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CAPITOLO PRIMO
L’ETÀ DELLA RESTAURAZIONE
SOMMARIO: 1. Il ripristino dell’ancien régime. - 2. Il Congresso di Vienna. - 3. La
Santa Alleanza e il concerto delle potenze. - 4. Il nuovo assetto dell’Europa. - 5. L’assetto dell’Italia. - 6. Le nazioni europee nei primi anni della Restaurazione. - 7. La
situazione dell’Italia. - 8. Le società segrete.
1. IL RIPRISTINO DELL’ANCIEN RÉGIME
Il periodo storico che va dal Congresso di Vienna (1814-15) alla rivoluzione di luglio in Francia (1830) è detto comunemente età della Restaurazione. Alcuni storici, tuttavia, prolungano l’età della Restaurazione almeno
fino all’epoca delle rivoluzioni del 1848.
Dopo l’abdicazione di Napoleone, quasi tutti i sovrani europei che erano stati spodestati dalle armate francesi, in applicazione del principio di
legittimità sancito dal Congresso di Vienna, ritornano sui loro troni.
Il rientro degli antichi sovrani non viene contestato dalle popolazioni,
già troppo debilitate da oltre un ventennio di guerre.
Una rinnovata alleanza fra trono e altare conduce ad abolire le numerose leggi anticlericali emanate nel periodo rivoluzionario e napoleonico e a
ristabilire i tradizionali privilegi di nobili ed ecclesiastici.
2. IL CONGRESSO DI VIENNA
Dopo la sconfitta di Napoleone a Lipsia e la partenza dell’ex imperatore
per l’isola d’Elba, in Francia viene restaurata la monarchia borbonica nella
persona dell’anziano e malato Luigi XVIII, fratello di Luigi XVI.
Lo scopo di tutte le potenze vittoriose è quello di ritornare allo status
quo ante, aspirazione di cui si fa portavoce il principe Klemens von Metternich, ministro dell’imperatore d’Austria, coadiuvato dal plenipotenziario francese Talleyrand.
Metternich propone alle quattro potenze che si erano opposte vittoriosamente a Napoleone — Austria, Prussia, Russia e Inghilterra — di convocare
a Vienna un congresso al quale avrebbero partecipato tutti gli Stati europei,
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Capitolo Primo
al fine di determinare un nuovo e più duraturo assetto del continente, e,
attraverso un «concerto» delle grandi potenze, impedire per il futuro l’insorgere di conflitti di grande portata come quello insorto a seguito del ciclone napoleonico.
Il Congresso di Vienna si apre il 4 ottobre del 1814 anche se viene
temporaneamente sospeso durante i Cento giorni del ritorno di Napoleone.
Infatti, nel febbraio del 1815 Bonaparte riesce a fuggire dall’isola d’Elba e in marzo approda in Francia impadronendosi, velocemente e senza
colpo ferire, della capitale. Riesce a riorganizzare l’esercito, e si scontra in
un’epica battaglia a Waterloo, dove viene definitivamente sconfitto da inglesi e prussiani (18 giugno 1815). Successivamente viene esiliato nella
lontana isoletta atlantica di S. Elena, dove muore il 5 maggio del 1821.
L’Atto finale del Congresso risale al 9 giugno 1815 e con esso si dichiara universalmente l’abolizione della tratta degli schiavi.
Ad esso parteciparono tutti gli stati europei, ma le decisioni finali sono
adottate dalle maggiori potenze vincitrici del conflitto contro Napoleone:
Inghilterra, Russia, Austria e Prussia.
Un ruolo notevole è svolto anche dalla Francia, che grazie all’abilità del rappresentante di
Luigi XVIII, il visconte di Talleyrand, riesce a sfruttare a suo vantaggio i contrasti diplomatici sorti tra le potenze vincitrici, e a ottenere il ritorno dei Borboni in Francia. Talleyrand
riesce a contenere le perdite territoriali del proprio paese e ad impedire che il ruolo di grande
potenza internazionale della Francia scada d’importanza.
