato e il diverso trattamento non avrebbe alcuna ragione d'essere. Ecco perchè è ormai risultato acquisito che il cumulo (materiale) di pene deve essere “sciolto” ai fini del diritto penitenziario. Ciò significa che le singole pene devono scorporate e che se per una è previsto un divieto di misura alternativa e per l'altra una possibile ammissione, il condannato può essere ammesso a misura solo sulla seconda. Il che determina alcuni problemi ulteriori. Il primo è, tra le pene concorrenti, quale debba ritenersi espiata per prima. Il problema nasce perché, in omaggio al principio della progressività del trattamento, si ritiene che prima debba praticarsi il trattamento penitenziario e dopo, eventualmente, misure diverse. Se così non fosse il problema non avrebbe ragion d'essere: se anche si ritenesse prima in esecuzione la pena non ostativa potrebbe applicarsi la misura alternativa e, terminata questa, la carcerazione. Sulla base della generica affermazione della preminenza del principio del favor rei, si dice che dovrebbe ritenersi applicata per prima la pena per il delitto ostativo.14 Tale soluzione è convincente, anche se tutto sommato è dubbio che il fondamento di essa sia il favor rei: si potrebbe anche ragionare in un modo diverso: se il legislatore presume la necessità di un trattamento più pregnante per i delitti più gravi, è il principio della progressione trattamentale e non un generico favor rei a imporre la applicazione prima della pena ostativa. Unico limite da ritenere applicabile è che non possa imputarsi a pena ostativa la carcerazione patita prima del relativo delitto. Altrimenti si considererebbe come trattamento differenziato già avvenuto una carcerazione avvenuta intervenuta addirittura prima che la stessa necessità di tale trattamento fosse, per definizione, stabilita (ergo, prima del delitto che la determina). Lo schema è simile a quello di cui all'art. 657 comma 4 c.p.p., in tema di fungibilità, richiamato ordinariamente a sostegno di questa soluzione.15 13 Ma non unico,si pensi all'effetto della norma che limita a 30 anni il massimo delle pene detentive, salva l'applicazione dell'ergastolo o il concorso formale di reati. 14 Il riferimento al favor rei è tradizionale nella giurisprudenza della Suprema Corte, ad esempio in Cass. Sez. I 12/12/200, Geria in Ced Cass. rv 226470 15 A ben vedere, peraltro, la norma del c.p.p., almeno nelle internzioni del legislatore originario, non era intesa a disciplinare il profilo di cui al testo, ma la determinazione della pena da espiare ai fini dell'ordine di esecuzione. La sua formulazione, avulsa dal contesto degli altri commi, si presta peraltro a valere come principio generale, visto che si riferisce genericamente alla determinazione della “pena da eseguire”. Problema ulteriore è quello della imputazione di eventuali sconti e decurtazioni di pena. Se interviene indulto o, più frequentemente, liberazione anticipata, a quale pena esse vanno imputate ? Per l'indulto, che è un beneficio sganciato dalla effettiva espiazione di pena, può effettivamente ritenersi di fondare una soluzione sul favor rei e quindi ritenere che esso estingua la pena ostativa. Ciò. Ovviamente, a patto che tale pena rientri nella previsione del beneficio indulgenziale.16 Per la liberazione anticipata, che è uno sconto che si salda a una effettiva espiazione di pena, la soluzione più lineare è imputarla con gli stessi criteri della pena cui accede: se la pena cui accede può essere imputata al delitto ostativo, lo potrà essere anche la relativa liberazione anticipata. 4. (segue) Il reato continuato. Un po' più complessa è invece la vicenda per il reato continuato. In effetti, mentre l'unificazione effettuata nel provvedimento di cumulo del Pubblico Ministero è un mero dato estrinseco, che criminologicamente non è evidentemente in grado di assumere alcun rilievo, il delitto continuato presenta una unità ontologica e che a tale unità ontologica possa corrispondere un unico regime penitenziario è ipotesi apparentemente meno peregrina. Esemplificando, che l'autore di una rapina aggravata e, separatamente, di un delitto in materia di armi da fuoco (reati in concorso materiale) esprima una capacità criminale diversa da chi si procura un'arma per commettere una rapina (reato continuato) è un fatto innegabile: l'identico disegno criminoso unifica le condotte sotto il profilo criminologico, il cumulo del P.M. no. Ritenere tuttavia che in caso di continuazione tutta la pene debba essere considerata ostativa si è peraltro ritenuto in contrasto con la ratio del reato continuato, che sarebbe quella di mitigare il trattamento sanzionatorio. La giurisprudenza è allora giunta ad affermare che anche la pena per il reato continuato va “sciolta”.17 Nel caso in cui il delitto ostativo sia quello più grave la pena da considerarsi ostativa è quella concretamente inflitta dal giudice, nel caso il reato ostativo sia stato ritenuto meno grave, pena ostativa non si è ritenuta il solo aumento per la continuazione, ma il minimo edittale previsto dalla legge per il delitto ostativo.18 In realtà, questa soluzione, per quanto consolidata, non si impone con forza di cogenza logica. Che il reato continuato sia un criterio di temperamento della pena è senz'altro esatto, ma non è detto che tale temperamento, che la legge prevede specificamente per il quantum della pena, debba estendersi anche al quomodo di essa. Non sembra che vi sia incoerenza tra il prevedere una pena di durata inferiore, in caso di continuazione, ma dal contenuto più pregnante. In effetti, dal punto di 16 Che potrebbe, invece, esplicitamente essere escluso per le pene per i reati più gravi. Allo stesso modo, occorre ovviamente che la pena ostativa si riferisca a reati e condanne che rientrino nei limiti temporali dell'indulto. 17 18 Cass, SS. UU, 30 giugno 1999, Ronga in Ced Cass. RV. 214355. C. Cost. 27 luglio 1994, n. 361. Cass. Sez. I, 11 febbraio 2000, Fusaro, in Ced Cass. RV. 215501Anche questa soluzione è razionale: corrisponde all'idea che il trattamento penitenziario differenziato debba avere la durata minima stabilità in astratto dal legislatore con la pena edittale. Si può notare, en passant, che non risulta ancora affrontato in modo consolidato il problema della continuazione tra più delitti ostativi. Il problema non si pone ovviamente quando abbiano lo stesso regime (entrambi del primo o secondo gruppo dell'articolo 4 bis o.p.), ma quando siano di categoria diversa. In realtà sembra di potersi esportare la stessa soluzione di cui al testo: se quello del primo gruppo è quello ritenuto più grave dal giudice della cognizione, la preclusione assoluta riguarderà la pena concretamente inflitta, se è stato ritenuto più lieve la preclusione assoluta riguarderà la pena edittale minima. Nel caso concorrano anche delitti non ostativi occorrerà fare ponderata applicazione di tutti i criteri appena esposti. vista criminologico si potrebbe forse sostenere che il reato non ostativo commesso nel quadro di un disegno volto a commettere un reato ostativo è anch'esso più grave del medesimo reato commesso allo scopo di commetterne uno non ostativo.19 La giurisprudenza è comunque consolidata nel senso dello scioglimento del reato continuato e ritiene applicabili anche in questi casi le regole sopra dette per il cumulo materiale. 5. Sospensione della esecuzione della pena prima della esecuzione e Magistratura di Sorveglianza Una ulteriore serie di questioni concerne poi la condizione del condannato nel momento in cui giunge davanti alla Magistratura di Sorveglianza. Ciò corrisponde alla grossolana distinzione tra il condannato “libero” e il condannato “detenuto”. Ci sono infatti posizioni che vengono esaminate dalla Magistratura di Sorveglianza prima dell'inizio della esecuzione e posizioni che vengono esaminate dopo. La distinzione ha una enorme importanza sul piano sociologico, oltre che, ovviamente, sul piano della condizione soggettiva del condannato (ed è quindi di grandissima importanza dal punto di vista dell'attività dei difensori). Sotto il primo profilo è evidente che il periodo dell'attesa della esecuzione è un periodo pericoloso: un soggetto gravato da un titolo esecutivo è privo di vincoli e controlli: ciò costituisce una condizione che potenzialmente può indurre alla fuga e, d'altro canto, trattandosi di condannato che ancora non ha subito trattamento rieducativo, è ragionevole pensare che si tratti del principale serbatoio della recidiva. Queste però sono considerazioni di ordine sociologico, rilevantissime dal punto di vista organizzativo generale, ma non corrispondenti a problemi giuridici.20 Allo stesso modo, fuoriesce dai temi di interesse diretto della Magistratura di Sorveglianza, tutto ciò che sta a monte del suo intervento, e quindi la eventuale sospensione della pena al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, in attesa della decisione del Tribunale di Sorveglianza. Il sistema si è sempre maggiormente articolato con le reiterate emende dell'art. 656 c.p.p., che costituisce oramai una norma di notevole complessità concettuale, ma fuoriesce completamente dalle competenze della Magistratura di Sorveglianza: il Tribunale esamina le istanze di misure alternativa sia del soggetto libero (sospeso) sia di quello detenuto (non sospeso), senza alcuna differenza né di rito né di merito e le questioni sulla doverosità o meno della sospensione sono di compentenza non del Tribunale di Sorveglianza ma del Giudice della Esecuzione. La ripartizione delle competenze è chiara è agevole: al Pubblico Ministero spetta la decisione sulla sospensione della esecuzione al momento del passaggio in giudicato della sentenza (o. eventualmente. al momento della emissione di un provvedimento di cumulo di più sentenze). Una volta che tale snodo sia completato, la palla passa al Magistrato di Sorveglianza. Ci si può domandare se il Magistrato di Sorveglianza possa ancora impedire, nel caso si pena non sospesa dal pubblico ministero, l'ingresso in carcere del condannato. Vale subito la pena di 19 Che ad esempio, il furto di un auto finalizzato a predisporre la fuga dopo una rapina sia più grave del medesimo furto per assicurarsi la fuga dopo un danneggiamento. Per la contraria opinione si è tuttavia pronunciata C. Cost. 27 luglio 1994, n. 361. 20 Dimostrano ad esempio come una tardiva trattazione dei relativi fascicoli possa determinare ricadute gravi in termini di sicurezza dei cittadini e come un un investimento in tale settore, tutto sommato di poca entità rispetto a quelli necessari rispetto alle strutture del giudizio di cognizione, potrebbe determinare notevolissimi aumenti di resa complessiva del sistema. osservare che rilevano qui non solo le sospensioni di pena in senso proprio, ma anche la applicazione provvisoria di una misura alternativa (che per definizione esclude la carcerazione). L'ingresso in carcere può essere certamente evitato ai sensi dell'art. 684 c.p.p., il problema è se possa arrivarsi a tale conclusione anche in altre ipotesi. Il problema ha una rilevanza concreta per il semplice motivo che i presupposti per l'adozione del differimento provvisorio della pena ex art. 684 sono estremamente restrittivi (maternità, malattia, istanza di grazia), e possono, ovviamente, sussistere ragioni diverse. A tutta prima, la conclusione negativa sembra poter ben fondarsi su una coppia di argomenti. Il primo è testuale: gli artt. 47, comma 4, 50 comma 6 O.P., 47 ter comma 1 quater, prevedono rispettivamente che il Magistrato di Sorveglianza può può “sospendere l'esecuzione della pena e ordinare la liberazione del condannato” (nei primi due casi: istanze di affidamento o semilibertà) ovvero applicare provvisoriamente la detenzione domiciliare se “l'istanza di applicazione della detenzione domiciliare è proposta dopo che ha avuto inizio l'esecuzione della pena”. Le espressioni “inizio della esecuzione della pena” e il riferimento, per l'affidamento e la semilibertà, alla “liberazione” del condannato, fanno pensare a una applicazione della disciplina ai soli soggetti già detenuti. Il secondo argomento è sostanziale: il condannato, si direbbe, ha già avuto la possibilità di ottenere la sospensione dal Pubblico Ministero, se non l'ha ottenuta o chiesta, imputet sibi. Non ostante l'apparenza, potrebbero esserci anche ragioni per opinare il contrario. Sotto il secondo profilo, è ben possibile che le condizioni per ottenere la sospensione della pena maturino dopo il diniego di sospensione da parte del Pubblico Ministero e anche senza alcuna responsabilità del condannato. Per fare qualche esempio, si pensi alla definizione solo successiva di un programma terapeutico, magari già in atto ma non attestato nelle forme dovute, oppure all'intervento di modifiche successive sulla entità della pena, tali da riportarla, ex post, nei limiti per una sospensione prima non ottenibile. A corroborare l'interesse pratico della sospensione si osservi che tra l'emissione dell'ordine di carcerazione da parte del P. M. e la sua esecuzione, di fatto, possono trascorrere anche anni. Sul piano letterale, il riferimento all'”inizio della esecuzione della pena” potrebbe intendersi riferito, non senza un certo sforzo, all'inizio della procedura di esecuzione, e il riferimento alla “liberazione” inteso alla relativa eventualità, nel caso ordinario, ma senza esclusione della possibilità contraria (sospensione prima della carcerazione). Naturalmente, chi volesse ammettere tali istanze dovrebbe limitarle ai casi di a) sopravvenuta, rispetto alla decisione del P.M., sussistenza dei presupposti per la sospensione; b) sopravvenienza non dovuta a colpa del condannato (colpa che sussisterebbe nel caso di negligenza difensiva o tardiva attivazione del condannato). 