Paolo Cavana La famiglia nella Costituzione italiana 1. La famiglia nella Costituzione La nostra Costituzione dedica alla famiglia una serie di disposizioni (gli artt. 2931 e 37), tra loro strettamente connesse, dalle quali si trae una serie di fondamentali indicazioni circa la sua natura e rilevanza giuridica e i limiti di intervento del legislatore in materia, anche in relazione alla questione dell’eventuale rilevanza giuridica di altre forme di convivenza, che risulta al centro del dibattito attuale. Va evidenziata innanzitutto la centralità che assume, oggi come allora, la scelta fondamentale compiuta dai nostri costituenti di inserire la famiglia nella Costituzione, scelta che ha poi qualificato la successiva evoluzione dell’ordinamento in materia. Non si trattava di una scelta scontata, anzi essa andava contro tutta la nostra tradizione costituzionale e legislativa. Lo Statuto Albertino (1848), che per oltre un secolo aveva rappresentato la Costituzione del Regno d’Italia, aveva sempre ignorato la famiglia. Lo Stato liberale, pur tutelando la famiglia l’aveva relegata nel codice civile (1865), ossia tra gli istituti e i rapporti di diritto privato, valorizzando di essa soprattutto quegli aspetti di natura patrimoniale derivanti dal matrimonio che segnarono il fondamento della famiglia borghese a partire dal Codice napoleonico del 1804, al quale si ispirarono le successive codificazioni europee dell’Ottocento. Il regime fascista aveva invece adottato una concezione pubblicistica della famiglia (resta emblematica la teoria istituzionista di Antonio Cicu) ma asservendola ai fini propri dello Stato, arrivando al punto di prevedere il dovere dei genitori di educare e istruire la prole, oltre che in base ai “principi della morale”, in conformità al “sentimento nazionale fascista” (art. 147 cod. civile del 1942 nel testo originario). Distaccandosi da tali precedenti, i nostri costituenti intesero invece riconoscere la famiglia come realtà originaria e primigenia rispetto allo Stato, ma al tempo stesso, trattandone nell’ambito dei “Rapporti etico-sociali” (Titolo II, Prima parte) insieme alla scuola (artt. 33-34), ne riconobbero le fondamentali e peculiari funzioni per la promozione e lo sviluppo della persona umana. Il problema si pose all’inizio del dibattito in Assemblea quando V.E. Orlando presentò nella seduta del 23 aprile 1947 un famoso ordine del giorno in cui si proponeva la cancellazione degli articoli dedicati alla famiglia e l’eventuale inserimento di una parte del loro contenuto all’interno di un Preambolo della Carta. Dopo un acceso dibattito la maggioranza, in cui confluirono i costituenti cattolici e le sinistre, respinse l’o.d.g., Cosi facendo l’Assemblea manifestò chiaramente la sua volontà di inserire la famiglia tra le istituzioni cardine del nuovo assetto costituzionale anche nella prospettiva della difficile ricostruzione del tessuto economico e sociale del paese, sottolineandone la specifica rilevanza sociale e valoriale. Nella Costituzione, quindi, la famiglia rileva non come istituzione posta a fondamento dei rapporti economici della società, secondo quella concezione di matrice liberale che ispirava il codice civile, né in funzione dei preminenti interessi dello Statoapparato, ma essenzialmente, secondo la sua realtà originaria, come comunità naturale costituita dall’unione tra un uomo e una donna, con assunzione di reciproci diritti e doveri mediante il matrimonio, ove si sviluppa la persona umana in un contesto di reciproca solidarietà tra più generazioni. 1 2. La nozione di famiglia Il nucleo centrale della disciplina costituzionale della famiglia è dato dall’art. 29 della Costituzione, che recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” L’uso del verbo “riconoscere”, che qualifica l’atteggiamento della Repubblica nei confronti della famiglia e dei suoi diritti, rimanda a quella visione dell’anteriorità sociale - e direi anche antropologica - della famiglia rispetto allo Stato, risalente all’esperienza romanistica, che abbiamo visto essere stata alla base del suo inserimento nel testo costituzionale. Si tratta di un’espressione che significativamente ricorre nel testo costituzionale con analogo significato solo nell’art. 2, ove si afferma che la Repubblica “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, e nell’art. 5, ove si afferma che essa “riconosce e promuove le autonomie locali”. In questi casi la Costituzione ha inteso rimarcare l’esistenza di situazioni, rapporti e realtà primarie che precedono la Repubblica, intesa come l’insieme delle articolazioni istituzionali in cui si esprime la comunità politica, e ne costituiscono una sorta di presupposto pre-politico in cui si traduce una visione antropologica di carattere relazione, in cui cioè la persona è colta nel suo naturale svilupparsi e crescere in quel naturale luogo di affetti e di relazioni solidali che è la famiglia e in comunità locali ove matura la sua partecipazione alla vita politica e sociale del paese. La definizione della famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” fu al centro di un ampio dibattito, nel quale si confrontarono le principali anime o correnti culturali rappresentate in Assemblea. Esso vide, da un lato la rinuncia da parte cattolica alla costituzionalizzazione del principio dell’indissolubilità del matrimonio, dovuta peraltro non ad un’esplicita contrarietà ad esso da parte di altri settori dell’Assemblea (nessun intervento vi fu a favore dell’introduzione del divorzio), quanto soprattutto alla rilevata inopportunità di inserire questo ulteriore vincolo nei confronti del legislatore ordinario tenuto conto della già intervenuta approvazione dell’art. 7 Cost., il quale, attraverso l’esplicito richiamo dei Patti lateranensi, aveva assicurato la disciplina canonistica del matrimonio di cui all’art. 34 del Concordato. Il dibattito vide anche il superamento di alcune posizioni laiche, di matrice liberale e marxista, inizialmente contrarie o diffidenti rispetto all’inserimento della famiglia