L’ontologia di ispirazione analitica Marco Messeri La scena del dibattito ontologico di ispirazione analitica è dominata all’inizio del Novecento da convinzioni ispirate a un inusuale intreccio di realismo, fenomenismo e platonismo. Il fenomenismo emerge con alcuni filosofi della fine del XIX secolo, in opposizione polare al materialismo. Afferma che la realtà tutta intera consta di dati di senso: che essa cioè non è altro che un flusso di immediati contenuti di esperienza; e che dunque i corpi, e forse gli stessi soggetti pensanti, non sono più che collezioni relativamente stabili di dati di senso. È da notare che il fenomenismo perlopiù non è inteso dai suoi sostenitori come una teoria idealistica, bensì come una teoria realistica: esso infatti non afferma che la costituzione della realtà dipenda dal soggetto; anzi, ipotizza semmai che il soggetto stesso abbia una realtà derivativa. Il fenomenismo, di fatto, si rafforza e trae gran parte dei suoi motivi di suggestione precisamente dalla battaglia che la filosofia analitica delle origini combatte contro l’assunto idealistico della realtà come rappresentazione di un soggetto trascendentale e in difesa della visione delle cose proposta dal senso comune. Moore e Russell: contro l’idealismo Tanto la filosofia europea quanto la filosofia americana conoscono nella seconda metà dell’Ottocento, sotto diverse forme, una ripresa della concezione che descrive la realtà come prodotto di una attività spirituale. Attraverso varie strade e adducendo diverse giustificazioni, il neoidealismo italiano e angloamericano, il neokantismo tedesco e il filone spiritualistico francese sembrano convergere intorno a questo assunto. Tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento cresce tuttavia, sia pure in forme altrettanto diversificate, una ribellione filosofica contro tale comune assunto di sapore idealistico. In Inghilterra, la battaglia contro l’idealismo, là rappresentato soprattutto da Bradley e McTaggart, è guidata da due pensatori che in quel paese saranno gli ispiratori stessi dell’orientamento filosofico analitico, Moore e Russell. L’inglese George Edward Moore (1873-1958) polemizza contro l’idealismo prima in Confutazione dell’idealismo (1903) e poi in Difesa del senso comune (1925) e Prova del mondo esterno (1939). Ritiene che il postulato fondamentale dell’idealismo sia minato nelle 1 sue stesse basi da un equivoco concettuale. Gli idealisti infatti credono di potere sostenere che tutta la realtà è oggetto della nostra coscienza, solo perché identificano erroneamente l’oggetto della nostra esperienza cosciente col contenuto di tale esperienza stessa. Oggetto e contenuto tuttavia dovrebbero essere tenuti attentamente distinti: oggetto è la cosa percepita tramite l’esperienza cosciente; contenuto è invece la modalità di presentazione sotto la quale la cosa stessa è coscientemente percepita. Oggetto e contenuto non coincidono tra loro. Il fatto è che la relazione tra una esperienza cosciente e il suo contenuto è una relazione interna. Essa contribuisce a determinare l’identità dell’esperienza stessa: se l’esperienza cambia il suo contenuto, si trasforma in un’altra esperienza; per es., in una persona che mette a fuoco la visione, passando da un’immagine parzialmente sfocata a una più precisa, muta lo stato di coscienza. Invece, la relazione tra l’esperienza e il suo oggetto è una relazione esterna. Si tratta infatti di un rapporto estrinseco, che non determina l’identità dei relati, e perciò non li modifica quando viene ad essere o cessa di essere: il vaso da fiori che guardo non cambia per il fatto che io lo guardo. Moore si sente dunque di difendere il realismo caratteristico del senso comune. Tale realismo non deve essere messo da parte come una posizione ingenua: non c’è niente di inconsistente nell’assumere che le cose di cui facciamo esperienza sussistano indipendentemente dalla nostra esperienza stessa. Beninteso, Moore non vuole difendere tutte le credenze del senso comune. Egli concede senz’altro che molte di esse siano radicalmente erronee. Riconosce inoltre che le credenze del senso comune sono storicamente variabili. Moore difende piuttosto il nucleo concettuale del senso comune, che persiste attraverso la storia e assicura una giustificazione preliminare a tutte le diverse possibili imprese conoscitive umane: la credenza che esista un mondo esterno; che di esso faccia parte un corpo, quello che chiamiamo il nostro corpo, più direttamente soggetto alla nostra volontà e veicolo delle nostre esperienze; che tramite questo corpo noi possiamo agire nel mondo esterno; e così via. Esattamente come il senso comune ha sempre ritenuto, la realtà del mondo esterno è provata infinite volte, a giudizio di Moore, dagli innumerevoli oggetti materiali che noi incontriamo nella nostra esperienza quotidiana, per es. dal fatto ovvio che noi possiamo vedere e mostrare agli altri le nostre mani. L’inglese Bertrand Russell (1872-1970) condivide pienamente la battaglia contro l’idealismo impegnata dall’amico Moore. Scrive Russell, ricordando con garbata autoironia il loro comune punto di vista: «Con la sensazione di evadere da una prigione, ci permettemmo 2 di credere che l’erba è verde, che il sole e le stelle esisterebbero anche se nessuno le percepisse, ed anche che c’è un mondo pluralistico senza tempo di idee platoniche». Tanto Moore quanto Russell credono infatti alla realtà degli universali. Moore riconosce tra questi i valori, oggetto dell’etica e delle altre discipline valutative. Russell per parte sua insiste soprattutto sul ruolo degli universali nel funzionamento semantico del linguaggio. Il nuovo realismo troverà seguaci numerosi soprattutto nell’ambito della filosofia americana. Russell: dalla realtà dei dati di senso al fenomenismo Tra le cose che sono oggetto della nostra esperienza e che sussistono indipendentemente dalla nostra esperienza stessa, Moore ammette anche i «dati di senso»: le qualità, posizioni, disposizioni, durate, che noi percepiamo immediatamente attraverso i sensi. In effetti Moore non ha mai voluto pronunciarsi in modo perentorio circa la questione del rapporto tra dati di senso e realtà. Non si è mai spinto in particolare fino a sostenere il fenomenismo e a ridurre tutta la realtà empirica a dati di senso. Egli si limita piuttosto a riconoscere i dati di senso come parte della realtà. È Russell invece a farsi sostenitore del fenomenismo, soprattutto in La nostra conoscenza del mondo esterno (1914), Misticismo e logica (1918) e L’analisi della mente (1921). Russell pensa infatti che tutte le parole del nostro linguaggio possano essere risolte attraverso un processo di analisi logica, o, come egli dice, di «costruzione logica», in nomi elementari, che designano degli universali oppure dei dati di senso. Gli oggetti materiali, così come gli stati e i processi mentali, non sono altro che combinazioni molto complesse di dati di senso. In conformità col punto di vista che era stato di Berkeley e di Hume, un corpo per Russell non è altro che l’organizzazione complessiva di una serie di dati di colore, odore, calore, pressione, resistenza, consistenza, etc.: una organizzazione che non necessariamente conserva permanentemente inalterati i suoi componenti, ma che comunque li vede almeno variare in maniera coordinata. Non c’è una sostanza che soggiaccia alle qualità sperimentabili nella materia. Analogamente, la mente non è una sostanza che soggiaccia ai fenomeni mentali, ma la semplice organizzazione coordinata dei fenomeni mentali stessi. Tutta la realtà, per il Russell dei primi decenni del secolo, si risolve in un flusso di dati di senso. È importante soprattutto notare come, per lui, il fenomenismo non sia affatto in contrasto col rifiuto dell’idealismo: d’accordo con Moore, Russell accusa l’idealismo di confondere l’oggetto dell’esperienza con il suo contenuto. Egli si ritiene realista appunto in 3 virtù del fatto di distinguere tra i due, e non attribuisce al realismo proprio e di Moore una necessaria vocazione materialistica: anche il dato di senso è oggetto e non contenuto dell’esperienza; scivolerebbe nell’idealismo, secondo il Russell di questo periodo, solo il fenomenista che identificasse la sensazione, cioè l’evento soggettivo dell’esperienza, col dato di senso, che costituisce invece il suo correlato oggettivo. Avenarius e Mach: il monismo fenomenista Il nuovo realismo che si origina dalla polemica analitica contro l’idealismo non nasce dunque contraddistinto dall’assunto materialistico della irriducibilità degli oggetti corporei ai dati di senso. Soprattutto con Russell, esso va anzi ad incontrare un fenomenismo di tipo monista, e cioè sostenitore della riducibilità tanto della mente quanto della materia a un unico genere di entità di base, che nella filosofia continentale era stato sviluppato da filosofi di ispirazione positivista come Avenarius e Mach. Il tedesco Richard Avenarius (1843-1896), già negli ultimi vent’anni del XIX secolo e soprattutto in Critica dell’esperienza pura (18881890), sostiene che effettivamente reale è solo l’«esperienza pura»: il flusso dei dati, che in se stesso non è né fisico né psichico. L’esperienza pura infatti è anteriore alla distinzione tra soggetto e oggetto: i corpi e l’io non sono che aggregazioni relativamente persistenti di dati. Per Avenarius, il pensiero opera, organizzando i dati dell’esperienza pura tramite reticoli concettuali astratti, che hanno la funzione di semplificare la memorizzazione dei dati e di facilitarne l’applicazione, contribuendo, secondo il principio del «minimo sforzo», ad adattare in maniera economica l’organismo umano al suo ambiente. Avenarius ritiene inoltre che la filosofia debba risolversi in una critica della conoscenza, avente per scopo di mettere in luce il reale fondamento che la conoscenza stessa trova entro l’esperienza pura e a combattere le degenerazioni metafisiche che la imprigionano nelle astrazioni concettuali. In ragione di questa interpretazione dei compiti della filosofia, egli designa col nome di «empiriocriticismo» la propria proposta teorica. Le vedute sviluppate dall’austriaco Ernst Mach (1838-1916), scienziato e storico della scienza oltre che filosofo, sono affini a quelle di Avenarius. Come Avenarius, in Analisi delle sensazioni (1886) e Conoscenza ed errore (1905) Mach nega che la realtà consti di sostanze materiali e spirituali. La realtà è piuttosto un fluire spazio-temporale di dati di senso. I dati di senso sono infatti gli «elementi» che noi possiamo trovare alla base di tutte le entità materiali e spirituali riconosciute dal senso comune e dalla scienza. Nessuna di tali entità è dunque una 4 «sostanza» o una «cosa in sé», soggiacente alle qualità direttamente sperimentate, bensì solo un «complesso» di tali qualità stesse, e cioè un insieme di fenomeni. La conoscenza non può superare il piano dei dati e d’altra parte non ha bisogno di farlo: infatti, se i fenomeni non hanno dei fondamenti extrafenomenici, c’è un numero imprecisabile di relazioni funzionali, esprimibili da leggi più o meno facilmente memorizzabili, e talvolta anche formulabili matematicamente, che reggono la variazione coordinata dei fenomeni attraverso lo spazio e il tempo. Il concetto di «funzione» dovrebbe dunque prendere il posto di quello di «causa» nella descrizione della realtà. La sola persistenza che è dato di riscontrare è quella della connessione funzionale tra i dati stessi. Nella sua storia della meccanica, Mach insiste sulla irrilevanza scientifica dei presupposti metafisici, primi tra tutti lo spazio e il tempo assoluti, che Newton ha affiancato alle semplici correlazioni funzionali dei dati, nell’edificare la nuova scienza del movimento. Secondo Mach, è l’esigenza di prevedere le trasformazioni dell’ambiente per potere intervenire in esso, che ci spinge a notare i raggruppamenti di dati di senso che si presentano con maggiore frequenza. Il fatto è che il continuo dei dati di senso non comprende né complessi di dati assolutamente solidali né congerie di dati totalmente caotiche: gli elementi che compongono ciascun complesso variano, ma variano con diverso grado di regolarità. Noi registriamo mnemonicamente e designiamo attraverso un nome precisamente i complessi di dati che manifestano un più evidente coordinamento funzionale: sono questi infatti che riusciamo a prevedere nel loro comportamento in modo più agevole, e che ci offrono dunque le maggiori opportunità di esercitare un controllo sulla realtà. Anche per Mach, il pensiero ha una finalità di adattamento biologico ed è retto da un «principio di economia»: sistematizza concettualmente i dati di senso attraverso classificazioni e correlazioni, e, tra tutte le possibili sistemazioni concettuali, persegue ed elabora quelle capaci di convogliare il massimo di informazioni con il minimo di risorse concettuali; i sistemi teorici sono dunque convenzioni utilitarie e non rappresentazioni della struttura della realtà. Circa la natura degli elementi, Mach rifiuta ogni posizione dogmatica: come esempio di elementi, egli cita colori, suoni e altre qualità sensibili, e in generale ogni sorta di impressioni vissute, ma concede che ulteriori analisi potrebbero individuare dati di livello ancora più elementare. Nega comunque che la natura degli elementi possa essere qualificata come materiale o come spirituale, e si pronuncia espressamente a favore del «monismo». Egli infatti sostiene esplicitamente che gli elementi sono anteriori alla distinzione stessa di mente e 5 corpo: «un colore è un oggetto fisico fintanto che noi consideriamo, per esempio, la sua dipendenza dalle fonti luminose (altri colori, calore, spazio, etc.); ma se lo consideriamo nella sua dipendenza dalla retina, esso è un oggetto psicologico, una sensazione». I fenomeni non sono così di per se stessi rappresentazioni di un soggetto: essi preesistono al soggetto. Come il corpo, anche l’io è, per Mach, solo un complesso relativamente persistente di dati, e non una sostanza. In proposito Mach cita il saggista tedesco del XVIII secolo Georg Lichtenberg (174299), il quale aveva rimproverato a Cartesio di avere commesso una forzatura registrando il fatto del pensiero nella formula “Io penso” invece che con quelle impersonali “Si pensa”, “C’è del pensiero”. Quando osserviamo un lampo non presupponiamo che ci sia un soggetto che lampeggia. Mach scrive che l’esperienza dovrebbe essere considerata in modo altrettanto impersonale. Come il fenomenismo di Russell, il monismo fenomenista di Mach è agli antipodi di ogni dottrina idealistica del primato ontologico del soggetto. L’esperienza di Mach non ha affatto un possessore o una sorgente. Come esperienza senza un soggetto, d’altronde, la intende e la accetta Schlick, che, nel Novecento, porta l’eredità di Mach entro la tradizione dell’empirismo logico. Analogamente, e del resto per influenza di Schlick, come flusso di dati senza un soggetto intende l’esperienza anche Wittgenstein, tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, quando le sue posizioni si avvicinano a quelle del Circolo di Vienna. La tesi del carattere non-soggettivo dell’esperienza, che tutti i promotori del nuovo fenomenismo riconoscono come ineludibile corollario del fenomenismo stesso, tuttavia, finirà per retroagire sulle basi della stessa ontologia dei dati di senso, indebolendone la credibilità: è ancora esperienza un flusso di dati che non è esperienza di nessuno? Russell stesso, in particolare ne La conoscenza umana (1948), abbandonerà il fenomenismo, precisamente nella convinzione che il fenomenismo rigoroso dovrebbe risolversi in un paradossale solipsismo senza un soggetto. Bolzano e le origini del platonismo Come accettavano l’esistenza dei dati di senso, Moore e Russell accettavano anche l’esistenza di entità ideali di tradizione platonica. In ambiente analitico il platonismo si afferma soprattutto sotto lo stimolo dei problemi posti dall’interpretazione filosofica della matematica. La matematica della fine dell’Ottocento non era più solo la vecchia scienza delle figure e dei numeri, ma si trovava a trattare di generi via via più ampi e imprevedivilmente 6 diversi di oggetti: numeri reali, numeri complessi, e poi ennuple ordinate, vettori, insiemi, spazi topologici, funzioni, serie, grafi, etc. in una dilatazione progressiva di campo che non si sapeva bene come delimitare. A molti sembrava che il platonismo fosse la soluzione più lineare: la matematica tratta di un mondo di entità ideali, irraggiungibile per l’esperienza e accessibile solo alle peculiari procedure intuitive e dimostrative del matematico. Il boemo Bernhard Bolzano (1781-1848) può essere considerato il promotore di questo nuovo platonismo. L’indirizzo si afferma nella filosofia europea in polemica con lo «psicologismo» prevalente tra i logici di ispirazione positivista della seconda metà del secolo scorso. In particolare, l’inglese John Stuart Mill (1806-1873), che può essere considerato il maggiore tra i logici positivisti del secolo scorso, aveva inteso appunto la logica come descrizione dei procedimenti inferenziali caratteristici del pensiero umano, e dunque come una parte della psicologia. Bolzano rifiuta esplicitamente questo genere di approccio alla logica. Egli ricorda infatti che