6. Il differimento della esecuzione della pena Limitandosi ad alcune questioni tra le questioni controverse, in tema di differimento della pena si può rilevare quanto segue. In primo luogo, quanto all'ipotesi di differimento obbligatorio per malattia (art. 146 c.p.), è un problema delicato stabilire se il requisito previsto dalla legge circa il fatto che la persona si trovi “in una fase della malattia cosí avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative” sia previsto anche per il caso dell’AIDS o grave immunodeficienza. L’interpretazione secondo cui tale requisito si applichi alla sola malattia diversa dalla infezione da HIV o AIDS conclamato si può giustificare solo se lo stato di AIDS conclamata o la grave immunodeficienza siano equivalenti alla condizione di malato di altra affezione che non risponda più alle terapie. La definizione di AIDS conclamata e di grave deficienza immunitaria viene rinviata dall'art. 286 bis C.P.P. a decreto del Ministro della Sanità, nel quale devono essere anche stabilite le procedure diagnostiche e medico legali per il relativo accertamento. Il decreto è stato emanato il 21 ottobre 1999 ed emendato il 7 maggio 2001 (21). La dizione letterale della norma non lascia spazio alcuno a valutazioni del tribunale di sorveglianza sulla pericolosità sociale del condannato, né a valutazioni sulla effettività della incompatibilità certificata ai sensi della disposizione citata, né possibilità di scelta di altre misure, in mancanza di un'opzione esplicita in tale senso da parte del condannato. Evidente la ratio della disposizione, che va riferita non solo alle condizioni del singolo, ma soprattutto alla necessità di impedire la diffusione del contagio all'interno degli istituti. L'automatismo della concessione del beneficio in esame e la prevalenza di esso sui benefici della detenzione domiciliare ex art. 47 ter comma 1 ter, ovvero affidamento in prova al servizio sociale o detenzione domiciliare ex art. 47 quater O.P. (22), fa sorgere non trascurabili dubbi di conformità al sistema costituzionale. L'art. 2 Cost. (sub specie di tutela dei diritti della collettività), anche in combinato disposto con gli articoli 3 (principio di ragionevolezza e proporzione) e 27 Cost. (finalità rieducativa della pena), sembrerebbe meglio fondare un sistema in cui, attesa la incompatibilità predetta, sia prevista l'applicazione dello strumento che realizzi il miglior contemperamento delle esigenze di salvaguardia della salute, da un lato, della rieducazione e prevenzione, dall'altro. Tale sarebbe quello che, a parità di idoneità alla salvaguardia della salute, dia la preferenza a misure alternative alla detenzione dotate di un contenuto di sostegno al condannato e di salvaguardia di tutti gli interessi coinvolti. Ugualmente, nel caso di tutela della maternità, data l'obbligatorietà del differimento dovrebbe affermarsene la prevalenza rispetto alla detenzione domiciliare. Poiché, tuttavia, il legislatore ha espressamente attribuito al tribunale di sorveglianza una facoltà di scelta in materia, può ritenersi che, fermo il diritto della donna incinta o che abbia partorito da meno di 6 mesi di ottenere il differimento, sia in facoltà dell'interessata di formulare istanza di detenzione domiciliare. E l'ipotesi appare tutt'altro che assurda, ben potendosi configurare un interesse della persona chiamata a espiare una pena, specie se di lieve entità, ad assoggettarsi all'esecuzione nella forma alternativa anziché ottenere un differimento destinato a riproporre, nel futuro, il problema della privazione della libertà. In alternativa, considerato che la misura alternativa assicura sia un maggior controllo della eventuale pericolosità sociale, sia un miglior supporto al condannato, sia l'espiazione della pena, potrebbe ritenersi che i rapporti tra il differimento obbligatorio e la detenzione domiciliare si atteggino in modo differente. Il carattere distintivo della detenzione domiciliare potrebbe ravvisarsi nella disponibilità, da parte del condannato, di supporto logistico (luogo di dimora o cura) adeguato alla misura. Nel caso in cui esso vi sia, dovrebbe disporsi la misura alternativa. In tale interpretazione, il significato dell'obbligatorietà del differimento, nei casi previsti, consisterebbe nel fatto che la condannata, ha diritto di non espiare la pena in carcere, nelle condizioni descritte, anche se non dispone di sistemazione adeguata alla misura alternativa. Altro interrogativo assai frequente, nella prassi, è se il differimento obbligatorio dell'esecuzione della pena possa essere cautelarmente sospeso o revocato. La questione si pone, soprattutto, con riferimento alla ipotesi di recidiva nel delitto della persona differita. L'art. 51 ter O.P. non prevede la possibilità di sospensione del beneficio in oggetto, né la revoca del medesimo è contemplata dalle norme del codice penale, salvo che per il caso del venir meno del presupposto, nei confronti di donna incinta o puerpera. Tale revoca non sembra possibile, tranne che nei casi espressamente previsti. La 21 22 V. Gazz. Uff. n. 299 del 22 dicembre 1999 e Riv. it. med. leg. 2000, 346 e Gazz. Uff. 19 ottobre 2001, n. 244. Cosí, per il regime previgente, Cass. sez. I, 29 aprile 1996, Passavanti, Ced Cass. RV. 205017. giurisprudenza, tuttavia, ha sí escluso la revocabilità del beneficio per l'ipotesi di violazioni della legge penale, ma la ha ammessa nel caso, ugualmente non previsto, di mutamento in melius delle condizioni di salute (23). 7. Misure alternative. Affidamento in prova e detenzione domiciliare generica. Il legislatore, al comma 1-bis dell'art. 47-ter, ha previsto la generale possibilità di applicazione della detenzione domiciliare per l'espiazione di pene detentive di misura non superiore a 2 anni, anche se costituenti parte residua di maggior pena, indipendentemente dalla sussistenza delle condizioni di cui agli altri commi della disposizione, quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La disposizione non è applicabile ai condannati per i reati di cui all'art. 4-bis O.P. La più grossa difficoltà creata dalla norma è nel rapporto con l'affidamento in prova al servizio sociale. La formula legislativa configura l'affidamento come fattispecie dai requisiti più rigorosi e specifici, posto che questa detenzione domiciliare può concedersi se difettano i presupposti di quello. La differenza tra i due istituti sembra doversi trovare nel fatto che il nucleo centrale dell'affidamento in prova al servizio sociale è costituito dal suo carattere propulsivo, connesso alle prescrizioni anche di contenuto positivo, mentre la detenzione domiciliare appare di contenuto essenzialmente contenitivo e interdittivo. Se ciò è corretto, dovrà preferirsi l'affidamento in prova al servizio sociale tutte le volte che la rieducazione del condannato necessiti di prescrizioni del tipo predetto. Ne consegue che la corrente affermazione secondo cui la misura della detenzione domiciliare sarebbe più restrittiva (e limitata ai casi più gravi) non sarebbe sempre corretta (24). Nella ricostruzione qui proposta la detenzione domiciliare si porrebbe, per cosí dire, ai due estremi dell'affidamento in prova al servizio sociale, applicandosi, da un lato, ai casi in cui l'uscita dall'abitazione sia comunque fattore di pericolo di recidiva, dall'altro, ai casi in cui non vi sia alcuna necessità di prescrizioni positive. Correlativamente, solo nel primo caso il tribunale di sorveglianza farà un uso restrittivo della autorizzazione all'uscita dalla dimora di cui all'art. 284 C.P.P. Coerente con tale ricostruzione è sia il fatto che il limite di ammissibilità della detenzione domiciliare in esame sia in una pena massima di entità inferiore (due anni) a quella di cui all'art. 47 (tre anni), sia che solo per l'affidamento in prova al servizio sociale sia possibile una revoca retroattiva. 8 (segue). Le prescrizioni dell'affidamento in prova. Le prescrizioni tipiche. Nucleo centrale della misura dell'affidamento in prova al servizio sociale sono le relative prescrizioni. Alla sapiente individuazione delle medesime è rimessa, pressoché integralmente, la funzione risocializzante della misura, a parte l'aspetto, puramente negativo, dell'evitare essa la desocializzazione connessa alla permanenza nell'istituto penitenziario. La massima secondo la quale tanto più penetranti e rigorose sono le prescrizioni (rectius, tanto più sono adeguate alla personalità del condannato), tanto maggiore è la prognosi di idoneità della misura, si trova riconosciuta nella giurisprudenza della S.C. (Cass. pen., sez. I, 14 ottobre 1992, Manzo, CP 1994, 172). Il primo contenuto delle medesime, stando alla dizione di cui al primo comma, sta nella svolgimento della prova fuori dell'istituto. La portata della disposizione è quella di riconnettere 23 Cass. Sez. I, 5 aprile 1994, Ponzio, Ced Cass. RV. 197847. Per considerazioni simili, a proposito della detenzione domiciliare di cui al comma 1, si veda Cass. sez. I 5 luglio 1990, Cuccatto, in Ced Cass. rv. 184986, nonché Cass. sez. I, 14 marzo 1988, Pepe, in Ced Cass. rv. 178120. 