nel testo costituzionale e soprattutto ad una sua definizione, per la quale invece si batté la componente cattolica. Alla fine si impose la convergenza su una formula di indubbia matrice metagiuridica (la famiglia come “società naturale” fondata sul matrimonio) che, richiamando il concetto di natura ma evitando l’appiattimento sulla concezione canonistica, rifletteva un’idea di famiglia teorizzata ed accolta nella tradizione giusnaturalista, sia di matrice religiosa che razionalista (l’unione tra un uomo e una donna per la procreazione dei figli), e protesa, in modo molto innovativo per l’epoca, all’affermazione di nuovi rapporti familiari informati al principio di eguaglianza tra i coniugi. Nel dibattito di questi giorni vi è chi sostiene che il costituente non aveva intenzione di dare una definizione di famiglia ma semplicemente di porre dei limiti all’eventuale ingerenza dello Stato nella sfera di autonomia della famiglia stessa. Si tratta di un’interpretazione sicuramente presente e più volte richiamata nel dibattito, ma 2 certo non esaustiva e che fornisce una lettura solo parziale della formula costituzionale. Essa avrebbe ragion d’essere solo se fosse stata accolta la proposta Iotti (PCI), che prevedeva un generico richiamo ai “diritti della famiglia”, come ritroviamo in altre Costituzioni contemporanee1. Passò invece la formula attuale, maturata in seno allo schieramento cattolico, che ha una evidente portata definitoria pur consentendo un margine di interpretazione su singoli aspetti dell’istituto matrimoniale, soprattutto il divorzio. Quanto all’affermazione secondo cui “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”, essa presentava all’epoca un carattere di assoluta novità perché era ancora dominante nel paese e nel codice civile (1942) un assetto gerarchico della famiglia che assegnava nel matrimonio un indiscutibile primato al marito sia nei rapporti coniugali che nella potestà sui figli. Solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975 il principio fu concretamente introdotto nella disciplina civilistica e fu concretamente attuato anche sul piano dei rapporti patrimoniali, con l’introduzione del regime di comunione legale. Nel suo complesso, quindi, l’art. 29 Cost. presenta una concezione della famiglia in cui la visione giusnaturalista si coniuga con il riconoscimento del carattere storico di taluni aspetti della sua disciplina. La famiglia è individuata come una comunità “naturale”, ossia dotata di una propria peculiare fisionomia di carattere meta-giuridico, radicata in una ben determinata concezione antropologica della persona e in una secolare tradizione storico-giuridica, e come tale sottratta al potere condizionante del 2 legislatore, tenuto a rispettarne l’intima natura . Al tempo stesso però, attraverso il richiamo all’istituto matrimoniale come suo fondamento normativo e al principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, all’epoca estraneo alla disciplina civilistica, si apriva uno spazio per l’intervento del legislatore al fine di introdurre all’interno di tale struttura originaria (o “archetipo”), e nel rispetto dei suoi caratteri essenziali, quei necessari adattamenti resi necessari dalla tutela dei diritti individuali (cfr. art. 2 Cost.) e dall’evoluzione sociale e culturale del paese. 3. La filiazione Il tema della filiazione, cui è dedicato l’art. 30, è pure centrale nella ricostruzione del modello di famiglia accolto nella Costituzione. Fondamentale risulta il primo comma, secondo il quale “é dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio”. La disposizione, nella sua apparente semplicità, afferma una serie di principi. 1 Cfr. Costituzione francese, tedesca e spagnola. 2 Espressione di questa peculiare attenzione dell’ordinamento alle esigenze di autonomia della famiglia sono quegli articoli del codice civile, introdotti con la legge di riforma del 1975, che limitano fortemente l’intervento del giudice all’interno della famiglia sia in caso di disaccordo tra i coniugi sulla fissazione della residenza o su “altri affari essenziali”, condizionandolo sempre alla richiesta di almeno uno dei coniugi e senza poter mai assumere carattere autoritativo se non in presenza di una espressa e congiunta richiesta in tal senso da parte di entrambi i coniugi (art. 145), sia in caso di contrasto tra i genitori su “questioni di particolare importanza” concernenti l’esercizio della potestà genitoriale, potendo solo il giudice, sempre su ricorso di uno dei genitori, dopo aver suggerito “le determinazioni che ritiene più utili nell’interesse del figlio e dell’unità familiare” e qualora il contrasto permanga, attribuire il potere di decisione a quello dei genitori che ritiene il più idoneo a curare l’interesse del figlio (art. 316). 3 Innanzitutto, in coerenza con l’affermazione della anteriorità della famiglia rispetto allo Stato di cui all’art. 29, riconosce il diritto, non più solo il dovere (come nel testo originario del codice civile del 1942), dei genitori di svolgere la loro funzione educativa nei confronti dei figli. Sotto questo profilo la disposizione va ad integrare e fornisce un senso allo statuto di autonomia assicurato alla famiglia rispetto allo Stato, individuando nella cura della prole la ragione fondamentale, anche se non esclusiva, di quel favor familiae cui è ispirato il testo costituzionale. Ne è conferma anche il fatto che nel successivo art. 31 Cost. le forme di aiuto e sostegno alla famiglia sono specificamente finalizzate alla sua “formazione” e all’“adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”, con un esplicito e prevalente riferimento ai compiti nei confronti della prole. In secondo luogo la disposizione afferma tale diritto e dovere dei genitori anche nei confronti dei figli “nati fuori dal matrimonio”, prevedendo altresì che la legge assicuri ad essi “ogni tutela giuridica e sociale, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima”. Si tratta del principio dell’equiparazione della tutela giuridica dei figli naturali a