marco tosa - Accademia di Belle Arti di Venezia

MARCO TOSA
(docente di Tecnologia del Marmo-Restauro dei materiali lapidei)
La pietra tra mito e realtà
Da un punto di vista geologico, le pietre, o meglio le rocce, sono elementi composti da uno o più
minerali in aggregazione. Esse costituiscono parte integrante della crosta terrestre, detta appunto
litosfera dal termine greco ”lìthos”, che indica la “pietra”.
Elementi essenziali per lo sviluppo della biosfera e della vita, supporto a tutti gli effetti per
l’evoluzione dell’uomo, le pietre hanno definito e condizionato da sempre l’habitat umano
attraverso le loro prerogative: fisicità, durevolezza e aspetto multiforme. Materiali primari per
eccellenza, sono state quindi investite di funzioni e significati determinanti, assumendo il ruolo
d’abitazione (la caverna), d’arma (il sasso), di spiritualità (il megalite).
La pietra utile
La casuale o voluta rottura di una pietra, caduta o forse lanciata, poteva rivelarne le intrinseche
possibilità d’utilizzo e, successivamente, di lavorazione.
Dal sasso più o meno grossolano, con la paziente opera di scheggiatura che può essere iniziata come
riproduzione del naturale fratturarsi delle rocce fino alle prime punte di selce od ossidiana
scheggiate, rese taglienti e appuntite, l’impiego e la diffusione di questo materiale segue di pari
passo l’evoluzione, affinandosi a sua volta e specializzando le proprie funzioni durante la
progressione degli stadi tecnologici del genere umano; “mani, denti, unghie e pietre sono state le
antiche armi”, Lucrezio, I secolo a. C., dopo aver raccolto racconti popolari sulla progressione
tecnica del genere umano, arriva a tale affermazione.
L’antropologo inglese Louis S. B. Leakey (1903-1972), mise in relazione l’uso di pietre scheggiate
e taglienti con l’esigenza primaria della caccia. La sua teoria si basa su esperimenti di vita che egli
stesso ha compiuto in aree non antropizzate dell’Africa, nel tentativo di ricreare un rapporto con
l’ambiente il più possibile simile a quello che si suppone intercorresse tra i nostri progenitori e il
loro habitat. Il dottor Leakey si rese conto: ”. di essere in grado di avvicinarsi ad una gazzella,
assalirla, e ucciderla con le sue mani. Si accorse però che non poteva n’addentarne la pelle per
arrivare alla carne, ne smembrare la carcassa, servendosi solo dei denti, delle unghie e della forza
muscolare. Raccolse allora delle pietre, le scheggiò e si costruì un arnese del tutto simile ad un’ascia
preistorica tra quelle più comunemente ritrovate: rotonda all’impugnatura per adattarsi al palmo
della mano, scheggiata fino ad essere tagliente sulla punta e sui lati. Con quest’arma gli bastarono
venti minuti per sventrare una bestia, scuoiarla e smembrarla”.
Quanto importante e familiare sia stato questo materiale per l’alba dell’uomo ci è confermato
dalle definizioni dei primi periodi della sua storia, l’età della pietra è stata, infatti, così suddivisa:
Paleolitico da 2,5 mil. a 10.000 anni a.C.
Mesolitico da 10.000 a 8.000 anni a.C.
Neolitico da 8.000 a 3.500 anni a.C. (datazione metodo K /Ar).
Ovvero l’antica, la media, e la nuova età della pietra.
A queste seguono le età dei metalli, con diverse problematiche tecniche e innovazioni formali.
La pietra simbolo
La pietra dunque, oltre ad essere impiegata come utensile per le funzioni strettamente necessarie
all’immediata sopravvivenza, per mano dell’Homo Sapiens Sapiens, apparso circa 35.000 anni fa,
accompagnava i defunti secondo un uso già affermato in sepolture non più occasionali, ma
organizzate, significative di un complesso universo già permeato di religiosità. Miti e rituali
prendevano forma anche dalla materia, astraendone concetti derivati dalle caratteristiche della
stessa, rafforzandone il ruolo di simbolo caricato del compito monumentale inteso come evidenza
documentaria. Ecco comparire allora le sepolture comuni in tombe circondate da anelli di pietre,
oppure quelle singole dentro caverne o in pozzi coperti da pesanti massi.
Quale fosse la necessità più importante tra quella di isolare il corpo del defunto, di proteggerlo o di
renderlo inaccessibile agli animali, non c’è dato saperlo, possiamo intuirne però l’aspetto
prioritario, istintivo, definito dalle sue caratteristiche intrinseche, all’interno di gruppi già
organizzati socialmente.
La pietra investita del maggior significato simbolico è quella venuta dal cielo “uranica”, che
mantiene una sacralità del tutto particolare anche dopo la sua caduta sulla terra: il meteorite. Il
meteorite di Pessinunte in Frigia, era venerato come un’immagine di Cibele e trasportato a Roma
dietro ingiunzione dell’oracolo di Delfi, poco dopo la seconda guerra punica (204 a. C.).
In culture come quella Musulmana, un frammento caduto sulla superficie terrestre e ritrovato, come
la pietra nera della Mecca custodita nella Ka’ba, è considerata il centro del mondo, cioè non solo il
centro della terra: sopra di essa nel mezzo del cielo, si trova la “Porta del Cielo”. Evidentemente,
cadendo la Pietra Nera bucò il firmamento e attraverso quel foro può ancora avvenire la
comunicazione tra Terra e Cielo: qui passa l’Axis Mundi.
Scriveva il viaggiatore arabo-andaluso Ibn Jubayr nel 1184: "Mirare questo santuario e la Venerata
Casa è cosa terribile che riempie gli animi d'estasi e rapisce i cuori e gli intelletti. La pietra nera è
dal suolo sei palmi e per baciarla chi è alto si china verso essa e chi è basso si allunga. Essa è
fasciata da una lamina d'argento, il cui bianco lucente brilla sul lustro nero della pietra.
Quanti fanno i giri della Ka’ba, vi si gettano sopra come fanno i figlioli sulla madre affettuosa. . . "
Al concetto astratto della pietra è ancorato in modo atemporale quello di una saldezza che si
confonde con l’eternità. La ricorrenza di costruzioni litiche a carattere architettonico monumentale
in ogni continente e civiltà insegue questo sogno d’affermazione assoluta, risolvendosi spesso in
una dichiarazione di potere politico, religioso o economico. Alla pietra era affidato il compito di
trasmettere la scrittura incisa attraverso il tempo, supporto solido e duraturo, “incorruttibile”
testimone delle parole degli dei e dei re.
Se l’unità di misura fondamentale dell’uomo è il suo corpo, essendo la visione dovuta all’occhio,
sarà la sua altezza a divenire il termine di rapporto con ogni cosa. Ciò che nasconde l’orizzonte alla
vista diviene in quest’ottica “grande”, e la montagna deve essere apparsa la cosa più grande in
assoluto che si potesse vedere al mondo. Innalzandosi essa collega la terra al cielo e la sua vetta può
ospitare gli Dei. La montagna inoltre accoglie nelle sue cavità, fenditure, gallerie e grotte, uomini e
animali, offrendo loro riparo nel cuore della pietra. All’interno di queste stanze naturali deve essersi
formato il concetto di spazio architettonico, contemporaneamente a quello di dimora che, soltanto
uno spazio in buona parte chiuso e definito, può suggerire.
Immediato appare il rapporto tra montagna e architettura monumentale-celebrativa con
l’edificazione delle piramidi, una sorta di montagna ideale geometrica, ovviamente costruita in
pietra, esemplare quella di Cheope, figlio e successore di Snefru, costruttore della Grande Piramide
a Giza, (2500 a.C.)
La piramide era chiamata: Akhet Khufu (Splendente è Cheope) o Akhuit (La Splendente). La sua
altezza originale era di 146,6 m contro quella attuale di 137,5 m; l'inclinazione è di 51º 20'; la
lunghezza dei lati, orientati secondi i quattro punti cardinali, è di circa 230 m con una differenza di
soli 20 cm tra il lato più lungo e quello più corto. Si calcola che il numero di blocchi di pietra
utilizzati sia di oltre due milioni con un peso medio di 2,5 t; alcuni di essi raggiungono, però un
peso di 15 t.
In origine la piramide, che rappresenta ancora oggi il più grande monumento in pietra esistente, era
rivestita esternamente di calcare bianco. Vicino ad essa vi era il tempio funerario di cui è rimasto
molto poco; al contrario, accanto al lato sud, è stata trovata, nel 1954, in buono stato di
conservazione, la barca reale del faraone.
Alle piramidi seguono o si affiancano i templi rupestri direttamente scavati nella roccia, per
esempio la celebre città perduta di Petra, dal greco “pietra”, primi insediamenti databili tra VIII e
VII secolo, capitale dei Nabatei, , o i templi montagna, un esempio significativo è il santuario
buddista di Borobudur, edificato tra il VIII e il XI secolo d.C. nell’isola di Giava, in Indonesia, dove
decine e decine di “stupa” in pietra accolgono e proteggono altrettante statue di Buddha, disposti su
piattaforme degradanti verso l’alto, a ricordare l’idea della montagna, o meglio della “montagna di
Buddha”, come esso è chiamato.
Direttamente legati alla montagna, in quanto parte staccata da essa, investiti di particolare
considerazione, i megaliti, enormi blocchi di pietra, hanno rappresentato per l’uomo l’immagine di
forza, imponenza e latente sacralità.
Il primo e più semplice monumento megalitico è costituito da un'unica pietra infissa nel terreno e
prende il nome bretone di Menhir, vale a dire “pietra lunga”. Il più alto si trova in Bretagna, a
Locmariaquer, e la sua altezza di quasi 21 m. ne fa sicuramente un’eccezione. L’elevazione
verticale di questi monoliti ne decreta ed esalta il valore simbolico, rendendolo e rendendoli visibili
da lontano: essi sorgono dalla terra e puntano al cielo, da cui idealmente, in qualche modo
provengono. Per questo è possibile che essi giungano ad identificare la divinità suprema, (uranica),
destinati ad accogliere sacrifici a lei destinati.
Molte sono le analogie che riscontriamo nelle varie epoche e civiltà con quest’antica concezione
simbolica del megalite, ad esempio i Moai dell’isola di Pasqua, la Porta del Sole a Tiahuanaco, in
Bolivia, gli obelischi egiziani, le colonne celebrative della romanità, (Traiana), che pur modificando
e raffinando schemi decorativi e concezioni funzionali, ne conservano l’antica vocazione sacra,
d’oggetto unico ed emblematico, destinato alla “rappresentazione”.
Da questa pietra singola, isolata o affiancata in disposizioni generalmente a cerchio, ad ellissi
oppure allineate, si arriva alle composizioni megalitiche dei Dolmen, termine tratto dal bretone
“pietra tavolare”, che nella loro forma più semplice costituiscono il trilite, in altre parole sono
composti da due pietre conficcate verticalmente nel terreno e coperte da un terzo elemento litico
orizzontale, poggiante su di esse. Frequenti in Europa, in aree abitate dai Celti, sono stati trovati
Dolmen anche nell’area costiera nord-africana. Le più antiche realizzazioni megalitiche europee
conosciute risalgono a 3.500 a.C. ma la loro elevazione continuò per un periodo di duemila anni
presso le popolazioni agricole in Portogallo, Bretagna, Germania Orientale e nelle isole Shetland,
con funzioni rituali, di sepoltura, magiche e astronomiche, come ad esempio Stonehenge. Questo
luogo tanto studiato e celebrato ebbe la sua origine nel 2700 a.C. con lo scavo di un fossato
circolare e la posa di una pietra, al di fuori di esso, dell’altezza di 5 metri chiamata Hell Stone,
proseguendo fino al 1500 a. C. con l’edificazione del cerchio dei Sarsen, formato da blocchi del
peso di 30 tonnellate che costituiscono la struttura primaria del complesso giunto fino a noi. Un
caso a parte è costituito dai templi megalitici dell’isola di Malta, la cui concentrazione in un
territorio limitato come quello dell’arcipelago, costituisce un incredibile patrimonio archeologico.