24 l'esecuzione della pena a alla condizione di persona non ristretta in carcere. Nulla nella medesima, né nella ratio esclude, almeno in astratta ipotesi, che possa, in ipotesi, ipotizzarsi un programma di risocializzazione che implichi la presenza dell'affidato all'interno dell'istituto penitenziario, con lo status di non detenuto (ad esempio, attività di volontariato). Nell'ambito delle prescrizioni può distinguersi tra prescrizioni c.d. tipiche, previste almeno categorialmente dalla norma, e c.d. atipiche. Nell'ambito delle prime, per comodità di esposizione, tra prescrizioni di contenuto positivo (prescrizioni vere e proprie) e prescrizioni di contenuto negativo (interdizioni). Per quanto attiene le prescrizioni tipiche positive, la norma prevede, innanzitutto che con l'ordinanza si disponga l'obbligo di contatto con l'Uepe (organo cardine e propulsore della misura), si stabilisca il luogo di dimora, e si dettino disposizioni circa lo svolgimento di attività lavorativa. Va segnalata l'espansione del settore del lavoro c.d. risarcitorio o socialmente utile. Sempre più frequentemente le prescrizioni impongono di dedicare una quota di tempo ad attività di utilità sociale, già individuate o da individuarsi di concerto con l'Uepe. Tali prescrizioni trovano la "copertura" della norma predetta, ma non mancano di profili problematici. A parte la contraddizione, solo apparente, tra attività di volontariato (rectius, a titolo gratuito) e imposizione di un obbligo, il profilo più disagevole risulta essere la compatibilità con la normativa previdenziale.Nella prassi la questione viene risolta con la una prescrizione che grava di tale onere l'affidato, in difetto di soluzione alternativa. Esplicitamente menzionato e decisivo nel caso di condanne per reati connessi con il relativo contesto, l'adempimento degli obblighi di assistenza familiare. Altrettanto esplicita è la previsione di una attivazione, nei limiti delle proprie possibilità, nei confronti della vittima del reato, resa doverosa dalla novella del 1986. Deve sottolinearsi con la massima chiarezza che la prospettiva della norma in esame è solo ed esclusivamente quella della prognosi di risocializzazione e che solo in questa ottica deve determinarsi e apprezzarsi l'adempimento della relativa obbligazione. Ne consegue, innanzitutto, che è del tutto ultroneo il riferimento all'integrale assolvimento delle obbligazioni, non essendo questo immancabilmente necessario (Cass. sez. I, 7 dicembre 1999, Nanocchio, in Ced Cass., rv 215204) e, per contro, neanche sufficiente, il tutto dovendosi inscrivere nel quadro di personalità del condannato e dei fattori criminogeni, interni ed esterni, che lo hanno accompagnato. Per le medesime ragioni, non appare necessariamente rilevante, l'eventuale remissione del relativo debito da parte del danneggiato, che può solo assumere il valore di una prognosi di superamento del fattore criminogeno rappresentato dalle tensioni tra reo e vittima. Per le medesime ragioni, ancora, e per gli evidenti e gravi rischi di strumentalizzazione bilaterale, sembra di doversi valutare caso per caso e con estrema prudenza la previsione di una diretta messa in contatto delle due parti e largamente preferibile la previsione di una mediazione istituzionale e neutra, con il sapiente vaglio professionale dell'Uepe . A maggior ragione, del tutto irrilevante l'atteggiamento serbato dalla vittima del reato (in particolare il perdono). Quanto alle prescrizioni tipiche di contenuto negativo, nella previsione normativa, largo spazio è riservato a prescrizioni di contenuto interdittivo, con una scelta che la dottrina più autorevole ha ritenuto di collegare a opzioni di politica criminale proprie di altri settori (misure di sicurezza e di prevenzione) e giudicato, sotto vario profilo, insoddisfacente. Sono, innanzitutto, previste possibili limitazioni alla libertà di locomozione, che, nella prassi, concernono sia il divieto di raggiungere o soggiornare in determinati luoghi, sia uscire da confini di circoscrizioni, sia l'utilizzazione di determinati mezzi (tipicamente i veicoli a motore, talvolta al fine di garantire la più facile reperibilità, talvolta a quello di evitare una condotta pericolosa in sé stessa, esempio la guida). Largamente praticato è il divieto di frequentazione di persone e ambienti controindicati (pregiudicati, tossicodipendenti e in genere persone che possano offrire occasione di recidiva, case da gioco, locali ove si vendano bevande alcoliche, locali o zone urbane frequentate da pregiudicati ecc.). Meno battuta è la via del divieto di svolgimento di attività. Un settore di preziosa applicazione è stato riscontrato nell'ambito della criminalità economica, con l'interdizione a assumere direttamente o indirettamente, in via simulata o interposta ruoli direttivi e di rappresentanza nell'ambito di imprese commerciali, ovvero divieti di contrattare con Pubbliche Amministrazioni. In tale fattispecie, si è posta la questione della riproponibilità, nell'ambito delle prescrizioni della misura alternativa del contenuto di sanzioni tipiche (pene accessorie), eventualmente inapplicabili in sede di pena per effetto di c.d. patteggiamento. La soluzione positiva, operando l'affidamento in prova al servizio sociale su di un piano del tutto diverso da quello della condanna, ha trovato il conforto della giurisprudenza del S.C. (Cass. pen. sez. I,.7 aprile 1998, Girardo, Ced Cass. RV. 211030). Tale autonomia concettuale parrebbe rendere applicabili tali prescrizioni anche ove la corrispondente pena accessoria sia stata esplicitamente esclusa in sentenza, non configurandosi alcuna lesione del giudicato, quantomeno nei casi in cui l'esclusione sia determinata dalla mancata ricorrenza di uno dei casi in cui esse possono essere inflitte nel giudizio di cognizione. 9. (segue) Le prescrizioni atipiche e il principio di legalità e tassatività. Oggetto di incertezze è stata la conformità con i precetti costituzionali di cui agli articoli 13 comma 2, e 25 comma 2 Cost. del sistema delle prescrizioni dell'affidamento in prova al servizio sociale. Ciò sotto almeno due profili. Il primo, la descrizione decisamente generica delle prescrizioni "tipiche", nel corpo della norma di cui all'art. 47. Il secondo, la imponibilità di prescrizioni non espressamente previste. Quanto al primo aspetto, si è osservato, in dottrina, che il principio di tassatività potrebbe tollerare un contemperamento, tenuto conto della finalità rieducativa di cui all'art. 27, comma 3 Cost. (e con il limite dei trattamenti disumani di cui alla medesima norma), di tal che la funzionalizzazione alla rieducazione (e non il mero contenuto afflittivo) riequilibrerebbe il quantum di indeterminatezza del dettato legislativo e troverebbe ulteriore garanzia nella giurisdizionalizzazione della relativa procedura, a condizione che ci si muova nell'ambito delle "categorie" di prescrizioni di legge . A tale argomento potrebbe soggiungersi che un ulteriore "copertura" costituzionale potrebbe, probabilmente, ritrovarsi per tutte le limitazioni che sarebbero, comunque, ricomprese nel trattamento e nella restrizione penitenziaria, posto che si tratta, comunque, di persona condannata in via definitiva a pena detentiva nei casi e con le modalità previste dalla legge. Si noti che l'argomento citato da ultimo potrebbe fornire sostegno anche alla tesi della ammissibilità di prescrizioni atipiche. Tali sono quelle che o aggrediscono beni diversi da quelli oggetto delle prescrizioni tipiche (la libertà di comunicazione, con il divieto di comunicazione, ad esempio, a mezzo di telefoni cellulari, frequente nella prassi nei confronti di condannati per spaccio "da strada" di sostanze stupefacenti), oppure aggrediscono beni oggetto di prescrizioni tipiche, ma con modalità differenti (il patrimonio, ad esempio, imponendo oblazioni a favori di enti aventi scopi istituzionali in qualche modo connessi al reato). Deve osservarsi che l'area più dubbia è allora quella delle prescrizioni atipiche di contenuto positivo, per le quali la copertura dell'essere comunque comprese nella detenzione, non può operare. E' dubbio che la congruità alla funzione (rieducativa), il limite della disumanità e la garanzia giurisdizionale siano sufficienti. Non può, tuttavia, sottacersi che la più gran parte di tali prescrizioni potrebbero rientrare in una interpretazione estensiva della portata delle prescrizioni tipiche. Per rimanere agli esempi prospettati, attività socialmente utili potrebbero ricondursi al "lavoro" e, lato sensu, all'adoperarsi a favore della vittima del reato. In tale ultima direzione, potrebbe cercarsi altresì la giustificazione di "oblazioni", purché abbiano a destinatari enti e soggetti in qualche modo rappresentativi, anche nel solo senso sociologico, delle vittime del reato. Il fatto che le prescrizioni atipiche "purché non contrarie alla legge e non immotivatamente afflittive, devono considerarsi legittime se rispondenti alla finalità di impedire al soggetto di svolgere attività o di avere rapporti personali che possano portare al compimento di altri reati" è stato riconosciuto dalla giurisprudenza di merito e di Cassazione (Cass. pen. sez. I,.7 aprile 1998, Girardo, Ced Cass. RV. 211030). L'orientamento non è tuttavia consolidato. La S.C. ha escluso che possa ad esempio essere ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, perché non compatibile neppure con la interpretazione estensiva o applicazione analogica delle disposizioni dell'art. 47 (Cass. sez. I 24 febbraio 1999, Rizzuti, in Ced Cass. rv 213514. Al di là della osservazione, critica, che tale demolizione apparirebbe comunque collegata alla rimozione delle conseguenze dannose del reato, è da dire che la decisione si segnala per il riferimento alla possibile applicazione assai estensiva della disposizione in oggetto. 10. L'esito dell'affidamento in prova. La revoca. La fine naturale della misura è la declaratoria di estinzione della pena per esito positivo della prova. Per quanto i commi 11 e 12 dell'articolo in esame appaiano limitare le pronunce possibili alla alternativa tra revoca e declaratoria di estinzione, deve segnalarsi la ricorrenza, nella prassi, anche delle diverse fattispecie della declaratoria di non estinzione della pena, dell'annullamento dell'ordinanza concessiva, della cessazione della misura, oltre che quella, già menzionata, della declaratoria di inefficacia. Tutte le ordinanze diverse dalla declaratoria di estinzione hanno come effetto che, in tutto o in parte, la pena oggetto del procedimento di sorveglianza riacquisterà la natura di pena detentiva, con la doverosa emissione di ordine di carcerazione (con la sola eccezione dell'affidamento in prova al servizio sociale concesso sulla libertà controllata, ove ritenuto ammissibile e dei casi in cui l'annullamento della ordinanza sia motivato dalla estinzione della pena medesima). La più armonica sistemazione della materia risulta la seguente. Occorre distinguere tra ordinanze adottate nel corso della misura e ordinanze adottate a misura conclusa, da un primo punto di vista; tra situazioni o fatti incompatibili con la prosecuzione della prova verificatisi nel corso della medesima e situazioni o fatti verificatisi prima dell'inizio o dopo la relativa conclusione, in secondo luogo; tra situazioni e fatti imputabili a colpa del condannato e fatti e situazioni incolpevoli. Appare proprio, per ragioni di univocità terminologica, riservare la denominazione di revoca alle sole pronunce a) adottate nel corso della misura; b) fondate su fatti e situazioni incompatibili con la relativa prosecuzione di carattere colpevole. Costituisce oggetto di interrogativo se i relativi fatti e situazioni debbano necessariamente essere cronologicamente situati all'interno dello svolgimento della medesima. Considerato il requisito appena espresso sub a), il quesito concerne solo i fatti antecedenti. La soluzione varia a seconda che si assuma che la decisione del Tribunale di Sorveglianza sia emessa allo stato e tenuto conto di quanto astrattamente conoscibile in esito all'istruttoria al momento della pronuncia (ergo, del conosciuto e del conoscibile), ovvero allo stato degli atti. Nel primo caso, evidentemente, la conclusione non potrebbe che essere per l'irrilevanza dei fatti antecedenti. La giurisprudenza è divisa: nel primo senso, Cass. pen. sez. I, 24 settembre 1996, Russo, Ced Cass. RV. 206000, nel secondo, Cass. pen. sez. I 6 febbraio 1996, Sfragara, Ced Cass. RV. 203979). Si noti che, nel caso di ritenuta rilevanza dei fatti antecedenti, trattandosi di ragioni di merito preesistenti alla pronuncia dell'ordinanza, parrebbe preferibile parlare di revoca dell'ordinanza concessiva, più che di revoca della misura tout court. Va inoltre sottolineato che nella prassi tale pronuncia viene spesso denominata di annullamento (v.infra), ma la distinzione tra i profili di legittimità e quelli sul merito della misura rende preferibile la dizione proposta. L'articolo in esame detta alcuni chiari criteri guida per individuare il presupposto della revoca. Essa può essere pronunciata solo quando: 1) l'affidato ha violato la legge o le prescrizioni (la violazione) e 2) tale condotta è incompatibile con la prosecuzione della prova (il fallimento della misura). Agevole, in termini generali, definire il secondo presupposto: alla luce del fatto nuovo deve non risultare più possibile affermare che l'affidamento in prova al servizio sociale contribuisce alla rieducazione del reo e assicura la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. La determinazione concreta di tale presupposto non può che rimettersi alla prudente valutazione del Tribunale di Sorveglianza, caso per caso. Più articolato il discorso quanto il primo aspetto. Appare ozioso tentare una casistica delle violazioni che possano costituire motivo di revoca del beneficio, e più produttivo il riferimento