quelli legittimi, originariamente affermato sulla base del criterio di civiltà secondo cui non si debba far ricadere sui figli le colpe dei genitori, che la Costituzione tuttavia ha recepito con il limite del non pregiudizio dei diritti dei membri della famiglia legittima. Come noto questa tendenziale equiparazione, pur essendo in larga misura già attuata, incontra ancora una serie di limiti nell’ordinamento italiano vigente, primo fra tutti quello del mancato riconoscimento dei legami di parentela del figlio naturale riconosciuto con i parenti del padre e/o della madre, in quanto il riconoscimento del figlio naturale produce effetti solo nei confronti del singolo genitore che l’ha effettuato, con una minor tutela rispetto ai figli legittimi sia sul piano dei diritti successori, in quanto gli è precluso succedere a fratelli, zii, nonni, etc., sia per esempio nella prospettiva di un’adozione del minore a titolo preferenziale da parte di altri parenti, per esempio i nonni, mancando un riconoscimento legale di tale legame3. Infine, anche i genitori dei figli nati fuori del matrimonio hanno il diritto, non solo il dovere, nei confronti dello Stato, di mantenerli istruirli ed educarli, senza tuttavia quell’ulteriore e più ampia garanzia di autonomia fornita dalla costituzione di una famiglia e dal riconoscimento dei relativi “diritti”. 4. Le politiche familiari e il ruolo delle Regioni. L’alto apprezzamento che la Costituzione riserva alla famiglia, per le ragioni e nei limiti appena visti, si esprime nell’art. 31, in cui si prevede che “la Repubblica agevola con misura economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Si noti in tale formulazione come le misure di sostegno alla famiglia siano rivolte essenzialmente in funzione dei compiti da essa svolti, concernenti prevalentemente la 3 La proposta di unificare lo stato giuridico di figlio, mediante l’abolizione della distinzione tra figli legittimi e figli naturali, già sancita in Germania nel 1997 e in Francia nel 2005, è da tempo auspicata dalla dottrina anche in Italia e forma oggetto di proposte di legge già presentate nelle ultime legislature. Essa risulta inoltre conforme all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. proclamata a Nizza nel 2000, che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla nascita della persona. 4 prole e i suoi componenti anziani. Per quanto invece concerne la relazione di coppia (c.d. coniugio), ossia i diritti e doveri dei coniugi sia sul piano personale che patrimoniale, la Costituzione si limita a richiamare il fondamentale principio di eguaglianza morale e giuridica che deve ordinare il matrimonio, implicitamente rinviando per ogni altro aspetto alla disciplina legislativa di tale istituto. E’ noto come tale disposizione, relativa alle c.d. politiche familiari, sia rimasta sostanzialmente inattuata da parte del legislatore nazionale. Le ragioni di tale inattuazione sono forse in parte dovute al ricordo della legislazione fascista di sostegno alla famiglia e alla natalità, che hanno rafforzato in una parte della cultura e della classe politica italiana un’opposizione preconcetta nei confronti di tale istituto, ispirata ad una sua fuorviante concezione - peraltro già presente e tuttora operante - come gabbia degli affetti e freno al progresso civile e sociale del paese. Tale ritardo è peraltro alla base anche della scarsa considerazione e tutela di cui godono nell’ordinamento italiano altre forme di convivenza, che in alcuni ordinamenti europei si è avuta, nell’ambito di una già robusta legislazione a sostegno della famiglia, attraverso la graduale estensione e l’adattamento di singoli istituti a specifiche fattispecie ritenute meritevoli di tutela. Basti pensare a tale riguardo alla nostra legislazione fiscale e alle normative tariffarie di molti enti locali in Italia, che a tutt’oggi tendono a disincentivare la formazione e lo sviluppo di una famiglia per i maggiori costi non deducibili derivanti dall’eventuale presenza di figli e posti a carico dei suoi soli componenti percettori di reddito. Se in questi settori fossero introdotte agevolazioni e reali incentivi fiscali e tariffari per la presenza di figli, ferma la prioritaria attenzione alle esigenze della famiglia fondata sul matrimonio, cui la Costituzione espressamente si riferisce, non sarebbe poi irragionevole ammetterne a beneficiare in parte anche i genitori conviventi in presenza di figli a carico. In tempi più recenti prospettive nuove, almeno sul piano normativo, sembrano si stiano aprendo in questo settore attraverso alcune legislazioni regionali. Alle Regioni è preclusa ogni potestà normativa in materia matrimoniale e in ordine al riconoscimento di nuove forme di convivenza, stante il vincolo costituzionale di cui all’art. 29 Cost. e la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di «cittadinanza, stato civile e anagrafi» e «ordinamento civile» (art. 117, co. 2, lett. i, l, Cost.)4. Nel quadro del più ampio impegno della Repubblica a sostegno della famiglia (art. 31, comma 1, Cost.) esse sono invece tenute a concorrere alle politiche familiari nell’ambito delle loro competenze in materia di assistenza e servizi sociali, che incontrano oggi il solo limite del rispetto dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, la cui determinazione è riservata al legislatore statale (art. 117, co. 2, Cost.). In questo ambito si devono già registrare alcuni significativi interventi, come per esempio la legge n. 23/1999 della Regione Lombardia sulle “politiche regionali per la famiglia”. Le legislazioni regionali appaiono però profondamente diversificate tra loro, sia per orientamento ideologico sia per il grande divario di risorse tra le varie aree del paese, e comunque ancora fortemente condizionate dalle ristrettezze della finanza pubblica di trasferimento, in quanto le Regioni, nonostante la nuova formulazione dell’art. 119 Cost., sono tuttora prive in concreto di una reale autonomia finanziaria. Nella prospettiva di un’effettiva attuazione di tale disposizione costituzionale (art. 31), va peraltro sottolineato come essa, nel quadro di un’interpretazione sistematica che tenga conto anche dell’art. 29 Cost., non legittima qualsiasi forma di intervento 4 Cfr. Corte cost., sentenza n 29 novembre 2004, n. 372. 