Si ritiene che questi templi siano l’architettura di culto all’aperto più antica del mondo. Il complesso
più antico, nell’isola di Gozo, è il tempio di Ggantija, portato alla luce nel 1827, datato 3600 a. C.
Durante questa fase, Ggantija (3600-3300), che prende il nome dallo stesso tempio, inizia la
costruzione d’edifici con l’impiego d’enormi blocchi di pietra locale, detta Globigerina, un calcare
sedimentario marino fossilifero facilmente reperibile con qualità e caratteristiche differenti. Questi
templi erano consacrati al culto della fertilità e vi si veneravano “divinità grasse” con figure
femminili caratterizzate da grossi fianchi e seni enormi.
La pietra “frivola” la pietra “magica”
Secondo un breve comunicato apparso sulla rivista “Science” nel gennaio 2001, l’origine dell’arte
sarebbe datata a 77 mila anni fa, questo grazie a due blocchetti d’ocra rossa di una decina di
centimetri, incisi con motivi geometrici, rinvenuti nel 1999 a Blombos Cave, non lontano da Città
del Capo e dalla costa dell’Oceano Indiano, da un gruppo di ricercatori guidati da Christoper Stuart
Henshilwood, dell’Iziko Museum di Città del Capo. L’annuncio della nota rivista scientifica abbatte
il muro dei 35-40 mila anni finora considerato insuperabile, sebbene vi siano da tempo oggetti
“artistici” che indicano un’età calcolabile in centinaia di migliaia d’anni. Dal Paleolitico ci
giungono le tracce di una fioritura scultorea e pittorica più identificabile in canoni definiti. E’
possibile che la scultura si sia sviluppata in precedenza alla pittura in quanto l’uomo aveva
acquisito, per proprio bisogno, una buona abilità nell’intaglio della pietra e dell’osso. La Venere di
Willendorf, statuetta in calcare rossiccio alta 11 cm. databile a 30.000 anni fa, dimostra l’ottima
padronanza della volumetria delle masse rotonde e l’accuratezza riservata dal suo autore alle
rifiniture, tanto nella levigatura quanto nella descrizione rigorosa della decorativa capigliatura. In
casi come questo la scelta della pietra da usare era legata a circostanze fortuite di reperibilità, la
disponibilità in loco di pietre tenere come appunto i calcari, facilitava il lavoro, pur senza arrivare a
condizionarlo.
Il processo di selezione delle pietre riemerge non appena si entra nell’ambito della sua funzione
decorativa, sia essa destinata all’arricchimento estetico del corpo che a quello, più tardo,
dell’oggettistica e dell’architettura. Una delle testimonianze più antiche che riguardano l’uso delle
pietre dure e delle gemme in ambito ornamentale, viene dalla Bibbia, dal capitolo 28 dell’Esodo,
versetto 17 e seguenti dove si descrive la forma del “razionale giudizio”, ossia del pettorale del gran
Sacerdote: “ Il Signore dettò a Mosè le regole per la formazione di questo indumento sacerdotale
per Aronne; fermerai su di esso quattro file di pietre preziose; nella prima: sardio (sardonica),
topazio, smeraldo; nella seconda: carbonchio (rubino o granato, pietra rossa in genere), zaffiro,
yaspide (diaspro), nella terza: lingurio (forse corniola), agata, ametista, nella quarta. Crisolito
(serpentino verde oliva), onice, berillo (forse acquamarina). Saranno incastrate nell’oro e porteranno
i nomi dei figli d’Israele; i dodici nomi saranno incisi, uno per ogni pietra, secondo le dodici
“tribù”….”.
Gli abitanti di Catal Huyuk, nell’odierna Turchia meridionale, 6.000 anni fa alternavano pezzetti
d’ambra e di pietra blu, finemente forati, lungo il filo delle loro collane. IL mito della durevolezza,
della resistenza nel tempo, unitamente alla loro bellezza, ha probabilmente incoraggiato l’uso delle
pietre “preziose” e delle gemme nella protomedicina, nell’alchimia e confinante magia. La prima
documentazione storica a proposito della Litoterapia risale al 1500 a. C. e deriva dal papiro d’Erbes
(nome dello scienziato tedesco che lo studiò nel 1873). In esso si accenna ad una vera e propria
farmacopea, nella quale figurano numerosi minerali, in particolare la Malachite, il Lapislazzuli, il
solfuro di piombo, l’antimonio. Anche nell’America precolombiana la terapia con i minerali era ben
sviluppata, in particolare gli Incas utilizzavano una polvere a base di solfuro d’Arsenico nel
trattamento della Sifilide. La medicina tradizionale cinese invece utilizzava numerosi minerali
riguardo a numerose e svariate problematiche.
Di seguito è fornito un elenco dei prodotti litoterapici, con le relative indicazioni terapeutiche.
Adularia (roccia alluminosilicata)
adenoma della prostata
Apatite (pirofosfato di Calcio con tracce di Fluoro e d’Oro)
artrosi lombare
Argento nativo (Argento puro estrattivo)
infiammazioni, infezioni, dolori
Azzurrite (carbonato basico di Rame)
infiammazioni in genere, artriti in particolare
Baritina (solfato di Bario)
ipertensione arteriosa, sclerosi cerebrale
Bauxite (ossido d’Alluminio)
cardioprotettore, anti-cancerogeno
Betafite (minerale in cui sono associati Uranio, Titanio e Niobio)
parassitosi intestinali
Blenda (minerale di Zinco)
insufficienza venosa, varici
Bornite (solfuro di Ferro e Rame)
anti-infettivo, in particolare delle infezioni urinarie
Calcopirite aurifera (minerale di Rame, estratto da filoni auriferi)
anti-infiammatorio, artriti
Carbonato di Calcio
osteoporosi, rachitismo, ritardo della calcificazione nei bambini o nell’immobilizzazione dopo
incidenti
Celestite (solfato di Stronzio)
prurito
Cinabro (minerale di Mercurio)
ulcere delle mucose, faringiti, insufficienza epatica
Conglomerato (roccia sedimentaria molto ricca di Silice)
eczemi d’ogni tipo
Diaspro verde (Quarzo, cioè Silice, colorato di verde per l’inclusione di oligoelementi di Rame e
Manganese)
insufficienza biliare
Diopside (silicato di Magnesio e Calcio, contenente delle tracce d’Alluminio e di Ferro)
sindromi decalcificanti, osteoporosi, rachitismo, convalescenza dopo immobilizzazione, crescita
Dolomite (carbonato di Calcio e Magnesio)
spasmofilia, cioè tensioni muscolari protratte, associate a stress e nervosismo; decalcificazioni,
insieme con Diopside e carbonato di Calcio
Eritrite (arseniato idrato di Cobalto)
anemie
Feldspato quadratico (miscela di Calcio, Silicio, Zolfo, Sodio, Alluminio)
decalcificazioni, artrosi
Fluorite (fluoruro di Calcio)
rimineralizzante, evita le deformazioni artrosiche e previene la carie, aiuto nelle costituzioni
nervose
Galena (solfuro di Piombo)
ipertensione; circolazione cerebrale; cancro
Garnierite (minerale di Nickel)
insufficienza del pancreas esocrino, dispepsia, flatulenza
Glauconio (alluminosilicato di Ferro, ricco anche di Sodio, Potassio, Magnesio)
distonia neurovegetativa, spasmofilia, insonnia, dismenorrea, asma
Grafite (Carbonio)
eczemi
Granito (ricco di Silice e, in misura minore, di Potassio e Alluminio)
decalcificazioni, osteoporosi, crescita, convalescenza
Gres rosa (Calcio e Silicio)
stitichezza atonica
Ematite (ossido ferrico)
anemie, in associazione con l’Eritrite
Iodargirite (ioduro d’Argento)
disfunzioni tiroidee e surrenaliche; reumatismi
Lazulite (fosfato basico d’Alluminio e Magnesio)
insufficienza biliare ed epatica; si utilizza in associazione con il diaspro verde
Lepidolite (minerale di Litio)
depressione
Marmo di Carrara (carbonato di Calcio)
anti-acido gastrico, gastriti, ulcere gastroduodenali
Monazite (minerale radioattivo, costituito da Cerio, Lantalio, Tallio e Fosforo)
cancro, insufficienza immunitaria
Ossidiana (lava ricca di Silice)
artrosi cervicale
Oro nativo
anti-infettivo e anti-infiammatorio
Orpimento (minerale d’Arsenico)
coxartrosi (artrosi dell’anca)
Pirite di ferro (solfuro di Ferro)
infezioni urogenitali
Pirolusite (ossido di Manganese, con tracce di Fosforo)
afte e ulcere delle mucose
Rodonite (silicato di Manganese, con tracce di Magnesio e Ferro)
insonnia
Salgemma (cloruro di Sodio)
ipertensione arteriosa, ritenzione idrica, cellulite
Sabbia di mare (Silicio)
rimineralizzante, artrosi
Stibina o antimonio (Stibio)
malattie delle vie respiratorie e polmonari, astenia
Tormalina litica (minerale di Litio, Boro ed Alluminio)
depressioni, insieme con Lepidolite
Trachite (roccia vulcanica, ricca di Calcio, Magnesio, Fosforo e Silicio)
tosse spasmodica, pertosse
Ulexite (borato idrato di Calcio e Sodio)
afte
Uranite (ossido d’Uranio)
ossiuri (parassiti intestinali)
Zolfo nativo
disturbi della pelle; azione depurativa
A tal proposito nel poema “Lithica”, d’autore incerto, databile intorno al IV sec. d. C., si assegna in
merito: “ alle virtù delle pietre un posto superiore a quello delle erbe, i cui poteri scompaiono con
l’età”, e ancora si legge: ” alcune piante sono nocive, mentre le meravigliose proprietà delle pietre
sono pressoché tutte tanto benefiche quanto permanenti….C’è una grande energia nelle erbe, ma
molto più grande è nelle pietre”, un’osservazione spesso ripetuta nel Medioevo. Le virtù portentose
delle gemme erano descritte in libri detti lapidari. Nell’Europa medievale il testo classico era il
“Liber Lapidarum seu de gemmis” di Marbodo, vescovo di Rennes, della fine del XI secolo, dove
egli stesso affermava che Dio in persona ha dotato le pietre preziose di singolare potere. A questo
testo ne seguirono altri, per lo più modellati su quello del vescovo Marbodo, diffondendo
ulteriormente le nozioni in esso contenute, descrivendo gli usi magici d’ogni pietra.
Utilizzata per gli scopi più diversi alla pietra è affidato il compito della testimonianza: essa, infatti,
rimane tra le cose che scompaiono, tra le persone che esauriscono il loro ciclo vitale diventa tesoro
ed è tramandata, passando da una generazione all’altra. Non stupisce il fatto rilevato da Mircea
Eliade, che, nel mondo interiore dell’uomo le pietre, come i metalli, siano considerate vive e
sessuate. Non è permesso assistere alla loro nascita perché essa avviene nel grembo della terra, ed è
un processo molto lento come quello del successivo sviluppo. I popoli mesopotamici dividevano le
pietre in maschi e femmine dopo averne osservato la forma, il colore e la luminosità. La vivacità
cromatica era peculiare delle pietre maschili, mentre un certo pallore contraddistingueva le
femminili. La consuetudine di classificare le pietre seguendo questo criterio ricorre nei trattati
alchemici e nei lapidari medievali per giungere, in alcuni casi, sino all’era moderna. Ancora qualche
decina d’anni fa i gioiellieri solevano distinguere i diamanti secondo il loro splendore, attribuendo
ad essi l’uno o l’altro sesso. Tale consuetudine è stata in seguito estesa anche alla catalogazione
corrente, popolarmente in uso, di rocce utilizzate in ambito decorativo e architettonico.