compito della logica non è elencare gli schemi secondo i quali il pensiero umano di fatto costruisce le inferenze, bensì gli schemi che conferiscono validità a tali inferenze. Il pensiero umano non segue sempre le leggi della logica: quando vi si adegua, produce inferenze corrette; quando non lo fa, inferenze scorrette. Compito della logica è indicare le regole secondo le quali gli uomini dovrebbero pensare, non quelle secondo le quali pensano. La logica non può essere così una parte della psicologia: la psicologia ha un’ottica descrittiva, la logica normativa; la psicologia studia comportamenti soggettivi, la logica procedure oggettive. È in questa prospettiva che Bolzano introduce gli assunti caratterizzanti del platonismo semantico. Una logica non psicologistica è possibile solo se vi sono delle strutture oggettive del pensabile. La logica, in particolare, non può avere a che fare col «giudizio», che è un atto soggettivo e personale di pensiero, ma con la «proposizione», che è il suo contenuto concettuale oggettivo, vero o falso secondo i casi, suscettibile di essere pensato da persone diverse, in momenti diversi e dunque attraverso atti di pensiero distinti, e di essere espresso da enunciati di lingue differenti. Non ha inoltre a che fare con la «rappresentazione», che è tanto soggettiva quanto la connessione di rappresentazioni costituente il giudizio, ma con l’«idea», che è il singolo concetto, inteso come elemento oggettivo della proposizione in sé. La logica non si interessa, per es., del fatto che Carlo, in ogni occasione in cui si trova a formulare i giudizi “Tutti gli uomini sono mortali” e “Socrate è un uomo”, si senta psicologicamente costretto a formulare l’ulteriore giudizio “Socrate è mortale”. Si interessa 7 invece delle condizioni oggettive che determinano la correttezza dei ragionamenti che Carlo e gli altri uomini sono in grado di costruire con i loro giudizi, indipendentemente dalle particolari rappresentazioni personali che essi possono convogliarvi, e dalle risonanze che lingue diverse possono associare ai medesimi concetti. Vi è infatti un’idea in sé della mortalità, che ha la sua identità oggettiva, malgrado il fatto che possa essere espressa da parole diverse come “mortale”, come “perituro”, o come “sterblich” (che le traduce in tedesco), e essere associata a rappresentazioni personali diverse; e questa idea può essere combinata con altre idee in varie proposizioni in sé, come per es. la proposizione vera che tutti gli uomini sono mortali, la quale ha una propria identità oggettiva e un proprio comportamento inferenziale caratteristico, al di là del fatto che essa possa essere asserita in occasioni diverse ed espressa in modi diversi, come per es. dall’italiano “Tutti gli uomini sono mortali” o dal tedesco “Alle Menschen sind sterblich”. Il linguaggio trova appunto il suo contenuto, o aspetto semantico, in questo complesso di pensieri oggettivi e indipendenti dalle forme espressive, complesso rappresentato dalle possibili connessioni delle varie idee in sé e delle varie proposizioni in sé. Frege: il linguaggio formale La tesi di Bolzano dell’esistenza di strutture semantiche oggettive ha una ampia risonanza nel mondo filosofico tedesco. La accolgono in primo luogo il tedesco Gottlob Frege (1848-1925), e, più tardi, per influenza di Frege, il tedesco Edmund Husserl e gli altri fenomenologi. La maniera in cui Frege rielabora il platonismo semantico di Bolzano ha alle spalle gli sviluppi che Frege stesso ha saputo dare alla logica già con Ideografia (1879). Qui, in primo luogo, Frege mette a punto il linguaggio il cui comportamento inferenziale è studiato dalla logica matematica, specificando la forma canonica che gli enunciati debbono assumere per essere inseriti negli schemi di inferenza previsti dalla logica matematica stessa. Egli si rende conto dei difetti che impediscono alla logica predicativa tradizionale di codificare al meglio le strutture del ragionamento ammesse dal pensiero scientifico e, specificamente, dal pensiero matematico. Elaborata entro la matrice originaria dell’essenzialismo aristotelico, infatti, la logica predicativa tradizionale concentra la sua attenzione sui concetti che esprimono proprietà e trascura quelli che esprimono relazioni, costruendo per questi ultimi interpretazioni che risultano forzate e non riescono a dare ragione di tutte le inferenze possibili con essi: il fatto è che la sillogistica tende a interpretare la relazione come una giustapposizione di proprietà godute dai relati singolarmente considerati. Le proposizioni che 8 hanno una struttura relazionale non si prestano ad essere analizzate come connessione di un concetto e di un solo oggetto. È controintuitivo per es. presentare la proposizione che Andrea è amico di Enzo come risultato dell’applicazione all’oggetto Andrea dell’astruso concetto essere-amico-di-Enzo. Una simile proposizione infatti pare chiamare in causa due oggetti e non uno soltanto: pare coinvolgere Enzo altrettanto che Andrea. Oltre tutto se si immagina che nella proposizione il predicato sia predicato di un unico soggetto, dalla proposizione che Andrea è amico di Enzo diviene impossibile dedurre la proposizione che Andrea è amico di qualcuno: il concetto essere-amico-di-qualcuno infatti viene ad essere distinto e indipendente dal concetto essere-amico-di-Enzo. La teoria classica della proposizione dunque non è in grado di dar conto di tutte la naturalissime inferenze consentite dalle relazioni. Bisogna perciò abbandonare la teoria classica e fare posto ai concetti di relazione accanto ai concetti di proprietà. L’incapacità di affrontare in maniera naturale il comportamento inferenziale delle relazioni aveva conseguenze particolarmente gravi nel campo del ragionamento matematico, dove le inferenze relazionali giocano un ruolo molto rilevante. Di fatto, anche per questo, i matematici avevano fatto sempre un uso assai limitato dei risultati della logica e avevano preferito confidare nella legittimità intuitiva di un corpo di schemi di ragionamento ben più ampio di quelli codificabili in forma sillogistica. Frege indica una via per superare questi difetti della logica predicativa tradizionale. Egli infatti abbandona la concezione ordinaria della struttura dell’enunciato - la concezione dell’enunciato come connessione di un soggetto e di un predicato attraverso una copula -, ed ammette entro il linguaggio canonico da lui elaborato predicati relazionali di diversa complessità (predicati monadici, diadici, triadici, etc.) che determinano enunciati applicandosi simultaneamente a più di un soggetto (i monadici a un solo soggetto, i diadici a due soggetti, i triadici a tre, etc.). Il linguaggio canonico di Frege include poi nomi che designano particolari oggetti. Ma include anche delle variabili, che permettono di fare riferimento a oggetti non specificati, cioè non determinati tramite un nome, come capita quando parliamo in generale di tutti gli oggetti di un certo tipo o diciamo che c’è un oggetto, senza nominarlo, che gode di una certa proprietà. Il linguaggio canonico fregeano include inoltre delle costanti logiche, cioè delle parole impiegate in ogni caso e in qualsiasi ragionamento, indipendentemente dalla materia specifica del discorso. Sono costanti logiche i connettivi, gli operatori, cioè, che consentono di costruire enunciati composti a partire da enunciati più semplici: la negazione “non ...” (che rovescia un 9 enunciato nel suo contraddittorio), la disgiunzione “... o ...”, la congiunzione “... e ...”, l’implicazione “se ..., allora ...”, l’equivalenza “... se e solo se ...” (che si applicano a coppie di enunciati, ed hanno un comportamento logico studiato già dai megarici e dagli stoici). Saranno più tardi correntemente indicati rispettivamente dai simboli ¬, ∨, ∧, →, ↔. Ma nel linguaggio canonico elaborato da Frege c’è anche un secondo genere di costanti logiche: i quantificatori, necessari per specificare il numero degli oggetti cui il predicato è riferito quando è applicato a variabili e dunque impiegato per compiere un riferimento indeterminato: quando facciamo uso di variabili in un enunciato, abbiamo infatti bisogno, affinché l’enunciato abbia un significato definito, almeno di specificare a quanti oggetti la variabile sia riferita. I quantificatori prendono il posto dei meno precisi indicatori di quantità della logica tradizionale (“ogni”, “tutti”, “alcuni”, “qualche”, “un”, etc.). Di particolare importanza risultano il quantificatore universale (“Per ogni oggetto x”, che traduce in maniera univoca parole come “ogni”, “tutti”, etc.) e il quantificatore esistenziale (“Esiste un oggetto x tale che”, che traduce in maniera univoca parole come “qualche”, “alcuni”, “un”, etc.). Saranno più tardi correntemente indicati rispettivamente dai simboli ∀ e ∃. Applicando un quantificatore, o, se il predicato è poliadico, un certo numero di quantificatori, a una formula costituita da un predicato e da variabili, le variabili stesse vengono vincolate, il senso della formula viene chiarito univocamente e si ottiene un enunciato di senso altrettanto definito che l’enunciato costituito da un predicato applicato a dei nomi. Così, una frase come “Nessuno ama tutti” dovrebbe essere resa in forma canonica con un predicato diadico “amare” – per brevità indichiamolo con A … …, con gli spazi vuoti da riempire con espressioni che si riferiscano a oggetti individuali –, applicato a oggetti indeterminati, dunque non precisati da un nome, ma espressi da variabili, e il numero di tali oggetti dovrebbe essere specificato da opportuni quantificatori: esattamente da due quantificatori, quanti sono i soggetti del predicato e quante sono dunque le variabili unite a esso. La sua riduzione in forma canonica potrebbe suonare: ¬ ∃x ∀y Axy, cioè “Non esiste un x, tale che, per ogni y, x ama y”. La forma canonica prevista da Frege dissipa tutte le ambiguità create dai pronomi indefiniti del linguaggio ordinario. Così, “Tutti gli uomini hanno un padre” può essere reso – indicando per brevità con P … … la relazione “essere padre di” – da ∀x ∃y Pyx 10 se si vuole ammettere, secondo il significato consueto della parola padre, che uomini diversi possano avere padri diversi; ma verrebbe reso da ∃y ∀x Pyx, con i quantificatori in ordine inverso, se si volesse intendere che c’è un unico padre di tutti gli uomini, come lo intenderebbe per es. chi impiegasse la parola padre in un senso religioso. L’ordine dei quantificatori è particolarmente prezioso in matematica per il chiarimento dei concetti fondamentali, si pensi al concetto di limite. Così, p.es., la nozione di limite finito di una funzione con argomento che tende a un valore finito lim f(x) = l x→a deve essere tradotta, per esprimere in modo rigoroso il concetto di Cauchy, con un’espressione contenente tre quantificatori: ∀ε ∃δ ∀x ( ε>0 ∧ δ>0 ∧ a–δ < x < a+δ ) → (l–ε < f(x) < l+ε ), un’espressione che ha un senso molto diverso da quella che invece iniziasse con ∃δ ∀ε … o con ∀δ ∃ε … . Frege mostra che in realtà un solo quantificatore è sufficiente per dotare il linguaggio di pieno potere espressivo: tutti i quantificatori possono infatti essere successivamente definiti a partire da un solo quantificatore assunto come primitivo. Egli introduce in particolare il quantificatore esistenziale e definisce il quantificatore universale tramite l’esistenziale e la negazione. Asserire che ∀x Px non è diverso infatti da asserire che ¬∃x ¬Px. Altri quantificatori di uso comune in matematica, p.es. ∃! – “esiste uno e un solo” –, possono facilmente essere definiti con l’uso dei due principali e di altri concetti come l’identità: ∃!x Px ↔df ∃x Px ∧ ∀y ( Py → y = x). Il linguaggio canonico adottato dalla logica matematica successiva è nella sostanza quello elaborato da Frege, che contiene variabili e costanti, e assume come costanti logiche connettivi e quantificatori, e come costanti non logiche nomi e predicati di varia complessità. Non ha fortuna invece il simbolismo ideato da Frege per esprimere tale linguaggio, che necessita di una scrittura su due dimensioni e risulta perciò eccessivamente macchinoso. Gli sarà preferito il simbolismo ideato dal matematico Giuseppe Peano (1858-1932) che consente di esprimere in modo più agevole le categorie linguistiche fregeane ed è adottato ancora oggi. 11 Frege: l’ontologia platonista Frege elabora la propria ontologia in Funzione e concetto (1891), Oggetto e concetto (1892) e Senso e riferimento (1892). Si ricollega al platonismo di Bolzano. Per lui le strutture individuate dalla logica hanno una portata ontologica: dato che esse sono connessioni di ciò che è oggettivamente pensabile, appartengono all’essere, anche se evidentemente non all’essere empirico; formano un «terzo regno» distinto tanto dal regno delle cose fisiche quanto dal regno degli atti soggettivi di pensiero. L’ontologia di Frege è ricavata dall’analisi del linguaggio. Secondo Frege, infatti, il funzionamento del linguaggio non può essere analizzato senza adeguate assunzioni ontologiche. Ogni espressione linguistica si caratterizza infatti per la circostanza di rimandare a un certo contenuto extralinguistico. A giudizio di Frege, tuttavia, il contenuto semantico dell’espressione è complesso e incorpora due generi distinti di rimando alla realtà extralinguistica: nel contenuto dell’espressione infatti dobbiamo distinguere il «riferimento» (Bedeutung, in tedesco) e il «senso» (Sinn, in tedesco), cioè, rispettivamente, la cosa indicata dall’espressione e il modo in cui, o l’aspetto sotto il quale, la cosa è indicata dall’espressione. Il pianeta Venere, per es., è il riferimento sia dell’espressione “la Stella del mattino” sia di quella “la Stella della sera”: con entrambe le espressioni infatti gli antichi indicavano l’oggetto celeste che noi abbiamo scoperto essere il secondo pianeta del sistema solare. Le due espressioni però hanno un senso diverso. Esse infatti indicano la medesima cosa, ma la indicano in modi diversi, ovvero sotto aspetti diversi: qualificandola cioè rispettivamente come ultimo corpo celeste a svanire nel mattino e come primo corpo celeste a brillare la sera. Tutte le espressioni comprensibili hanno un senso. Non tutte hanno però un riferimento: per es., sia “Harrison Ford” sia “Indiana Jones” hanno un senso e sono perciò entrambe comprensibili; ma solo “Harrison Ford” ha un riferimento. Frege pensa che la distinzione tra riferimento e senso sia resa necessaria dall’analisi dei giudizi di identità. Egli nota infatti che gli enunciati di identità hanno un valore informativo molto diverso e ritiene che se il solo rimando alla realtà delle parole fosse il loro riferimento tale diversità rimarrebbe inesplicabile. Consideriamo p.es. i due enunciati “Napoleone è il vincitore di Austerlitz” e “Napoleone è Napoleone”. Il primo veicola una conoscenza, il secondo no. Se le espressioni “Napoleone” e “il vincitore di Austerlitz” indicassero nella realtà solo il loro riferimento, indicherebbero la medesima cosa, e dunque i due enunciati non comunicherebbero nient’altro che il fatto banale che quella determinata cosa è se stessa: 12 nessuno dei due potrebbe avere un valore informativo. Se invece – pensa Frege – si distinguono senso e riferimento, allora si comprende perché il primo enunciato sia informativo e il secondo no: il primo infatti dice che due espressioni di senso diverso hanno il medesimo riferimento (cosa che talvolta si verifica, come in questo caso, talvolta no), il secondo dice solo che una certa unica espressione ha il riferimento che ha (cosa sicuramente vera, ma anche banale). Da platonista Frege pensa che riferimento e senso siano parimenti entità oggettive. Egli tuttavia ritiene essenziale distinguere due tipi di entità oggettive: le chiama rispettivamente «oggetti» e «funzioni», generalizzando in modo consapevole l’impiego matematico dei concetti di funzione, argomento e valore. Una funzione infatti, per Frege, non è necessariamente una operazione numerica. È una funzione qualunque relazione univoca a destra, qualunque relazione, cioè, tale da associare a un determinato elemento preso entro un insieme in cui la funzione è definita (dominio), non più di un unico elemento preso nello stesso o in un altro insieme (codominio), senza che abbia importanza la natura di tali elementi; anche, dunque, se tali elementi non sono numeri. Frege dunque chiama oggetti le entità «sature», e cioè le entità autosufficienti, complete in se stesse, capaci di autonoma sussistenza, o, come dice anche, capaci di essere indicate da un nome proprio; funzioni le entità «non sature», cioè le entità incomplete che si completano solo in connessione con altre entità. Il tre, per es., è un oggetto; il successore e la somma sono invece funzioni: il tre infatti è già una entità determinata; il successore e la somma non sono entità determinate, lo divengono solo quando vengono completate da altre entità, trasformandosi, per es., nel successore di quindici o nella somma di quattro e due. Le funzioni si applicano ad «argomenti» e assumono «valori»: argomenti sono le entità che saturano i posti vuoti della funzione; valori le entità determinate dalla funzione saturata. Col variare degli argomenti una medesima funzione può assumere valori diversi. Argomenti e