5 pubblico, ma solo quelle che risultino rispettose di quello statuto di autonomia assicurato alla famiglia dalla Costituzione. In sostanza il legislatore, nazionale o regionale, non potrà limitarsi, nell’attuazione del disegno costituzionale sulla famiglia, a reperire fondi per destinarli genericamente ai servizi sociali, ma dovrà individuare specifiche modalità di intervento rispettose di tale autonomia e dei “diritti della famiglia”, che la Repubblica si limita a riconoscere in quanto ad essa preesistenti. Programmi di intervento o forme di sostegno che mirassero, attraverso la predisposizione di appositi servizi pubblici, a sostituirsi alla famiglia nell’esercizio di sue fondamentali funzioni invece che a sostenerne le autonome scelte, o che mirassero anche solo indirettamente a disincentivarne la “formazione” e l’“adempimento dei relativi compiti”, per esempio mediante l’estensione dell’accesso a determinati benefici per essa previsti anche ad altre forme di convivenza, in concorrenza con la prima ma meno impegnative e “leggere”, risulterebbero evidentemente in contrasto con il disegno costituzionale e con il favor familiae da essa previsto, arrivando a prefigurare forme di ingerenza indebita del legislatore sull’organizzazione familiare, favorendone tendenze disgregatrici, e sulla stessa dinamica sociale, promuovendo modelli di convivenza diversi e concorrenti rispetto a quello assunto in via preferenziale dalla Costituzione. Sotto questo profilo appare pertanto discutibile la pretesa di far passare come politiche familiari la predisposizione di servizi e agevolazioni pensate per il singolo, quindi concepite ed erogate come servizi individuali, senza tenere in alcun conto del loro impatto sui nuclei familiari e delle loro esigenze e dinamiche di sviluppo, ed anzi con il rischio oggettivo di discriminare la famiglia rispetto ai singoli nell’accesso a determinati servizi5. Possono definirsi autentiche politiche familiari conformi agli artt. 29 e 31 Cost. solo quelle pensate e organizzate sul territorio a partire dall’esperienza delle famiglie, tenendo conto dei loro tempi, ritmi di vita e bisogni specifici, nell’ambito di un progetto organico di interventi specifici a sostegno dell’istituto familiare, perché solo in questo modo esse risulterebbero conformi a quella peculiare attenzione, al tempo stesso rispettosa della sua autonomia e garante della sua tutela, riservata dalla Costituzione a questo fondamentale nucleo sociale. 5. Altre forme di convivenza Uno dei temi sul quale negli ultimi anni si è sviluppato il maggiore dibattito anche in Italia è rappresentato dalla questione dell’eventuale rilevanza giuridica di altre forme di convivenza diverse dal matrimonio. In realtà è da più di vent’anni che anche nel nostro paese l’argomento forma oggetto di approfondimento sia nella dottrina civilistica che nella giurisprudenza, sia di legittimità che costituzionale, ove in taluni casi si è arrivati ad estendere taluni benefici previsti per il coniuge anche al convivente more uxorio sulla base delle specifiche esigenze di tutela prese in considerazione dal legislatore6. 5 E’ ciò che avviene talora nelle graduatorie per l’accesso agli asili-nido comunali, ove i bambini di donne non sposate (e magari conviventi di fatto con altra persona) risultano favoriti, anche a parità di reddito, rispetto a quelli di genitori coniugati ma con un solo reddito. 6 L’ipotesi principale ed emblematica è fornita tuttora dalla sentenza della Corte costituzionale n. 404/1988, con la quale si estese al convivente more uxorio il diritto del coniuge superstite a succedere nel contratto di locazione. 6 In questa prospettiva l’elaborazione dottrinale, talora sostenuta dalla giurisprudenza di merito, è arrivata a prospettare la nuova figura dei contratti di convivenza, entro cui sarebbe possibile - entro i limiti riservati dalla legge all’autonomia privata e dal principio di atipicità delle forme contrattuali7 - ricondurre la disciplina di taluni aspetti di natura prevalentemente patrimoniale sia del rapporto matrimoniale che di forme di convivenza diversa dal matrimonio. Si tratta quindi di una riflessione che si è per lo più sviluppata nell’ambito o parallelamente ad una più ampia tendenza alla depubblicizzazione o privatizzazione di taluni aspetti della disciplina del matrimonio, in particolare per superare alcune rigidità e vincoli del regime patrimoniale tra i coniugi disciplinato dal codice civile, e contestualmente ad un processo di tendenziale degiuridificazione di altri aspetti del rapporto coniugale, quelli di natura più personale, che tendono sempre più a sfuggire ad un rigido assoggettamento ai precetti legali e ad essere sempre più affidati alle scelte autonome e consensuali degli stessi interessati. L’aspetto nuovo emerso nel dibattito degli ultimi anni, anche per effetto di alcuni orientamenti recenti della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Corte europea dei diritti dell’uomo) e della Corte di giustizia della U.E. aventi per oggetto specifiche fattispecie8, è dato dalla tendenza a ricomprendere nel concetto di coppie di fatto anche forme di convivenza tra persone dello stesso sesso (convivenze omosessuali), ponendo questioni che vanno ben oltre il dato formale della presenza o meno del matrimonio, con il corollario di diritti e doveri previsto da quest’ultimo, e che si ricollegano piuttosto alle posizioni più radicali della c.d. ideologia di genere (gender), nel cui ambito l’esclusione delle coppie omosessuali dal matrimonio o da altre forme di riconoscimento pubblico viene presentata come un atto di discriminazione dell’individuo derivante dal proprio orientamento sessuale. Da qui la tendenza più recente di alcuni ordinamenti, recepita da qualche anno