ad alcuni criteri e osservazioni di ordine generale. Va ribadito, anzitutto, che la violazione di legge comportante revoca non ha da essere necessariamente di rilievo penale (Cass. pen. sez. I, 11 maggio 1992, De Zen, CP, 1993, 2100), e che ad una violazione penale non consegue automaticamente la pronuncia caducatoria (Cass. pen. sez. I, 7 novembre 1977, Boari, CP 1977, 557). Di un certo interesse il principio di tassatività dei fatti comportanti la revoca, implicito nella norma in commento. La notevole (e doverosa) genericità e ampiezza delle prescrizioni "di chiusura", adottate per prassi dai Tribunali di Sorveglianza, limita però grandemente il rilevo della circostanza. G. Per effetto della sentenza 343/1987 (su cui supra sub 1) della Corte Costituzionale, il Tribunale di Sorveglianza, in caso di revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale, è tenuto a stabilire quanto, del periodo trascorso in affidamento in prova al servizio sociale, possa scomputarsi dalla pena espianda. L'alternativa è tra la declaratoria di non computabilità dell'intero periodo trascorso nella misura (c.d. revoca ex tunc) e declaratoria di computabilità almeno parziale del periodo trascorso in affidamento in prova al servizio sociale (c.d. revoca ex nunc). La Corte ha sancito che ai fini della decisione predetta debba tenersi conto a) dell'entità e pregnanza delle limitazioni alla libertà personale patite dall'affidato durante la misura (all'evidente scopo di evitare un bis in idem); b) del suo comportamento durante la misura e della gravità soggettiva e oggettiva del fatto che da luogo alla revoca, in connessione con il carattere sanzionatorio della revoca e con la necessità di dare attuazione al principio di proporzionalità ed individualizzazione della pena anche in tale fase. Nella prassi e con il conforto della S.C, (Cass. pen. sez. I, 13 gennaio 1999, Rodi Ced Cass. RV. 212712) un peso preponderante viene assegnato alla gravità del fatto che determina la revoca, di modo che si distingua se la prova possa dirsi ab initio completamente fallita (e solo simulata l'adesione al programma di risocializzazione e la soggezione del condannato alle limitazioni imposte), oppure solo parzialmente. In tale ultimo caso la data viene di solito individuata nella data di commissione della violazione (o, in caso di progressione di violazioni, la prima, se se ne ravvisa una connessione interna). La S.C. ha altresì chiarito che il Tribunale di Sorveglianza, in caso di revoca ex tunc, è soggetto a onere di esplicita, "molto approfondita e puntuale" motivazione sul thema (Cass. pen. sez. I, 13 gennaio 1999, Rodi Ced Cass. RV. 212712). Va, inoltre, ricordato che, secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale, anche la pronuncia di revoca è da intendersi emessa rebus sic stantibus, almeno nei casi in cui sia fondata esclusivamente su elementi suscettibili di successiva caducazione. La conseguenza è la possibile revoca della ordinanza di revoca della misura (sottintesa da C. Cost. 31 maggio 1996, n. 181, con nota di Della Casa, GiC, 1996, 1692). Tale fattispecie ricorre, nell'insegnamento della Corte delle Leggi, ad esempio nell'ipotesi di revoca del beneficio fondata su pendenza giudiziale, conclusasi, successivamente, con esito assolutorio. La pronuncia caducatoria si renderebbe necessaria per la rimozione degli effetti preclusivi del provvedimento di revoca della misura (in particolare, art. 58 quater o.p.). Sul piano processuale, ci si è chiesti se osti alla pronuncia di revoca l'inosservanza del termine di 30 giorni di cui all'art. 51 ter o.p. Soluzione corretta appare la negativa, osservandosi che tale termine opera al differente scopo di stabilire il termine massimo di carcerazione cautelare per effetto della sospensione di cui alla norma medesima. L'unico effetto della scadenza di tale termine è l'obbligatoria liberazione del condannato (Cass. pen. sez. I, 14 febbraio 1997, Calabrese, Ced Cass. RV. 207039), alla quale la Direzione dell'Istituto Penitenziario deve provvedere automaticamente, senza la necessità di alcun provvedimento apposito. 11. (segue) La dichiarazione di cessazione della misura, la declaratoria di estinzione o non estinzione, le pronunce di annullamento. La dichiarazione di cessazione è una fattispecie esplicitamente prevista dall'art. 51 bis o.p. per il caso in cui sopravvenga, nel corso della misura, una ulteriore pena tale che la durata complessiva ecceda il limite triennale. Nella prassi, spesso tale pronuncia viene definita anche revoca incolpevole (così anche in C. Cost. 6 dicembre 1985, n. 312). La presenza di una espressa dizione legislativa e l'opportunità della distinzione fanno preferire la soluzione proposta. La declaratoria di estinzione della pena è, invece, una pronuncia a) successiva al termine della misura; b) avente ad oggetto la verifica (negativa) di eventuali fatti e situazioni colpevoli, incompatibili con l'affermazione di una effettiva idoneità della misura agli scopi per cui era stata concessa. Orientamento consolidato è, infatti, quello secondo il quale l'estinzione della pena opera unicamente in seguito all'esito positivo della prova e, perché si verifichi un tale effetto estintivo, non é sufficiente il mero decorso del periodo di prova, senza che sia intervenuta la revoca dell'affidamento, ma é necessario un accertamento della stessa Tribunale di Sorveglianza sull'avvenuta, almeno parziale rieducazione del reo (Cass. pen. sez. I 21 febbraio 1984, Didona, Ced Cass. RV. 163357; Cass. pen. sez. I, 6 maggio 1985, Falcetelli, Ced Cass. RV. 169562) Altrettanto consolidato è l'orientamento secondo il quale il Tribunale di Sorveglianza può acquisire ai fini di tale pronuncia ogni elemento utile, non limitandosi alla relazione c.d. finale del CSSA (informazioni polizia, certificato carichi pendenti, atti processuali ecc.). In giurisprudenza si è posto il quesito se possa procedersi a revoca della misura dopo la declaratoria di esito positivo della prova. Rilevato che, da punto di vista della terminologia qui adottata, più propriamente si dovrebbe parlare di dichiarazione di non estinzione successiva a una prima dichiarazione di estinzione, va detto che consta un precedente negativo (C.App. Brescia, 18 giugno 1980, Miglioli, Rass. penit. e criminologica, 1982, 835). Tale soluzione appare corretta, a meno di non ritenere annullabile, perché emessa allo stato degli atti la pronuncia di estinzione Largamente dibattuta, ma ora risolta, è la questione della portata dell'effetto estintivo rispetto alla pena pecuniaria. Il comma 12 dell'art. 47 O.P. prevede che “Il tribunale di sorveglianza, qualora l'interessato si trovi in disagiate condizioni economiche, può dichiarare estinta anche la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa”. I problemi che tale norma, introdotta di recente, 25 comporta sono molteplici. Innanzitutto non sembrano esservi ostacoli alla applicazione di essa agli affidamenti in corso. In secondo luogo, è da domandarsi quale sia la procedura applicabile e in particolare se sia necessaria una apposita istanza dell'interessato e come vada accertata la sussistenza dei presupposti. Visto che tale estinzione si inserisce nell'attuale procedimento di estinzione, la soluzione più pratica appare procedere d'ufficio e, semplicemente, inserire nella richiesta di relazione finale all'Uepe, sull'andamento dell'affidamento anche la richiesta di riferire sul tenore di vita per come rilevato durante la misura. 25 Art. 4-vicies semel, D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione La declaratoria di non estinzione della pena costituisce l'esatto inverso di quello appena descritto. Vale la pena di sottolineare che nella prassi, spesso, tale pronuncia viene indifferentemente anche denominata "revoca". Rigore terminologico consiglia una denominazione distinta. La giurisprudenza tende ad affermare che, dopo la scadenza della misura, solo tale pronuncia sia ammissibile e non la pronuncia di revoca (Cass. Sez. I, 17 febbraio 2000, Cornero, in Ced Cass., rv 215706), fondandosi il giudizio non su singoli episodi (come nella revoca) ma sull’esito globale della misura. Invero, anche nel procedimento di revoca è imposta una valutazione complessiva circa la compatibilità con la prosecuzione della misura. Sul piano della sostanza, problematico è se possano essere valorizzati fatti e situazione cronologicamente situati al di fuori dello svolgimento della misura. Lo si esclude pacificamente per i fatti antecedenti. Per i fatti successivi (tipicamente la commissione di reati subito dopo il termine della misura), la tesi negativa è ben rappresentata nella giurisprudenza del S.C. (Cass. pen. sez. I, 15 maggio 1998, Allegrucci, Ced Cass. RV. 211404; Cass. pen. sez. I, 14 novembre 1996, Motta, Ced Cass. RV. 206514, Tali pronunzie si segnalano anche, dal punto di vista terminologico, per denominare "revoca" la pronuncia considerata). Tale tesi pare doversi temperare con una precisazione. Cosa distinta dall'assumere a fondamento del provvedimento di revoca il fatto successivo, sarebbe l'utilizzare tale fatto "ad colorandum" per meglio lumeggiare il fallimento della prova già risultante da altri elementi (irregolarità nei rapporti con CSSA, ecc.). Tale soluzione ha trovato riscontro nella medesima giurisprudenza (Cass. pen sez. I, 19 giugno 1998, Quaranta, in Ced Cass. RV. 211421). La tesi della valutabilità a tali condizioni di fatti successivi si è fatta successivamente strada (Cass. SS. UU. 27 febbraio 2002, ric. Martola, in Ced Cass. rv. 220877). Fattispecie particolare è quella relativa alla valutazione di fatti commessi dopo la scadenza del termine originario di durata, per l’ipotesi di estensione della misura a titoli esecutivi sopravvenuti. Nel caso di fatto verificatosi in “troncone” di misura alternativa successivo al primo, non è mancata una opinione giurisprudenziale che ha ritenuto comunque formalmente distinte le varie esecuzioni e, pertanto, anche in caso di c.d revoca ex tunc, il limite della retroazione all’inizio del troncone di misura in cui si colloca la violazione (Cass. Sez. I, 22 maggio 2000, in Ced Cass., rv 216281). Tale soluzione appare ispirata a una concezione formale della misura alternativa che appare suscettibile di critica. Sul piano formale, almeno nel caso in cui la pena sopravvenuta sia ricompresa in un provvedimento di cumulo, sembra ostarvi il disposto dell’art. 76, comma 1, c.p.. E, soprattutto, sembra ostarvi, sul piano della ratio e del sistema, il fatto che la valutazione da compiere è quella della idoneità della misura in relazione alla personalità complessiva dell’affidato, avendo come metro – alla luce della giurisprudenza costituzionale sopra citata – l’entità complessiva delle limitazioni della libertà personale patite e la gravità della condotta. Sotto nessuno dei profili appena segnalati il mero dato, formale della intervenuta estensione ad altro titolo sembra introdurre una necessaria soluzione di continuità. Si noti, ad ulteriore conferma della unitarietà della misura, che il provvedimento di estensione non impone una innovazione del contenuto precettivo della misura in corso. Altro interrogativo è se si possa procedere a declaratoria di non estinzione della pena dopo una pronuncia che ha escluso la revoca del beneficio. La soluzione positiva è certamente corretta, posto che i fatti valorizzabili al momento della revoca costituiscono un insieme assai più ristretto di quelli utilizzabili al momento della valutazione finale della misura. In tale ultima sede viene infatti valorizzato l'atteggiamento complessivo serbato dal condannato durante la misura e la precedente pronuncia non può avere, di per sé, un valore ostativo, non coincidendo il thema decidendum. Ciò che pare precluso è la sola declaratoria di non estinzione motivata esclusivamente sul fatto che fu esaminato effettivamente e nel merito nella precedente pronuncia. Ulteriore problema è se sia ammissibile una declaratoria di estinzione parziale della pena (e di non estinzione del residuo). Il fatto che tale esito non sia contemplato ex professo dalla norma in commento e che la C.Cost non si sia pronunciata su tale aspetto della questione ha portato ad escluderlo (Cass. pen. sez. I ,18 