valori poi possono essere individui, insiemi, coppie ordinate, ennuple, e ogni sorta di oggetti insiemistici, secondo la maniera in cui la funzione è definita. Ci sono funzioni che per essere saturate hanno come argomento individui, funzioni che hanno come argomento coppie, terne, o, genericamente, ennuple. Per es. il successore è una funzione ad argomento individuale, la somma una funzione che ha come argomento coppie di numeri. Idea centrale dell’ontologia di Frege è che i sensi delle espressioni siano non oggetti, ma concetti, e che il concetto possa essere inteso come un particolare genere di funzione. Il 13 concetto ha per sua natura un carattere predicativo. La proposizione, nel senso di Bolzano, infatti è determinata dal fatto che un certo concetto è predicato di certi oggetti. Il concetto potrebbe essere inteso allora, per Frege, come una funzione che assume come argomento gli oggetti che fungono da soggetto, generando proposizioni, e determinando, secondo i casi, una situazione di verità o di falsità; ovvero, secondo la terminologia che a partire da Frege diverrà corrente, potrebbe essere inteso come una funzione proposizionale. Il concetto è una funzione proposizionale che, col variare degli oggetti cui è applicata, assume come valore di volta in volta uno dei due «valori di verità»: il «vero» se la proposizione generata è vera, il «falso» se essa è falsa. Il concetto di coniglio sarebbe, p.es., la funzione proposizionale che, applicata ai vari singoli individui costituenti il mondo, determina il valore vero quando gli individui sono simpatici roditori dalle lunghe orecchie ghiotti di carote, del genere di Bugs Bunny, e il valore falso quando essi sono sassi, lucertole, dèi, e così via. Il concetto di padre sarebbe invece la funzione proposizionale che, applicata alle varie coppie possibili di persone, determina il vero quando il primo elemento della coppia è un maschio e il secondo è un suo figlio o una sua figlia, il falso altrimenti. Infatti, per Frege è fuorviante interpretare la proposizione come applicazione di un concetto ad una singola entità, come tende invece a fare la logica predicativa tradizionale, dogmaticamente attaccata all’idea che la proposizione abbia sempre una struttura soggettocopula-predicato. Egli, come ha spiegato nella sua costruzione del linguaggio formale, ammette concetti che sono funzioni con argomento individui, come essere italiano (concetti monadici o unari); concetti che sono funzioni con argomento coppie, come essere amico di (concetti diadici o binari); e così via senza limite prefissato (in una gerarchia di concetti che prendono come argomenti ennuple di ordine via via più elevato, o, come si dice talvolta, da crescente adicità o arietà). La proposizione stessa può essere considerata come un concetto limite: la funzione proposizionale degenerata 0-adica, ovvero un paradossale concetto ad argomento vuoto. Frege pensa la distinzione tra concetto e oggetto come rigorosa e assoluta: nessun oggetto è un concetto e nessun concetto è un oggetto. Perciò egli rifiuta la pretesa caratteristica di una parte del pensiero filosofico, ma anche di una parte del pensiero scientifico, soprattutto matematico, di ricavare gli oggetti che cadono sotto un concetto analizzando il concetto stesso, e cioè di dimostrare tramite procedure analitiche l’esistenza di oggetti. Una simile pretesa è per lui mal concepita perché concetti e oggetti sono tra loro eterogenei e dun- 14 que perché dall’analisi di nessun concetto si può mai stabilire se degli oggetti cadano sotto di esso e quanti eventualmente siano. Il concetto infatti può sempre risultare contraddittorio: tale dunque da non potersi applicare ad alcun oggetto. E l’unico modo di stabilire che il concetto non è contraddittorio è precisamente di esibire un oggetto che cada sotto di esso. Con Kant, ma per ragioni differenti da Kant, anche Frege nega che un giudizio di esistenza possa mai essere analitico. L’eterogeneità di concetto e oggetto ha anche altre conseguenze. Se la proposizione deve essere vista come un genere specifico di concetto, e non come un oggetto, essa non può essere identificata in particolare con l’oggetto che rappresenta il valore della funzione data dal concetto stesso. In effetti, i valori di verità di Frege, il vero e il falso, sono due veri e propri oggetti, anche se oggetti peculiari. Essi sono infatti i due oggetti-limite che segnano i confini dell’intero campo degli oggetti possibili: il vero è inteso da Frege in qualche modo come oggetto totale e il falso come oggetto vuoto. Frege ritiene che riferimento e senso possano sempre essere identificati con qualche particolare tipo rispettivamente di oggetto o di concetto. L’ordinaria analisi logica del linguaggio aveva distinto dai vari tipi di espressioni incomplete gli enunciati, cioè le espressioni suscettibili di dar luogo a un discorso di senso compiuto. Aveva poi individuato essenzialmente due classi di parole che si combinano tra loro a formare gli enunciati: i nomi, cioè le parole che svolgono la funzione di designare, ovvero di indicare un oggetto (tutti i nomi e in particolare i nomi propri); e i predicati, cioè le parole che svolgono la funzione di predicare, ovvero di qualificare un oggetto (gli aggettivi e i verbi, ma, in certi contesti, anche alcuni usi del nome). Frege spiega che l’eventuale riferimento di un nome proprio coincide con l’oggetto singolo da esso denominato e che il suo senso è il «pensiero», fisso e indipendente dalle associazioni soggettive di idee, che il nome comunica. Il nome proprio “Harry Potter”, p.es., è privo di un riferimento, perché il personaggio della Rowling non è mai esistito. Tale nome però ha un senso, e noi, infatti, lo comprendiamo. Il senso, che ci permette di comprendere il nome, è dato dal pensiero di certe caratteristiche individuanti, come essere un piccolo mago, essere sfuggito a Woldemort, essere grande amico di Ronald Weasley ed Hermione Granger, etc., cui pensano subito tutti coloro che hanno imparato il nome, indipendentemente da eventuali associazioni soggettive fatte di simpatie, antipatie o ricordi personali. Il senso del nome proprio, dunque, per Frege, è un concetto singolare, cioè una funzione proposizionale che dà il vero per uno e un solo argomento. Frege identifica poi il senso del predicato con la funzione che costituisce il concetto universale, e il suo riferimento 15 con la classe di tutti gli argomenti per cui il valore della funzione è il vero. Identifica infine il senso di un enunciato con la proposizione di Bolzano. Quanto al riferimento dell’enunciato, Frege lo identifica col valore di verità dell’enunciato stesso: egli arriva a dire che ogni possibile enunciato è solo un diverso nome, secondo il caso, del vero o del falso. Nella prospettiva di Frege, tutte le espressioni linguistiche sono pensate dunque come se fossero nomi: il nome proprio come nome del singolo oggetto, il predicato come nome di una intera classe di oggetti, l’enunciato come nome del vero o del falso. Per comprendere in particolare la scelta fregeana circa il riferimento dell’enunciato bisogna analizzare in maniera più precisa le nozioni di senso e di riferimento. Infatti, Frege considera senso di una espressione ciò che dobbiamo conoscere per potere impiegare l’espressione stessa e riferimento dell’espressione ciò che miriamo a conoscere tramite il suo impiego. Il senso è la via d’accesso alla nostra indagine, il riferimento il suo scopo. Tramite i nostri pensieri noi infatti miriamo a conoscere gli oggetti. Ma per Frege è evidente che nel caso dell’enunciato il nostro interesse conoscitivo è rivolto al valore di verità. Un tale punto di vista giustifica d’altra parte la scelta di presentare il vero e il falso come oggetti-limite. Infatti, dire che tutti gli enunciati veri hanno il medesimo riferimento, e che esso è il vero, è dire che il vero è l’oggetto che riassume ogni obiettivo possibile della nostra conoscenza; dire che tutti gli enunciati falsi hanno il medesimo riferimento, e che esso è il falso, è dire che il falso è l’oggetto che riassume ogni pericolo cui è esposta la nostra conoscenza. Ci sono poi anche degli assunti più generali nella filosofia del linguaggio di Frege che influenzeranno in modo cruciale gli sviluppi a lui successivi, quattro in particolare. In primo luogo, Frege assume che l’enunciato può avere un senso solo a patto che tutti i nomi propri che esso contiene abbiano un riferimento: non dice niente l’enunciato che parla di qualcosa che non c’è. In secondo luogo, Frege assume che il senso dei predicati può essere compreso solo passando per la comprensione del senso degli enunciati formati da quei predicati in congiunzione con i vari nomi propri: capisce il predicato “è rosso” solo chi capisce gli enunciati della famiglia “x è rosso” per le diverse possibili sostituzioni di “x”. In terzo luogo, egli lascia anche affiorare l’idea che il senso dell’enunciato sia costituito dalle sue condizioni di verità: comprendere un enunciato è per lui infatti sapere come dovrebbe essere fatta la realtà perché quell’enunciato possa essere vero; e comprendere una parola è conoscere il suo contributo alle condizioni di verità degli enunciati in cui essa compare. Infine, guida la teoria fregeana del contenuto semantico il principio di composizionalità: il contenuto di un’e- 16 spressione composta è determinato dal contenuto dei suoi componenti; la semplice forma di combinazione che caratterizza un’espressione composta, cioè, consente a chi conosce il contenuto delle parole che entrano in essa anche di individuare il contenuto dell’espressione complessiva. Il principio vale tanto per il senso quanto per il riferimento: Frege ritiene infatti che il senso di un’espressione composta sia determinato solo dal senso dei suoi componenti e che il riferimento di un’espressione composta sia determinato solo dal riferimento dei suoi componenti; non ci possono essere interferenze tra i due piani. Frege si rende conto che la sua teoria della composizionalità ha un punto debole. Infatti, se il principio di composizionalità si accorda in modo ovvio con la gran parte degli usi del linguaggio, esso sembra a prima vista incompatibile col funzionamento semantico dei «contesti obliqui» o «indiretti», cioè degli enunciati composti da un enunciato subordinato introdotto da un verbo che esprime il sapere, il credere, il giudicare o simili. È chiaro che nei contesti obliqui il valore di verità dell’insieme del discorso non è determinato solo dal valore di verità dell’enunciato introdotto da tale verbo: per quanto “2+2=4” e “Il numero atomico del berillio è 4” abbiano lo stesso valore di verità, e cioè il vero, non è scontato che abbiano lo stesso valore di verità enunciati composti come “Giuseppe sa che 2+2=4” e “Giuseppe sa che il numero atomico del berillio è 4”: Giuseppe infatti può sapere la prima cosa e non la seconda. Frege si rende conto che nei contesti obliqui il valore di verità è influenzato anche dalle proposizioni espresse dagli enunciati componenti, e non solo dal loro valore di verità. Propone perciò di superare la difficoltà identificando il riferimento dell’enunciato contenuto in un contesto obliquo con il senso che il medesimo enunciato avrebbe quando fosse impiegato da solo, e cioè con la proposizione espressa dall’enunciato. Russell: la teoria delle descrizioni L’ontologia elaborata da Russell alle soglie della Prima guerra mondiale si collega esplicitamente al complesso di problemi e di concetti messi in campo dall’ontologia fregeana. Russell riconosce infatti al pensiero di Frege un valore filosofico generale. Non ne accetta tuttavia la totalità dei contenuti e mira ad alleggerire l’impegno ontologico del platonismo. In particolare, già con la «teoria delle descrizioni» elaborata nel saggio Sulla denotazione (1905), egli combatte l’appesantimento che il platonismo aveva ricevuto a opera di Meinong e in particolare la stravagante ipotesi meinonghiana delle «entità non-esistenti». L’austriaco Alexius von Meinong (1853-1920) muoveva dal presupposto che il pensiero ha la capacità di 17 riferirsi distintamente a entità che sappiamo inesistenti nella realtà, come draghi e chimere, oppure addirittura impossibili, come i cerchi quadrati. Ora, chi pensa a un drago, magari per dire che non esiste, sta comunque pensando a qualche cosa, e non sta pensando alla medesima cosa cui sta pensando chi, sia pure per concludere che è impossibile, pensa a un cerchio quadrato. Se draghi, chimere e cerchi quadrati fossero niente, riteneva Meinong, risulterebbe inesplicabile la varietà di riferimenti di cui di fatto è capace il nostro pensiero. Dunque, concludeva Meinong, bisogna riconoscere che la sfera delle entità non coincide con quella delle semplici entità esistenti e neppure con quella delle entità semplicemente possibili. Le entità intese in senso estensivo postulate da Meinong non erano troppo lontane dai concetti e dai sensi di Frege, e la sua proposta ontologica era di un platonismo particolarmente radicale. Russell giudica però una pura contraddizione in termini l’idea di un’entità non-esistente: entità è appunto ciò che esiste. Per lui «la logica non può ammettere un unicorno più della zoologia». Elabora allora il concetto di descrizione per mostrare come sia possibile risolvere il problema filosofico posto da Meinong senza fare ricorso alla proposta teorica di questi, ma mantenendo due presupposti che gli paiono indiscutibili. In primo luogo, che gli enunciati che paiono chiamare in causa i cerchi quadrati, gli unicorni e simili hanno un senso, anche se quelle cose non ci sono: infatti noi comprendiamo benissimo un enunciato come “Gli unicorni hanno zoccoli”, cui possiamo assentire, ma anche un enunciato come “In Podolia vivono parecchi unicorni”, che giudichiamo falso proprio perché lo comprendiamo. In secondo luogo, con Frege, che un enunciato ha un senso solo se i designatori che in esso compaiono hanno un riferimento. La soluzione che consente a Russell di tenere assieme i due presupposti sarà di mostrare che quegli enunciati che paiono riferirsi agli unicorni, non hanno in realtà unicorni come riferimento. La soluzione del problema ha la forma seguente. Russell chiama «descrizioni» le espressioni che paiono riferirsi a una cosa specificandola attraverso le sue qualità: sono «descrizioni definite» quelle introdotte dall’articolo determinativo, come per es. “la capitale della Francia”; «descrizioni indefinite» quelle introdotte dall’articolo indeterminativo, come per es. “una capitale europea”. Russell nota, in primo luogo, che le espressioni che apparentemente si riferiscono a entità non-esistenti non sono mai nomi propri, cioè parole che indichino direttamente una qualche cosa, bensì sempre delle descrizioni; afferma perciò, in secondo luogo, che tali espressioni non hanno in realtà una funzione designativa, come i nomi, bensì solo una funzione predicativa; e mette in chiaro, in terzo luogo, che esse 18 comportano un riferimento esteso solo alle usuali entità esistenti. L’enunciato “L’attuale re di Francia è calvo” per es. non tratta di una entità determinata ma non-esistente – appunto l’attuale re di Francia. Tale enunciato va inteso piuttosto come una doppia predicazione indeterminata. Esso infatti, se indichiamo con C … la proprietà di essere calvo e con R … quella di essere attualmente re di Francia, equivale a ∃!x Rx ∧ Cx, esiste uno e un solo oggetto che è attualmente re di Francia e tale oggetto è calvo. L’enunciato pare riferirsi a entità non-esistenti, ma, come l’analisi dimostra, esso non parla che delle normali entità esistenti: quelle appunto cui si riferisce il solo designatore dell’enunciato, la variabile x, perché R e C non sono designatori, meno che mai nomi, bensì predicati. L’enunciato asserisce che tra le entità esistenti ne esiste esattamente una che ha la proprietà di essere adesso re di Francia e che tale entità è calva. Si tratta dunque di un enunciato falso, ma che non implica il controsenso in cui cade Meinong. È sensato perché parla di entità esistenti: non parla però di ciò di cui sembra parlare a prima vista (il fantomatico attuale re di Francia), bensì parla, in modo indeterminato attraverso la variabile quantificata che in esso compare, delle normali entità esistenti (tavoli, sedie, fiocchi rossi, presidenti della repubblica francesi, re e regine inglesi, e via dicendo). La proposta di Russell rappresenta un momento capitale nella storia dell’ontologia. È vero che essa non sarà accolta da tutti. Russell consegue comunque un risultato essenziale. Egli mette in evidenza il fatto che la struttura profonda dell’enunciato può non coincidere con quella superficiale, e che l’enunciato compiutamente analizzato può effettuare riferimenti e comportare predicazioni che non sono quelli apparenti. L’ontologia richiede dunque una analisi logica del linguaggio che non si identifica con la semplice analisi grammaticale. Russell: i nomi logicamente propri Guida Russell nella costruzione della propria versione dell’ontologia la convinzione che, al di là dell’apparenza grammaticale, la gran parte delle parole non logiche del linguaggio, aggettivi ma anche nomi, svolgano una funzione predicativa e non una funzione designativa. Non tutti i nomi