anche in alcune proposte emerse nel dibattito dottrinale e politico nel nostro paese, ad affrontare il tema delle convivenze mediante l’introduzione di modelli legislativi caratterizzati dall’esplicita previsione dell’indifferenza del sesso dei conviventi, assegnando alla legge il compito non più soltanto di contrastare ogni forma di discriminazione dell’individuo per il suo orientamento sessuale9 ma anche di 7 In base al Codice civile ogni contratto (ossia, ex art. 1321, “l’accordo tra due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”) ha valore di legge tra le parti, e gode pertanto della tutela da parte del giudice, anche se non appartenente agli schemi contrattuali o tipi puntualmente disciplinati dal legislatore, solo se corrispondente ad interessi meritevoli di tutela (art. 1322) e purché la sua causa, o giustificazione economico-sociale, non sia “contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 1343). 8 Nonostante il clamore che ha accompagnato alcune recenti decisioni di organi europei, tra cui lo stesso Parlamento europeo con alcuni dichiarazioni contro l’omofobia che sembrerebbero voler limitare la stessa libertà di espressione, va ricordato che l’ordinamento europeo presenta in materia dati tutt’altro che univoci. Basti pensare che la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cui hanno nel tempo aderito tutti gli Stati dell’Unione Europea (l’Italia l’ha ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848), prevede, oltre all’art. 8 sul diritto al rispetto della vita privata e familiare, alla cui stregua la Corte europea ha talora accolto ricorsi contro norme nazionali ritenute discriminanti nei confronti di cittadini omosessuali a motivo del loro orientamento sessuale, anche l’art. 12 sul diritto al matrimonio, secondo cui “a partire dall’età maritale, l’uomo e la donna hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia, secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di questo diritto”. 9 In tal senso è esplicito l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., testo privo di valore giuridico vincolante ma dotato di forte significato politico, che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata in particolare sul sesso o le “tendenze sessuali”. Tale garanzia si può trarre oggi nell’ordinamento italiano anche dal primo comma dell’art. 3 Cost., che afferma il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge “senza distinzione di sesso”. 7 promuovere l’omosessualità (o diversità sessuale) sul piano etico e sociale, mediante il riconoscimento alle convivenze tra due persone dello stesso sesso di sussidi e benefici pubblici come indice di un atteggiamento di favore da parte dell’ordinamento. Posta in questi termini, la questione dell’eventuale rilevanza giuridica di forme di convivenza diverse dal matrimonio assume profili molto più problematici, introducendo elementi di forte discontinuità sia rispetto alla precedente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sulle convivenze more uxorio, sia rispetto al quadro costituzionale. Limitandoci a quest’ultimo, è infatti evidente la differente rilevanza che assumono sul piano costituzionale le convivenze eterosessuali rispetto a quelle omosessuali, e ciò non per un’aprioristica valutazione di ordine morale legata secondo alcuni ad una stagione storica ormai superata, quanto per l’oggettiva diversità delle due situazioni. Per le prime vale comunque, in presenza di figli, quell’indiretta rilevanza derivante dagli artt. 30 e 31 Cost., in quanto la filiazione è tutelata anche fuori dal matrimonio, sia pure tenendo conto e preservando il primato che spetta alla famiglia fondata sul matrimonio, sia per il carattere di piena reciprocità dei diritti e doveri che accompagna la relazione coniugale, nella quale i coniugi impegnano e condividono la loro intera esistenza e risorse economiche (consortium totius vitae), sia a tutela dello stesso interesse dei minori, derivante dall’impegno reciproco contratto dai coniugi e dalla sua maggiore stabilità ed affidabilità, che crea l’ambiente umano più idoneo alla crescita e all’educazione dei figli. Si tratta del resto di un criterio confermato di recente dallo stesso legislatore, che nella recente riforma dell’adozione (D.L. 24 aprile 2001, n. 150) ha riservato il diritto di adozione alle sole coppie coniugate (oggi art. 6, co. 1, L. 4 maggio 1983, n. 184). Il che consente di ribadire che il primato riconosciuto alla famiglia fondata sul matrimonio non è da intendersi come una sorta di privilegio ormai ingiustificato discriminante altre forme di convivenza, ma riposa su dati e valutazioni etiche ritenute tuttora valide e condivise dalla giurisprudenza costituzionale e dallo stesso legislatore, che tendono a “premiare” una ben precisa formazione sociale per i benefici che essa arreca alla collettività10. Per le coppie omosessuali manca invece ogni possibile riferimento alle disposizioni costituzionali in materia di matrimonio e famiglia (artt. 29-31), mentre per esse è ricorrente il richiamo all’art. 2 Cost., nel quale, come noto, si afferma che “la 10 La giurisprudenza della Corte costituzionale ha sempre negato come regola generale un’equiparazione di trattamento normativo tra famiglia legittima e convivenza more uxorio, ribadendo costantemente le ragioni di tale distinzione desumibili dal testo costituzionale. Pur riconoscendo alle convivenze di fatto la natura di formazione sociale ex art. 2 della Costituzione, sul presupposto che “un consolidato rapporto, ancorché di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante quando si abbia riguardo al rilievo offerto al riconoscimento delle formazioni sociali e alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche… tanto più in presenza di prole” (Corte cost., sent. n. 237/1986 e 404/1988), già con la sent. n. 310 del 1989 la Corte ha riconosciuto alla famiglia legittima “una dignità superiore, in ragione dei caratteri di stabilità e di certezza e della corrispettività dei diritti e dei doveri che nascono soltanto dal matrimonio”, esplicitando un chiaro favor matrimonii. Questa posizione è stata costantemente riaffermata dalla Corte in una serie di successive decisioni nelle quali ha respinto una serie di ricorsi con i quali, su varie fattispecie, si chiedeva l’estensione di taluni benefici previsti per il coniuge al convivente sottolineando la diversità tra rapporto di coniugio e quello di mera convivenza “fondato sull’affectio quotidiana liberamente e in ogni istante revocabile”, e precisando che il ricorso all’analogia presuppone “la similarità delle situazioni, la quale, oltre a non essere presente… non è voluta dalle stesse parti”, che nel preferire un rapporto di fatto hanno inteso sottrarsi al complesso di diritti e di doveri derivanti dal matrimonio (Corte cost., sent. n. 166/1998. Sulla stessa linea cfr. sent. n. 8/1996, 127/1997, 352/2000, 461/2000, 491/2000). 