settembre 1997, Renda, Ced Cass. RV. 208765).A tale conclusione parrebbe potersi obiettare che, se per lo stesso fatto, esaminato in sede di procedimento di revoca, sarebbe possibile ritenere valida a fini espiativi una certa parte del tempo trascorso in misura, la soluzione rigorosa apparirebbe violare l'art. 3 Cost., posto che la circostanza che tale elemento sia valutato durante la misura o successivamente dipende da fatto accidentale e non imputabile al condannato. Dubbio è se a una tale conclusione potrebbe pervenirsi anche in sede interpretativa o solo in approdo a una pronuncia di illegittimità costituzionale. Tale soluzione è stata accettata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. SS. UU. 27 febbraio 2002, n 10530, Martola, in Ced Cass. RV. 220878) Ulteriore profilo è se, ai fini della disciplina restrittiva di cui all'art. 5 quater o.p., la non estinzione possa essere ritenuta equivalente alla revoca. In effetti, sul piano razionale le due fattispecie coincidono, in entrambe il soggetto ha fallito la prova. Sul piano strettamente formale, tuttavia, osta a tale estensione, il fatto che l'art. 58 quater richiama esclusivamente la revoca ex art. 47 comma 11 O.P.26 Nella ccategoria delle pronunce di annullamento, non espressamente prevista dalla legge, si fanno confluire una serie di ipotesi di incompatibilità con la prosecuzione (o concessione) della misura, da tenere distinte da quelle fino a qui ricordate. Essenzialmente, si tratta di a) pronunce adottate nel corso della misura; b) relative a situazioni e fatti incompatibili con la misura incolpevoli. La dottrina vi fa rientrare, esemplificativamente, casi di: sopravvenienza di infermità mentale, richiesta di cessazione della misura da parte dell'interessato, interruzione a seguito del sopravvenire del provvedimento ex art. 41 bis o.p.. La prassi, invero, fa largo uso di tale pronuncia anche per casi di travisamento dei fatti risultanti dall'istruttoria, errore di persona, sopravvenuta insussistenza del titolo o della sua esecutività (es. a seguito di vittorioso incidente di esecuzione con remissione in termini per impugnazione, ecc.). Deve ulteriormente osservarsi che tale tipologia di pronuncia trova un uso in progressivo espansione, valorizzandosi con essa non solo sopravvenienze incompatibili con la misura, ma altresì fatti antecedenti non considerati. I relativi limiti all'idoneità al giudicato e la controversa portata del loro essere emesse "allo stato" (degli atti ?) ha favorito l'utilizzo di tale strumento anche per la valorizzazione di circostanze antecedenti non risultanti dagli atti, da un lato, e, talvolta, di veri e propri errores in jure, in procedendo e in judicando (es. ragioni di inammissibilità originarie), con la sola esclusione, in pratica, del riesame di merito della fattispecie. Apparirebbe, tuttavia, sistematicamente corretto limitare il campo di tali pronunce quantomeno in correlazione con l'area riservata alle impugnazioni e lasciare al campo dell'annullamento solo ciò che non sia valorizzabile attraverso la via del ricorso per Cassazione (ne risulterebbero doverosamente escluse, quantomeno, le ipotesi di errores in jure). 12. La liberazione anticipata Un primo problema concerne l'interrogativo se la valutazione della ricorrenza dei presupposti della liberazione anticipata debba indefettibilmente essere condotta separatamente, per ogni semestre di pena, ovvero se e in che limiti, fatti verificatisi in semestri diversi possano essere presi in considerazione. L’orientamento giurisprudenziale attualmente maggioritario si attesta, invece, pur accettando la premessa di principio che l’analisi giudiziale deve essere condotta per singoli semestri, sull’ammissione della possibilità, per il giudicante, di valutare l’impatto di condotte particolarmente 26 In senso opposto, per la applicazione del regime restrittivo: Trib. Sorv. Torino 19 aprile 2006 in www.dirittopenitenziario.it negative tenute dal condannato in periodi posteriori al semestre (o ai semestri) in valutazione, qualora tali comportamenti si rivelino altamente sintomatici della carenza di un’effettiva adesione del soggetto all’opera di rieducazione (Cass.I, n.6259 dd.28.1.98, Pistolesi, CED; Cass.I, n.5819 dd.4.1.00, Signorello, CED; Cass.I, n. 3297 dd. 25.6.96, Guillemet, CED; Cass.I, n.29352 dd.19.7.01, Carbonaro, CED; Cass.I, n.1517 dd.13.4.96, Celentano, CED). Anche nella giurisprudenza di merito tale orientamento è quello maggiormente seguito: (Trib.Sorv.Torino, 26 marzo 2003, n.1204/03RG, www.dirittopenitenziario.it 2003). Altro problema è se il semestre di pena ai fini della concessione della liberazione anticipata possa essere composto di spezzoni di durata inferiore, senza limite alcuno al frazionamento o alla distanza tra le frazioni medesime. La Corte di Cassazione ha affermato che “la decisione del Tribunale, trattandosi di provvedimento confermativo, appare ineccepibile ed immune da vizi, non essendo possibile una valutazione unitaria di periodi separati, pur se complessivamente integranti un semestre, distanti fra loro e tanto frazionati anche per il tipo di esecuzione da non potere integrare una unitarietà trattamentale” (Cass. Sez. I, 28 novembre 2005, n. 43013) La consolidata giurisprudenza della Cassazione inclina a ritenere legittima la valutazione dell’incidenza negativa della commissione di reati, commessi nel corso di periodi di libertà successivi alla detenzione, ai fini della verifica della sussistenza di un’effettiva partecipazione all’opera di rieducazione del condannato, in rapporto a semestri di pena espiata antecedentemente alla perpetrazione degli illeciti penali (Cass.I,17.4.00,n.1740,Greco,CED;Cass.I,25.3.92, Badalamenti,CP,1993,2102;Cass.I,23.3.93,Privitera,CP,1995,2279;Cass.I,14.4.97,Pirrozzi,CP,1997 ,962;Cass.I,7.7.99, n.3342,Bayrak,CED). Nella giurisprudenza di merito, la commissione di un reato successivamente ai semestri di pena in valutazione ai fini di cui all’art.54, O.P., è generalmente considerata ostativa al riconoscimento della riduzione di pena (Trib.Sorv.Torino 23 novembre 2004,in Giurisprudenza di merito, 2005). Non è raro che al condannato siano riconosciute, nel corso dell’esecuzione, plurime riduzioni di pena a titolo di liberazione anticipata per effetto di decisioni relative agli stessi semestri di detenzione espiata. Secondo la giurisprudenza della Cassazione, spetta all’organo del PM provvedere al c.d. ridimensionamento della riduzione di pena concessa in tali casi, in applicazione analogica di quanto prevede l’art.579, c.p.p., in tema di plurime applicazioni dell’indulto (Cass.I,12.1.88 n.5383,Cimone,CED). 13. Le misure di sicurezza Il settore delle misure di sicurezza gode di una vitalità, nella giurisprudenza di merito degli Uffici di Sorveglianza, che risulta sorprendente, se rapportata alla, tradizionale, scarsa attenzione (se non manifesta ostilità) della dottrina specialistica. Nella elaborazione teorica le misure di sicurezza restano infatti collocate nelle appendici poco frequentate dei manuali di diritto penale, schiacciate da un generalmente condiviso giudizio che assegna loro la scomoda palma di reliquato di concezioni giuridiche ormai tramontate. Nella prassi e nella realtà giuridica esse hanno invece una notevole vitalità e finiscono per assolvere a due notevoli funzioni. La prima, generale, è di estensione della finalità preventiva e, in questo senso lato sanzionatoria, per i soggetti nei confronti dei quali la pena abbia concretamente dimostrato la sua inefficacia. Con una certa rotazione concettuale rispetto al disegno originario del Codice Penale, esse, soprattutto dopo la abolizione dei meccanismi di automatica applicazione, e saldandosi con il sistema delle misure alternative, hanno finito per rappresentare strumento di attuazione di una pur minima flessibilità bilaterale della pena.27 In questo senso e direzione, le misure di sicurezza hanno assunto la funzione di accessorio e strumento che certifica il fallimento della rieducazione attuata con lo strumento ordinario (della pena della reclusione) o attenuato (misure alternative). La seconda, particolare, concerne la prevenzione e, anche, francamente, terapia della malattia psichiatrica, ove associata a condotte devianti. Particolarmente fecondo è infatti il campo delle misure di sicurezza applicate sotto la veste della libertà vigilata, a carico di autori di delitti che siano portatori di malattia mentale. Sotto il primo aspetto (flessibilità bilaterale del trattamento penale) risulta indicativa la giurisprudenza che applica la misura di sicurezza della colonia agricola, per il tramite della declaratoria di delinquenza abituale, a soggetto evaso da permesso premio (Magistrato di Sorveglianza Alessandria ord. 20 maggio 2001, in www.dirittopenitenziario.it) L’inflizione di misura di sicurezza detentiva nel corso della esecuzione della pena è possibile, in particolare, nel caso della declaratoria di delinquenza abituale o professionale. Valorizzare tuttavia tale declaratoria come strumento di sanzione del fallimento del progetto rieducativo in atto (desumibile da condotte poste in essere dopo la sentenza di condanna e durante la pena), deve superare l’apparente ostacolo del disposto dell’art. 109, comma 2 c.p.. In giurisprudenza si è tuttavia sottolineato che la limitazione temporale, circa gli elementi valutabili, consistente nel divieto di tener conto di fatti sopravvenuti alla condanna, concerne solo i presupposti della dichiarazione di delinquenza abituale o professionale (dedizione al delitto o vivere almeno in parte dei relativi proventi), ma non la valutazione della attualità della pericolosità sociale. (Magistrato di Sorveglianza Alessandria 13 febbraio 2002, in www.dirittopenitenziario.it) L’altro settore di vitalità delle misure di sicurezza è rappresentato dalla terapia e contenimento della pericolosità del soggetto infermo di mente. In tale caso la valutazione della magistratura di sorveglianza deve combinare il consueto strumentario criminologico con nozioni ed esperienze tratte dalla psichiatria forense. Il profilo senz’altro più innovativo è tuttavia un altro, ed è quello dato dalla possibilità di riconoscere, nella prassi, un’ipotesi socialmente tipica di misura di sicurezza: la libertà vigilata terapeutica. Essa è figlia della flessibilità della misura prevista dal codice penale (che ammette qualsiasi prescrizione, purché idonea a contenere il pericolo di recidiva) e del bisogno di contenimento del paziente psichiatrico. Molto spesso, sia a fini di tutela sociale che di tutela della salute, la presenza di un obbligo giuridico di sottoporsi a terapia costituisce uno strumento necessario. E tale strumento è stato individuato, di fatto, proprio nella libertà vigilata. Se ne riconoscono oramai due tipologie, che finiscono per corrispondere alle due omologhe tipologie che la prassi individua per i programmi di recupero dalla tossicodipendenza: la libertà vigilata terapeutica c.d. comunitaria, per il malato psichiatrico allocato in comunità terapeutica e la libertà vigilata c.d. ambulatoriale, per il malato che ha adeguati supporti abitativi e personali autonomi. (Magistrato di Sorveglianza Alessandria ord. 3 febbraio 2005, in Osservatorio di diritto penitenziario online - www.dirittopenitenziario.it)) 27 Con questa felice formula, la cui paternità si deve a Paolo Gibelli, si designa uno strumentario penalistico che assicuri una pena adeguatamente modulabile sulle esigenze di rieducazione e prevenzione, con una capacità di adattamento non orientata esclusivamente in bonam partem, ma, pur nel rispetto del principio di predeterminazione e tassatività, anche in malam partem. Per quanto attiene la libertà vigilata terapeutica, c.d. ambulatoriale, risulta centrale la funzione della rete di supporti rappresentata dai Centri Salute Mentale e dagli Uffici per l’Esecuzione Penale esterna (ex CSSA) 14. Magistratura di sorveglianza e tutela dei diritti dei soggetti ad esecuzione di pena. In primo luogo è opportuno l’inquadramento generale della tutela dei diritti delle persone detenute. Successivamente, si potrà trattare degli aspetti specifici che mi sono stati indicati, con particolare riguardo alla materia della sospensione delle regole di