grammaticalmente propri sono «nomi logicamente propri». Effettivo nome proprio è solo il termine che mostra da sé di avere un riferimento. Ora, nota Russell, per la maggior parte i nomi grammaticali equivalgono a descrizioni e non sono nomi logicamente propri. Un nome come “Socrate”, per es., per noi ha più o meno lo stesso 19 significato di “il maestro di Platone” o di “il filosofo condannato a morte nel 399 a.C.”: equivale a una descrizione. Non garantisce perciò da sé di avere un riferimento. Frege non ha indicato dei criteri per distinguere i nomi apparentemente propri dai veri nomi propri: egli infatti si è limitato a notare che i nomi propri della grammatica hanno sempre un senso, ma non sempre un riferimento. Russell pensa però che sia essenziale possedere dei criteri per operare tale distinzione. Senza di essi infatti è impossibile dire quali tipi di entità dovranno essere ammessi dall’ontologia e dunque elaborare dettagliatamente tale disciplina. La conclusione di Russell è che nome logicamente proprio non è in effetti nessuno dei nomi grammaticalmente propri, ma solo il pronome dimostrativo accompagnato dall’esibizione di una entità: solo parole come “questo” o “quello” associate all’intuizione immediata di una entità svolgono una effettiva funzione designativa, e cioè esibiscono il fatto di avere un riferimento. Le altre parole, se hanno un riferimento, equivalgono a descrizioni: hanno quindi un riferimento solo indirettamente, e che l’abbiano non è garantito dalla loro stessa forma logica, bensì da circostanze logicamente contingenti. Solo di alcune entità noi infatti abbiamo una «conoscenza diretta» (knowledge by acquaintance). Delle altre entità noi abbiamo soltanto una «conoscenza per descrizione» (knowledge by description). Conoscere Socrate, per es., è solo sapere, sulla base di un complicato procedimento inferenziale, perciò indiretto e sempre esposto al dubbio, che c’è un essere che è filosofo, maestro di Platone, condannato a morte nel 399 a.C.; e cioè, in definitiva, conoscere la verità di un complesso enunciato esistenziale, piuttosto che entrare direttamente in contatto con una entità. Invece conoscere, per es., la luminosità azzurrina che sperimento adesso, è entrare in contatto diretto e indubitabile con una entità, senza avere bisogno di conoscere preliminarmente la verità di alcun enunciato. La conoscenza per descrizione presuppone l’accertamento della verità di certi enunciati. La conoscenza diretta invece precede e rende possibile qualsiasi accertamento della verità di enunciati. Frege ha giustamente insegnato che gli enunciati hanno un senso solo se i designatori che in essi operano hanno un riferimento. Per Russell, i nomi logicamente propri, che in virtù della loro specificità logica garantiscono di possedere un riferimento e rendono possibile agli enunciati tutti avere un senso, devono identificarsi con le parole che indicano cose note per conoscenza diretta. Egli qualifica come conosciuti direttamente, e dunque come riferimento dei nomi logicamente propri, in primo luogo i «dati di senso», e cioè i dati immediati offerti 20 dall’esperienza, i particolari contenuti visivi, sonori, tattili, etc., sperimentati grazie ai sensi. Gli oggetti materiali, che postuliamo sulla base dei dati di senso immediatamente percepiti, sono invece conosciuti per descrizione. Un oggetto materiale non è che una complicata «costruzione logica» di dati di senso. Ma i dati di senso non sono le sole entità conosciute direttamente. Accanto alle entità particolari noi dobbiamo ammettere infatti anche degli universali, come le qualità e le relazioni che ineriscono ai dati di senso e li connettono tra loro. Anche gli universali sono conosciuti direttamente. Russell nota infatti che non tutta la conoscenza di verità può essere data solo dalla conoscenza diretta di entità particolari. Anche per conoscere un fatto assolutamente elementare relativo a dei dati di senso, noi abbiamo bisogno almeno di sapere che a quei dati di senso ineriscono certe qualità o che tra di essi sussistono certe relazioni: per conoscere delle verità bisogna dunque conoscere direttamente tanto dei particolari quanto degli universali. Russell: l’atomismo logico L’«atomismo logico» elaborato da Russell e da Wittgenstein costituisce l’esito ultimo di questa strategia russelliana di alleggerimento del platonismo. L’atomismo logico si differenzia dall’ontologia di Frege soprattutto per il tentativo di ridimensionare l’importanza semantica dell’idea del senso, spiegando il valore conoscitivo degli enunciati solo tramite il riferimento delle parole che compaiono in essi: ricordiamo che Frege aveva ritenuto necessario introdurre la distinzione tra riferimento e senso, proprio per spiegare come mai alcuni enunciati di identità avessero un valore informativo e altri no. Nell’atomismo logico gli enunciati hanno un senso, le parole che li compongono solo un riferimento. La dottrina assume il nome di atomismo logico perché rifiuta la concezione olistica di Hegel e dei neohegeliani britannici, secondo la quale «il vero è l’intero» e non ci sono verità parziali: Wittgenstein e Russell assumono invece che ci sia una pluralità di enunciati veri e che essi siano veri in virtù di condizioni di verità tra loro indipendenti, costituite da una pluralità di fatti separati che componendosi tra loro formano la realtà. Ne La filosofia dell’atomismo logico (1918-19), egli conclude che la significanza del linguaggio presuppone che ci sia una molteplicità di entità particolari logicamente indipendenti tra loro, connesse per mezzo di universali in una molteplicità di «fatti atomici» logicamente indipendenti tra loro. Questi fatti atomici sono rappresentati nel linguaggio da «enunciati atomici». Sono enunciati atomici in primo luogo gli enunciati particolari, 21 contenenti solo predicati con vario numero di argomenti e nomi logicamente propri. In secondo luogo sono enunciati atomici gli enunciati generali, che hanno variabili vincolate da quantificatori in luogo dei nomi logicamente propri. Essi non esprimono delle collezioni di «fatti particolari», bensì dei veri e propri «fatti generali». L’enunciato atomico è vero, se la connessione di parole da cui è formato corrisponde alla struttura formata dalle entità espresse da tali parole e costituenti il fatto; falso in caso contrario. I soli altri enunciati che godano di un senso precisamente definibile sono «enunciati molecolari» composti da enunciati atomici combinati attraverso i connettivi verofunzionali elencati da Frege: negazione, congiunzione, disgiunzione, implicazione, equivalenza. Secondo Russell, l’atomismo logico non fa altro che esplicitare le condizioni ontologiche minimali necessarie per comprendere il funzionamento del linguaggio quale è descritto dalla logica moderna. Wittgenstein: l’atomismo logico Nell’elaborazione dell’atomismo logico, Russell stesso si dichiara profondamente influenzato dalle idee suggerite dal discepolo e amico austriaco Ludwig Wittgenstein (18891951), idee da questi esposte poi in prima persona nel Tractatus logico-philosophicus (1921). È Wittgenstein a osservare che i connettivi fregeani sono delle «funzioni di verità», e cioè degli operatori che generano enunciati composti a partire da altri enunciati più semplici, in maniera tale che il valore di verità dei primi dipende esclusivamente dal valore di verità dei secondi. Wittgenstein concepisce l’ontologia come una ricerca intorno alle condizioni di possibilità del linguaggio inteso come «totalità degli enunciati». Egli pensa che nel linguaggio non vi possano non essere degli enunciati atomici, o «elementari», come preferisce dire, e cioè degli enunciati tra loro indipendenti che stanno a fondamento del senso di tutti gli altri: infatti, se il senso di ogni enunciato dovesse sempre derivare dal senso di altri enunciati, nessun enunciato potrebbe più avere senso; la catena della comprensione deve avere un inizio. Inoltre, perché l’enunciato possa in generale «raffigurare» la realtà, le parole dell’enunciato elementare devono «designare» gli elementi di essa: sviluppando una suggestione di Frege, Wittgenstein afferma che tutte le parole non logiche presenti nell’enunciato sono nomi, intende i predicati come nomi di qualità o relazioni, e sostiene che l’enunciato elementare non è che «una concatenazione di nomi», impiegata per raffigurare la concatenazione degli elementi della realtà, gli «oggetti». Che oggetti vi debbano essere Wittgenstein crede necessario ammetterlo, perché, con Frege e Russell, ritiene che gli enunciati abbiano senso 22 solo se i loro soggetti sono oggetti esistenti. Wittgenstein d’altra parte, contestando un’altra importante tesi di Frege, nega che la connessione di nomi che costituisce l’enunciato elementare formi essa stessa un nome. Egli accantona perciò la problematica fregeana del riferimento degli enunciati, e afferma che l’enunciato ha un senso, ma non un riferimento. Sulla scorta poi dell’idea russelliana che i nomi riconosciuti dalla grammatica sono associati ad un pensiero appunto perché essi non sono logicamente propri e cioè perché equivalgono a descrizioni, conclude simmetricamente che il nome ha un riferimento, ma nessun senso. Secondo Wittgenstein, in virtù della corrispondenza fissata dai rapporti di designazione convenzionalmente stabiliti tra i nomi dell’enunciato elementare e gli elementi della realtà, ogni enunciato elementare ha una «relazione interna» con uno «stato di cose»: enuncia cioè un possibile fatto. Lo «spazio logico» è l’insieme degli stati di cose, di quelli che sussistono, cioè i «fatti», e di quelli che non sussistono. Se lo stato di cose enunciato sussiste, e cioè se è un fatto, l’enunciato elementare è vero. Se non sussiste, e cioè se lo stato di cose non è un fatto, l’enunciato elementare è falso. Il «mondo» è la «totalità dei fatti». La verità o falsità dell’enunciato, che noi la conosciamo o meno, dipende dunque dal «confronto» di questo con la realtà, cioè dalla corrispondenza o non corrispondenza della struttura dell’enunciato con la struttura del fatto, e non semplicemente dalla struttura dell’enunciato. Con la sua tesi che verità e falsità dell’enunciato elementare dipendano dal confronto con la realtà, Wittgenstein non intende dire d’altronde che l’enunciato elementare è verificato o falsificato dall’esperienza, né suggerire che la realtà sia costituita da dati di senso ed eventualmente da universali, come aveva ritenuto necessario concludere Russell. La posizione di Wittgenstein è neutrale riguardo alla natura della realtà e non influenzata dalla preoccupazione epistemologica di individuare gli elementi della realtà che fondano l’intero edificio della conoscenza. Le sole conclusioni che Wittgenstein ritiene legittime circa gli oggetti sono che gli oggetti sono «semplici» e suscettibili di combinarsi in complessi; che ciascuno di essi deve la sua «natura» alle possibilità di combinazione che ha con altri tipi di oggetti; che, in virtù della loro semplicità, gli oggetti non sono generabili o distruttibili; che, dunque, ogni possibile mondo deve contenere i medesimi oggetti di quello reale, per quanto combinati diversamente. Wittgenstein dice che gli oggetti costituiscono la «sostanza» del mondo, ciò che in esso c’è di inalterabile: le sole cose che ci siano in ogni mondo possibile, in virtù della struttura dello spazio logico stesso. In una prospettiva più o meno esplicitamente spinoziana, egli 23 immagina infatti che ogni possibile enunciato, anche l’enunciato che tratta di cose transitorie, possa essere tradotto in enunciati dal valore di verità invariabile e cioè in enunciati che chiamano in causa solo entità definite in maniera non-temporale. Quanto alla semplicità degli oggetti, Wittgenstein ritiene necessario riconoscerla per una ragione che richiama le tesi di Russell: conformemente alla teoria russelliana delle descrizioni, egli pensa infatti che il senso di un qualunque enunciato non elementare sia garantito, quand’anche il suo soggetto grammaticale si rivelasse privo di un riferimento, dal fatto che tale soggetto ha comunque un senso, e che questo senso equivale a quello di una certa descrizione, analizzabile in termini di nomi logicamente propri: ogni ipotetico oggetto apparentemente designato da un nome grammaticale può essere scomposto dall’analisi in una combinazione di oggetti designati da nomi. Dunque il senso di tutti gli enunciati poggia sul fatto che vi sono dei nomi logicamente propri, e cioè delle parole che designano e hanno un riferimento garantito. Se il linguaggio ha un senso, ci devono quindi essere degli oggetti semplici, e cioè non ulteriormente scomponibili dall’analisi. Wittgenstein: il paradosso dell’ineffabilità della forma logica È essenziale notare che il punto di vista di Wittgenstein circa l’ontologia non si differenzia da quello di Russell solo a proposito della questione dei rapporti tra ontologia ed epistemologia, con un Wittgenstein che rivendica la neutralità epistemologica dell’atomismo logico e un Russell che ritiene viceversa di doverlo inquadrare nell’ambito di una metafisica fenomenista, da lui ritenuta essenziale per dar conto della genesi della conoscenza. Anche lo stesso Russell infatti finirà per distaccarsi dal fenomenismo. Il dissenso maggiore tra i due affiora piuttosto intorno a una diversa e più decisiva questione: la questione stessa dello statuto conoscitivo dell’ontologia. Centrale per definire il punto di vista di Wittgenstein è infatti una posizione assolutamente radicale, che Russell non condividerà mai: la tesi dell’ineffabilità della struttura logica che accomuna il linguaggio e la realtà, e, di conseguenza, la convinzione del carattere intrinsecamente aporetico dell’ontologia. Wittgenstein giustifica la propria posizione per mezzo di una riflessione intorno al rapporto di raffigurazione che sussiste tra l’immagine e la cosa raffigurata. Perché sussista un tale rapporto Wittgenstein afferma che ci deve essere una identità di struttura tra le due: l’immagine e la cosa raffigurata saranno certo diverse nella natura degli elementi da cui sono costituite, ma esse dovranno condividere almeno un medesimo insieme di relazioni. Un 24 quadro, per es., sarà costituito da molecole di tipo del tutto diverso da quelle che compongono il paesaggio rappresentato, ma dovrà condividere con esso almeno certi angoli e certi rapporti di misura. Non è necessario poi che la struttura comune sia di un tipo particolare. Una cosa non spaziale, per es. un’equazione, può anche essere raffigurata da un diagramma spaziale. È necessario però che ci sia in comune una qualche struttura. Wittgenstein chiama la struttura che di volta in volta è comune «forma della raffigurazione». Wittgenstein sostiene che anche l’enunciato è un’immagine: l’enunciato (elementare) raffigura un determinato stato di cose in virtù del fatto che la combinazione di nomi che costituisce l’enunciato replica la combinazione degli oggetti nello stato di cose. A motivo della flessibilità delle convenzioni che definiscono la sua forma della raffigurazione, il linguaggio è per Wittgenstein il genere supremo cui appartiene ogni immagine. La forma della raffigurazione propria del linguaggio come tale è dunque nient’altro che la forma minimale della raffigurazione che una qualsiasi immagine deve condividere con la realtà in generale e che la rende idonea a riprodurre lo spazio logico di tutti i possibili stati di cose: Wittgenstein la chiama «forma logica». Ogni immagine dunque è almeno «immagine logica dei fatti» e cioè «pensiero»: il pensiero infatti non è altro che l’enunciato dotato di senso in generale. Il cuore della posizione scettica di Wittgenstein sta nel seguente paradosso: che, mentre è sempre possibile raffigurare quella struttura specifica che costituisce una particolare forma della raffigurazione, è impossibile raffigurare il comune denominatore di ogni possibile forma della raffigurazione, e cioè la forma logica stessa; per fare questo infatti dovremmo uscire fuori dalla forma logica e dunque da ogni possibilità di raffigurazione. È impossibile dunque creare una disciplina capace di dar conto della logica: «la logica deve prendersi cura di sé»; la struttura comune del pensiero e della realtà «si mostra» da sé nel linguaggio chiarito dall’analisi, ma non può «essere detta», come se fosse una particolare combinazione di oggetti sussistente nel mondo accanto ad altre. Wittgenstein, con una reminiscenza dell’etimo (la parola greca mysterion, «pratica segreta», dal verbo myo, «stare chiuso»), chiama «il mistico» tutto ciò che appartiene alla forma logica, e che appunto può essere mostrato, ma non detto. La forma logica non è l’oggetto che fa da sfondo a tutte le possibili combinazioni degli oggetti. Essa non è affatto un oggetto. Le costanti logiche non devono quindi essere concepite come nomi di presunti elementi della forma logica: contro Frege e la sua ipotesi che i numeri siano entità logiche, Wittgenstein insiste sul fatto che non ci sono entità logiche: le costanti logiche sono simboli che permettono di creare enunciati composti, e che dunque attraverso le 25 descrizioni entrano nella definizione dei nomi del linguaggio ordinario e consentono ad essi di designare gli oggetti composti, ma