Troviamo qui riconfermata la visione dualistica del mondo riassunta nel noto simbolo cinese che
racchiude in un cerchio i principi Yang e Yin: essi s’incastrano e riescono a partecipare l’uno
dell’altro pur essendo gli opposti assoluti: il nome della loro unione è Ttai-Ki, che significa “ La
trave maestra”.
Essendovi nella pietra racchiusi significati di bene e male, essa diviene mondo e origine “ petra
genitrix”, assimilata alla grande Dea, la “ Matrix Mundi”, ma anche centro del mondo, l’ombelico
del creato e, come abbiamo visto, numerose sono le rocce in varie culture e aree geografiche che
vantano queste meravigliose qualità.
Una visione più razionale e, se vogliamo, tecnica, delle pietre impiegate in campo architettonico e
decorativo, ci è tramandata dal XXXVI e il XXXVII libro della Storia Naturale (Naturalis Historia
77-78 d.C.), composta di 37 libri, opera di Plinio il Vecchio, dedicati a “marmi e gemme”. Dalle
pagine del naturalista emerge un severo rimprovero sull’abuso di questi materiali legato alla moda e
al lusso delle dimore imperiali: ” (…) la natura si era fatta i monti e un certo scheletro terrestre,
condensando le parti interne, per potere a un tempo frenare l’impeto dei fiumi, e rompere i flutti, e
contenere con la solidità della sua materia le parti più mobili ed irrequiete. Orbene, noi uomini
questi monti li tagliamo e li portiamo via per nessun’altra ragione che per il lusso; questi stessi
monti che un tempo era mirabile impresa valicare.”.
La cultura scientifica occidentale, vuole classificare e distinguere ogni cosa allo scopo di ricostruire
uno schema geometrico del mondo, che permetta un riconoscimento degli elementi attraverso l’uso
di un linguaggio uniformato. La petrologia, (dal greco petra = roccia e logìa = studio) e la
petrografia (dal greco petra = roccia e grafia = descrizione), definiscono oggi le leggi universali
scientifiche di questa materia.
Venezia, la città dalla pelle di pietra
Marco Tosa
Un legame indissolubile unisce la città storica di Venezia alle pietre, costituendo al giorno d’oggi
un esempio assolutamente unico di perfetto adattamento tra materiali diversi, sia dal punto di vista
tecnologico e genetico, sia da quello storico e stilistico, specializzato nei secoli al fine di dare forma
e corpo a strutture architettoniche estremamente complesse e composite.
A tali fattori si aggiunge l’unicità e varietà delle tipologie lapidee presenti nel repertorio veneziano,
dato quest’ultimo, che fa della città un vero e proprio “campionario” formatosi con l’accumulo e la
sovrapposizione attraverso epoche e stili; peculiare e irripetibile nel suo genere.
Le particolari condizioni geografiche della città, il suo lento declino politico dopo la caduta della
Repubblica Serenissima, l’isolamento crescente, la fine dei commerci marittimi, la sua imponente
monumentalità, la distanza dai concetti moderni di funzionalità e modernità qui inapplicabili,
nonostante sporadici tentativi spesso poco esaltanti, hanno permesso la fortunosa salvezza di un
insieme storico rimasto pressoché integro.
Certo, osservando la città di Venezia oggi, la sensazione che ne deriviamo è che la pietra costituisca
la “pelle” di tutta l’area urbana. Variegata, colorata, diversa nelle sue multiformi lavorazioni, la
pietra è protagonista indiscussa dello splendore monumentale e viene percepita dall’osservatore
come essenza stessa della città. Sulla pietra si cammina, la pietra orna le facciate delle case e delle
chiese, definisce le linee architettoniche indicandone le strutture, al tempo stesso si mostra come
ornato finissimo e colore. È’ riva e gradinata per fondamenta e scale, mezzo solido per transitare dal
dominio incerto delle acque a quello certo della terra.
Le pietre veneziane celano e trasformano difetti e mancanze, ornano all’inverosimile, sono delegate
ad essere indicazioni stradali, insegne di botteghe, capitelli per percorsi destinati alla preghiera
popolare, certificano con la loro solidità la durevolezza, che proprio non appartiene alla natura
intima della città. Si, perché Venezia si erge sul fango morbido delle sue isole, costretta a
conquistare il terreno edificabile sottraendolo faticosamente all’acqua della laguna, indiscussa
dominatrice, alla quale servitù non è mai riuscita a sottrarsi, con la quale ha da sempre mantenuto
un rapporto di conflittualità.
Ma le pietre sono simbolo di forza e immutabilità, resistenza e stabilità, dalla notte dei tempi
caricate di simbologie e significati tra i più vari, mistici, magici, filosofici, oggetto di collezionismo
e ricercate per la loro bellezza, decretano al possessore uno status sociale decisamente elevato.
Questo i veneziani, ricchi e vanitosi, lo compresero subito, delegando i materiali lapidei che
rivestono case e monumenti, a rappresentarli al meglio, dichiarazione imperitura di gloria,
ricchezza, potere.
La tradizione antica era dalla loro parte, tutto ciò non nasceva solo da mere speculazioni estetiche,
“Venezia è una città nata adulta”, come scrive Elena Bassi, facendo suo un patrimonio tecnico e
materico preesistente di matrice romana, infatti, quando la città cominciò a definirsi, utilizzò come
veri e propri rifornimenti le città di Altino, Aquileia, Concordia Sagittaria, Oderzo, derivando la
prima architettura veneziana da quella romana.
In seguito, raggiunta l’autonomia politica da Bisanzio, dopo le crociate, la conquista di
Costantinopoli nel 13 aprile 1204 e la successiva spoliazione continuata nei 57 anni dell’Impero
Latino, i veneziani ebbero tutto il tempo di portare via dalla capitale saccheggiata colonne, marmi
straordinari ed ogni sorta di cose d’arte, così come negli anni dei grandi traffici commerciali
attraverso il mediterraneo pietre greche, turche, egiziane divennero parti integranti negli edifici
della città. La massa dei materiali lapidei fu talmente grande che non solo bastò per ornare chiese e
case, ma andò a riempire i magazzini di scalpellini e depositi di molte chiese; si ha notizia del primo
statuto dei tagliapietra a Venezia nel 1307.
Tre città che, sebbene con alterne vicende e differenti destini, in un odierna lettura appaiono legate
strettamente tra loro; Roma, Costantinopoli e Venezia, quest’ultima la “figlia” naturale delle prime
due, erede di tradizioni tecniche, estetiche, materiche assai peculiari, ben definite in origine ma
rielaborate dagli abili artigiani e architetti veneziani, al fine di rendere tutto funzionale alle nuove
esigenze destinate a far crescere un’impossibile città tra le acque, ma assolutamente solida e
durevole come la Roma imperiale, altrettanto splendente d’oro e di marmi colorati come la mitica
Costantinopoli.
Definizioni impiegate dai romani:
Lapis, (pietra), termine generico utilizzato per indicare le pietre.
Marmora/Marmor, termine che comprendeva tutte le pietre decorative e ornamentali suscettibili
d’essere lucidate a specchio.
I romani dedussero la parola “Marmor” dal greco “ Marmaros”; il verbo greco “Marmairon”
significava risplendere. Ne deriviamo che la parola marmo avesse un senso solo esteriore,
prescindendo dalla natura geologica della roccia in questione, tale definizione generica, è ancora
oggi ampiamente diffusa e utilizzata quando ci si vuole riferire a pietre decorative e lucidabili,
comunque intese come di pregio.
Per notizie di vario tipo, tra cui storiche e acute osservazioni sulla moda d’utilizzare pietre pregiate
nell’edilizia romana, si veda Naturalis Historia di Plinio il vecchio,
Definizioni mineralogiche:
Le pietre di interesse artistico e storico, alcune delle quali osservate in questo studio, sono oggi
suddivise in base ai criteri di catalogazione propri della mineralogia.
Rocce ignee o magmatiche, prodotte dal raffreddamento di fusi lavici provenienti dalle zone
profonde della litosfera, se il raffreddamento di tali lave avviene sotto la superficie terrestre si parla
di rocce intrusive, al contrario, se avviene all’esterno, di rocce effusive.
Appartengono a questa categoria le rocce più note quali graniti, porfidi, granodioriti, basalti.
Rocce sedimentarie, prodotte dalla sedimentazione di materiale clastico, degradato precedentemente
in natura per vari fattori fisici e chimici, accumulatosi in bacini di sedimentazione di varia origine e
tipo, sottoposto a compazione e litificazione fino al raggiungimento della tipologia mineralogica
che le caratterizza. Appartengono a questo gruppo pietre ampiamente usate in campo artistico, le
più note sono le arenarie, il Travertino, i tufi, le pietre sedimentarie organogene quali Rosso di
Verona, pietra d’Istria, e le cosiddette lumachelle.
Rocce metamorfiche, sono il risultato di processi di rigenerazione attraverso forti pressioni e alte
temperature che avvengono sotto la superficie terrestre, riguardanti rocce preesistenti. La
metamorfosi di tali materiali da forma a pietre che sono generalmente caratterizzate da struttura
scistosa. Tra le rocce tipiche appartenenti a questa categoria spicca il marmo, identificabile per la
sua struttura cristallina composta essenzialmente da cristalli di calcite perfettamente incastrati tra
loro, che conferisce al materiale la peculiare lucentezza, trasparenza, unitamente alla possibilità di
lavorazione e lucidatura che ne hanno fatto la pietra per antonomasia più nota ed utilizzata in campo
artistico.
Itinerario attraverso la città
L’esame di alcune fabbriche emblematiche, facenti parte del vasto patrimonio monumentale di
Venezia, permetterà di comprendere al meglio il complesso sistema decorativo che vede i materiali
lapidei protagonisti con le conseguenti implicazioni tecniche e stilistiche che hanno attraversato
epoche e stili. L’attenzione è rivolta alla tipologia delle pietre poste in opera, alla loro area di
provenienza, rarità e peculiarità, all’utilizzo artistico e strutturale.
Gli edifici presi in esame sono suddivisi tra quelli prevalentemente destinati ad uso privato,
abitazioni, e quelli pubblici, utilizzati per il culto o funzioni rappresentative sociali.
Raggruppamenti storico-tecnico-stilistici:
La città e il colore: il valore ornamentale e simbolico del colore- Il colore per “trasformare” la
materia- Il colore delle pietre.
La città e i materiali: il legno, i mattoni, l’intonaco, l’affresco, la pietra.
Tecniche ornamentali: la scultura, la pietra dipinta, il mosaico, la tarsia, l’intarsio, il niello, il
commesso.
Venezia bizantina romanica/medioevale caratterizzata da colori forti e contrastanti.
Rosso- mattone, intonaco di “cocciopesto”, porfido rosso.
Verde- serpentini, porfidi verdi.
Bianco- marmi orientali.
Oro- mosaici in pasta vitrea.
Edifici: Ca’ Loredan, Ca’ Farsetti, varie fabbriche bizantine nell’area di Rialto.
Iconografia: piante e vedute della città, incisioni, miniature, mosaico marciano nella lunetta del
portale di S. Alipio.
Venezia gotica: le pietre dipinte e dorate, gli intonaci rossi e il cotto a vista, la decorazione a
“tappeto” (Jakob Burkhardt), vedere ad esempio il dipinto di Carpaccio “ Miracolo del Patriarca di
grado”, con i caratteristici comignoli e parte delle pareti affrescate con decoro floreale.