ordinario trattamento e il diritto alla salute. Sul piano generale e astratto sono possibili diversi schemi di tutela, che vanno dalla generalizzata attuazione di una tutela giurisdizionale, con forme a contraddittorio pieno e di fronte a una giurisdizione unica, a forme più variegate, che distinguano, ad esempio, a seconda della posizione giuridica fatta valere e da questo facciano dipendere differenze circa la procedura e la giurisdizione. Senza addentrarsi nell’esame di modelli solo teorici e limitandosi al dato normativo concreto, si può osservare come la scelta operata dall’Ordinamento Penitenziario e della Legge Gozzini si reggesse, sostanzialmente, su una tripartizione. In primo luogo, diritti dei detenuti configurati esattamente alla stessa stregua di quelli delle persone libere, con la stessa tutela. Così, evidentemente, non portando la detenzione una capitis deminutio del condannato, c’è tutta un area di situazioni nelle quali la posizione di questo non è modificata: o perché si tratta di questioni che non sono incise dalla detenzione, o perché si tratta di posizioni che non devono essere incise dalla detenzione. Esempio del primo tipo: la lesione di interessi patrimoniali del condannato avvenuta all’esterno del carcere. Salvi gli effetti della eventuale interdizione legale, il condannato gode della tutela ordinaria: può citare persone in giudizio per l’adempimento, esercitare rivendiche, ecc. Altro esempio, l’impugnazione al Tar di una delibera che neghi una concessione edilizia. Esempio del secondo tipo, il danno biologico patito per effetto di colpa medica nelle cure praticate durante la detenzione. Anche in questo caso la tutela segue, pacificamente, le forme ordinarie. In questa prima area, l’affermazione della Corte Costituzionale secondo cui “l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità – nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina – non possono mai consistere in "trattamenti penitenziari" che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà" (Corte cost. n. 26/99)” ha il significato più pieno: significa: la persona detenuta è uguale alla persona libera. E’ molto interessante osservare che l’ambito in cui si esplica tale tutela ordinaria non è rigido e immutabile, ma dipende da valutazioni e dalla sensibilità sociogiuridica del momento. Esemplare, in proposito, la questione della tutela dei diritti del detenuto lavoratore. Stando a una notissima sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione,28 per esempio, la giurisdizione in tema di lavoro penitenziario spetterebbe al Magistrato di Sorveglianza, ai sensi della previsione dell’art. 69 O.P. tenuto conto del fatto che “Le diversità strutturali fra il rito applicabile per le ordinarie controversie di lavoro e quello proprio del procedimento delineato dall'art. 69 della legge n. 354 del 1975 per il lavoro dei detenuti, una volta assunta la natura giurisdizionale quale minimo denominatore comune delle une come dell'altro, manifestamente non escludono la ragionevolezza della scelta del legislatore di prevedere una diversa competenza per le controversie concernenti 28 Cass. Sez. Un. 26 gennaio 2001, n. 26 quest'ultimo tipo di lavoro, attese le peculiarità del relativo rapporto che, avendo come parte un detenuto, è, per ciò stesso, inserito in un contesto di attività che risultano strettamente connesse e consequenziali alla pena e, pertanto, istituzionalmente sottoposte alla sorveglianza del giudice penale. Secondo questa impostazione, insomma, il lavoro sarebbe un’area sulla quale incide (nel senso giuridico appena precisato) la detenzione, di tal che è ammessa la differente giurisdizione e tutela. A dimostrazione della relatività di tali impostazioni, è interessante sottolineare l’esistenza di un diverso orientamento, ben rappresentato dalla recente e nota sentenza della Corte di Appello di Roma,29 secondo cui, il sistema di tutela affidato al Magistrato di Sorveglianza non sostituirebbe quello ordinario, ma vi si affiancherebbe, rimettendosi all’interessato la scelta, irrevocabile, tra l’uno e l’altro. La Corte di merito osserva, tra l’altro che “il legislatore del 1986 non intendesse modificare l'art. 409 c.p.c. risulta evidente dalla notevole diversità dei due rimedi, il che esclude che il rimedio dinanzi al magistrato di sorveglianza sia idoneo a "sostituire" il rimedio ex art. 409 c.p.c., avendo una struttura ed una funzione ben diversa ed essendo dotato di congegni processuali ben più riduttivi rispetto agli strumenti previsti per l'esplicazione del diritto di difesa dei lavoratori. Tanto riduttivi che la diversa interpretazione sostenuta dalle Sezioni Unite non potrebbe che scontrarsi, come si dirà, con principi costituzionali e sovranazionali. Basti osservare che la procedura ex art. 14 ter non prevede la partecipazione del contraddittore necessario del rapporto di lavoro e cioè del Ministero della Giustizia (datore di lavoro nel rapporto carcerario "interno" come quello in esame), che non assume la veste di parte, non prevede la partecipazione personale dell'interessato, che non può essere sentito personalmente, non prevede la pubblicità del procedimento. Va anche considerato che la procedura è configurata come reclamo entro 10 giorni avverso un provvedimento dell'amministrazione (art. 14 ter), che non sempre è riscontrabile nelle controversie lavorative, e il magistrato di sorveglianza può solo pronunciarsi sulla fondatezza o meno del reclamo, ma non può emettere ad esempio provvedimenti di condanna (tipico corollario della diversa configurazione della natura dei giudizi, il primo impugnatorio, il secondo di tutela dei diritti soggettivi nel rapporto bilaterale a prestazioni corrispettive). Si è anche osservato in dottrina che il magistrato di sorveglianza, - per i compiti istituzionali di vigilanza che gli sono attribuiti dall'ordinamento penitenziario -, sembra svolgere una funzione propria diversa da quella che si riconosce all'ordinario organo giudicante delle controversie civili, sicchè la procedura in esame ha funzione e struttura del tutto diverse dall'ordinario processo del lavoro, costituendo in realtà una tutela "interna" al regime carcerario e come tale non sovrapponibile nè sostituibile alla normale tutela giurisdizionale, se non in base ad una libera scelta del detenuto lavoratore.” Questi due orientamenti scolpiscono plasticamente, con la forza del caso concreto, il problema della interazione delle posizioni giuridiche con la detenzione e la relatività di tali valutazioni. Nel merito, a me pare che la soluzione formulata dalla Corte di Appello di Roma sia preferibile: la soluzione mi pare equilibrata nell’individuare i rapporti tra le due giurisdizioni e più appagante laddove riconosce la più ampia tutela conseguente al riconoscimento della giurisdizione ordinaria. Si noti che tale pienezza non è solo sul piano della teorica ampiezza del contraddittorio ma su quello, assai più immediato e concreto, della pronuncia ottenibile. Si osserva che solo davanti al giudice del lavoro sarebbe possibile ottenere una pronuncia di condanna, esecutiva nei confronti del datore di lavoro. 15. (segue) la tutela semplificata. 29 Corte Appello Roma 3 giugno 2004, 5215/2002 R.G., reperibile sul web in http://www.unicz.it/lavoro/CdAROMA_03062004.pdf A fianco delle posizioni suscettibili di tutela ordinaria, il legislatore dell’O.P. e della legge Gozzini aveva poi configurato una situazione intermedia, disciplinata dall’art. 69, quanto a materia, e 14 ter e 71 e ss. quanto a procedura. Grossolanamente, si tratta di una procedura semplificata, posto che il contraddittorio si attua mediante il deposito di memorie (ed è esclusa la fisica partecipazione dell’interessato all’udienza), il provvedimento terminativo è una ordinanza del Magistrato di Sorveglianza ricorribile in Cassazione. Tale rito era intermedio, siccome collocato tra la tutela con le forme ordinarie (vista sopra) e il c.d. reclamo generico, di cui all’art. 35 O.P. In questo ultimo caso, di fatto, l’istituto previsto è una “segnalazione” al Magistrato di Sorveglianza, che non conduce a un vero e proprio procedimento/provvedimento giurisdizionale, ma conduce a iniziative amministrative il cui esito è, essenzialmente, l’adozione da parte del Magistrato di Sorveglianza dei poteri di sollecitazione, relazione, intervento previsti in generale dall’art. 69 comma 130 e 531 O.P. All’interessato non è riconosciuta una partecipazione o tutela particolare all’interno di tale procedimento. Su un piano teorico e generale, anche questo sistema aveva una sua logica coerente. A una tutela con procedimento giurisdizionale nelle materie di cui all’art. 69 comma 6 O.P. (lavoro e responsabilità disciplinare) affiancava, per le materie residue, una garanzia costituita dal potere di intervento di un organo terzo e imparziale, il Magistrato di Sorveglianza. A prescindere dai problemi sul rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa, e ragionando in termini di potenziale efficienza del sistema, vale la pena di sottolineare che tale strumento avrebbe potuto avere anche una efficacia dirompente. Ormai la questione si può dire superata dagli eventi (in particolare, la sentenza 26/1999 della C. Cost.), ma forse avrebbe potuto una fortuna diversa, in pratica, quanto disposto dal comma 5 dell’art. 69 O.P.: “il Magistrato di Sorveglianza impartisce nel corso del trattamento le disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati”. Sarebbe stato sufficiente intendere “trattamento” come regime penitenziario e non come “programma di trattamento” e calcare la mano sulla vincolatività di quelle “disposizione” del Magistrato di Sorveglianza. Sempre sul piano generale, e prima di prendere atto della sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale, che ha comportato la giurisdizionalizzazione di tutta la materia, è anche interessante osservare che non si può nemmeno affermare che l’aumento dell’area della giurisdizionalizzazione sia una tendenza reale dell’ordinamento giuridico nel suo complesso. A parte la spinta, interna alla materia penitenziaria, per la creazione di Garanti dei detenuti, spinta che è compatibile con tale tendenza, volendosi affiancare un organo propulsivo a quello giurisdizionale, vale la pena di ricordare come, in altri settori, ci sia una tendenza opposta. Penso alla diffusa creazione di authority, con competenza su settori di rilevante importanza economica o finanziaria. O, senza andare troppo lontani, alla resistenza della c.d. clausola compromissoria negli sport professionistici. In ogni caso, l’architettura descritta fino qui è stata rivoluzionata dalla sentenza 26/1999 della Corte delle Leggi. Essa, sulla base del sillogismo per cui a ogni posizione giuridica meritevole di tutela deve corrispondere una tutela e che questa tutela deve essere giurisdizionale ha, come noto, dichiarato incostituzionale la disciplina appena descritta proprio perché non prevedeva l’accesso a forme giurisdizionali per le materie non disciplinate dall’art. 69 comma 6 O.P. Si tratta di sentenza fondamentale, per il rigore del principio affermato. Tale sentenza della Corte ha però lasciato sul campo due interrogativi. Il primo è quello delle posizioni giuridiche tutelabili. Il secondo, esplicito già nella stessa sentenza, quello procedura applicabile. 