esse, da sole, non designano alcunché. L’esistenza di leggi logiche non contrasta con ciò. La legge logica infatti è una «tautologia», cioè una frase che, concatenando le parole in una maniera che non è suscettibile di alternative e perciò di confrontarsi con i fatti, non dice niente. Al pari della «contraddizione», la legge logica non è un enunciato sensato: essa infatti non enuncia alcunché; l’enunciato deve costitutivamente essere suscettibile tanto di verità quanto di falsità. Come tutta la logica, anche l’ontologia è dunque una disciplina impossibile in linea di principio, l’atomismo logico è una teoria incapace di ricevere una sensata formulazione. Tutta la metafisica in generale, con la sua pretesa di raffigurare l’insieme della realtà, è per Wittgenstein una disciplina impossibile: prive di senso sono le sue formule. Prive di senso le sue domande, come, per esempio, se il mondo sia rappresentato da un soggetto o se abbia un’esistenza indipendente da qualsiasi rappresentazione. Nessuno – neppure l’idealista sostenitore del più radicale solipsismo – pretende che l’eventuale «soggetto metafisico» che si rappresenta l’intera realtà coincida con una particolare entità psicofisica, nessuno pretende che tale soggetto sia esso stesso un certo particolare frammento della realtà. Tutte le persone di buon senso concordano: il mondo non comincia con la nascita di alcuno tra i suoi ospiti umani e non finisce con la morte di alcuno di essi. Perciò il «soggetto metafisico» dell’idealismo «si contrae in un punto inesteso» ai margini del mondo e la tesi idealista va intesa come l’affermazione che l’intera realtà è rappresentata, senza che questa qualità di essere rappresentata possa essere intesa come l’essere rappresentata in qualche particolare raffigurazione o da qualcuno in particolare. Un’affermazione che risulta impossibile distinguere in maniera comprensibile dalla negazione che le contrappone il realista: la realtà non è nel suo complesso rappresentata. Dunque, realismo e idealismo, intesi nelle loro implicazioni, coincidono tra loro; la loro presunta opposizione è impossibile a dirsi. L’ineffabilità del soggetto, per Wittgenstein, si riflette subito in una parallela ineffabilità del valore. Infatti, il possesso di valore da parte di un oggetto non può essere un fatto. Tutti gli stati di cose infatti stanno sullo stesso piano, nessun fatto rivela di per sé una importanza particolare. Supponiamo, argomenta Wittgenstein, che sia a sua volta un fatto che certi fatti – diciamo f1 e f2 – siano buoni e altri – f3 e f4 – eticamente condannabili. Che cosa accadrebbe se io, che mi sto interrogando intorno al valore dei fatti, non riuscissi a trovare importante il fatto che f1 sia positivo e che f3 sia negativo. Avrebbe ancora senso dire che f1 è positivo e che f3 è 26 negativo, anche se tali valori non possono essere confermati dalla mia volontà? L’importanza è concessa alle cose solo dalla nostra volontà: la presunta importanza assoluta dovrebbe essere concessa da una volontà assoluta esterna al mondo. Ma un soggetto del mondo, come il soggetto che l’idealismo ha creduto di potere riconoscere dietro la realtà fenomenica, elude in linea di principio ogni possibilità di determinazione nel linguaggio. L’etica è dunque ineffabile: non può esserci una conoscenza etica. Wittgenstein dichiara che il presunto enunciato etico è privo di senso. In esso tuttavia, a giudizio di Wittgenstein, si esprime la fondamentale tendenza umana a trascendere i confini dell’esprimibile e ad avvertire il mondo come enigmatico. Il Tractatus stesso si riduce a un gesto filosofico di ostensione della forma logica, che non può essere condensato e codificato in un sapere, e che è inevitabile superare una volta che lo si sia compreso. «Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce prive di senso, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito.) Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere.» Il Circolo di Vienna: la critica convenzionalistica dell’ontologia Negli anni tra le due guerre mondiali, lo scetticismo di Wittgenstein nei confronti dell’ontologia trova una risonanza importante, se non propriamente una esatta riproposizione, nell’«empirismo logico» del Circolo di Vienna. Il Circolo si forma intorno al seminario tenuto a Vienna dal tedesco Moritz Schlick (1882-1936) a partire dal 1923, col nome ufficiale di Associazione Ernst Mach. Ne fanno parte i filosofi Friedrich Waismann (1896-1959) e Herbert Feigl (1902), il matematico Hans Hahn (1879-1934), il fisico Philipp Frank (1884-1966), lo storico Victor Kraft (1880-1975), il sociologo Otto Neurath (1882-1945), il giurista Felix Kaufmann (1895-1949). Hanno contatti occasionali col gruppo anche il giurista Hans Kelsen (1881-1973), nonché i logici Kurt Gödel (1906-1978) e Alfred Tarski (1901-1983). Dal 1925 i membri del Circolo tengono delle riunioni settimanali il giovedì sera. Nel 1926 entra a far parte del Circolo il tedesco Rudolf Carnap (1891-1970), allievo di Frege e da quell’anno istruttore di filosofia presso l’Università di Vienna. Nel 1926 il Circolo studia e discute il Tractatus di Wittgenstein. Nel 1929, viene pubblicata a firma di Neurath, Carnap e Hahn La concezione scientifica del mondo, manifesto programmatico dell’empirismo logico. Il Circolo di Vienna stabilisce legami con i filosofi di analogo orientamento che formano la Scuola di 27 Berlino, promossa dal tedesco Hans Reichenbach (1891-1953) con Carl Gustav Hempel (1905-1997). Insieme, a partire dal 1930, pubblicano la rivista “Erkenntnis”, diretta da Reichenbach e Carnap. Hanno inoltre contatti col gruppo, sebbene restino su posizioni autonome, l’austriaco Karl R.Popper (1902-1994) e l’inglese Alfred J.Ayer (1910-1989). Con Schlick, con Waismann, e più saltuariamente anche con altri membri del Circolo di Vienna, tra il 1927 e il 1932, ha degli incontri anche lo stesso Wittgenstein. Sulla base della concezione verificazionistica del significato, gli empiristi logici rifiutano ogni possibile metafisica, dunque anche la stessa metafisica dell’atomismo logico, e, in definitiva, tutta la problematica dell’ontologia. Come Wittgenstein, essi pensano che specificare i rapporti che sussistono tra il linguaggio e la realtà ecceda in linea di principio le possibilità interne del linguaggio stesso. A giustificazione di questa tesi, tuttavia, gli empiristi logici forniscono una ragione che, sebbene essi non ne siano del tutto consapevoli, è sostanzialmente diversa da quella indicata da Wittgenstein: il fatto è per loro che solo gli enunciati verificabili hanno un senso; la questione se al di là dei dati dell’esperienza vi sia una realtà indipendente dall’esperienza stessa, oppure la realtà si riduca ai dati di senso soltanto, eccede ovviamente i limiti di ciò che è verificabile entro l’esperienza; ogni questione ontologica è dunque di per sé priva di senso. Anche sulla questione del fenomenismo, l’evoluzione è interessante. Infatti, retroagisce sulle basi teoriche del fenomenismo lo stesso principio convenzionalista, che, esplicitamente in Avenarius e in Mach, accompagnava il fenomenismo fino dalle sue origini. Il fenomenismo infatti giudica reale solo il flusso dei dati di senso e considera i sistemi concettuali come convenzioni elaborate al fine di organizzare in maniera economica le nostre informazioni circa tale flusso. Il fatto è però che anche il fenomenismo è un sistema concettuale e non un dato, e che anch’esso dunque, al pari di qualsiasi altra teoria circa la struttura della realtà, potrebbe e dovrebbe essere considerato come una convenzione più o meno utile per organizzare la nostra esperienza, ma, propriamente, né vera né falsa. Un simile percorso di pensiero è appunto quello che segna la vicenda del fenomenismo entro l’empirismo logico. I maggiori esponenti del movimento muovono da posizioni che sono, come nel fenomenismo britannico e soprattutto in Russell, di ispirazione realista e di netta contrapposizione all’idealismo. Ma la vicenda dell’empirismo logico modifica tali posizioni iniziali. Reichenbach rimpiazza il realismo dogmatico del senso comune con un realismo inteso come semplice ipotesi empirica: l’esistenza di una struttura causale 28 indipendente dalla nostra mente spiega l’evidente successo delle nostre predizioni induttive con una credibilità che nessuna posizione idealistica è in grado di raggiungere. È tuttavia soprattutto Carnap a imprimere un nuovo orientamento al dibattito. Nella Costruzione logica del mondo (1928) Carnap infatti sostiene che tutti i concetti di interesse scientifico grazie ai quali conosciamo la realtà si lasciano risolvere in semplici rappresentazioni dell’esperienza immediata. Egli sottolinea il fatto che i concetti impiegati entro un certo ambito scientifico possono essere analizzati come «costruzioni logiche» di concetti appartenenti ad ambiti più elementari: che i concetti più complessi, cioè, possono essere sostituiti da opportune combinazioni degli altri, in modo tale che, senza la pretesa di riprodurre l’intensione dei primi, e cioè il loro senso, i secondi riproducano almeno la loro estensione, e cioè il loro campo di applicazione. In particolare, per Carnap, i concetti del «campo spirituale», usati dalle scienze sociologiche, possono essere riportati a quelli psicologici del «campo psichico altrui»: i concetti relativi a collettivi di uomini possono essere analizzati in termini di azioni e di condizioni psichiche dei singoli esseri umani che fanno parte di essi. A loro volta, i concetti psicologici possono essere riportati a quelli naturalistici del «campo fisico», interpretando comportamentisticamente ciascun fenomeno mentale come la disposizione a realizzare un determinato tipo di atti. I concetti delle scienze naturali, poi, possono essere definiti attraverso quelli del «campo psichico proprio», intendendo ogni espressione relativa a corpi come una costruzione logica di espressioni relative a dati di senso. Noi infine possiamo classificare i dati di senso senza ulteriori mediazioni grazie all’esperienza del « riconoscimento di similarità». Ora, d’altra parte, Carnap insiste sul fatto che una simile catena di procedimenti riduttivi ha un puro valore convenzionale, e che non deve essere considerata come una ricostruzione dei “veri” rapporti sussistenti tra i “livelli della realtà’: essa infatti vale solo come una possibile scelta «metodologica», utile soprattutto a esibire le basi empiriche che nei diversi campi scientifici dovrebbero orientare le nostre assunzioni, e non come una teoria «ontologica» riguardante la natura delle cose. Carnap non vuole affatto sostenere con il fenomenismo di Avenarius, di Mach e di Russell, che i dati di senso siano i costituenti ultimi di tutta quanta la realtà. Ritiene infatti che ogni teoria circa la struttura della realtà sia parimenti inverificabile e perciò priva di senso. La metafisica fenomenista è dunque per lui altrettanto inconsistente della metafisica materialista. Ciò che è legittimo, invece, è trattare il fenomenismo come una convenzione concettuale utile in particolare ai fini della ricerca 29 epistemologica, e assumerne il linguaggio, senza preclusioni per eventuali opzioni alternative: Carnap insiste sul fatto che il linguaggio materialista, che assume come primari i nomi di oggetti fisici, potrebbe essere altrettanto utile in vista di ulteriori scopi. Il suo è un «solipsismo metodologico», non una metafisica dei dati di senso. Carnap dichiara esplicitamente che nessun linguaggio deve essere escluso in linea di principio come linguaggio di base. Proclama il «principio di tolleranza» asserente che «in logica non c’è morale»: ogni linguaggio formale può andare bene; la questione non è di verità o falsità, ma solo di vantaggi o svantaggi pratici. Molti esponenti dell’empirismo logico si fanno convincere dalle considerazioni di Carnap del fatto che un fenomenismo accettabile dovrebbe avere carattere metodologico e non ontologico: primo tra tutti Schlick, che è il punto di riferimento riconosciuto della corrente. Anche Schlick infatti accetta la natura puramente convenzionale del linguaggio fenomenistico e riconosce come priva di senso l’intera controversia metafisica tra fenomenismo e materialismo. Carnap: la filosofia come sintassi logica del linguaggio Il punto è che Carnap pensa che il filosofo possa occuparsi solo di «sintassi logica» e non di ontologia: nella Sintassi logica del linguaggio (1934) afferma che il filosofo deve limitarsi a descrivere in un metalinguaggio la struttura sintattica del determinato linguaggiooggetto che ha liberamente scelto di elaborare, alla maniera in cui Hilbert ha descritto a livello metamatematico il linguaggio della matematica: specificandone il vocabolario, le regole per la formazione dei termini e degli enunciati, gli assiomi, le regole di inferenza. La filosofia può produrre chiarificazioni solo interne al linguaggio, e dunque, per come Carnap vede originariamente la questione, chiarificazioni di genere esclusivamente sintattico: ogni considerazione semantica è implicitamente metafisica, e dunque priva di senso. La sintassi logica permette anzi di dissipare le confusioni della metafisica. Una cosa infatti sono gli enunciati «sintattici», espressi in termini di categorie linguistiche, come per es. “Il termine “gatto” è un nome”, e una diversa quelli «oggettuali», espressi in termini di categorie non linguistiche, come per es. “Il gatto è un animale”. Ora, Carnap dice che gli enunciati della metafisica, i quali mirano a classificare oggetti, proprietà e relazioni, e a descrivere la struttura della realtà, sono enunciati «pseudo-oggettuali»: tali enunciati cioè presentano in termini di categorie non linguistiche degli assunti che riguardano in effetti le categorie 30 linguistiche; essi sono enunciati sintattici travestiti da enunciati oggettuali. Un enunciato pseudo-oggettuale come per es. “Il gatto è un oggetto” equivale infatti a “Il termine “gatto” è un nome”; uno come “Il nero è una proprietà” a “Il termine “nero” è un aggettivo”. Per eliminare la metafisica bisogna dunque passare dal «modo di parlare contenutistico», che si esprime in termini di enunciati oggettuali, al «modo di parlare formale» adottato dalla sintassi logica, che si esprime in termini di enunciati sintattici. La prospettiva dichiaratamente sintattica del primo Carnap è condivisa da tutto l’empirismo logico delle origini e non solo da esso. Un filosofo come John Wisdom (1904-1993) per es. difende sì la tecnica russelliana dell’analisi logica del linguaggio, ma lo fa anch’egli assumendo una prospettiva strettamente sintattica: spiegare la «costruzione logica» dei concetti del linguaggio è infatti analizzare i rapporti di riducibilità che sussistono all’interno del linguaggio tra differenti ambiti lessicali, non indagare rapporti di dipendenza che connettano presunti livelli della realtà. Wisdom contesta la compromissione dell’analisi logica col fenomenismo, una compromissione che a suo parere distorce le scoperte filosofiche tanto dell’empirismo classico quanto dello stesso Russell. Neurath: il dibattito sui protocolli L’empirismo logico tuttavia non si assesta definitivamente su queste posizioni: attraverso una decisiva opera di ripensamento, infatti, esso precisa ulteriormente le proprie posizioni circa la questione del fenomenismo e le arricchisce di nuove considerazioni. È promotore di tali ulteriori sviluppi soprattutto l’austriaco Otto Neurath. Innanzitutto, proprio allo scopo di fare risultare in maniera inequivocamente chiara la natura metodologica e non ontologica delle preoccupazioni dell’empirismo logico, Neurath suggerisce una ridefinizione dei termini della discussione. I filosofi hanno discusso in passato dei dati elementari che stanno alla base dell’edificio della nostra conoscenza: si sono chiesti se tali elementi di base siano dei dati di senso oppure degli oggetti fisici. Neurath propone di rendere chiaro che la discussione verte sul linguaggio da assumersi come primario e non sulla struttura della realtà, sostituendo al concetto di elemento della realtà quello di «enunciato protocollare»: l’empirismo logico non si interroga infatti circa la natura delle unità elementari che è possibile riscontrare analizzando la realtà, bensì circa la natura degli enunciati per mezzo dei quali registriamo le nostre osservazioni e che fungono da strumento per controllare empiricamente l’elaborazione delle teorie. L’empirismo logico si chiede, secondo Neurath, se gli enunciati 31 protocollari debbano adottare un vocabolario fenomenistico oppure un vocabolario fisicalistico: se essi, cioè, debbano contenere parole come “io”, “adesso”, “impressione visiva di rosso”, “impressione tattile di solidità”, etc., ossia termini esprimenti dati di senso, e avere dunque la forma “io adesso ho l’esperienza vissuta ...”; oppure se debbano contenere parole come “Otto Neurath”, “il giorno 31 marzo 1931”, “osservare”, “lancetta del manometro”, “indice del termometro”, etc., ossia nomi di cose, persone, posizioni e tempi del mondo pubblicamente osservabile, e avere dunque la forma “la persona ... nel momento ... nel luogo ... osserva lo stato di cose fisico ...”