“Venise la rouge”, domina il colore rosso. Durante il 1300/1400, era abitudine diffusa dipingere e
dorare gli elementi in pietra, sia all’esterno delle case di mattoni che all’interno, come avviene per i
monumenti funebri e celebrativi, (Marin Contarini).
Edifici: Ca’ d’Oro, Ca’ Pisani Moretta, case Foscari, Palazzo Ducale, varissime sono le tipologie
presenti in città che vanno dal primo stile gotico, sobrio e rigoroso, a quello più elaborato e ornato
tipico del gotico fiorito.
Iconografia: Vettor Carpaccio, (storie di S. Orsola e S. Girolamo, miracolo del Patriarca di Grado),
Gentile Bellini, (Miracolo della Croce in rio S. Lorenzo, La processione in piazza S. Marco),
Giovanni Mansueti, (Miracolo della Croce), Lazzaro Bastiani, (Dono della reliquia della Croce).
Venezia nel Rinascimento: facciate ricoperte di decorazioni tra le più svariate eseguite su intonaco
con la tecnica dell’affresco, presenti nelle campiture libere dalle pietre e dove queste non si sono
imposte. Ricordiamo il Fondaco dei Tedeschi, affreschi di Giorgione e Tiziano, Ca’ Pisani (Gritti)
ancora Giorgione, Ca’ Cappello a S. Polo e Ca’ Mocenigo a S. Samuele decorati da Paolo
Veronese. Le case di campo S. Stefano, (affreschi del Pordenone nel chiostro dell’omonima chiesa
visibili fino agli anni ’30, secondo A. Zorzi), Giorgione, Sante Zago e altri.
Le leggi suntuarie emesse dal Senato della Repubblica durante il XVI secolo, volute per porre fine
all’eccesso di ostentazione, imporranno la fine dell’uso dell’oro sulle pietre delle facciate di case
private, destinandolo solo all’ornamentazione interna dei luoghi di culto.
Edifici: Ca’ Dario, Fondaco dei Tedeschi, Ca’ Vendramin Calergi, scala del Bovolo a Ca’
Contarini, Ca’Loredan a S. Stefano.
Venezia barocca: si edificano le grandi facciate di pietra d’Istria scolpita, il bianco monumentale si
impone a tutto campo.
Iconografia: vedutisti, Vanvitelli, Marieschi, Carlevarijs, Canaletto, Guardi, Bellotto.
Edifici: Ca’ Rezzonico, Ca’ Pesaro, Ca’ Pisani a S. Stefano.
Venezia ottocento: il recupero dell’antico, l’eclettismo decorativo tra nostalgia e collezionismo, i
“falsi storici” nati sull’ideale stilistico “puro”, si vedano ad esempio il fondaco dei Turchi,
restaurato nel 1860 da Federico Berchet, e Ca’ Gussoni Cavalli Franchetti, i cui restauri furono
condotti da C. Boito, Manetti, Matscheg.
Brevi note storiche e osservazioni su alcuni edifici significativi dedicati al culto:
Basilica di S. Marco, in origine vi era la chiesetta dedicata a S. Teodoro, innalzata nell’area ove
ora si trova la piazzetta dei leoncini. Nel 1950 Ferdinando Forlati effettuò scavi in varie zone
alla ricerca dei resti preesistenti, ma senza risultati soddisfacenti, il dibattito in merito alle
fondazioni antiche di S. Teodoro, forse inglobate nell’attuale basilica, è tuttora vivace. Il
primo nucleo successivo all’antica cappella palatina definitosi nel 828 sotto il dogado di
Giustiniano Partecipazio, subì alcuni ampliamenti e fu consacrato nel 832 con la traslazione
del corpo di S. Marco. L’edificio si presentava a pianta basilicale con due navate laterali e
copertura con travatura a vista, secondo le affermazioni di Bettini, Saccardo, Selvatico,
Cattaneo. Esternamente l’edificio appariva ricco di elementi tipici dell’architettura esarcale o
ravennate: portico, murature in mattoni rossi a vista decorate con lesene e nicchie in cotto,
colonne e ornati marmorei provenienti da Altino e Oderzo, abside unica. Nel 976 un incendio
appiccato al Palazzo Ducale danneggiò parzialmente la chiesa che fu reintegrata e abbellita
sotto il doge Pietro Orseolo, arricchita con decorazioni lapidee, riconsacrata nel 978.La terza
ricostruzione, con gli ampliamenti definitivi corrispondenti all’odierna struttura, avviene sotto
il Doge Domenico Contarini, nel 1063 e portata a termine nel 1071. In quel periodo fu
aggiunta la navata trasversale che s’interseca con le altre formando un ampio transetto e
trasformando la pianta longitudinale in centrale, All’esterno il portico fu sostituito dal nartece
che si andò sviluppando anche su parte del lato sinistro della chiesa. Si costruirono le cinque
maestose cupole, la chiesa aveva ormai assunto caratteri simili a quella dei “Dodici Apostoli”
di Costantinopoli (Apostoleion). La solenne consacrazione avvenne nel 1094 sotto il Doge
Vitale Falier.
Il fastoso complesso architettonico, così come ci appare oggi, è senza dubbio uno dei più ricchi
campionari di pietre antiche di pregio, provenienti da cave anch’esse antiche e collocate in varie
aree del mediterraneo, legate strettamente alla storia e allo sviluppo artistico di civiltà diverse. Si
veda in merito l’opera di R. Gnoli, Marmora Romana, Elefante, Roma, 1971, 1988.
Gli apparati lapidei marciani appaiono come una distesa variegata di ornati, sia utilizzati come
campiture, (lastre), sia come elementi architettonici, (colonne, capitelli, architravi, archi,
basamenti), sia come sculture a tutto tondo, basso e alto rilievo.
Tra le pietre più significative citiamo:
-Porfido Rosso, (Porphiriytes).
Proveniente dalle cave di Gebel Dokan, (Mons Porphyrites), in Egitto.
-Verde di Grecia, (Porfido)
- Marmo bianco e nero antico, (Breccia).
Famosa e pregiata pietra detta anche Marmor Celticum o d’Aquitania, le cave erano situate presso
Aubert, Pirenei francesi, vicino a S. Girons.
-Cipollino, (Marmor Caristium).
Proviene da Karystos, Grecia, ha una struttura a strati che ricorda la cipolla a causa delle linee scure
alternate a bande chiare.
-Cipollino rosso, (Carium o Iassense), tipico per la coloritura rosso violacea alternata a fasce
bianche.
-Marmo Imetto, monte Hymettos, Grecia, anch’esso volgarmente chiamato “marmo cipolla” a causa
del tipico odore bituminoso che emette quando è rotto e lavorato.
- Marmo Proconneso, Isola di Marmara, (Proconnesio), Turchia, simile per caratteristiche al
precedente, con analogo forte odore alla rottura e stessa definizione di “marmo cipolla”.
S. Maria del Giglio (o Zobenigo), la chiesa trae il suo nome dall’estinta famiglia Jubanico, che
contribuì in larga misura alla sua fondazione, X secolo, e costruzione. Due incendi ne provocarono
la totale distruzione, (996 e 1105). Fu ricostruita durante la seconda metà del XVII secolo
cambiando l’antico impianto originale basilicale a tre navate bizantino. Antonio Barbaro,
provveditore in Dalmazia, reduce da un’insigne carriera militare e politica, lascia in allegato al
testamento del 1678, 30.000 ducati per il compimento della chiesa. L’incarico è affidato
all’architetto Giuseppe Sardi che progetta la nuova facciata commemorativa destinata a celebrare le
glorie marinare, civili e politiche della famiglia, realizzata tra il 1680 e il 1683. Barbaro aveva
ottenuto a tal proposito il parere favorevole del Senato della Repubblica, ottenendo dal Capitolo
della chiesa “l’assoluto dominio” per l’edificazione della facciata così palesemente celebrativa.
Materiale sovrano per scolpire il ricco ornato fu la pietra d’Istria, qui impiegata nelle possibili
varianti della scultura, bassorilievo, altorilievo, tuttotondo. Le statue dei Barbaro sono di marmo.
Tra le curiosità si osservino le piante delle città :Zara, Candia, Padova, Roma, Corfù, Spalato,
eseguite a bassorilievo nei dadi inferiori delle colonne binate, mentre in quelli superiori sono
raffigurate vivaci scene di battaglie sul mare tra galeoni veneziani e galee turche.
S. Moisè, fondata nel VIII secolo, dedicata a S. Vittore, fu ricostruita nel X secolo da Moisè Venier,
che la dedicò al suo santo titolare. Forma attuale del 1632. La facciata in pietra d’Istria eretta nel
1668 grazie ad un lascito del patrizio Vincenzo Fini fu ideata dall’architetto Alessandro Tremignon,
mentre l’esecuzione della fastosa decorazione plastica è di Arrigo Meyring. Sul portale centrale,
sopra animali fantastici, vi è l’obelisco di V. Fini, sulle porte laterali due busti a tutto tondo della
famiglia Fini. Costituisce un altro interessante esempio di facciata commemorativa privata, in
questo caso la simbologia religiosa si mescola con la rappresentazione dello status del commitente.
Scuola di S. Marco, sorta nel 1260 con scopi religiosi ed umanitari. Incendiata e distrutta nel 1485,
fu ricostruita sotto la direzione di Pietro Lombardo con la collaborazione di Giovanni di Antonio
Buora, tra il 1487 ed il 1490, portando quasi a termine la costruzione. Il compimento della fabbrica
avviene con l’affido a Mauro Codussi e i lavori sono ultimati nel 1495. J. Sansovino interviene
ancora successivamente tra il 1533 e il 1546 con ampliamenti sul lato del canale.
La facciata, riccamente ornata con pietre di pregio, tra le quali spiccano i bei marmi pavonazzetti
venati, (marmor phrygium, Dokimeion, Turchia), applicati sfruttando le simmetrie morfologiche
per comporre un decoro geometrico, e varie tipologie di rilievi, si fa notare per le particolari
prospettive architettoniche “disegnate” in pietra corrispondenti ai due portali d’ingresso. Le doppie
prospettive sono centrate sui temi dei leoni marciani e sulle scene della vita di S Marco: il battesimo
e la guarigione di S. Aniano, attribuiti a Tullio Lombardo. Colpiscono i due rilievi lombardeschi per
la raffinatissima qualità esecutiva, la varietà del dettaglio che riconosciamo nei tratti dei volti, nella
resa realistica dei particolari vestimentari, e nell’esibizione tecnica che la lavorazione scultorea
esalta, partendo da finissimi stiacciati, per le figure di fondo, passando ad un basso rilievo per le
intermedie, fino al rilievo e a parti a tutto tondo per quelle in primo piano.
S. Maria della Salute, B. Longhena, eretta tra il 1631 e il 1687 a ricordare la liberazione della
città dalla peste (22 ottobre 1630, il governo veneziano ne decise la costruzione). I lavori
durarono 58 anni, nel 1682 morto Longhena, il cantiere proseguì sotto Antonio Gaspari.
Esternamente la pietra d’Istria è stata impiegata per le parti strutturali e come segno
architettonico volto a sottolineare i punti di forza dell’edificio, con soluzioni fantasiose e ad
effetto come le grandi ruote a girali che sostengono il tamburo. All’interno vi sono la bellissima
“rosa” sul pavimento a “sectile” e i pregiati paliotti dorati con pietre dure incastonate.
S. Maria Assunta dei Gesuiti, imponente complesso appartenuto nel XII secolo ai Crociferi. Nel
1657, dopo traversie dovute al comportamento eccessivamente libero e alla ricchezza e potenza
raggiunta dai Crociferi, l’ordine fu soppresso e la chiesa con l’adiacente monastero, acquistata dai
Gesuiti. Dal 1715 iniziò una ricostruzione sontuosa, finanziata dalla famiglia Manin di Udine.