30 31 Secondo cui il Magistrato di Sorveglianza prospetta al Ministro le esigenze dei vari servizi. Secondo cui il Magistrato di Sorveglianza impartisce nel corso del trattamento le disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati. 16. (segue) La sentenza 26/1999 C.Cost. e le posizioni giuridiche tutelabili. Sul piano della portata, va subito rilevato che, come già sottolineato, la sentenza non impatta, come è ovvio, su tutta l’area delle posizioni giuridiche già suscettibili di tutela ordinaria (che godono già di tutela piena), così come di quelle già oggetto di disciplina espressa (ad esempio, la materia disciplinare). Il problema più complesso (e più importante in pratica) è però un altro: dove passi il confine tra le posizioni tutelabili e aspettative di mero fatto. In effetti, si possono ipotizzare modelli teorici assai diversi, ma la soluzione resta difficile. Una delle tentazioni più irresistibili per l’interprete, in proposito, è cercare di selezionare tra diritti soggettivi e interessi legittimi, o modelli concettuali simili. A mio avviso, si tratta però di una strada poco produttiva. Al di là dell’enfasi che si mette normalmente sulle affermazioni – assolutamente corrette - della dignità della persona detenuta e l’esistenza di posizioni giuridiche non comprimibili, sta il fatto che delle due l’una. O sono in gioco interessi che effettivamente non sono o non devono essere incisi dalla detenzione (e allora la tutela è quella ordinaria), ovvero si tratta di interessi che vengono incisi dalla detenzione. Ma se si verifica questa seconda situazione è evidente che l’interessato si trova in una posizione giuridicamente differente da quella del soggetto libero. Nella posizione di chi ha posizioni giuridiche da contemperare con la detenzione, o meglio con lo scopo della detenzione. Tale situazione è delicatissima e meritevole della massima attenzione e tutela, anzi forse di tutela più attenta e intensa di quella di un soggetto libero, ma differente. Il giudizio da compiere è sempre quello della proporzione tra le esigenze di sicurezza (sociale e penitenziaria) e interesse del singolo. Siamo nell’ambito della valutazione della proporzionalità dell’azione amministrativa, nell’attuazione dei suoi scopi, rispetto ai diritti individuali. Il sacrificio imposto al singolo non deve eccedere quello minimo necessario, oltre a non ledere posizioni non sacrificabili in assoluto.32 Il tentativo, insomma, di distinguere tra ciò che è tutelabile e ciò che non lo è passando per le categorie del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo è destinato a sicuro fallimento. Il criterio è allora diverso, saranno tutelabili tutte le posizioni giuridiche: a) espressamente riconosciute dalle norme penitenziarie; b) riconoscibili a un soggetto libero, non importa di quale natura. 17. (segue) il procedimento applicabile. Come noto, la sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale, dichiarata incositutuzionale la normativa dell’art. 35 O.P per la mancata attuazione delle garanzie della giurisdizione, e rilevata l’esistenza di molteplici modelli procedimentali, rinviava al legislatore per la concreta individuazione di quello applicabile nella fattispecie. Il legislatore, tuttavia, non interveniva nella materia. E’ così rimasto sul tappeto il problema, teorico e pratico, della scansione procedurale da utilizzare. Nella materia sono infine intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione,33 che hanno ritenuto applicabile il rito di cui all’art. 14 ter O.P. Gli artt. 14-ter, 69, 71 e seguenti dell'ordinamento penitenziario prevedono il termine di dieci giorni per proporre reclamo; il termine di cinque giorni per l'avviso dell’udienza al pubblico ministero, all'interessato e al difensore; la partecipazione non necessaria del difensore e del pubblico ministero all’udienza; la facoltà dell'interessato di presentare memorie; la possibilità di proporre ricorso per cassazione entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento. Tale 32 Evidente l’eco nella materia della giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, in materia di principio di proporzionalità dell’azione amministrativa. Ad esempio: Corte Giustizia CE, Joined Cases C-286/94, C-304/95, C401/95 and C-47/96, Garage Molenheide BVBA v Belgian State 33 Cass. Sez. Unite, 26 febbraio 2003, n. 25079 ric. Gianni ricorso per cassazione è nelle facoltà anche dell’Amministrazione Penitenziaria, per le materie di cui agli artt. 14 ter e 69 comma 6 O.P. Pena un evidente lesione del diritto al contraddittorio, se questa è la procedura applicabile alla tutela dei diritti dei detenuti, dovrà ammettersi anche in questi casi la legittimazione al ricorso per la P.A. La individuazione di tale procedura, al di là della somma autorevolezza del collegio giudicante, è da ritenersi soddisfacente. La Corte osserva che “un simile mezzo non può che ricondursi proprio per le esigenze di speditezza e semplificazione che necessariamente devono contrassegnarlo, considerando le posizioni soggettive fatte valere - a quello di cui agli artt. 14-ter e 69 dell'ordinamento penitenziario, che prevede la procedura del reclamo al magistrato di sorveglianza nelle materie indicate dalla prima di tali disposizioni.” E, ancora, che altre soluzioni, in particolare quella con la partecipazione dell’interessato costituirebbero “modello esorbitante la necessaria semplificazione della procedura, da attuarsi attraverso il pronto intervento del magistrato di sorveglianza così da omettere, almeno in parte, gli indugi della seriazione generale prevista dal codice di procedura penale.” Resta solo un passaggio oscuro nella motivazione della Suprema Corte, laddove si afferma che “la semplificazione della procedura resta in gran parte ridimensionata dalla possibilità di proporre reclamo al tribunale di sorveglianza secondo il modello prefigurato dall'art. 14-ter della legge adesso ricordata”. In effetti l’art. 14 ter è applicabile per il modello di procedimento, ma nelle procedure prese a tertia comparationis (69 comma 6), laddove la competenza sul reclamo è prevista in capo al Magistrato di Sorveglianza, non è assolutamente ammesso un ulteriore reclamo intermedio al Tribunale di Sorveglianza. Né avrebbe pregio il tentativo di costruire un parallelo con la procedura di cui al novellato articolo 18 ter O.P.,34 in materia di corrispondenza. In tali casi vi è effettivamente un reclamo ex art. 14 ter al Tribunale di Sorveglianza contro un provvedimento del Magistrato di Sorveglianza. Ma il provvedimento del Magistrato di Sorveglianza è proprio l’atto che dispone la limitazione di cui si duole il condannato. Nei casi di cui stiamo trattando l’atto che si assume lesivo è quello dell’Amministrazione e l’intervento del Magistrato di Sorveglianza è già una forma di reclamo. Semmai, ci si potrebbe domandare perché la legge 95/2004 abbia attribuito la competenza in tema di reclamo al giudice collegiale e se da ciò non si possano trarre argomenti per desumerne, a posteriori, l’opportunità di analoga soluzione per la tutela dei diritti in genere. Tale suggestione non è convincente: la procedura di cui all’art. 18 ter è permeata di maggiori garanzie (la più evidente è che la limitazione del diritto proviene da organo giurisdizionale, il Magistrato di Sorveglianza) proprio perché si tratta della tutela di diritto costituzionalmente garantito e con garanzia di giurisdizione: art. 15 comma 2 Cost. Ne risulta confermato che l procedura applicabile è quella di cui all’art. 14 ter: reclamo al Magistrato di Sorveglianza e ricorso per Cassazione, udienza senza la presenza delle parti. 18. (segue) l’effettività della tutela. Ciò posto, si impone almeno un doppio ordine di considerazioni, a garanzia della effettività della tutela. Il primo interrogativo riguarda l’individuazione delle possibilità di selezionare, tra tutte le doglianze che pervengono alla Magistrato di Sorveglianza, quali debbano comportare l’adozione della procedura in esame. Il problema non è tanto rispetto alle ipotesi in cui sia applicabile una procedura diversa, visto che queste sono ipotesi espressamente previste (es. corrispondenza), oppure ipotesi che ricadono nella giurisdizione generale (es. azione per risarcimento danni da colpa 34 Legge 8 aprile 2004, n. 95 medica), ma quelle in cui resti utilizzabile la via, interamente amministrativa, dell’art. 35 O.P. Non il confine interno, ma il confine esterno. Si tratta di un aspetto che incide pesantemente sulla efficacia della tutela, posto che, come è ben noto a chi svolge le funzioni di Magistrato di Sorveglianza, molto spesso è la stessa materiale difficoltà di governare la massa delle istanze, denuncie, segnalazioni a rendere tardiva e inefficiente la tutela. Detto in altri termini, una indiscriminata attuazione di tali modelli per ogni segnalazione ricevuta non solo rischia di comportare la paralisi della attività, ma renderebbe pressoché impossibile la selezione dei casi: la diluizione degli interventi su una miriade di casi ne eliderebbe la capacità di penetrazione. In effetti, per le ragioni viste sopra, la linea di confine sembra dover essere quella delle aspettative di mero fatto: non è azionabile la procedura a fronte di doglianze che non coinvolgano lesione di posizioni giuridicamente tutelate, ma mere aspettative. Tale selezione non è detto però che sia così efficace: anche solo implicitamente, la più gran parte delle doglianze può andare a concernere interessi teoricamente meritevoli di tutela (incontrare persone o ricevere oggetti può consentire l’espressione della personalità, il diritto di manifestazione del pensiero, del credo religioso, ecc. mentre molte condotte o situazioni potrebbero incidere, almeno in teoria, sul diritto alla salute). Non solo, ma occorre tener ben ferma la distinzione tra allegato fondamento della domanda, da un lato e fondatezza della medesima, dall’altro. Se implicitamente o esplicitamente una domanda afferma di denunciare una violazione di un diritto, la causa pretendi è quel diritto, e la procedura va attivata. La domanda sarà poi ritenuta infondata, ma la procedura è doverosa. Viene allora da domandarsi se il sistema non manchi di uno strumento di selezione, quale, per l’art. 666 c.p.p. il rilievo della manifesta infondatezza o della mera reiterazione. Ma esiste un altro profilo problematico, ancora più grave, in termini di efficacia della tutela: quello della attuazione della decisione del Magistrato di Sorveglianza. Si tratta di un terreno non particolarmente esplorato. La soluzione, in diritto, dipende dalla natura che si voglia attribuire all’intervento del Magistrato di Sorveglianza. Sono ipotizzabili almeno tre diverse ricostruzioni. Quella di giudizio di annullamento su atti; quello di accertamento di fatti; quello di accertamento e condanna. Nella prima configurazione, al Magistrato di Sorveglianza spetterebbe solo di verificare la legittimità di un provvedimento della P.A. ed eventualmente annullarlo. Nella seconda configurazione il Magistrato di Sorveglianza dovrebbe accertare la situazione di fatto e se questa sia conforme a diritto, con una pronuncia dichiarativa. Nella terza dovrebbe accertare quanto appena espresso e ordinarne la rimozione, il suo provvedimento costituendo titolo esecutivo contro la P.A. La prima soluzione sconta la difficoltà rappresentata dal fatto che molto spesso a ledere i diritti non sono tanto singoli provvedimenti espressi, ma scelte organizzative generali, se non addirittura mere situazioni materiali. La terza è, di fatto, tendenzialmente respinta dalla stessa giurisprudenza (da ultimo, la sentenza della Corte di Appello di Roma in tema di lavoro, affermava a chiare lettere di presupporre l’impossibilità per il Magistrato di Sorveglianza di condannare la P.A.). Tra l’altro, dal lato della Amministrazione, è fortemente dubbio che sarebbe costituzionalmente legittima la possibilità di ottenere un titolo esecutivo, con cadenze di contraddittorio così semplificate. Questa soluzione sarebbe probabilmente incostituzionale. Resta sul campo la soluzione mediana. In ogni caso, l’ottemperanza alla decisione rimane un aspetto problematico, qualunque sia l’opzione che si adotta. Anche sotto questo aspetto, si possono ipotizzare soluzioni molto diverse. La più “forte” (ragionando in termini teorici: non mi risulta abbia precedenti) è ritenere che quanto previsto dall’art. 69 comma 5 O.P. significhi che le direttive del Magistrato di Sorveglianza si sostituiscono a quelle del vertice della Amministrazione (che sarebbe una sorta di commissario ad acta ex lege), con conseguente immediato dovere degli operatori penitenziari di attuare la decisione, disapplicando gli eventuali ordini contrari di Direttore, Provveditorato e Dipartimento. In tale ricostruzione il potere di ingerenza del Magistrato di Sorveglianza assumerebbe un contenuto invasivo nell’area dell’Amministrazione di eccezionale (e forse non opportuna) rilevanza. E’ quantomeno dubbio che questo fosse il significato della norma in esame. Nell’ipotesi in cui si ritenesse il provvedimento una condanna, sarebbero attivabili le reazioni per l’inottemperanza al giudicato, con