. Contro la predilezione di Schlick per il linguaggio fenomenistico, Neurath sostiene che il linguaggio protocollare dovrebbe essere fisicalistico. Solo il linguaggio fisicalistico infatti rende possibile l’intersoggettività che è necessaria alla ricerca scientifica. Il linguaggio fenomenistico infatti è un linguaggio essenzialmente privato ed egocentrico: prevede cioè enunciati che, se rivendicano il fatto di essere verificabili in maniera conclusiva, risultano esserlo però solo da parte di un unico soggetto. Il linguaggio fisicalistico invece consta di enunciati che non pretendono di esprimere un’evidenza immediata e irrevocabile, come non lo pretende in generale ogni pronunciamento che ecceda la presunta sfera privata della coscienza, ma che almeno sono pubblicamente controllabili. Il fenomenismo, anche il fenomenismo metodologico, a parere di Neurath, è una scelta teorica incapace di far fronte alle esigenze della concreta indagine scientifica. Il «dibattito sui protocolli» aperto dagli interventi di Neurath, divide profondamente l’empirismo logico, e contribuisce alla dissoluzione dei circoli di Vienna e di Berlino, che ne avevano rappresentato i centri originari di aggregazione. Carnap aderisce alle considerazioni di Neurath e riconosce la superiorità del fisicalismo, insistendo d’altra parte sul fatto che la scelta a favore del fisicalismo deve essere intesa, al pari della scelta fenomenista che aveva precedentemente suggerito, come scelta metodologica e non ontologica, e che essa dunque non equivale all’adesione a una metafisica materialistica. Schlick invece si oppone fermamente alla scelta fisicalistica di Neurath e continua a difendere il fenomenismo metodologico: vede infatti nel fisicalismo di Neurath una strategia filosofica gravida di pericoli; vi legge una rinuncia a commisurare la teoria scientifica a evidenze immediate e indubitabili, e, con ciò, ad assicurare alla scienza un fondamento incrollabile. Con la scelta fisicalistica, a giudizio di Schlick, Neurath finisce per vanificare l’idea stessa della scienza come impresa conoscitiva. 32 Wittgenstein: contro l’ipotesi del linguaggio privato La critica convenzionalistica del fenomenismo, sviluppatasi soprattutto all’interno dell’empirismo logico, sfocia infine nella successiva filosofia analitica in una contestazione generale dell’idea stessa di dato di senso. Divenuto evidente il fatto che il concetto di dato di senso è scarsamente utilizzabile allo scopo di ricostruire la struttura della conoscenza umana, si diffonde tra i filosofi del filone analitico il dubbio ancora più radicale che il concetto di dato di senso sia in se stesso poco consistente. È anche in questo caso Wittgenstein ad anticipare le direttrici della filosofia analitica. La sua critica dell’idea della mente come ambito di evidenze assolute e insieme private costituisce l’inizio della battaglia analitica contro il concetto del dato. Nelle Ricerche Filosofiche (postume, 1953), prendendo le distanze dal fenomenismo da lui stesso sostenuto nei primissimi anni Trenta, e accogliendo alcune considerazioni sviluppate anche da Neurath e da Carnap, Wittgenstein fa osservare come il presunto dato di senso sarebbe in linea di principio accessibile all’esperienza di un soggetto soltanto, e che dunque esso non potrebbe essere descritto entro un linguaggio pubblicamente comprensibile. Egli ritiene d’altra parte che un «linguaggio privato», comprensibile cioè solo da parte di una persona, sia intrinsecamente impossibile, perché incapace di dare senso in un qualsiasi modo alla distinzione tra uso corretto e uso scorretto delle parole. L’idea che tutto il linguaggio possa poggiare sul fondamento di un linguaggio elementare direttamente esprimente i dati di senso è quindi in se stessa un controsenso. La nozione di dato di senso viene ad apparirgli in definitiva solo una gratuita finzione filosofica ereditata dal positivismo. Sellars: contro il mito del dato Una critica radicale dell’idea del dato di senso viene elaborata anche dallo statunitense Wilfrid Sellars (1912-1989). Come Wittgenstein, se pure attraverso un differente percorso argomentativo, in Empirismo e filosofia della mente (1956) anche Sellars contesta la nozione della mente come sfera di evidenze private, nata con Cartesio e riproposta in varie forme da gran parte della filosofia moderna, fino alla teoria dei dati di senso e al fenomenismo. Secondo Sellars, i concetti ordinari dei fenomeni mentali sono nati per indicare le cause interne del comportamento: sono nati dunque per spiegare dall’esterno le azioni degli altri uomini piuttosto che per descrivere dall’interno i dati di una qualche propria esperienza immediata. Solo gradualmente essi hanno cominciato ad essere impiegati anche dai soggetti 33 stessi delle azioni per effettuare resoconti in prima persona della loro condizione interna. Tali resoconti in prima persona d’altra parte sono risultati nella pratica particolarmente affidabili per la spiegazione delle azioni, e in generale più credibili delle ipotesi esplicative formulate dalle altre persone. Il fatto che i concetti dei fenomeni mentali permettano di rappresentare la condizione interna delle persone tuttavia non significa, a giudizio di Sellars, che essi siano rappresentazioni di una condizione interiore e tanto meno di una condizione privata: le cause interne del comportamento degli uomini infatti sono i processi del loro sistema nervoso centrale, e dunque eventi che, sebbene poco facilmente ispezionabili, appartengono pur sempre alla sfera di ciò che è pubblicamente accessibile. Se il soggetto dello stato mentale ha un privilegio conoscitivo sugli altri, è solo perché si trova ad avere nei confronti del proprio stato mentale una posizione osservativa migliore di quella degli altri, un po’ come chi sorvola in aereo una regione è in grado di coglierne la struttura topografica meglio di chi vive sulla superficie del suolo. Inoltre, secondo Sellars, non si può sostenere che il pensiero elabori dei dati forniti dalla sensazione. È vero infatti che la sensazione ha un contenuto non meno del pensiero: il pensiero è pensiero di qualcosa, così come la sensazione è sensazione di qualcosa. Ma, mentre il carattere contenutivo del pensiero è di natura intenzionale, non è di natura intenzionale il carattere contenutivo della sensazione. Il fatto, a giudizio di Sellars, è che hanno natura intenzionale solo i fenomeni mentali che rimandano a proposizioni. Il pensare è un fenomeno intenzionale perché il contenuto del pensiero è sempre una proposizione: pensare a una determinata cosa è sempre pensare che tale cosa sia in un determinato modo o che abbia una determinata caratteristica. Questo però non è il caso della sensazione. Il contenuto della sensazione infatti, secondo Sellars, non è di natura «proposizionale», bensì «avverbiale»: avere la sensazione del caldo non è sentire che qualcosa è caldo, bensì sentire “caldamente”; è, in altri termini, avere una sensazione di una determinata qualità, e non sentire una certa qualità presente in una certa altra cosa. La sensazione dunque non può fungere da fondamento per le nostre credenze, come ritiene l’empirismo: essa infatti è sprovvista di quel contenuto proposizionale del quale abbisognano invece le credenze. Il sostenitore della teoria dei dati di senso è ancora prigioniero di questo mito empiristico della sensazione come sorgente dei contenuti del pensiero. Alla base della conoscenza, nella funzione di istanza di controllo per le nostre credenze, può esserci solo qualcosa che abbia esso stesso un contenuto proposizionale: c’è, in 34 particolare, il protocollo linguistico. Il protocollo linguistico tuttavia non si limita a esplicitare il contenuto della sensazione, ma lo elabora e lo interpreta, e dunque non può avere l’immediatezza della sensazione stessa. Il «mito del dato», come Sellars battezza la teoria dei dati di senso, è la gratuita certezza degli empiristi che possa esserci un contenuto dotato insieme dell’immediatezza della sensazione e della funzione fondante del protocollo. Sulla scorta di Wittgenstein e di Sellars, tutto un filone di pensiero analitico metterà in evidenza il ruolo attivo, e, in qualche misura, arbitrario delle convenzioni concettuali che reggono il linguaggio osservativo dei protocolli, rifiuterà l’idea di un linguaggio osservativo neutrale rispetto agli assunti teorici, e concluderà che l’osservazione stessa è « carica di teoria». Austin e Ryle: contro i dati di senso La denuncia delle incongruenze contenute nell’idea del dato di senso sollecita d’altra parte la filosofia analitica a ricostruire in maniera più aderente alla realtà la problematica della percezione. La teoria dei dati di senso sostiene che vero oggetto della nostra diretta percezione non è la cosa fisica collocata nello spazio, bensì il dato di senso solo interiormente accessibile. Il nuovo orientamento critico che si diffonde nella filosofia analitica smantella drasticamente la visione dell’esperienza percettiva assunta dalla teoria dei dati di senso. Nel libro Senso e sensibilia (postumo, 1962; ma elaborato tra il 1947 e il 1959), l’inglese John L.Austin (19111960) contesta in particolare l’«argomento dell’illusione», che i teorici dei dati di senso usano addurre a sostegno della loro posizione. Essi dicono infatti che le percezioni veridiche sono qualitativamente indistinguibili dalle percezioni illusorie: chi è vittima di un’illusione si trova, secondo loro, in uno stato mentale internamente non diverso dallo stato di chi ha un’autentica esperienza percettiva. Ma, continuano i sostenitori dei dati di senso, chi ha una percezione illusoria non percepisce un oggetto materiale: percepisce piuttosto un oggetto puramente interiore, un dato privato di senso. Ne consegue, secondo la teoria dei dati di senso, che l’oggetto diretto della percezione non può essere nemmeno nel caso della percezione veridica un oggetto materiale: oggetto diretto della percezione deve essere dunque sempre il dato di senso. Austin contrasta l’argomento dell’illusione, analizzando dettagliatamente i concetti di percezione e di illusione, quali sono espressi dal nostro linguaggio ordinario: fondandosi su tale analisi, egli contesta in particolare il presupposto che l’illusione possa essere trattata come un caso specifico di percezione, e che dunque anche nel caso dell’illusione ci debba 35 essere un oggetto percepito, appunto il dato di senso. L’illusione non è affatto una percezione. Ma se nell’illusione non c’è necessariamente un oggetto che venga percepito, allora non c’è alcuna ragione di ammettere in generale il dato di senso. Austin d’altronde ritiene altrettanto astratta e semplicistica l’idea che le cose percepite siano sempre classificabili come oggetti materiali. La nostra percezione porta piuttosto su di un numero indefinito di cose le più diverse tra loro: arcobaleni, immagini residue, figure sullo schermo cinematografico, voci, figure dei libri, immagini allo specchio, etc. Contro l’idea stessa del dato di senso polemizza poi anche l’inglese Gilbert Ryle (19001976), il quale sostiene che la teoria dei dati di senso si fonda tutta su di una confusione del concetto di sensazione con quello di osservazione. Secondo Ryle, infatti, il sostenitore di tale teoria immagina la sensazione precisamente come un particolare genere di osservazione: ritiene che la sensazione sia appunto osservazione di dati di senso; interpreta il senziente come se fosse un puro osservatore angelico di dati di senso, invece che un essere coinvolto dalla sensazione stessa. Con tale sua pretesa paradossale di spiegare «il fatto di avere sensazioni col fatto di non averne», secondo Ryle, la teoria dei dati di senso finisce nel controsenso, prospettando certo, come sostiene Austin, una rappresentazione distorta dell’oggetto della percezione, ma, prima ancora, fornendo una rappresentazione distorta della sensazione medesima. Carnap: questioni ontologiche interne ed esterne È solo in un secondo tempo, mentre peraltro si sta sviluppando la polemica analitica contro l’idea stessa dei dati di senso, che Carnap supera anche la visione dell’analisi filosofica come impresa strettamente sintattica. E anche questo ripensamento sarà gravido di conseguenze per l’ontologia. Riflettendo sulle scoperte semantiche del logico polacco Alfred Tarski (1902-1983), egli, come altri empiristi logici, accoglie l’idea che il filosofo possa legittimamente indagare l’aspetto semantico del linguaggio. Da notare, a riprova del fatto che la semantica tarskiana non è di per sé compromessa con la metafisica, che Carnap non ritratta affatto la denuncia del carattere intrinsecamente insensato della metafisica tradizionale e di ogni altro tentativo di descrivere la struttura della realtà. Contro la nuova prospettiva accolta da Carnap, Neurath si fa portavoce del punto di vista originario dell’empirismo logico e rifiuta come in se stesso metafisico ogni pronunciamento semantico. In Empirismo, semantica e ontologia (1950) Carnap replica alle accuse di Neurath distinguendo due generi differenti di 36 questioni ontologiche: da un lato, le «questioni interne», cioè quelle relative alle entità postulate all’interno della semantica dei nostri linguaggi; dall’altro, le «questioni esterne», cioè quelle relative all’adeguatezza dei nostri linguaggi stessi considerati nel loro complesso, dunque con le loro strutture sintattiche e insieme anche con i loro postulati semantici. È una questione di esistenza interna, per es., se entro l’aritmetica sia ammessa l’esistenza di numeri primi; o se entro il linguaggio cosale o fisicalistico, che ammette solo ciò che è esprimibile in termini di oggetti pubblicamente osservabili e di comportamenti fisici, si possa parlare di stati mentali come sensazioni o sentimenti. Una questione di esistenza esterna, invece, per es., se l’aritmetica sia una buona teoria; se il linguaggio cosale sia altrettanto legittimo, o addirittura più legittimo, del linguaggio dei semplici dati di senso. Secondo Carnap, discutere questioni ontologiche interne a un certo linguaggio è perfettamente sensato e la teoria di Tarski mostra la via per farlo correttamente: non compromette con la metafisica perché non obbliga a decidere se certe pretese entità esistano davvero, ma solo se esse siano riconosciute dal linguaggio che analizziamo. È invece insensato e caratteristico della metafisica discutere questioni ontologiche esterne. Le questioni esterne, correttamente intese, infatti, non sono materia di indagine teoretica, come pretende la metafisica, bensì di decisione pragmatica: stabilire se un certo sistema sintattico e semantico sia adeguato non è accertare se esso corrisponda alla realtà, ma solo decidere se esso sia uno strumento adatto a soddisfare le nostre esigenze. Quine: la teoria dell’impegno ontologico Nello spiegare come si risolvono le questioni interne, Carnap si richiama alla teoria dell’«impegno ontologico» elaborata dall’allievo statunitense Willard V.O. Quine (19082000). Ribaltando la tradizione dell’ontologia che aveva riconosciuto in linea di principio un riferimento a tutti i tipi di parole non logiche, in Su ciò che vi è (1948) Quine nega che tutte le parole non logiche siano ontologicamente impegnative, e cioè che tutte le parole non logiche pretendano di riferirsi a delle entità. Con la tradizione nominalistica, Quine insiste sul fatto che su aggettivi, verbi e avverbi non cade alcun impegno ontologico: possiamo infatti spiegare soddisfacentemente la funzione di queste parole anche senza presupporre che esse denotino proprietà, eventi o azioni. Parole di queste categorie sono «vere di» quelle entità che sono introdotte dai soggetti delle nostre asserzioni, ma non è necessario supporre che esse «si riferiscano a» ulteriori specifiche entità. Nell’enunciato “Enzo è un poeta”, per es., la parola “poeta” non denota la proprietà dell’essere-poeti, e cioè una entità universale da riconoscersi 37 accanto all’individuo Enzo; analogamente, in “Giuseppe medita” la parola “medita” non denota un’azione del meditare da aggiungersi all’individuo Giuseppe. Parole come queste non hanno affatto la funzione di denotare: piuttosto, esse sono rispettivamente vere di Enzo e di Giuseppe, e cioè si possono applicare agli individui Enzo e Giuseppe, che restano le sole entità chiamate in causa dagli enunciati considerati. Sarebbe sbagliato però, secondo Quine, ritenere che l’impegno ontologico ricada esclusivamente o anche primariamente sui nomi. Recuperando il senso di fondo della teoria delle descrizioni di Russell, Quine afferma che in realtà nessun nome gioca un ruolo essenziale nel linguaggio: ogni nome infatti può essere sostituito senza perdita di informazione da espressioni contenenti solo predicati e quantificatori. Così, per es., il nome “Pegaso” in “Pegaso è il cavallo di Perseo” può essere sostituito dal predicato “esserePegaso”, e noi possiamo riformulare l’enunciato in “Esiste uno e un solo x, tale che x èPegaso e x è il cavallo di Perseo”. Quine quindi conclude che l’impegno ontologico ricade solo sulle variabili vincolate dai quantificatori: «essere è essere il valore di una variabile vincolata». Ora, naturalmente, la teoria di Quine circa l’impegno ontologico di per sé è solo una teoria intorno alla corretta soluzione delle questioni di esistenza interne: non ci dice se le entità