Facciata in pietra d’Istria di G.B. Fattoretto, interno su due livelli dell’architetto Domenico Rossi
ultimato nel 1729. Fastosa decorazione in tarsie lapidee, paraste e fregio, con marmo bianco e
breccia verde-antico, ad opera di Domenico Rossi, (cantieri Manin). Disegni dei motivi
ornamentali, riferiti ai decori tessili coevi, simili a quelli eseguiti nella cappella Manin di Udine ad
opera di un certo Olivo. Baldacchino e tabernacolo dell’altare maggiore, ideati da padre G. Pozzo,
in forme grandiose ispirati a quello di S. Pietro a Roma, sono arricchiti da notevoli sculture di
marmo eseguite da Giuseppe Torretti tra il 1715 e il 1728, sempre su progetto di G. Pozzo. Grande
appare il dispendio di pietre di pregio, tra le quali i lapislazzuli del tabernacolo, il finto tappeto
davanti all’altare maggiore in giallo antico e breccia verde, le colonne e gli ornati degli altari
laterali, e l’incredibile pulpito, vero esempio di maestria scultorea, con i suoi “broccati” gonfiati dai
panneggi apparentemente casuali. Il pavimento segue un impianto decorativo di derivazione romana
ed è stato eseguito in pietra d’Istria con inserzioni di breccia verde, a comporre motivi geometrici
intrecciati.
S. Cassiano, cappella votiva voluta dall’abate toscano Carlo dal Medico, morto nel 1758.
Particolare esempio di preziosità unita al decorativismo insiti nella pietre impiegate. Sono
curiosi gli inserti di pietre dure lavorate a cabochon nella balaustra, trattate come veri e propri
gioielli, così come i due inginocchiatoi in giallo antico, scolpiti ad imitazione dei mobili
dell’epoca.
Brevi note storiche e osservazioni su alcuni edifici e luoghi significativi non di culto:
Piazza S. Marco, l’incontro con la Venezia rappresentativa e monumentale. Le “1000” pietre
antiche della Basilica, un percorso decorativo ininterrotto dal 1000 fino al 1800.
La piazza, unico spazio pavimentato che utilizza questo nome nella città di Venezia, era il punto
d’incontro destinato al passeggio, alle processioni, alle feste e al gran mercato della Sensa.
Nel 1172-78, sotto il dogado di S. Ziani, si ebbe l’estensione della piazzetta sul preesistente orto
delle monache di S. Zaccaria, ottenendo l’attuale forma, fu demolita la chiesa di S. Geminiano e
ricostruita in fondo alla piazza, coperto il rio Batario. Nella metà del XVI secolo, fu rifatta la
facciata di S. Geminiano su disegno di J. Sansovino ivi sepolto e poi traslato in S. Marco.
Napoleone Bonaparte abbatté la chiesa per edificare il palazzo reale, (Ala Napoleonica).
Data 1264 l’antica pavimentazione della piazza eseguita con mattoni disposti a spina di pesce: (si
veda il dipinto di Gentile Bellini “La processione in piazza S. Marco). La nuova pavimentazione
della piazza è del 1723, realizzata impiegando “masegni” di Trachite e listoni ornamentali di pietra
d’Istria, su progetto di A. Tirali. Si ebbe la prima vistosa sopraelevazione del piano di calpestio e
conseguente importante modifica cromatica dell’insieme, passando dal rosso brillante dei mattoni al
grigio spento della Trachite.
Le Procuratie Vecchie, riprendono il motivo architettonico della precedente costruzione venetobizantina del XII secolo. M. Codussi terminò la fabbrica fino al primo piano entro il 1500.
Nel 1512 un incendio rese necessari altri lavori, eseguiti da B. Bon che completò il progetto
del Codussi. Nel 1532, successore del Bon fu J. Sansovino che terminò l’edificio nella parte
di fondo.
Le Procuratie Nuove, Scamozzi iniziò le prime dieci arcate nel 1586 sul modello della libreria del
Sansovino, l’opera fu completata nel 1640 da B. Longhena.
Entrambe le imponenti fabbriche sono state realizzate con massivi rivestimenti in pietra d’Istria e
ricchi apparati ornamentali a basso e alto rilievo.
Libreria, l’edificio, opera di Jacopo Sansovino, fu eretto dal 1537 al 1553 limitatamente alle prime
sedici arcate. L’opera di decorazione si protrasse fino al 1560. Nel 1588 Vincenzo Scamozzi
intraprese la costruzione delle ultime cinque arcate verso il molo. Sul coronamento balaustra con
statue raffiguranti divinità classiche, opera di Alessandro Vittoria e altri artisti.
Al primo piano, nel vestibolo concepito da J. Sansovino come sala destinata a lezioni di materie
umanistiche rivolte a patrizi e cittadini, trovò collocazione il Museo Statuario della Repubblica,
trasformato per tale uso da Vincenzo Scamozzi in una sorta di foro antico. Nel 1586 il patriarca di
Aquileia, Giovanni Grimani, decise di donare alla Repubblica la sua preziosa raccolta di circa 200
statue e rilievi antichi, soprattutto greci. Nel 1812, per volontà napoleonica, la sala fu sgomberata,
oggi rimangono in loco solo pochi pezzi, prevalentemente di arte romana, mentre gli altri hanno
trovato collocazione nell’attiguo Museo Archeologico.
Ca’ Dario, dimora patrizia edificata su un preesistente edificio gotico non prima del 1487, da
maestranze lombarde. Facciata ricca di pietre colorate e rare, conseguenza dell’influenza
ornamentale subita da Dario durante gli anni trascorsi come consigliere diplomatico a
Costantinopoli. Subì notevoli rimaneggiamenti strutturali e degli apparati ornamentali durante
l’ottocento.
Ca’ Venier dai leoni, famiglia tra le più importanti di Venezia, ricca e conosciuta. Preesistente
edificio detto la Torresella, da loro abitato, abbattuto in seguito alla decisione della famiglia di
costruire una dimora rappresentativa e fastosa, in antagonismo con la prospiciente Ca’ Grande
della famiglia Corner. Il grandioso progetto di Lorenzo Boschetti, 1749, mai portato a termine a
causa della mancanza di fondi, è oggi visibile nel modello ligneo al Museo Correr. Il primo
piano costruito, a livello terreno, rivestito di pietra d’Istria, reca visibili le teste di leone scolpite:
animale legato al nome della famiglia.
Ca’ Corner detta la Ca’ Grande, J. Sansovino, inizio costruzione della colossale fabbrica, la cui
facciata è interamente rivestita e ornata con pietra istriana, nel 1533, nel 1551 alla morte di
Giovanni Corner l’edificio non era ancora terminato: forse fu portato a termine dallo Scamozzi. E’
qui ben rappresentato il concetto di ornamentazione “di facciata”, inteso solo frontalmente e per la
vista dal Canale Grande, tipico dell’architettura privata veneziana.
Ca’ Gussoni Cavalli Franchetti, restauri condotti da Giambattista Meduna 1847, poi Girolamo
Manetti con la consulenza di Camillo Boito nel 1878, interessante esempio di rifacimento
ottocentesco di un ideale gotico, utilizzando parte delle pietre antiche preesistenti, aggiungendone
nuove modificando parzialmente proporzioni e colori della facciata originale.
Ca’ del Duca, Palazzo del Duca di Milano Francesco Sforza, che qui doveva sorgere sull’area e
sui piani della casa, (reggia), appena iniziata da Andrea Cornaro, padre di Caterina Cornaro
regina di Cipro, prevista in dimensioni colossali (la sala maggiore centrale avrebbe dovuto
essere lunga 55 metri e mezzo, più grande di quella del Maggior Consiglio), su progetto di
Bartolomeo Bon poco dopo la metà del 1400. Acquistato dal Duca Francesco Sforza (1461), i
lavori, temporaneamente sospesi, non furono più ripresi e la costruzione rimase incompiuta al
piano terreno, come si può vedere dai resti del forte bugnato angolare con colonne in pietra
d’Istria, affacciato sul Canal Grande.
Ca’ Rezzonico, Baldassarre Longhena inizia il cantiere nel 1667 ma non ne vede la fine a causa
della sua morte nel 1682. Filippo Bon, procuratore di S. Marco e committente, sospende i lavori
per mancanza di denaro, gli eredi proseguono e vendono la fabbrica nel 1750 a Giovanni
Battista Rezzonico. I Rezzonico chiamano a concludere la costruzione Giorgio Massari che
riprende e modifica il progetto di Longhena. Nel 1746 l’edificio appare ultimato con
l’imponente facciata in pietra d’Istria caratterizzata dagli esuberanti ornati, ricchi di soggetti
antropomorfi fantastici ed elementi architettonici a grande aggetto, quasi a tutto tondo, cosa
poco comune dato il raro impiego della pietra “in masso” a Venezia. Nel 1934 Ca’ Rezzonico fu
comperata dal Comune di Venezia e divenne sede del Museo del Settecento Veneziano.
Campo S. Stefano: le facciate affrescate, il colore perduto di Venezia, la grande stagione
dell’affresco pensato per un decorativismo fastoso, di poco costo ma anche di breve durata.
Ca’ Pisani, iniziato nel 1614-15, ingrandito dall’architetto Girolamo Frigimelica nel 1728,
rimodernato nel 1793 da Bernardino Maccaruzzi, non era mai riuscito ad affacciarsi sul Canal
grande, la famiglia si dovette accontentare di un modesto affaccio acquistando nel 1751, tramite
Andrea Pisani, il palazzetto che sorgeva tra il rio del Santissimo e Ca’ Benzon Foscolo,
proprietà del marchese Giovanni Poleni, collegandolo al resto della fabbrica con più passaggi
oggi non tutti agibili. I Pisani, famiglia tra le più illustri, impiegarono somme incalcolabili
nell’erigere questo grandioso edificio che fu dimora di sovrani e principi. Soggetto a notevoli
spoliazioni di suppellettili e raccolte d’arte, rimangono le strutture architettoniche imponenti,
dove si osserva una certa parsimonia nell’impiego della pietra d’Istria, e i suggestivi cortili con
logge sovrapposte a ricordo dell’antico fasto. Dal 1897 è sede del Conservatorio di Musica
Benedetto Marcello.
Ca’ Loredan, originaria costruzione gotica dei Mocenigo, fu acquistata dai Loredan nel 1536 e
ricostruita ex novo nelle forme rinascimentali da A. Scarpagnino. Decorazione pittorica di G.
Salviati che, pare aiutato da un maestro fiorentino, riveste d’affreschi la facciata con soggetti
tratti da episodi di storia romana, figure allegoriche, fregi, grottesche. La facciata minore in
pietra d’Istria fu eretta nel 1618 con un prospetto architettonico di tipo scamozziano attribuito a
Giovanni Grapiglia. Altri affreschi erano presenti in campo; di Sante Zago, (sec.XVI),
Giorgione, J. Tintoretto. Sul lato della chiesa di S. Stefano è ancora visibile qualche traccia
dell’affresco con Vergine e Santi, metà del XV secolo, di Girolamo Pellegrini. A. Zorzi ricorda
gli affreschi del Pordenone ancora visibili nel chiostro fino agli anni ’30. Interno della chiesa:
colonne in marmo greco e rosso di Verona alternate, capitelli dipinti, navata affrescata con gli
stessi motivi del rivestimento lapideo della facciata di P. Ducale, paliotto “Martirio di S.
Stefano”, eseguito con tecnica a commesso in pietre dure da Benedetto Corberelli nel 1656,
(iscrizione del committente Giovanni Ferro).
Ca’ Contarini Dal Bovolo, caratteristica scala a chiocciola (bovolo), che sorge nella corte,
probabilmente lombardesca, attribuita a Giovanni Candi, ca.1499. Pietra come struttura essenziale
nella concezione costruttiva della straordinaria scala autoportante e negli aerei loggiati. Nella
minuscola corte vi sono alcune vere da pozzo veneto-bizantine, sec XI, e vari frammenti decorativi.