8 Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (…)”: norma che, secondo alcuni, fornirebbe pertanto un fondamento costituzionale al riconoscimento di diritti anche a tali forme di convivenza come a quelle more uxorio, nella misura in cui anche in esse sarebbero da ravvisare “formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità”. Si deve tuttavia osservare che il testo dell’art. 2 si limita a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, cioè diritti individuali, assicurandone la tutela anche all’interno delle “formazioni sociali…”, dando di quest’ultime una valutazione positiva che si estrinseca in uno statuto di piena libertà in funzione dei diritti della persona, segnando un’aperta rottura sia con l’esperienza del regime fascista sia con la precedente stagione liberale, entrambi ostili sia pure con intensità diversa nei confronti delle formazioni sociali, senza tuttavia riconoscere direttamente a quest’ultime speciali forme di autonomia nei confronti della Repubblica o la titolarità di “diritti” al pari della famiglia. In sostanza ogni formazione sociale che pretenda determinati benefici o forme di sostegno da parte della comunità non può sottrarsi ad una previa verifica di congruità dei suoi fini e della sua rilevanza sociale alla luce del fondamentale criterio del bene comune, che non può identificarsi con la mera somma dei vantaggi individuali che si propone ciascuno dei suoi membri, ma deve piuttosto guardare all’effettivo contributo da essa offerto alla comunità in termini di beni e utilità sociali e alla loro conformità ai valori espressi dall’ordinamento, e solo su questi parametrare eventuali forme di sostegno. 6. Il recente d.d.l. del Governo Nei mesi scorsi anche il Governo italiano, volendo dare attuazione ad uno dei punti del proprio programma elettorale, ha elaborato e quindi presentato in Parlamento un disegno di legge in materia (c.d. Di.Co., diritti dei conviventi) che fa propria questo più recente orientamento affermatosi in alcuni ordinamenti europei11. Bisogna riconoscere, a detta anche di autorevoli esponenti della stessa maggioranza di governo12, che il testo - frutto di un’estenuante trattativa tra le due anime del centrosinistra presenta tuttavia una serie di incongruenze già dal punto di vista tecnico-giuridico. Per esempio, pur senza giungere ad affermare - come scritto da alcuni forse con qualche esagerazione - che il d.d.l. legittima forme di incesto, che di per sé continua a costituire reato (art. 564 cod. pen.), lascia tuttavia molto perplessi la circostanza che esso preveda tra i conviventi il limite dei vincoli di parentela e di affinità solo in linea retta entro il secondo grado (quindi zio e nipote, come pure fratello e sorella, potrebbero convivere uniti “da reciproci vincoli affettivi” e beneficiare dei diritti previsti dalla legge, diritti che la legge riconosce invece a chi intende contrarre matrimonio solo sulla base di limiti di parentela assai più ampi). Ancora: poiché il d.d.l. non prevede tra i motivi di incompatibilità tra i due conviventi un preesistente Di.co., mentre invece 11 Consiglio dei ministri. Disegno di legge 8 febbraio 2007: “Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”. 12 Per tutti valgono le dichiarazioni critiche rese in proposito dal sen. Cesare Salvi (DS), attualmente presidente della Commissione Giustizia del Senato presso la quale è stato avviato l’esame e la discussione dei vari progetti di legge presentati in materia, cui si è aggiunto il d.d.l. del Governo, e che lo stesso sen. Salvi ha ritenuto di non indicare come testo base per la discussione in Commissione. 9 prevede espressamente l’incompatibilità di preesistenti vincoli di matrimonio, nulla esclude la possibilità che un soggetto possa avviare e coltivare contestualmente più “convivenze dichiarate” con più persone alla sola condizione che esse convivano stabilmente insieme (cfr. art. 1), legittimando di fatto relazioni poligamiche. Anche il meccanismo della notifica per raccomandata all’altro convivente della dichiarazione all’anagrafe qualora effettuata da uno solo o non contestualmente da entrambi (art. 1, comma 3), se mira ad evitare una dichiarazione congiunta che potrebbe evocare in modo surrettizio una sorta di atto matrimoniale semplificato, pone tuttavia una serie di ulteriori problemi non risolti, primo fra tutti quello di garantire al soggetto destinatario o preteso convivente, o ad eventuali altri soggetti che potrebbero riceverne pregiudizio, la possibilità di opporsi a tale dichiarazione o, qualora prodotta in giudizio dal soggetto per ottenere determinate prestazioni, di contestarne in tutto o in parte il contenuto, in particolare il requisito della “convivenza stabile” e della sua effettiva durata nel tempo, sulla cui sussistenza il d.d.l. ammette la prova contraria ma al prezzo poi di prefigurare delicati e lunghi contenziosi soprattutto in materia successoria13. Rischi di abuso potrebbero poi derivare dall’uso improprio di tali dichiarazioni da parte, per esempio ma non solo, di cittadini extracomunitari che potrebbero avvalersene, oltre che - come prevede lo stesso d.d.l. - per ottenere il rilascio di un permesso di soggiorno se conviventi con un cittadino italiano (art. 6), anche per far valere il diritto al ricongiungimento familiare, che tende ad essere riconosciuto in sede europea anche ai membri di convivenze riconosciute ex lege , e quindi con la possibilità di accedere anche a forme di tutela sociale in presenza di determinati requisiti anagrafici. 