postulate da un certo enunciato ci siano davvero, ma solo quali siano le entità postulate da quell’enunciato. Come Carnap, Quine ritiene che le questioni esterne siano materia di decisione pragmatica, e cioè che esse si risolvano nella domanda se un certo linguaggio con i suoi postulati semantici sia o no desiderabile. Quine: la deflazione dell’ontologia Quine ha almeno due ordini di considerazioni pragmatiche da suggerire allo scopo di decidere circa la desiderabilità di un linguaggio. In primo luogo, egli riafferma il principio del rasoio di Ockham: a parità di altre considerazioni, deve essere preferito il linguaggio meno impegnativo ontologicamente. La teoria delle descrizioni ci insegna come fare a meno delle entità non-esistenti di Meinong. Un uso adeguato dei quantificatori ci permette di fare a meno degli universali. In secondo luogo, egli suggerisce che non dovremmo mai ammettere entità delle quali non conosciamo le condizioni di identità. Noi dovremmo cioè accettare un linguaggio solo se disponiamo di un metodo per determinare l’identità degli oggetti che introduce, stabilendo in quali circostanze essi si distinguano tra loro e in quali invece si identifichino: il linguaggio è un nostro strumento e non dovrebbe creare più problemi di 38 quanti non ci aiuti a risolvere. Quine condensa il suo suggerimento nello slogan: «Niente entità senza identità». Questa considerazione vale, secondo Quine, in particolare contro i linguaggi che postulano l’esistenza delle proprietà e contro quelli che introducono nella loro ontologia interna i possibili inattuati. Noi infatti non abbiamo nessuna chiara idea circa l’identità di entità del genere: sappiamo per es. che i triangoli equilateri si identificano con i triangoli equiangoli, ma non sapremmo dire se la proprietà essere-un-triangolo-equilatero coincida con la proprietà essere-un-triangolo-equiangolo o se esse siano semplicemente proprietà che ineriscono alle medesime cose; non abbiamo la minima idea di come decidere se il possibile Napoleone che vince la battaglia di Waterloo coincida o no col possibile Napoleone che muore a Parigi nel 1830. Quine manifesta la sua perplessità riguardo alla semantica dei mondi possibili elaborata da Kripke e da altri logici per chiarire l’interpretazione dei linguaggi modali, appunto in ragione del fatto che essa fa un uso essenziale dell’idea dei possibili inattuati. Tale perplessità coinvolge la nozione stessa di una verità necessaria. La maggior parte della precedente filosofia del linguaggio e Carnap in maniera esemplare avevano sostenuto infatti che la verità necessaria si risolve nell’analiticità, e cioè in una verità determinata dai rapporti tra i concetti costituenti l’enunciato. Quine mostra però l’insufficienza di questa soluzione, e sostiene che la logica dei linguaggi modali, in particolare quella dei linguaggi che ammettono la quantificazione, non viene giustificata se non si accetta una forma di essenzialismo, e cioè se non si riconosce che la necessità e la possibilità non si risolvono nei rapporti definitori dei concetti che noi impieghiamo per parlare delle cose, ma si radicano nell’essenza delle cose stesse che noi concepiamo per loro tramite. Ciò risulta chiaro in particolare dalla logica degli enunciati di identità. Come ha dimostrato Ruth Barcan Marcus, infatti, nella logica modale vale il teorema “Per ogni x e per ogni y, se x è y, allora necessariamente x è y’: gli enunciati di identità che contengono designatori associati a oggetti determinati debbono dunque essere considerati necessari. Ora, Quine nota appunto che tale comportamento modale dell’identità non si spiega in termini di verità a priori come le verità analitiche e di modalità epistemiche, cioè di necessità e contingenza interpretate rispettivamente come certezza indipendente dall’esperienza o ricavata da essa. Si considerino i seguenti esempi. Gli antichi battezzarono “Fosforo” la stella del mattino ed “Espero” la stella della sera. Battezzarono “acqua” una certa sostanza, e noi abbiamo battezzato “H2O” un certo composto di idrogeno e ossigeno. Ma ve39 rità come “Espero è Fosforo” e “L’acqua è H2O” sono a posteriori, cioè epistemicamente contingenti: esse infatti sono state conosciute solo per mezzo di scoperte empiriche. Non sono dunque analitiche. La logica modale ci dice però che noi dovremmo considerarle necessarie. Segno, a parere di Quine, che la necessità e la possibilità con le quali si compromette la logica modale sono più impegnative di semplici rapporti tra i nostri concetti. Giudicando l’essenzialismo una forma di metafisica tra le più irresponsabili e dunque una proposta filosoficamente inaccettabile, Quine trae la morale che tutta la problematica della modalità deve essere messa al bando. Nella rosa delle proposte ontologiche che Quine trova indesiderabili il posto di maggior riguardo va tuttavia riconosciuto alle intensioni: le presunte entità che la tradizione dell’ontologia, si pensi solo a Bolzano e a Frege, ha chiamato di volta in volta concetti, idee, sensi, significati, pensieri in senso oggettivo. Per Quine noi non dovremmo ammettere le intensioni perché neppure di esse possiamo chiarire le condizioni di identità. E non siamo in grado di chiarirne le condizioni di identità perché non abbiamo alcun criterio empirico per stabilire se due enunciati o due termini abbiano o no il medesimo senso. Come spiega nei Due dogmi dell'empirismo (1951) la natura olistica dei controlli empirici infatti, secondo Quine, comporta che qualsiasi enunciato preliminarmente accolto può essere rigettato in seguito, di fronte a nuove osservazioni empiriche, per ripristinare la coerenza d’insieme del patrimonio linguistico. Nessun enunciato è immune da revisione; dunque non ci sono verità analitiche all’interno del linguaggio e con ciò non siamo neppure in grado di stabilire presunte identità di significato tra espressioni linguistiche. Seguendo con coerenza tale linea di pensiero Quine invita inoltre i filosofi a sbarazzarsi del concetto husserliano di intenzionalità, che resta inesplicabile se non si ammettono delle entità suscettibili di fare da bersaglio ai possibili atti di pensiero, entità che non potrebbero che essere appunto le oscurissime intensioni. Quine: l’empirismo senza dogmi Ma il rifiuto delle intensioni retroagisce in Quine sull’originario impianto carnapiano delle problematiche ontologiche. Infatti, se non è possibile individuare enunciati analitici, non è possibile neppure distinguere tra questioni di esistenza interne ed esterne: se non ci sono enunciati analitici, non c’è niente che possa rappresentare l’ossatura concettuale di un certo sistema linguistico e delimitarne l’identità, tracciando un confine tra ciò che fa parte degli assunti interni di quel sistema e ciò che riguarda il rapporto tra quel sistema stesso e le altre 40 parti del nostro patrimonio conoscitivo. Perde dunque ogni fondamento la distinzione carnapiana tra procedure teoretiche interne al sistema linguistico, miranti a stabilire che cosa il sistema assuma come esistente, e procedure pragmatiche esterne, miranti a sostituire il sistema stesso con un sistema che faccia diverse assunzioni: poiché tutte le decisioni sono guidate solo flessibilmente dall’esperienza, di qualsiasi decisione si deve dire che ha una importanza conoscitiva e insieme che incorpora considerazioni di semplicità e comodità. È fuorviante quindi affermare che, mentre la metafisica azzarda un impegno ontologico assoluto, la scienza si limita a un impegno ontologico solo relativo: scienza e metafisica, ma anche scienza e mito, e tutte le altre imprese intellettuali umane, appartengono al medesimo piano epistemologico. Quine: la relatività ontologica L’empirismo radicale di Quine invita allo scetticismo nei confronti delle intensioni. Esso tuttavia invita a un atteggiamento perlomeno disincantato anche nei riguardi del riferimento. Un tale atteggiamento d’altronde non è se non l’altra faccia del rifiuto della distinzione tra questioni ontologiche interne ed esterne. Quine infatti arriva alla conclusione che non è possibile dire che cosa costituisca il riferimento dei termini di un certo linguaggio in assoluto e senza presupporre lo sfondo di un qualche patrimonio culturale. Non ha senso parlare dei postulati ontologici di un certo linguaggio: ogni descrizione dei postulati ontologici di un certo linguaggio è relativa al sistema culturale all’interno del quale noi stiamo operando, potrebbe essere diversa se noi ci trovassimo a operare entro un diverso sistema culturale, e non ha senso dire quale tra le diverse possibili descrizioni sia quella giusta. C’è una «relatività ontologica»: se tutte le questioni ontologiche sono pragmatiche, e dunque in un certo senso esterne, esse sono anche tutte in un certo senso interne, e dunque relative. Quine raggiunge questa conclusione riflettendo sui problemi che incontrerebbe nell’individuare il riferimento dei termini di un determinato linguaggio un linguista che si trovasse in una situazione di «traduzione radicale», e cioè un linguista che non condividesse nemmeno in parte la cultura di coloro che parlano il linguaggio che egli cerca di tradurre, perciò non potesse avvalersi di informazioni collaterali sulle credenze dei parlanti, ma dovesse contare solo sull’osservazione empirica relativa alle parole che vengono pronunciate nei differenti contesti d’uso. In una situazione di traduzione radicale, non tutto sarebbe ugualmente 41 problematico. Bisogna distinguere innanzitutto tra enunciati con un valore di verità che varia in dipendenza dal contesto di emissione (come per es. “Guarda, un coniglio!”) ed enunciati permanentemente veri o permanentemente falsi (come per es. “2+2=4”, “2+2=5”, “Napoleone muore a Sant’Elena nel 1821” o “Napoleone muore a Parigi nel 1830’). La traduzione dei primi presi nel loro complesso non presenta problemi maggiori di quelli presentati da qualsiasi ipotesi empirica da confermare induttivamente. Immaginiamo, come propone Quine, che all’apparire di un coniglio il parlante indigeno che stiamo osservando esclami “Gavagai!”. La nostra ipotesi sarà che la frase “Gavagai!” nella lingua dei nativi equivalga alla nostra “Un coniglio!”, “Guarda, un coniglio!” o simili. È un’ipotesi che potremo controllare ed eventualmente correggere con ulteriori osservazioni del comportamento linguistico dei nativi. Presenterebbe invece una difficoltà insuperabile di genere differente la traduzione dei singoli termini impiegati negli enunciati, anche quando questi sono enunciati con valore di verità variabile secondo il contesto. Il termine “gavagai” impiegato nella frase esclamativa sopra riferita equivale al nostro “coniglio”? oppure a “parti non separate di coniglio”, o a “stadio temporale di coniglio”, o a “spirito del coniglio”, oppure a “pelliccia di un coniglio vivente”? Non sapremmo dirlo: è chiaro infatti che nella stessa situazione reale in cui compare un coniglio, compaiono anche delle parti non separate di coniglio, uno stadio temporale di coniglio, lo spirito del coniglio e la pelliccia di un coniglio vivente. Il medesimo comportamento linguistico si presta a un numero illimitato di diverse interpretazioni: non possiamo mai dire come il parlante analizza la situazione concreta nella quale si trova a pronunciare gli enunciati che noi abbiamo imparato a tradurre nel loro insieme, e cioè quali generi di entità componenti egli riconosca presenti nella situazione. La traduzione radicale è dunque intrinsecamente indeterminata. E non ha senso perciò parlare del riferimento di un termine in assoluto, come se fosse qualcosa che è associato al termine preso in se stesso e che può essere determinato indipendentemente dallo sfondo culturale entro cui si svolge l’interpretazione del linguaggio. Davidson: la struttura di una teoria dell’interpretazione Va osservato peraltro che, proprio muovendo dalla discussione quineana del problema della traduzione radicale e accettando anche la conclusione che esso non ammetta soluzioni libere da decisioni pragmatiche, lo statunitense Donald Davidson (1917-2003) ha elaborato un importante approccio al problema dell’interpretazione. Davidson riprende l’idea di Frege che 42 il senso dell’enunciato sia dato dalle sue condizioni di verità. Ora, la semantica di Tarski spiega come descrivere le condizioni di verità per gli enunciati di un certo linguaggio: indicando ricorsivamente le condizioni di verità per gli enunciati complessi a partire da quelle per gli enunciati elementari. D’altra parte, osserva Davidson, una descrizione elaborata secondo i canoni indicati da Tarski potrebbe svolgere una funzione diversa da quella di teoria della verità che Tarski stesso le assegna: invece di intenderla come una teoria che caratterizza gli enunciati riconosciuti come veri presupponendo che i loro termini dispongano di un’interpretazione entro il metalinguaggio, potremmo intenderla come una teoria che spiega come i loro termini debbano essere interpretati nel metalinguaggio, e cioè come possano essere tradotti nel linguaggio che noi comprendiamo, presupponendo che noi sappiamo quando gli enunciati sono veri. Ma anche nel caso di una situazione di traduzione radicale, a giudizio dello stesso Quine, è possibile stabilire quando gli enunciati sono giudicati veri dai parlanti. Davidson conclude perciò che la teoria tarskiana della verità per un determinato linguaggio può automaticamente essere capovolta in una teoria dell’interpretazione di quel linguaggio. La soluzione dei problemi di traduzione radicale conseguibile per questa via d’altra parte è sempre empirica e come tale soggetta a un controllo soltanto olistico: essa dunque può essere via via confermata o smentita solo nel suo insieme dal comportamento, linguistico e non, dei parlanti. E si tratta anche, e soprattutto, di una soluzione che riconosce la presenza nella semantica di un’ineliminabile componente di scelta pragmatica. Le teorie dell’interpretazione astrattamente possibili per un certo linguaggio sono infatti illimitate, stabilire un’interpretazione impone di sceglierne una e una teoria è capace di funzionare come un’autentica interpretazione solo se è scelta conformemente al «principio di carità», e cioè solo se attribuisce al parlante il maggior numero possibile di credenze che l’interprete stesso considera vere: in altri termini, solo se risponde il più possibile all’imperativo pragmatico di facilitare l’integrazione del punto di vista del parlante con quello dell’interprete. Davidson: contro l’idea stessa di uno schema concettuale Davidson è arrivato alla conclusione che in ogni interazione linguistica si svolge un lavoro di interpretazione, e che dunque non ha senso parlare di una pluralità di lingue distinte concepite come patrimoni condivisi da specifiche comunità di parlanti che non hanno necessità di interpretare reciprocamente i rispettivi atti linguistici: non esistono infatti comunità linguistiche internamente trasparenti e non esistono perciò le lingue; esiste solo il 43 linguaggio, inteso come generale capacità umana di capire e di farsi capire tramite processi di interpretazione. In Sull'idea stessa di uno 'schema concettuale' (1974) Davidson elabora un celebre e discusso argomento, per mostrare l’incoerenza dell’ipotesi stessa di una pluralità di lingue concettualmente intraducibili. Secondo Davidson, infatti, innanzitutto, non può darsi una lingua completamente intraducibile nella nostra, perché, se noi ci trovassimo nella totale impossibilità di comprendere il comportamento verbale di determinate persone, finiremmo per non avere neppure motivo di identificarle davvero come persone, e perciò per attribuire loro un qualsiasi linguaggio. D’altra parte, non può essere ammessa una intraducibilità solo parziale, perché, secondo la metodologia della traduzione, il fatto che tutte le ipotesi di traduzione già escogitate per un certo segmento del linguaggio straniero risultino implausibili dimostra solo la necessità di cercare ulteriori ipotesi e non prova affatto la definitiva intraducibilità di quel segmento del linguaggio. Da questo argomento Davidson trae la prima conclusione che non ha senso parlare di schemi concettuali alternativi: infatti, ci sarebbero degli schemi concettuali alternativi solo se potessero esserci dei linguaggi mutuamente intraducibili. Fondandosi su tale prima conclusione, egli trae poi la conclusione ulteriore e più drastica che non ha senso neppure continuare a distinguere uno schema concettuale e un contenuto concettualizzabile: infatti, avrebbe senso farlo solo se il medesimo contenuto potesse essere concettualizzato entro schemi diversi; se non sono possibili più schemi concettuali, non ha senso neanche parlare di un singolo schema concettuale. Secondo Davidson, dobbiamo dunque abbandonare l’idea che ci sia un contenuto rappresentabile come il mondo o l’insieme dei dati grezzi di esperienza, e che la nostra conoscenza consista nell’organizzare tale contenuto tramite i concetti. Nell’intento di liberalizzare compiutamente l’empirismo, Quine ha rifiutato come «dogmi non empirici» le due idee dell’analiticità e della integrale riducibilità empirica del contenuto di ciascuna teoria. Davidson prosegue l’opera quineana di demistificazione, affermando che la distinzione tra schema concettuale e contenuto concettualizzabile rappresenta solo un «terzo dogma» arbitrario. Egli fa notare, tuttavia, che, abbandonando tale distinzione, come senz’altro dobbiamo fare, veniamo ad abbandonare del tutto anche l’empirismo stesso, perché rinunciamo a ogni rapporto con l’idea che l’esperienza faccia da stabile punto di riferimento per la nostra attività concettuale. 