Rialto: l’edilizia bizantina, il colorismo contrastante delle pietre orientali.
Ca’ Loredan, edificio duecentesco fondato, sembra, dalla famiglia Boccasi proveniente da
Parma, in stile veneto-bizantino, successivamente di proprietà della ricca famiglia Zane, ospitò
il doge Jacopo Contarini nel 1280. Federico Corner, ricco mercante, ne diventa proprietario e fa
scolpire nel XIV secolo sulla facciata lungo il loggiato un fregio araldico allegorico impiegando
pietre di pregio, con le immagini di Davide e Golia, la Giustizia e la Fortezza e gli stemmi
Corner e Lusignano. Con l’estinzione della famiglia nel 1664, l’edificio passa ai Loredan. Dopo
alterne vicende, è acquistato nel 1864 dal Comune di Venezia e collegato all’attiguo edificio di
Ca’ Farsetti da un passaggio: oggi è sede dell’amministrazione comunale. Porticato con colonne
di marmo greco e capitelli originali. I Restauri e rimaneggiamenti avvenuti durante il periodo
gotico e rinascimentale sono evidenti nel secondo piano.
Ca’ Farsetti, l’edificio costruito nel XII secolo (incertezza sulla fondazione), appartenuto per
tradizione al Doge Enrico Dandolo (eletto nel 1192), era ricchissimo e adorno di marmi greci
appositamente inviati a Venezia nel 1204 da Costantinopoli. Nel 1524 la casa fu distrutta da un
incendio. Nel 1669 l’edificio fu venduto ad Anton Francesco Farsetti, membro di una famiglia
dedita alle arti e alle scienze, e restaurato. Arricchito da Filippo Vincenzo Franchetti da
collezioni varie con l’intenzione di fondare una sorta di scuola destinata alla conoscenza delle
“arti gentili”, utilizzando gessi modelli e calchi di sculture tra le più importanti del repertorio
greco e romano, divenne luogo di riferimento per esercitarsi nelle arti scultoree e figurative.
Tommaso Giuseppe Farsetti raccolse una straordinaria biblioteca durante il XVIII secolo che in
seguito alla decadenza della famiglia, dal 1808, fu donata alla Marciana, mentre pietre e
gipsoteca andranno all’Accademia di Belle Arti. Colonne e capitelli originali provenienti da
edifici più antichi, ( V o VI secolo). Intervento verso il 1875 durante il quale si realizzarono ex
novo intonaci dipinti ad imitazione di lastre di marmo Proconnesio e Cipollino, mentre le parti
marmoree furono trattate con sostanze oleose in maniera irreversibile. (C. Pertot, Venezia
restaurata, 1988).
Fondaco dei Tedeschi, prima costruzione del I° quarto del XII secolo, in stile Bizantino come
rappresentato nella pianta del De Barbari. Deposito commerciale, mercato per il rame e
l’argento del nord, lana fiamminga e altri speciali merci e manufatti. Stanze per alloggio anche
di visitatori tedeschi, refettori, sale per riunioni. Era una specie di “monastero”, una comunità
commerciale, un “villaggio”. Nel 1505 distrutto da un incendio. Ricostruito in fretta, ultimato
nel 1508 sotto la direzione d’Antonio Scarpagnino con ampliamenti e migliorie. Doveva
apparire come una straordinaria macchia di colore la facciata sul Canal Grande, affrescata da
Giorgione con grandi nudi allegorici in pose sinuose. Tiziano giovane dipinse motivi simili sul
lato dell’entrata seguendo l’esempio di Giorgione. Gli affreschi erano degradati durante il XVII
secolo e totalmente deteriorati nel XVIII.
Ponte di Rialto, dal 1172, Doge S. Ziani, si pensa ad un ponte di barche trar le due rive. Nel
1181 eretto un ponte su chiatte da Nicolò Baratieri, detto del “Quartarolo” dal nome della
moneta necessaria per pagare il pedaggio. Alla metà del XIII secolo è sostituito da un ponte a
pali, stabile, tagliato da Baiamonte Tiepolo nell’ambito della congiura da lui stesso condotta nel
1310. In seguito, nel 1444 rischia di crollare, rifabbricato in legno più ampio e con botteghe,
levatoio al centro per permettere alle imbarcazioni alberate il passaggio. Fra Giocondo ne
propone il rifacimento nel 1514, vista l’instabilità della costruzione. I progetti per un ponte
stabile in muratura sono del 1554 e recano firme prestigiose: Michelangelo, Palladio, Vignola,
Sansovino, A. da Ponte, Scamozzi, A. Boldù. I lavori iniziano nel 1588 sotto la direzione
d’Antonio da Ponte, utilizzando 6.000 pali infitti sul fondo e con un costo di 250.000 ducati. A
concludere la nuova fabbrica, simboleggiandone solidità e durata, sopra la struttura portante di
mattoni, si applicò in una continuità ininterrotta, il candido rivestimento di pietra d’Istria,
impiegata con varie tecniche e lavorazioni.
INTARSI E TARSIE DELLA CHIESA DI SANTA MARIA ASSUNTA DEI
GESUITI A VENEZIA
MARCO TOSA
Gli apparati ornamentali lapidei all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti ci
stupiscono per la loro esuberanza ornamentale e il loro fasto.
Tralasciando ogni giudizio di carattere estetico, questo imponente impianto decorativo si pone
oggi, agli occhi dell’osservatore in grado di riconoscerlo, come manufatto complesso, variamente
articolato nelle possibilità espressive delle tecniche che utilizza, fonte di sorpresa per l’occhio
moderno, disabituato alla pratica della lavorazione minuziosa, dettagliata e paziente.
In questo caso, alle pietre di varia natura geologica, è stato affidato il compito di ridisegnare i
tessuti settecenteschi, fermandone attraverso i secoli i motivi decorativi originariamente costruiti
con fragili filati serici, qui definitivamente storicizzati affidandoli alla fermezza di una materia, che,
per eccellenza, da sempre è stata associata all’idea d’immutabilità.
I. DESCRIZIONE DECORI
La decorazione lapidea in breccia verde antico e marmo bianco che ripropone motivi tessili
settecenteschi si estende lungo le paraste della navata centrale e nel transetto, inserita tra i pilastri
di pietra d’Istria lavorati a martellina, comprendendo le colonne e la zona absidale dove si erge il
grandioso e composito altare maggiore con il tabernacolo di marmo bianco e lapislazzuli,
sormontato dalle sculture raffiguranti il Padre Eterno e il Salvatore seduti sul globo in marmo
bianco statuario, ad opera di Giuseppe Torretti, il cui baldacchino è sorretto da dieci colonne tortili
rivestite di scaglie di breccia verde, mentre i gradini sono ricoperti dallo spettacolare “finto tappeto”
realizzato a commesso in breccia verde e breccia gialla. Altare e tappeto sono stati attribuiti a Padre
Giuseppe Pozzo (Carmelitano Scalzo), a proposito del quale così riferisce Pietro Selvatico in Sulla
architettura e sulla scultura in Venezia da Medio Evo sino ai giorni nostri:
Fratello del più famoso P. Andrea, insigne Gesuita […] egli pittore storico, egli prospettivo famoso, egli architetto: ed
in ogni ramo, quanto abile per abbondandosa feracità d’ingegno, altrettanto sfrenato. Il fratello suo, da lui forse imparò
quella che allor chiamavonsi architettura, e se nol raggiunse nella feconda varietà delle composizioni, lo emulò, e quasi
oserei dire, talvolta lo superò nell’errore. Codesto provano ad evidenza le due grandiose opere da lui lasciate in Venezia
una della chiesa del suo Ordine, l’altra in quella dei Gesuiti;1
e, a proposito delle «[...] rampogne del Savio Visentini», che si meritò Padre Giuseppe Pozzo, il
Selvatico prosegue:
E se l’ebbe anche per le colonne spirali ch’egli in numero di dieci collocò nel magnifico altare della chiesa dei Gesuiti;
congerie di tutti quanti sono i contrassensi d’architettura; ma per altro eseguito con si bella scelta di marmi, e con linea
tanto agile immaginato, specialmente nella parte inferiore, che non si può rattenersi di guardarlo con qualche
allettamento.2
Sulla parete sinistra della navata è collocato il fastoso pulpito, vero gioiello rappresentativo di quel
gusto per il materiale prezioso e dell’abilità tecnica nella lavorazione di tali pietre, che
contraddistinse i “cantieri Manin” di Domenico Rossi. In questo caso specifico, i duri materiali
cristallini sono stati adattati per mezzo del virtuosismo esecutivo alle bizzarrie del gonfio
panneggio, al serico peso delle pregevoli stoffe operate che imitano fedelmente.
Pulpito e intarsi delle pareti sono attribuiti all’opera dell’architetto Domenico Rossi che nacque
nel 1657 a Marcote sul lago di Lugano. La parentela con Giuseppe Sarti lo introdusse nell’ambiente
dell’architettura. Rossi fu considerato sempre un uomo “senza lettere” ma molto esperto del
“meccanismo” degli edifici.
Lavorò per tutto il periodo giovanile a fianco dello zio e ad altre figure importanti, come ad
esempio il Longhena e il Tremignon. La vicinanza con questi artisti lo portò ad una notevole
maturazione artistica e specialmente ad arrivare alle giuste conoscenze e committenza; si introdusse
nell’ambiente del patriziato veneto diventando uno tra gli architetti più richiesti dalle famiglie
nobili. Ottenne importanti lavori tra il 1708 e il 1719 a Udine nel Palazzo Vescovile e nella
Biblioteca dell’Arcivescovado. Lavorò a Venezia verso il 1705 alla ricostruzione della chiesa di San
1
Sulla architettura e sulla scultura in Venezia dal Medio Evo sino ai nostri giorni: Studi di Pietro Selvatico per servire
di Guida estetica: Con settanta vignette in legno ed una tavola in rame, Venezia, Coi Tii dell’I. R. Privil. Stabilimento
Nazionale dell’editore Paolo Ripamonti Carpano, MDCCCXLVII, p. 431.
2
Ibid., pp. 432-433.
Girolamo, ora decaduta, e, soprattutto su richiesta della famiglia Manin, a Santa Maria Assunta dei
Gesuiti.
Le cappelle laterali che ospitano importanti altari ricchi di pietre pregevoli quali brecce
variamente colorate, marmi statuari e bardigli, lumachelle orientali, alabastro, rivestite sulle pareti
interne con motivi ornamentali dai colori analoghi rispetto alle paraste della navata, sono state
invece decorate con la tecnica meno dispendiosa, ma dal medesimo effetto, del marmorino,
all’insegna de “L’apparente magnificenza ed il tangibile inganno”.3 I loro pavimenti mostrano
differenti tipologie di opus sectile a piccolo, medio modulo quadrato, ad intreccio, prospettico,
scacchiera in rosso di Verona, marmo nero, marmo Bardiglio, grigio di Roverè, Istria, con a volte
inserite lastre tombali e iscrizioni. Il pavimento della navata e del transetto riprende i due colori
base delle pareti, sostituendo al marmo bianco la pietra d’Istria, seguendo un impianto decorativo
geometrico derivato da modelli a schemi quadrati in opus sectile detti “listellati” del I secolo d.C.,
tipici della romanità.4
Si differenzia l’impianto ornamentale, per maggior complessità, nel recinto entro la balaustra
dell’altare maggiore: qui, oltre al già citato tappeto che accuratamente “ripiegato” copre tutti i
gradini dell’altare, estendendosi oltre sul piano di calpestio, si osserva un decoro più fine, sempre
eseguito ad intarsio, ma impiegando lastre di marmo bianco, nelle quali il disegno in verde antico si
articola in fantasiosi motivi ad intreccio multiplo, racemi, fiori stilizzati con quattro petali lobati e
grandi medaglioni poligonali. Le lastre, di varie dimensioni e forme, sono impiegate per comporre
lo schema decorativo assumendo le diverse valenze di medaglioni centrati, fasce ornate e cornici,
dove sono osservabili anche frammenti di porfido, serpentino verde, tondi di breccia verde d’Egitto
(Lapis hecatontalithos).