6.1. Disparità in ordine al regime di filiazione Più in generale manca nel testo del Governo un’effettiva reciprocità di diritti e doveri, che sembra prospettare una violazione degli artt. 29 e 31 Cost. e del favor familiae che in essi si esprime. Per esempio, la situazione di eventuali figli nati da una coppia di conviventi (eterosessuali) dichiarati non sarebbe in alcun modo comparabile a quella dei figli nati da una famiglia legittima. Quest’ultimi godono automaticamente, per il semplice fatto di nascere in una coppia sposata, dello stato di figlio legittimo (rapporto congiunto con entrambi i genitori, doppia parentela, etc.), mentre per i primi il riconoscimento come figli naturali - cui solo consegue una serie di diritti analoghi a quelli del figlio legittimo, ma senza rapporto genitoriale congiunto e senza parentela - è sempre il frutto di una scelta libera e discrezionale di ciascuno dei genitori. In sostanza, dalla dichiarazione di convivenza presso l’anagrafe deriverebbero in base al d.d.l. tutta una serie di diritti (e scarsi doveri) per le parti, mentre nessun effetto o tutela sarebbe prevista a tutela di eventuali figli naturali, il cui riconoscimento 13 Attualmente i diritti successori ab intestato, cioè in assenza di testamento, sono fondati su situazioni di parentela o affinità di cui fanno fede atti pubblici (atti di nascita, matrimonio e di morte) difficilmente contestabili, e ciò per dare certezza giuridica allo stato delle persone e ai rapporti successori. Il d.d.l del governo propone invece di inserire una nuova categoria di eredi necessari, il convivente del de cuius, i cui diritti e pretese potrebbero derivare anche da una mera dichiarazione unilaterale, magari comunicata all’altro con raccomandata, comunque sempre da un mero atto privato. Poiché tale dichiarazione potrebbe essere contestata da chiunque anche se risultante all’anagrafe, ciò aprirebbe una serie infinita di contenziosi successori, poiché chiunque ne avesse interesse, un erede escluso o concorrente pro quota, potrebbe contestare la veridicità dell’asserita convivenza con qualunque mezzo di prova, anche con testi. 10 continuerebbe ad essere frutto di una scelta discrezionale da parte di uno o entrambi i genitori naturali, magari conviventi dichiarati. La legge quindi “premierebbe” la situazione di convivenza della coppia a prescindere da una sua (necessaria) assunzione di responsabilità nei confronti di eventuali figli, introducendo un grave squilibrio rispetto al modello civilistico di famiglia disciplinato dal codice civile e dall’art. 29 Cost., che implica e impone una pari considerazione dei rapporti tra i coniugi e di quest’ultimi con i figli. Questo delicato equilibrio salta del tutto nel modello di convivenza disegnato dal d.d.l. governativo, che prevede a favore dei conviventi l’attribuzione di diritti e tutele senza esigere alcunché in termini di doveri nei confronti di eventuali figli, che rappresentano il vero bene sociale (potremmo anche dire bene comune della società) oggetto di prioritaria tutela da parte della Costituzione “anche se nati fuori dal matrimonio”. Il minimo che si dovrebbe esigere, a fronte del riconoscimento da parte della legge di una serie di tutele a forme di convivenza non matrimoniale, è l’obbligo da parte dei due conviventi ad effettuare il riconoscimento di eventuali figli, melius, la previsione del riconoscimento automatico dei figli nati durante la convivenza, magari mediante l’estensione della presunzione di paternità prevista per i figli nati o concepiti durante il matrimonio, in base alla quale “il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio” (art. 231 ss., cod. civ.). Ma si tratta di un punto che esigerebbe maggiore approfondimento in sede normativa, non potendo certo affidarsi per l’estensione di una simile presunzione, che inciderebbe sullo stato giuridico delle persone, ad una semplice dichiarazione di natura privata quale quella prevista dall’art. 1 del d.d.l. 14. Del resto ogni scelta in materia va ben soppesata, data la delicatezza dell’argomento. Basti pensare che l’istituto della presunzione di paternità per il marito risale al diritto romano e non si è mai prospettato, nel corso dei secoli, anche in contesti culturali favorevoli alle unioni libere, una sua estensione ai rapporti di convivenza. Vero è che oggi la scienza dispone di strumenti per pervenire all’accertamento della paternità un tempo impensabili, ma resta un problema di opzioni normative affatto scontate in una materia così delicata. Pare infatti assai arduo far venire meno, all’interno di un rapporto di convivenza, per sua natura libero e sempre revocabile, la necessità di un atto altrettanto libero di riconoscimento del figlio, da cui far conseguire quella pienezza di obblighi a carico del genitore attualmente previsti a carico dei coniugi. Ricondurre ex lege lo stato di filiazione legittima e di maternità o paternità al semplice fatto della procreazione, o alla nascita in costanza di un rapporto di convivenza dichiarata, rappresenterebbe un’evidente forzatura rispetto all’originaria volontà dei 14 Il Governo, forse realizzando sia pure tardivamente questo problema, è corso ai ripari approvando il 16 marzo 2007 in Consiglio dei ministri un d.d.l. delega intitolato “Modifiche alla disciplina in materia di filiazione”, a firma dello stesso ministro Bindi, coautrice del testo sui Di.co. In esso si prevede, come da tempo auspicato nella dottrina, l’unificazione dello stato giuridico di figlio, mediante l’introduzione nel Codice civile di un nuovo art. 315 bis (Stato giuridico della filiazione) così formulato: “Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico. Le