44 Goodman e Putnam: l’autoconsunzione del realismo Emerge poi sempre più evidente il fatto che precisamente ciò che rende insostenibile un relativismo radicale rende anche privo di senso il realismo che è stato originariamente contrapposto al relativismo. Come ha lucidamente visto Davidson, non ha senso l’idea di uno schema concettuale puro e indipendente dagli altri, ma non ha senso neppure l’idea di un contenuto concettualizzabile puro e indipendente dai concetti. Non ha senso l’idea di una realtà preconcettuale. Il pensiero dello statunitense Nelson Goodman (1906-1998) rappresenta un esito conseguente e consapevolmente dissacratore di questa linea di pensiero. Riprendendo alcune suggestioni dell’idealista neokantiano tedesco Ernst Cassirer (18741945), Goodman descrive i diversi schemi concettuali scientifici, artistici, religiosi, etc., come istitutivi di differenti «versioni del mondo», e parla del pensiero come di una attività di «costruzione di mondi» (world-making, in inglese). La sua posizione d’altra parte non è, a rigore, di carattere idealistico come quella di Cassirer. Il senso ultimo della posizione di Goodman è infatti quello stesso della quineana relatività ontologica: che cioè è sterile la pretesa di risolvere le questioni ontologiche in assoluto e indipendentemente dallo schema concettuale al cui interno ci troviamo. Il processo di autoconsunzione del realismo emerge con chiarezza dalla parabola filosofica dello statunitense Hilary Putnam (1926-). Putnam infatti, rettificando le proprie posizioni iniziali e avvicinandosi a quelle di Goodman, o, almeno, reinterpretandole, finisce per promuovere una polemica assai acuta contro il «realismo metafisico», e cioè appunto contro la tesi dell’esistenza di una realtà indipendente dagli schemi concettuali. Putnam osserva che, se tale tesi fosse corretta, anche la teoria scientifica migliore e più conforme a tutti i nostri criteri metodologici potrebbe dopo tutto non corrispondere alla realtà: credere in una realtà indipendente dal nostro pensiero è infatti credere che una cosa sia la persuasività del pensiero stesso e un’altra la sua verità; e cioè credere che ogni nostra struttura di pensiero, per quanto internamente convincente possa sembrare, sia comunque suscettibile di essere falsa. Ma una simile eventualità è inintelligibile. Noi infatti non riusciamo a farci alcuna idea di che cosa possa essere una credenza perfettamente coerente con tutte le evidenze empiriche e con tutti i requisiti teorici e insieme non corrispondente alla realtà: la nostra idea della corrispondenza alla realtà si risolve in concreto nell’idea dell’accordo con i consueti criteri di accettabilità razionale. 45 Putnam illustra la sua critica del realismo metafisico tramite un argomento che richiama, sia pure per capovolgerla, l’ipotesi cartesiana del genio ingannatore. Il realismo metafisico ritiene che non ci sia nessuna connessione necessaria tra la rispondenza di una opinione ai nostri criteri di accettabilità razionale e la sua corrispondenza alla realtà. Per il realismo metafisico è dunque possibile che tutte le nostre opinioni apparentemente più credibili siano false. È possibile in particolare che non ci siano affatto i tavoli, le sedie e tutti gli altri oggetti che crediamo di vedere intorno a noi; nella sua ottica è possibile per es., argomenta Putnam, che noi siamo solo dei cervelli mantenuti artificialmente in vita da fantascientifici neuroscienziati in vasche piene di sostanze nutrienti, e che l’illusione della vita ordinaria sia prodotta in noi tramite qualche sapiente stimolazione elettrochimica delle nostre terminazioni nervose. Ma Putnam obietta che una simile ipotesi è incoerente. Degli esseri che si trovassero davvero nella condizione descritta, infatti, con parole come “tavolo”, “sedia”, ed anche “vasca” e “cervello”, non potrebbero intendere le stesse cose che intendiamo noi, perché non avrebbero alcun tipo di rapporto reale con le cose del nostro mondo e non avrebbero dunque neppure potuto istituire alcuna relazione di riferimento tra le parole del loro linguaggio e tali cose stesse. Potrebbero solo intendere le cose con cui hanno effettivamente dei rapporti, e cioè le apparenze percettive di cui hanno esperienza: le apparenze-di-tavolo, le apparenze-di-sedia, le apparenze-di-vasca, etc. Così, un essere simile che dicesse “Davanti a me c’è un tavolo”, non potrebbe se non intendere che sperimenta una apparenza-di-tavolo. Supponiamo che questo essere subisca il fascino del realismo metafisico. Supponiamo che egli sospenda la sua credenza di essere seduto su una sedia, davanti a un tavolo, in sereno ozio filosofico, e che formuli la congettura di essere in realtà solo un cervello chiuso in una vasca. Il punto è che un simile essere, dicendo “Sono un cervello chiuso in una vasca”, potrebbe solo intendere di essere una apparenza-di-cervello apparentemente-chiuso in una apparenza-di-vasca. Ma tale congettura sarebbe falsa. Egli infatti per ipotesi non sarebbe una apparenza-di-cervello, bensì una apparenza-di-uomo-intero; e non sarebbe affatto apparentemente-dentro una apparenzadi-vasca, bensì apparentemente-seduto su di una apparenza-di-sedia. La conclusione di Putnam, in completo parallelismo col caso di questi esseri immaginari, è che anche la nostra ipotesi di essere permanentemente ingannati dalle apparenze, di essere per es. cervelli chiusi in una vasca, o comunque di essere inseriti in una realtà sistematicamente diversa dalla rappresentazione che noi ci formiamo di essa, sarebbe 46 necessariamente falsa: noi infatti parlando di “realtà” non potremmo riferirci affatto a una realtà inaccessibile alla nostra intelligenza, bensì solo alla realtà-con-cui-siamo-in-rapporto, e, in riferimento a quest’ultima, la congettura diventerebbe automaticamente falsa. Dunque il realismo metafisico è una posizione incoerente: una realtà indipendente dai nostri schemi concettuali e dai criteri di accettabilità razionale che ne fanno parte è altrettanto inconcepibile della cosa in sé della metafisica pre-kantiana. Al realismo metafisico Putnam contrappone una prospettiva «internistica»: non c’è una realtà «esterna» ai nostri schemi concettuali; la verità consiste nella «accettabilità razionale idealizzata», cioè nella ideale rispondenza completa ai criteri di verità contenuti nei nostri schemi concettuali, e la realtà si identifica con il contenuto di una credenza razionalmente accettabile e idealmente completata. D’altra parte, secondo Putnam, l’internismo non equivale a un idealismo degli schemi concettuali: per quanto definibile solo in riferimento agli obiettivi cognitivi caratteristici dei nostri schemi concettuali, la realtà è pur sempre una. Piuttosto Putnam tenta in qualche modo una mediazione tra Davidson e Goodman. L’atteggiamento di Putnam nei confronti di Davidson è complesso. Per un verso, Putnam riconosce che l’argomento di Davidson confuta l’idea di schemi concettuali incapaci di comunicazione. Per l’altro, egli non pensa che esso dimostri l’assurdità della nozione medesima di schema concettuale: l’internismo stesso infatti si serve in modo essenziale di tale nozione. Nei confronti di Goodman, Putnam tenta invece una operazione di decantazione filosofica. Egli infatti mira a liberare il discorso di Goodman dalle forzature retoriche che accompagnano la teoria della costruzione dei mondi: mette in evidenza come nella sostanza Goodman non intenda proporre una teoria idealistica intorno alla sorgente della realtà, ma inviti piuttosto a ridimensionare la nozione stessa di realtà e a non confidare nel suo potere esplicativo. L’internismo di Putnam finisce per non essere altro che una formulazione non paradossale delle posizioni di Goodman. Putnam ritiene inoltre che sia ancora possibile sostenere una forma di realismo. Però il solo realismo logicamente legittimo è un «realismo interno»: un realismo cioè che si risolve nella tesi che la maggior parte delle idee scientifiche sono vere, o, per lo meno, che esse si vengono approssimando alla realtà, intesa appunto come la meta ideale interna dei nostri schemi concettuali. Si tratta di un realismo «empirico». Secondo Putnam, infatti, esso è giustificato empiricamente dall’analisi dello sviluppo delle credenze scientifiche, e soprattutto dai fenomeni della convergenza delle teorie nella scienza matura e del successo tecnologico 47 della scienza: la migliore spiegazione empirica del fatto che le divergenze teoriche tra gli scienziati tendano a diminuire nel corso dello sviluppo scientifico e del fatto che le credenze scientifiche si rivelino suscettibili di importanti applicazioni tecniche è appunto che la scienza si venga avvicinando alla verità. Non molto lontano da questa conclusione di Putnam è lo statunitense Arthur Fine (1937-). Anche Fine sostiene che l’osservazione della concreta modalità di sviluppo della scienza non giustifica né il realismo metafisico né l’idealismo metafisico, bensì solo il punto di vista ontologicamente neutrale che egli battezza «atteggiamento ontologico naturale», e cioè la convinzione che la gran parte dei risultati scientifici sia vera, indipendentemente da ogni interpretazione metafisica a proposito della natura di tale verità. Kripke: il nuovo essenzialismo In controtendenza rispetto al processo intellettuale che condurrà prima Wittgenstein, poi l’empirismo logico e infine Quine, Davidson e Goodman a mettere in discussione uno dopo l’altro tutti i presupposti dell’ontologia, negli ultimi decenni è affiorato in seno all’ontologia stessa un filone che ha viceversa rafforzato questi presupposti, richiamando in auge categorie ontologiche tipiche della metafisica tradizionale che parevano ormai condannate all’oblio. I filosofi appartenenti a questo filone hanno tratto i loro argomenti soprattutto dall’analisi delle categorie modali di possibilità e necessità, e dalla rilevazione delle difficoltà incontrate dall’atomismo logico su questo terreno. Tra di essi un posto eminente è occupato dal logico statunitense Saul Kripke (1940-), che, in Identità e necessità (1971) e in Nome e necessità (1972), ha ritenuto legittimo riproporre le nozioni classiche di essenza e di necessità metafisica. Il punto di vista di Kripke ha un rapporto complesso con l’atomismo logico. Tra i nomi propri della grammatica, infatti, l’atomismo logico aveva distinto quelli dotati di un senso, ma non necessariamente dotati di un riferimento, e cioè i nomi equivalenti a descrizioni, e quelli logicamente propri, che per definizione hanno un riferimento, ma non hanno alcun senso. Che i due tipi di nomi propri avessero un diverso comportamento semantico, l’atomismo logico - Wittgenstein in modo paradigmatico - lo aveva sostenuto anche guardando al modo in cui si comporta il loro riferimento col variare degli stati di cose ovvero dei possibili fatti. Si considerino i diversi possibili insiemi massimi di stati di cose, e cioè i diversi modi possibili in cui il mondo avrebbe potuto essere fatto: per usare l’espressione kripkiana, i diversi «mondi possibili». 48 Secondo l’atomismo logico, il riferimento dei nomi propri del primo tipo può variare nei diversi mondi possibili e perfino non esserci. Se per es. il nome “Socrate” equivale a “il maestro di Platone”, nei diversi mondi possibili “Socrate” può designare individui diversi o anche non designare alcunché: se la storia fosse stata diversa, Platone avrebbe potuto avere un diverso maestro o anche nessun maestro. Il riferimento dei nomi propri del secondo tipo sarebbe invece, per definizione, lo stesso in tutti i mondi possibili: essi nominerebbero infatti gli oggetti semplici, e cioè la «sostanza del mondo». Ora, la posizione di Kripke si distingue innanzitutto per il fatto di sostenere che ogni nome proprio è un «designatore rigido», e cioè che il nome proprio, se è tale, designa sempre lo stesso oggetto in tutti i mondi possibili; e di conseguenza per il fatto di rifiutare a qualsiasi nome proprio un senso, e cioè l’equivalenza a una descrizione, che è peculiarmente un designatore non rigido. Kripke dunque per un verso accantona la distinzione altamente metafisica tra nomi logicamente propri e non, e la connessa problematica degli oggetti semplici che i primi designerebbero; per l’altro, estende a ogni nome proprio precisamente la trattazione che l’atomismo logico riservava ai nomi logicamente propri. Secondo Kripke, infatti, la capacità di designazione del nome proprio non si spiega con la sua pretesa equivalenza a una descrizione. Piuttosto, si spiega col fatto che il suo riferimento è fissato da un «battesimo iniziale» che collega il nome proprio stesso a un determinato oggetto. Tale riferimento, in mancanza di una esplicita ridefinizione, continua a coincidere col medesimo oggetto, anche se possono variare le rappresentazioni che i parlanti si fanno dell’oggetto in questione, in virtù del fatto che i successivi impieghi del nome formano una «catena causale» che connette ogni nuovo atto d’impiego ai precedenti. Così, per es., “Socrate” si riferisce all’individuo determinato che fu inizialmente designato con tale nome, e con tale nome anche noi ci riferiamo a quell’individuo, in virtù del fatto che il nostro uso si ricollega tramite una storia unitaria all’impiego originario, indipendentemente dal fatto che, poniamo, noi oggi associamo correttamente o scorrettamente al nome “Socrate” l’immagine di un uomo barbuto e maestro di Platone. Se infatti, per assurdo, si dovesse scoprire che il maestro di Platone non era la persona chiamata “Socrate” dagli ateniesi della fine del quinto secolo, noi non dovremmo concludere che il nome “Socrate” da allora ha cambiato riferimento, bensì che tale nome, diversamente da come pensavamo, non si riferisce al maestro di Platone. La connessione col battesimo che istituisce la funzione designativa del nome proprio chiarisce il fatto che il nome proprio designa lo stesso oggetto in tutti i mondi 49 possibili: il fatto cioè che la sua funzione designativa è indipendente dall’eventuale modalità concettuale di designazione, o, in altri termini, il fatto che esso continuerebbe a designare il medesimo oggetto, anche se tale oggetto dovesse rivelarsi dotato di caratteristiche diverse da quelle che gli erano state anteriormente attribuite. Kripke pensa d’altra parte che, oltre i nomi propri, siano designatori rigidi, e dunque che abbiano una funzione designativa indipendente dalla modalità concettuale della designazione, anche i nomi dei generi naturali. Parole come per es. “acqua” o “cane” designano lo stesso genere di cose in tutti i mondi possibili: il genere delle cose che furono battezzate originariamente con quei nomi, indipendentemente da qualsiasi idea che i parlanti si facessero allora, o si facciano oggi, delle sostanze o degli animali, e indipendentemente da ogni revisione intervenuta in tali idee a seguito di scoperte scientifiche; eventuali revisioni di tale tipo non comporterebbero infatti la conseguenza di cambiare il riferimento dei nomi “acqua” o “cane”, bensì quella di farci scoprire che le cose designate con tali nomi hanno caratteristiche diverse da quelle che erano state originariamente attribuite loro. Coerentemente con la sua visione semantica, Kripke arriva inoltre alla conclusione che ogni enunciato vero di identità nel quale il riferimento venga effettuato per mezzo di designatori rigidi è vero in tutti i mondi possibili, e dunque in base a una comprensibile interpretazione della necessità, che esso è ontologicamente necessario, per quanto possa essere epistemicamente contingente, ovvero a posteriori. La presa di posizione di Kripke va inquadrata nel dibattito filosofico precedente intorno alla modalità. Kripke concorda con la diagnosi di Quine circa il rapporto tra identità, modalità ed essenzialismo, ma sceglie la via opposta: è vero che la logica modale compromette con il riconoscimento di essenze; ma, contrariamente al punto di vista di Quine, la logica modale è irrinunciabile; noi dunque dobbiamo ripristinare la nozione dell’essenza, intesa come proprietà che appartiene all’oggetto in tutti i mondi possibili, e cioè come condizione d’identità dell’oggetto indipendente dai concetti che noi impieghiamo per riferirci ad esso. Che un certo oggetto abbia una certa proprietà essenziale (per es. che l’acqua sia H2O) è una verità ontologicamente necessaria, ma non sempre una verità a priori o analitica: per quanto appartenga alle condizioni d’identità dell’oggetto e valga di esso in tutti i mondi possibili (un liquido trasparente, incolore, inodore, che bollisse a 100°, ma non fosse H2O, sembrerebbe acqua, ma non sarebbe acqua), essa non è infatti una verità definitoria, può essere oggetto di una scoperta contingente e tarda, o 50 addirittura restare ignota. Le tesi essenzialiste di Kripke hanno trovato un’eco anche nella teoria elaborata da Putnam intorno ai nomi di generi naturali. 51