II. TESSUTI: STORIA, SIMBOLI, SCUOLE
L’uso di decorare le pareti e colonne delle chiese con tessuti di pregio risale ai tempi precarolingi, quando si adoperavano tappezzerie riccamente ornate e “veli” posti tra le colonne del
baldacchino e dell’altare maggiore. I disegni di tali tessili dovevano essere grandi, chiaramente
visibili, contrastati nelle linee e nei colori, possibilmente corrispondenti allo stile della chiesa.
I colori dei parati e dei tappeti – usati questi ultimi per adornare la predella dell’altare maggiore,
del trono vescovile e il pavimento del coro – in ogni caso dovevano essere forti ed efficaci, ma non
chiassosi, la materia con la quale erano realizzati solida e decorosa. Simbologie e significati sempre
più radicati si associarono ai disegni dei tessuti ornamentali attraverso le varie epoche, così come ai
loro colori: il bianco rappresentava la purezza, il rosso la carità, il verde la vita di orazione.
Durante i secoli XVII e XVIII Venezia era una delle città con fiorente produzione tessile,
specializzata nei tessuti di seta e velluti operati, caratterizzati da una vivace fantasia nell’invenzione
dei motivi floreali che raggiunsero grandi dimensioni nel modulo decorativo. Sono queste le precise
indicazioni e i riferimenti che gli artigiani riproposero elaborando i decori lapidei della chiesa di
Santa Maria Assunta dei Gesuiti, che, come scrive D.D. Poli, «[...] era sede dal 1643 della Scuola
dei tessitori di seta e dei sarti».5 Testimonianza confermata dalla lapide del 1704, con iscrizione, in
Campo dei Gesuiti, «SCVOLA D SAN CRISTOFORO DEL OFICIO DI ARTE / D TESTORI DA PANNI DI SETA
RESTAVRATA / L’ANNO MDCCIV».
3
Cfr. l’omonimo saggio di FRANCESCO AMENDOLAGINE, L’apparente magnificenza e il tangibile inganno: L’apparato
decorativo della chiesa dei Gesuiti in Venezia, in L’architettura della Compagnia di Gesù in Italia: XVI-XVIII sec., Atti
del convegno (Milano, Centro Culturale San Fedele, 24-27 ottobre 1990), a cura di Luciano Patetta e Stefano Della
Torre, Genova, Marietti, 1992, pp. 217-222.
4
Si veda FEDERICO GUIDOBALDI, ALESSANDRA GUIGLIA GUIDOBALDI, Pavimenti marmorei di Roma dal IV al IX secolo, Città
del Vaticano, Pontificio Istituto di archeologia cristiana, 1983.
5
DORETTA DAVANZO POLI, Le arti decorative a Venezia, Fotografie di Mark. E. Smith, Azzano San Paolo (BG), Bolis,
1999, p. 52.
È del 1735, nell’adiacente Chiesa dei Gesuiti, il primo altare a destra con il dipinto di Jacopo
Palma il giovane raffigurante l’Angelo Custode e angeli che trasportano anime, recante l’iscrizione
sul coronamento in alto «OFFICIO ET ARTE DE TESTORI DA PANNI DI SETA E D’ORO », nel mezzo «MDCCXXXV»,
mentre sulle antine d’ingresso all’altare è sbalzata l’immagine del patrono San Cristoforo e le
iniziali dell’arte «TS».6
Inoltre, in Campo dei Gesuiti, vicino all’anagrafico 4881, vi sono forbici scolpite sulla pietra
dell’architrave di due piccole finestre.
I “taiapiera” che operarono qui furono certamente attenti al didascalico e pedagogico, senz’altro
indirizzati dalla ferma morale della fede gesuita che volle la chiesa come luogo dove la cerimonia
sacra, spettacolosa e memorabile, doveva essere di sicuro effetto propagandistico, circondata dal
fasto liturgico sempre maggiore che adottava in non pochi casi le risorse della scenografia, come
scrive Michelino Grandieri:
Le finalità più spiccatamente religiose e quelle politiche in senso lato, non risparmiano l’architettura, questa non
insegue più la “bellezza” ma il “decoro”, e cioè la nobiltà e la severità dell’insieme, la convenienza degli edifici ad una
funzione nobilmente rappresentativa, ma anche per ciò essenzialmente rivolta al fine pratico dell’imporre, del
persuadere, del meravigliare.7
Si possono riconoscere oggi nei “tessuti di pietra” di Santa Maria Assunta precise strutture grafiche
derivate dall’antico, unite con sapienza ad un sorprendente apparato scenografico, utilizzando un
abbinamento di colori dominante certamente non casuale: verde e bianco, gli stessi che saranno
impiegati dai finanziatori nella cappella Manin di Udine del 1735. La tipologia tessile rappresentata
negli intarsi delle pareti e del pulpito ricopia i damaschi veneziani del XVIII secolo, con motivi di
grandi steli, rami incurvati, foglie arricciolate, fiori e frutti, composti in un grande modulo
decorativo e comprendenti tra le varie specie, il fiore del Cappero, elemento simbolico in uso nelle
toghe dei Procuratori della Serenissima Repubblica di San Marco.
III. STORIA E VICENDE DELL’EDIFICIO
Dal punto di vista storico, prima di approfondire ulteriormente l’aspetto tecnologico di tali
manufatti, è utile conoscere alcune notizie relative alle vicende dell’edificio, così anomalo rispetto a
quelli della tradizione veneziana, per meglio comprendere la sua definitiva connotazione e i motivi
di tale dispendio ornamentale.
Flaminio Corner cita la Cronaca di Marino Sanudo:
Nell’anno 1150 fu edificata la chiesa dei Crocechieri per Pietro Gufoni, il quale fece anche edificare l’ospedale
appresso […]. / Non trascorse poscia molto tempo da che il vecchio Monastero era stato consegnato in potere de’
Gesuiti, quando la chiesa ampia bensì, ma debole nella sua struttura cominciò a dare non indifferenti contrassegni del
vicino pericolo. Perloché nell’anno 1715 fu intrapreso di rifabbricarla in magnifica forma da’ fondamenti, e nel breve
giro di tre lustri fu ridotta al suo compimento con tale nobiltà, che può meritatamente annoverarsi fra i più ricchi, e ben
ornati Tempi di Venezia. / L’altare sontuosamente eretto nella Cappella maggiore, la ricca incrostatura di tutta la chiesa,
e l’esterior facciata di marmo furono tutte opere della Patrizia Famiglia Manina, e gli altri altari della Chiesa furono
pure benefici di divote persone [...].8
6
Si veda ANGELO FINAMORE , Iscrizioni, insegne e scultura dei mestieri della moda a Venezia, in I mestieri della moda a
Venezia dal XIII al XVIII secolo / The crafts of the Venetian fashion industry from the thirteenth to the eighteenth
century, Catalogo della mostra: Venezia, Ala napoleonica e Museo Correr, giugno-settembre 1988, Venezia, I mestieri
della moda a Venezia, 1988, pp. 101-111, cit. p.107.
7
Della moderazione onesta: Introduzione al teatro dei Gesuiti in Italia, in «Storia dell’arte», 1978, gennaio-aprile, pp.
59-71.
8
Notizie storiche delle Chiese e Monasteri di Venezia e di Torcello tratte dalle Chiese Veneziane e Torcellane illustrate
da Flaminio Corner Senator Veneziano, Padova, MDCCLVIII, p. 302, e pp. 305-306.
Testimoniano della primitiva chiesa due frammenti di lastre in marmo bianco saccaroide, decorate a
bassorilievo con aquile che ghermiscono il coniglio tra girali vegetali, attualmente esposte al centro
della navata, ritrovate alcuni anni fa durante lavori interni di ristrutturazione.
Una testimonianza di Giovanni Agostino Gradenigo narra che
divenuta rovinosa la chiesa dedicata all’Assunta, a nostri giorni fu riedificata con grosse spese da N. H. S. Antonio
Manin, et il chiostro prima si rifece con stratagemmi competenti al fare di essi Gesuiti; vogliamo dire assiduamente
presenti ai lavori.
Appare evidenziato in queste fonti l’importante apporto economico della famiglia Manin al cantiere
di ricostruzione, presenza che dal punto di vista stilistico e tecnico influenzò in modo determinante
l’impianto decorativo interno della chiesa. Tale generosa quanto mirata munificenza era saldamente
legata alla necessità politica da parte dei Manin di confermare il loro prestigio e presenza sociale
anche a Venezia, oltre che in Friuli, dove già esisteva la fastosa e rappresentativa villa di
Passariano.
Giuseppe Tassini ci informa sinteticamente anche riguardo alle ultime vicende del complesso
monastico,
Fondato nel 1150, ovvero 1155, a merito dei frati Crociferi, detti corrottamente Crosechieri, e fu rifabbricato dopo
l’incendio del 1514. Nel 1657 ai Crociferi successero i padri della Compagnia di Gesù, i quali principiarono nel 1715 a
riedificare la prossima chiesa, tuttora aperta al culto, compiendola nel 1729. Soppressi i Gesuiti nel 1733, il convento
destinonsi nell’anno successivo a pubbliche scuole, e nel 1807 si ridusse a caserma.9
In merito al decoro interno dell’edificio, appare spietato il commento del Selvatico, che così lo
descrive e giudica:
Codesta lode almeno meritassero gli edifizii di quel Domenico Rossi che dal 1715 al 1728 architettò lo interno della
chiesa testè nominata. Ma egli, inferiore d’ingegno al Pozzo, come a tutti i contemporanei, cadde nel trito, nel pesante,
nello strampalato, senza raggiungere il pittoresco mai. / Quella chiesa ad una sola nave, a cappelle sfondate, che nel
corpo maggiore è decorata da pilastri corintii, ha la trabeazione risaltata sopra ognuno dei detti pilastri e delle colonne,
la qual cosa da all’insieme un che di spezzato e di triste che offende l’occhio. Cresce il bruttissimo effetto quel soffitto a
volta ornato di barbari stucchi messi per lo più a oro. A me riesce poi intollerabile anche la bizzarria con cui piacque
all’architetto fregiare le pareti tra gli intercolomnii, i fusti delle colonne nella tribuna, e fino il pesante panneggiamento
di marmo che s’aggrava sul goffo pulpito. In tutte le indicate parti finse una drapperia a gran fiorami verdi e bianchi che
distruggono ogni effetto di massa, e che stanno in perfetto disaccordo con tutto il rimanente. E si che costui potea
disporre di marmi tanto belli da poter fare una buona figura anche sfogandosi in baroccumi. / A compir la bruttezza di
questo tempio, venne certo Gio. Battista Fattoretto, il quale condusse la colossale facciata che a qualcuno piacque di
chiamare grandiosa.10
In un’altra interessante nota di Antonio Visentini, si apprende che anche sulla facciata vi era un
richiamo agli intarsi interni:
[...] si può anche in questo luogo aggiungere la stravaganza dello strato posto fuori dalla finestra di sopra, che scherza
svolazzando volendosi far comparire un drappo posto per ornamento in occasione d’alcune solennità. Ma chi così pensa
va errato, non esponendo la pietra materia si leggera che possa esser mossa dal vento, come le bandiere, ma materia
soda e pesante, ricercando questa d’appoggiarsi, di trar ferma e stabile, e non già scherzar per l’aria.11
IV. TECNICA
9
Edifici di Venezia distrutti o volti ad uso diverso da quello a cui furono destinati, Venezia, G. Tassini, 1885, p. 124.