disposizioni in tema di filiazione si applicano a tutti i figli senza distinzioni, salvo che si tratti di disposizioni riferite ai figli nati nel matrimonio o fuori del matrimonio”, e dando delega al Governo per procedere, tra le altre cose, alla “modificazione della disciplina del riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio, con la previsione 1) che il riconoscimento produca effetti anche nei confronti dei parenti del genitori che lo effettua (…)” (art. 2, lett. e), andando così a colmare la principale disparità di trattamento tra figli legittimi e figli naturali ancora presente nel nostro ordinamento. Nel d.d.l. delega si prevede altresì che il Governo con proprio d.lgs. provveda, tra le altre cose, alla “estensione della presunzione di paternità del marito rispetto ai figli comunque nati o concepiti durante il matrimonio” (art. 2, lett. d), senza tuttavia precisare a quali fattispecie andrebbe estesa tale presunzione e in presenza di quali presupposti e requisiti soggettivi. 11 conviventi di non conferire stabilità al loro rapporto interpersonale, con il rischio - che a tutt’oggi il legislatore tende a contrastare15 - di favorire ulteriormente una mentalità abortiva, di indebolire rapporti di convivenza già fragili per loro natura e di moltiplicare dichiarazioni di nascita da parte di estranei per il timore che avrebbero i genitori naturali di doversi assumere obblighi cui non sarebbero allo stato in grado di far fronte. 6.2. Una forzata assimilazione tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali Tuttavia l’aspetto più problematico del d.d.l., in quanto mirato a sovvertire la stessa concezione antropologica delle relazioni interpersonali e familiari soggiacente al disegno costituzionale, consiste nella stretta equiparazione tra convivenze eterosessuali ed omosessuali derivante dall’inciso “anche dello stesso sesso” di cui all’art. 1. Siffatta equiparazione appare innanzitutto impropria ed artificiosa, e pertanto lesiva dell’art. 3 Cost., che esige un trattamento uniforme di situazioni eguali e un trattamento differenziato di situazioni diverse, in quanto trattasi di realtà con potenzialità e dinamiche di sviluppo profondamente diverse e con differente rilevanza giuridica. Basti pensare, come già osservato, alle prospettive di maggior tutela sia pure indiretta derivanti per una coppia eterosessuale da una possibile filiazione (art. 30-31 Cost.) e al suo carattere transitorio, potendo per essa sempre prospettarsi un possibile approdo al matrimonio (art. 29 Cost.), laddove una coppia omosessuale non presenta alcuna prospettiva di sviluppo ulteriore, presentandosi come relazione chiusa in sé stessa affine più ad un rapporto di amicizia che ad una relazione eterosessuale, quindi con esigenze di tutela assai diverse. In secondo luogo una simile equiparazione, in quanto effettuata ex lege, introdurrebbe nell’ordinamento italiano il principio dell’irrilevanza dell’identità sessuale nelle relazioni interpersonali non matrimoniali, la cui compatibilità con l’ordinamento giuridico e con i valori cui esso è ispirato sarebbe tutta da verificare, oltre a prospettare nell’immediato effetti imprevedibili sulla legislazione vigente. Si pensi ai vari impedimenti matrimoniali derivanti da parentela ed affinità, in parte recepiti anche nel d.d.l. ma che hanno il loro fondamento e giustificazione solo nell’ambito di un rapporto eterosessuale e che potrebbero pertanto cadere nei confronti di conviventi dello stesso sesso, con l’esito paradossale di prevedere, a parità di benefici, maggiori limitazioni legali per le convivenze dichiarate (Di.co) di natura eterosessuale rispetto a quelle omosessuali, confermando con ciò il carattere astratto e artificioso di una simile equiparazione normativa. Oltre a ciò si consideri che la nostra Costituzione prevede una serie di disposizioni (art. 31: protezione della “maternità”; art. 37: le condizioni di lavoro della donna lavoratrice “devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”) da cui si evince, nel quadro di un’interpretazione sistematica del dettato costituzionale, una precisa valorizzazione della differente identità sessuale, per lo meno nella sfera dei 15 Come noto a tutt’oggi il riconoscimento di un figlio naturale è un atto libero e non coercibile del singolo genitore (art. 250, cod. civ.), dal quale soltanto consegue la potestà genitoriale sul figlio medesimo (artt. 258, 260-261, cod. civ.). Pertanto la dichiarazione di nascita “è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata” (art. 30, co. 1, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 sull’ordinamento dello stato civile). 12 rapporti familiari e di coppia, che non sembra legittimare quella forzata assimilazione enunciata nel d.d.l. Sotto questo profilo si riproporrebbe quindi una violazione dell’art. 3 Cost. nella misura in cui il testo del Governo tenderebbe a rendere irrilevanti peculiarità soggettive (sessuali) cui la Costituzione riserva una specifica considerazione nell’ambito di determinate sfere di relazioni interpersonali. Il problema si porrebbe diversamente se affrontato nell’ambito dell’autonomia privata, sulla scia di quella riflessione già avviata sulle convivenze more uxorio, introducendo forme contrattuali che consentano di disciplinare consensualmente determinati aspetti, soprattutto di natura patrimoniale (cfr. art. 1321 cod. civ.: “rapporti giuridici patrimoniali”), di un rapporto di convivenza riservando alle parti, e non alla legge, ogni determinazione in ordine alla eventuale caratterizzazione sessuale di tale relazione. Bibliografia essenziale BETTETINI A., Persona, matrimonio e famiglia nell’Unione Europea: dall’istituzione al contratto (e ritorno?), in Quad. dir. pol. eccl. 2002/1, p. 63-ss.; BIAGI GUERINI M., Famiglia e Costituzione, Milano 1989; BUSNELLI F.D., La famiglia e l'arcipelago familiare, in Riv. dir. civ. 2002, p. 509-ss. CARDIA C., Matrimonio, famiglia, vita privata. 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