tutti i problemi ben noti, rispetto all’esecuzione coattiva di un facere, per di più da parte della P.A. Se invece si ritiene che il provvedimento sia un accertamento, l’effetto della decisione è limitato alla dichiarazione di illegittimità di un certo assetto. Tale accertamento non ha però effetti diretti dal punto di vista esecutivo. Potrà essere semmai oggetto della valutazione incidentale quando sorga un diverso giudizio (disciplinare o penale) sulle eventuali responsabilità. E’ però quantomeno dubbio che tale accertamento sia vincolante in quelle sedi. In questa prospettiva, allora, l’esito complessivo non può che ritenersi largamente insoddisfacente, sul piano della effettività, non ostante l’importanza delle affermazioni di principio che hanno costituito il punto di partenza delle riflessioni 19. La sospensione delle ordinarie regole di trattamento ex art. 41 bis O.P. La prova della permanenza dei collegamenti con la criminalità organizzata. Circa poi gli aspetti particolari e in particolare la tutela dei soggetti sottoposti al regime di sospensione delle normali regole di trattamento, la mia attenzione si limita, al profilo della prova del permanere del collegamento con la criminalità organizzata, che costituisce il vero e proprio punto dolente ricorrente per chi si occupa della materia. La prima considerazione che deve essere svolta è che l’espressione prova dei collegamenti (e, più in generale, della pericolosità particolarmente qualificata su cui si fonda il provvedimento ministeriale) è, a ben vedere, impropria. Impropria se si pensa di esportare al giudizio in esame lo strumentario concettuale della prova in senso pieno di cui al giudizio di cognizione. La stessa Corte di Cassazione, con un orientamento costante in tutta la materia di competenza della Magistratura di Sorveglianza, ha sempre sottolineato le particolarità del giudizio di pericolosità e la sua differenza rispetto al giudizio di responsabilità. Da ultimo, e proprio con riferimento alla materia dell’art. 41 bis O.P., ha, ad esempio, affermato che “Va aggiunto, peraltro, che l'art. 41-bis O.P. mira a prevenire che attraverso il mantenimento dei contatti tra il detenuto e le organizzazioni esterne possano essere messi in pencolo l'ordine e la sicurezza pubblica. Il regime differenziato in esame non è, infatti, una sanzione per il reato commesso, ma una misura diretta ad evitare, in via preventiva, il pericolo del turbamento dell'ordine pubblico: di conseguenza non è necessario l'accertamento con la certezza propria del giudicato della commissione di uno dei reati previsti dalla disposizione in esame, ma è sufficiente che vi siano elementi quali possa desumersi la "commissione" di uno di tali reati, elemento certo, che secondo la stessa legge, è costituito dalla detenzione di titoli di reato disposta dal giudice.” Tale decisione esamina il profilo della valenza della pendenze giudiziali rispetto ai reati di cui all’ipotesi accusatoria, ma è evidente che si tratta di affermazioni perfettamente esportabili a ogni frazione del giudizio di pericolosità. Non di prova in senso proprio, ma di indizi gravi, puntuali concordanti, si deve trattare. I relativi provvedimenti devono essere motivati in modo completo, rigoroso e convincente sulla sussistenza dei relativi presupposti ma concettualmente non vanno confusi i profili della prova in senso proprio, che sono estranei al giudizio di pericolosità. Quanto poi al contenuto della prova (nel senso appena precisato) della permanenza dei collegamenti, è sorto un problema correlato alla nuova dizione della normativa. In effetti, laddove si stabilisce35 che “i provvedimenti (…) sono prorogabili (…) purché non risulti che la capacità del detenuto o dell'internato di mantenere contatti con associazioni criminali, terroristiche o eversive sia venuta meno”, si crea lo spazio per un interrogativo: la proroga è da disporsi salvo che il soggetto detenuto provi che i collegamenti sono venuti meno ? Vi è una presunzione legale di permanenza dei collegamenti correlata a una inversione dell’onere della prova (nel senso predetto) ? Tale affermazione sarebbe probabilmente in contrasto con la Costituzione.36 Tradizionalmente, si afferma, per tre motivi. Il primo è che si tratterebbe di provare un fatto negativo, probatio diabolica. Il secondo è che si tratterebbe di una presunzione contra reum, il terzo che si tratterebbe di una presunzione non ragionevole. In effetti, ci sono ragioni a mio avviso per ritenere che il motivo più fondato sarebbe il terzo. Non è propriamente vero che la prova sarebbe impossibile: più che provarsi il fatto negativo, si tratterebbe infatti di provare il fatto incompatibile (con la persistenza dei collegamenti): la collaborazione, la dissociazione, il venir meno dell’organizzazione criminale, il decorso di un tempo incompatibile con il loro permanere, ecc. Né del tutto convincente sarebbe il riferimento alla presunzione di non colpevolezza, posto che nella fattispecie non è in gioco la colpevolezza (ma si tratta del giudizio di pericolosità).37 E’ vero invece che una generalizzata presunzione di permanenza, senza limite, di permanenza dei collegamenti non sarebbe legittima, perché equiparerebbe, pur salva la prova contraria, situazioni diversissime, nelle quali non è uguale la probabilità di permanenza dei collegamenti. La disposizione, del resto, si presta agevolmente a non essere interpretata nel senso di prevedere una tale presunzione: ma ha un significato diverso. Disciplina, a mio avviso, il modo di operare dell’istruttoria dell’Autorità Centrale. Poiché, nel nuovo regime dell’art. 41 bis, scende il “giudicato” sul carattere indiziante38 dei fatti indicati nel primo decreto (di applicazione)39, tali fatti e il loro potere indiziante costituiscono un punto di partenza assodato. L’istruttoria del Ministero deve allora vertere sulla eventuale modificazione del quadro. E’ onere dell’Autorità: a) porre in essere una istruttoria in tal senso; b) motivare sugli esiti di tale istruttoria e sul permanere, alla luce di essa, dell’originario collegamento. L’onere della prova del permanere dei collegamenti grava sul Ministero, ma, tenuto conto della natura dei medesimi (normalmente idonei a permanere per un certo tempo), è sostanzialmente diverso il contenuto di tale onere tra l’ipotesi in cui si tratti di provare che tali collegamenti sono esistiti, come fatto storico, e che essi, ormai accertati come fatti verificatisi, permangono. Ciò, vale la pena di ribadirlo, non si traduce, di fatto, in una soluzione equivalente all’affermazione di una presunzione legale di permanenza dei collegamenti, visto che, a differenza dell’ipotesi in cui tali collegamenti fossero presunti: a) il Ministro deve compiere una apposita istruttoria (che ha però ad oggetto i soli fatti nuovi); b) il Ministro deve motivare sugli esiti di tale istruttoria. Si noti, inoltre, quanto al contenuto di tale istruttoria, che esso appare dover essere il seguente. Essenzialmente, richieste agli organi investigativi circa l’eventuale mutamento del quadro indiziario, probatorio o giudiziario, e acquisizione di eventuali provvedimenti giurisdizionali (nuove 35 Art. 41 bis comma 2 bis O.P. 36 C. Cost. 376/1997, C. Cost. 349/1993 37 C.Cost. 5/12/1997, n. 376 38 Figura di giudicato anomala, almeno nel senso che è il giudicato sulla pericolosità in un momento dato e sul valore indiziante di certi fatti ai fini di tale pericolosità. 39 Cass. Sez. I 12/12/2003, P.G. in proc. Mazzitelli, Ced Cass. RV. 226471 condanne o assoluzioni, ecc.). Si tratta di adempimenti di agevole realizzazione. Inoltre, costituisce fatto doverosamente valutabile, e dal provvedimento ministeriale e dal Tribunale di Sorveglianza, il decorso del tempo. Anche esso è una variabile da tenere in conto, tale da erodere progressivamente il fondamento indiziante dei fatti di cui al primo accertamento. Tale impostazione si inserisce perfettamente nella ricostruzione fino qui seguita. Valutate tutte le circostanze del caso concreto anche il decorso di un cospicuo lasso di tempo finisce per essere un fatto nuovo che può escludere il permanere dei collegamenti. Ciò si traduce nella necessità che con il susseguirsi delle proroghe la verifica della permanenza dei presupposti vada fatta con crescente rigore, istruttorio e argomentativo. Si tratta di materia nella quale non possono formularsi regole automatiche, ma solo principi tendenziali, la cui applicazione è rimessa alla prudente discrezionalità (dell’organo ministeriale e del Tribunale di Sorveglianza). Al di là degli accenti formali, non è diversa sul punto la giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione, laddove afferma che: la disposizione contenuta nell'art. 41 bis, comma 2, ord. pen. svela la sua coerenza a tale insegnamento, ove sia interpretata nel senso che le limitazioni al trattamento possono essere adottate solo in presenza di positivi, dimostrati, motivati elementi, che comprovino la permanenza dei legami con l'associazione di appartenenza, e che le proroghe possono intervenire solo in assenza di positivi, dimostrati elementi circa la rescissione dei legami con l'associazione di appartenenza e purché sorrette da adeguata motivazione in ordine alla permanenza dei pericoli attuali per l'ordine pubblico e la sicurezza che le misure stesse mirano a prevenire. Ne consegue che, una volta verificata, con sentenza passata in giudicato, l'affiliazione del detenuto ad associazioni criminali di stampo mafioso (oppure verificata, comunque, la sussistenza di gravi indizi in tal senso da parte dell'Autorità giudiziaria procedente nelle ipotesi di procedimenti pendenti), la permanenza del vincolo associativo può ritenersi connaturata all'ontologia di tali associazioni, con quanto è consentito indurne, pur sempre con rigorosa motivazione in punto di attualità, in ordine all'inidoneità di un ordinario regime detentivo ad interrompere l'attività del sodalizio mafioso e la capacità di collegamenti con l'esterno del recluso. Tali argomenti appaiono coerenti al senso della lezione della Consulta e a quanto affermato da questa Corte con riguardo all'art. 4 bis della legge n. 354 del 1975, che ha introdotto un principio di presunzione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata da parte di chi è stato condannato per i delitti in esso indicati e consente la concessione di misure alternative alla detenzione soltanto nel caso che emergano elementi idonei a determinare il superamento di detta presunzione (Sez. 1^, 24.7.2000, n. 2761, ric. D'Avino, riv. 216598). È indubitabile, comunque, che, in sede di controllo giurisdizionale del Tribunale di sorveglianza, una volta che le circostanze concrete che connotano la fattispecie e che siano state oggetto di congrua motivazione, lascino operare la succitata presunzione relativa alla persistente adesione al contesto mafioso, il ricorrente ha la facoltà di esercitare un mero onere di allegazione onere che costituisce l'in sè della dialettica processuale - funzionale a superare la presunzione relativa sopra ricordata.”40 La Corte, in apparente difformità da quanto espresso qui, si pronuncia per la sussistenza di una presunzione relativa. Essa tuttavia ribadisce la necessità di specifica e rigorosa motivazione sulla attualità del collegamento, di tal che la differenza sembra fortemente stemperarsi. Essa addirittura non esiste, nella misura in cui si ritenga comunque necessaria per il Ministero la previa richiesta (peraltro assai agevole) agli organi investigativi delle eventuali modifiche della situazione e un richiamo sul punto nella motivazione della proroga. 40 Cass. Sez. 1, 5/03/2004, n. 20943 Garonfolo Ovviamente importante, in questo quadro, una volta che il Ministero abbia assolto il proprio onere, l’allegazione di eventuali circostanze contrarie da parte dell’interessato, come insegna il Supremo Collegio: “Tutt'al più, si potrà ritenere che sussista a carico dell'interessato un onere di allegazione degli elementi di fatto da cui sia possibile dedurre che la capacità di mantenere i collegamenti con l'esterno sia venuta meno; ma su tali allegazioni il giudice avrà comunque l'obbligo di esprimere motivatamente il proprio giudizio.”41 41 Cass. Sez. I, 26/01/2004, n. 417 Madonia