Sulla architettura e sulla scultura in Venezia dal Medio Evo sino ai nostri giorni..., cit., p. 433.
11
ELENA BASSI, Architettura del Sei e Settecento a Venezia, Collana di Storia dell’Architettura, ambiente,
urbanistica, arti figurative, Venezia, Filippi , 1980, cit. p. 230.
10
La tecnica utilizzata per realizzare questi decori parietali, il pulpito e gran parte del pavimento è
quella dell’intarsio, che prevede l’impiego di una cosiddetta lastra “madre” spessa alcuni centimetri,
tagliata in una misura predefinita, sulla quale si riporta il modello pittorico, a disegno intero o parte
di esso se modulare e destinato a comporre grandi motivi, motivi che avranno il loro compimento
formale affiancando successivamente i vari pannelli tra di loro. La lastra è intagliata, scavando nella
materia fino alla profondità utile per permettere l’inserimento delle crustæ lapidee colorate negli
appositi vani del supporto il quale rimane a vista ed è parte della composizione. Gli elementi
marmorei, una volta fissati con l’apposito mastice, andranno a completare il motivo ornamentale,
definendo campiture graficamente nette e contrasti di colore vivaci. Tale tecnica si differenzia da
quella della tarsia o del “commesso” che, invece, prevede la composizione di un disegno
affiancando o “commettendo” tra di loro molteplici lastre lapidee, spesso derivate da pietre dure di
pregio, precedentemente tagliate in lamine molto sottili nei colori e nelle forme della cosa
rappresentata, utili alla finalità progettuale. Inoltre le linee di commettitura tra diversi elementi
devono risultare inesistenti e la superficie dovrà essere levigata accuratamente. Matrice di entrambe
le tecniche è stato l’opus sectile romano, o mosaico a sezioni, III-IV secolo d.C., che le mescolava
spesso con interscambiabilità, rendendole funzionali alla difficoltà richiesta dal manufatto, al costo,
alla disponibilità delle pietre da parte dell’artigiano esecutore.12
La moda per tali raffinati, costosi, rappresentativi lavori di pazienza e ingegno, ha radici antiche
nella romanità, con la tradizione lapicida che l’impero aveva assorbito, tradotto e adattato alle
proprie esigenze, importandole da ogni angolo dei suoi vasti domini. Sotto Costantino, cessata ogni
possibilità di rifornimento diretto dalle cave, a causa del venire meno di un’efficiente rete di
trasporti, divennero cave i monumenti stessi e la “Marmorata” – il deposito dei materiali lapidei in
grandi blocchi che si era costituito nel tempo, sulla riva sinistra del Tevere – da qui i Cosmati
attinsero i materiali per i loro mosaici e lavori in pietra nel secolo XII.
Tale interesse continuo, legato inevitabilmente alla rappresentazione dello status sociale,
attraversando i secoli, trovò un entusiasta Vasari a Firenze, e, con la “lettera patente” emanata da
Ferdinando I de’ Medici si assistette alla nascita, il 3 settembre 1588, della manifattura granducale
fiorentina, che produsse eccezionali capolavori esemplari della tecnica del commesso.13
Nel caso di Venezia, questi oggetti da collezione sembrano restare un po’ marginali rispetto al
desiderio di “ornato” che, invece, aveva da sempre qualificato e resa unica l’architettura locale,
trasformando le facciate delle case dei veneziani in preziose raccolte a cielo aperto di sculture,
rilievi, patere antiche, incastonate con medaglioni di pietre rare, rivestite di lastre dalle tinte brillanti
provenienti da cave lontane. Pochi anche i casi di opere in commesso all’interno di edifici di culto
riconducibili ad un autore: è di Benedetto Corberelli il paliotto dell’altare maggiore nella chiesa di
Santo Stefano (1656), di Antonio e Iseppo Rusini il paliotto Santa Maria del Giglio (1691), di
Cosimo Fanzago l’altare maggiore di San Nicolò del Lido (1634).
Assume quindi particolare interesse in questo ambito geografico e culturale il decoro lapideo
interno della chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti che porta in se le radici delle tradizioni
romane, il gusto del collezionismo e dell’ eccezionale tecnica fiorentina, uniti insieme alla potenza
declamatoria della fede gesuita grazie al denaro di un nobile patrizio avviato sull’ambiziosa strada
del Dogado.
V. REALIZZAZIONE, TAGLIO, COLLE, FINITURA
L’esecuzione di intarsi e tarsie si deve a maestranze probabilmente veneziane – sono citati nei
libri i soliti e generici “taiapiera” e “fregadori” – mentre sono state avanzate ipotesi sul disegno dei
damaschi marmorei, riferendosi ad un tale Olivo, stesso nome che compare per disegni molto simili
12
Cfr. RANIERO GNOLI , Marmora Romana, Roma, Edizioni dell'Elefante, 1971, 1988, edizione riveduta ed ampliata, pp.
18-19, illustrazioni nn° 24-29.
13
Si veda ALVAREZ GONZALES-PALACIOS, Mosaici e pietre dure, Milano, Fabbri Editori, 1988.
impiegati nei decori della cappella Manin di Udine. Analogie stilistiche, architettoniche e
compositive si riscontrano anche nella cappella collegata alla grande villa Manin di Passariano,
costruita su progetto dell’architetto Domenico Rossi intorno al 1735. All’interno una superficie
marmorea policroma copre il pavimento, si estende sulle paraste, corre lungo la cornice marcapiano
ai piedi della cupola, fa da tappeto ai gradini dell’altare maggiore ove troneggia la Madonna con il
Bambino, opera di Giuseppe Torretti.
Le lastre parietali di marmo bianco monolitiche usate nella chiesa dei Gesuiti hanno uno
spessore di circa 4-5 centimetri, e sono scavate per circa un centimetro in profondità ricavando le
sedi per alloggiarvi le crustæ. Vi sono differenti misure nella larghezza: quelle poste sui quattro
pilastri che sostengono la cupola sono le più grandi (52,5 centimetri), mentre le lastre nella navata e
delle pareti corrispondenti ai due altari affrontati del transetto, sebbene non misurabili direttamente,
appaiono chiaramente più strette; quelle curve, che rivestono le quattro grandi colonne ai lati
dell’altare maggiore misurano 50 centimetri alla base. Sono evidenti e facilmente individuabili ad
occhio i segni di giunzione fra tutte le lastre. I frammenti litoidi di varia natura inseriti per comporre
l’ornato e presenti anche negli altri elementi intarsiati, quali le colonnine delle varie balaustre
prospicenti gli altari, variano dai 3 ai 5 mm. di spessore.
L’intaglio dell’incavo presentava spesso problemi dovuti alla difficoltà di seguire bene il
progredire del lavoro durante l’esecuzione. Vasari ne scrive in merito, narrando della vita di Valerio
Belli, celebre intagliatore milanese del XVI secolo: «[...] poiché tagliando in incavo, che è proprio
un lavorare al buio, da che non serve ad altro la cera che per acchidi a vedere di man mano quello
che si fa»,14 riferendosi all’artificio consistente nell’eseguire durante il lavoro continui calchi in cera
dell’incavo per vederne man mano il progresso e stabilire come e dove levare con le ruote fino alla
conclusione dell’intarsio, affinché la pietra, liberata da supporto di legno, pulita dagli abrasivi e
dall’olio, potesse finalmente rivelare le forme ottenute.
Nel nostro caso, il disegno verde su fondo bianco ha uno sviluppo verticale, imitando la
larghezza della pezza tra le due cimosse. I motivi riprodotti sono uguali nelle paraste della navata,
nel transetto, sulle colonne e dietro l’altare maggiore, variando di poco nell’espansione del modulo,
che risulta a volte allargato o ristretto a seconda delle esigenze imposte dallo spazio a disposizione.
Anche alcuni elementi del disegno di base, frutti, infiorescenze, rami, sebbene ricorrenti, sono
combinati tra di loro in modo diverso, come si può osservare nel caso delle quattro fasce del
transetto. Anche il fregio in alto, sotto il cornicione di pietra d’Istria che corre lungo tutto il
perimetro della chiesa, è stato eseguito con la stessa tecnica.
Le crustæ di breccia verde non sono state tagliate secondo contorni precisi in ampie campiture,
ma appaiono frammentarie nell’aspetto compositivo, assemblate in elementi di differente
dimensione, forme e intensità cromatica, certamente per una volontà di risparmio e riduzione dello
spreco durante il taglio di tale materiale pregiato.
Questo aspetto è molto più evidente nelle colonne ai lati dell’altare maggiore e in quelle tortili
del baldacchino, dove si era reso necessario adattare il rivestimento lapideo alla sezione circolare e
mossa del fusto, impiegando quindi frammenti ancora più piccoli di verde.
Le linee di congiunzione fra tali elementi, dovevano essere invisibili al fine di fornire una
visione unitaria, fortemente grafica, dell’intarsio. In questo senso si procedeva utilizzando leganti
colorati. Secondo uno studio effettuato dal Centro Regionale di catalogazione e restauro del Beni
Culturali del Friuli Venezia Giulia, vi sono analogie tra le “maltine” con cui sono incollate le
crustae di breccia verde al marmo bianco di Udine e quelle di Venezia. Nelle analisi eseguite sui
materiali campionati nella cappella di Udine il legante in questione risulta composto da gesso,
carbonato di calcio, materiale organico. Tale risultato ha trovato conferma con la tradizione antica,
dalle quale si apprende dell’ utilizzo di carbone, cera, pegola, gesso polvere di marmo ed altro.
Probabilmente il carbone era stato usato come tinta per scurire la malta nelle interconnessioni
tra i frammenti lapidei. La “pegola” nei ricettari veneti sta ad indicare le resine derivate da conifere,
14
GIORGIO VASARI, Le vite dè più eccellenti pittori, scultori e architetti,Vol. 3, Gaetano Milanesi, Cornelius von
Fabriczy, C.G.Sansoni. 1878, cit. p. 28.
dalla colofonia alla trementina, note e molto usate all’epoca in differenti tecniche artistiche. In
questo caso il suo impiego è stato come collante, considerate alcune sue caratteristiche quali il buon
potere adesivo e la resistenza nel tempo anche in ambiente umido.
A causa del diffuso degrado, si può osservare, nei punti in cui le parti di verde sono andate
perdute o staccate, uno strato spesso e duro, irregolare, dal colore giallo ocra che riempie lo spazio
dell’intarsio, probabile residuo della suddetta “maltina”.
Dobbiamo immaginare questi decori finiti a lustro, resi lucenti, oltre che dalla perfetta
levigatura delle superfici, anche dalla cera impiegata come lucidante finale. Parte di tale finitura è
ancora riconoscibile nei panneggi del pulpito, dove per altro è quasi impossibile identificare ad
occhio nudo le linee di giunzione tra i vari blocchi massivi di marmo. Qui, a differenza delle
paraste, oggi opache e sbiadite, la qualità tecnica dell’intarsio sorprende ancora di più poiché il
modulo decorativo del tessuto è fedelmente adattato, senza nessuna approssimazione, alle casuali e
gonfie pieghe dei due drappi, raccolti ai lati della balaustra. Se potessimo idealmente distendere le
due tende, ritroveremmo le perfette corrispondenze dei disegni. Il contrasto tra la solida struttura
architettonica barocca del pulpito, definita dalla copertura a pagoda e dal balcone sagomato, con il
soffitto intarsiato decorato da cornici a bassorilievo, e le tende di “damasco”, sottolinea
ulteriormente il puro impianto scenografico dell’opera. Completano l’illusione le frange mosse
poste all’orlo dei drappi e le nappe tra le centine del baldacchino, scolpite nel marmo bianco,
all’insegna del più ricercato realismo.