I PRINCÌPI SANCITI DAL CONGRESSO
Le decisioni che scaturiscono dai lavori congressuali risultano fondamentalmente ispirate a quattro principi:
— il principio di legittimità, sostenuto da Talleyrand, in base al quale si
deve tenere anzitutto conto dei diritti dei sovrani legittimi, cioè di quei
monarchi che erano stati privati dei loro troni dalle armate rivoluzionarie o da quelle napoleoniche;
— il principio dei compensi, in base al quale si deve garantire un adeguato
compenso territoriale a quegli Stati che, per motivi politici, sono stati
costretti a rinunciare a parti del loro territorio (sotto la pressione di Napoleone). I compensi non avrebbero dovuto alterare, però, l’equilibrio
europeo;
— il principio dell’equilibrio politico. Concepito solo per favorire le grandi
potenze, mira, in particolare, a creare attorno alla Francia una serie di
L’età della restaurazione
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Stati-cuscinetto al fine di frenarne eventuali nuove velleità espansionistiche;
— il principio di solidarietà tra le grandi dinastie (esclusa la Gran Bretagna), in base al quale esse si impegnano a prestarsi reciproco soccorso
nel caso di nuovi tentativi di sconvolgimento dell’assetto europeo concordato a Vienna.
3. LA SANTA ALLENZA E IL CONCERTO DELLE POTENZE
La Santa Alleanza nasce nel settembre del 1815 per iniziativa dello zar
Alessandro I e viene sottoscritta da Austria, Prussia e Russia.
Non vi aderiscono, invece, l’Inghilterra, che considera l’accordo uno strumento messo in
campo per accrescere l’influenza russa in Europa e lo Stato Pontificio. Papa Pio VII, infatti,
piuttosto diffidente verso lo strano legame istituito tra un sovrano cattolico (l’imperatore austriaco), uno protestante (il re di Prussia) e uno ortodosso (lo zar), non siglò il documento.
Anche se non ebbe conseguenze rilevanti sul quadro geo-politico, con
la Santa Alleanza si affermò per la prima volta il principio di intervento
in base al quale gli Stati aderenti si impegnavano a prestarsi vicendevolmente aiuto e ad intervenire per sedare qualsiasi sommossa che sconvolgesse l’assetto politico e territoriale stabilito dal Congresso viennese fosse minacciato.
Maggiore influenza sulle vicende politiche europee di quegli anni ebbe piuttosto la Quadruplice Alleanza. Sottoscritta da Austria, Gran Bretagna, Russia e Prussia nel novembre del
1815, essa prevedeva che le quattro grandi potenze si riunissero regolarmente in congressi per
dibattere i vari problemi dell’ordine europeo. Il primo di questi incontri avvenne ad Aquisgrana nel 1818 per valutare l’adempimento da parte francese delle condizioni imposte dal trattato
di pace.
Per descrivere l’assetto e il clima politico dell’Europa all’indomani
del Congresso di Vienna, spesso si parla di concerto delle potenze, sottolineando, così, la consapevolezza maturata dalle maggiori potenze europee della necessità di istituire un sistema di rapporti internazionali in cui
le stesse potenze, per conservare lo status quo, potessero intervenire in
tutta Europa al fine di mantenere l’ordine europeo. Tale condizionamento
si estendeva anche alla politica interna di ciascun paese: la sola adozione
da parte di uno stato di istituzioni liberali, contrastanti con lo spirito conservatore che aveva animato il Congresso, doveva essere considerata una
minaccia all’ordine restaurato.
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Capitolo Primo
La sistemazione politica europea può essere così sommariamente descritta:
— l’Austria controlla tutta l’Europa centro-orientale e parte dell’Italia;
— la Russia è saldamente attestata ad Oriente ed aperta all’Occidente con
l’acquisto della Polonia, la Bessarabia e la Finlandia.
— l’Inghilterra, priva di interessi territoriali sul continente, è tuttavia interessata al mantenimento dello status quo, nonché alla difesa dei propri
interessi economici e coloniali oltre oceano;
— la Francia, nonostante il ridimensionamento territoriale, rimane comunque una forza militare, politica ed economica del nuovo ordine europeo.
4. IL NUOVO ASSETTO DELL’EUROPA
L’Europa che esce dal Congresso di Vienna ricalca la sistemazione politica del continente negli anni precedenti il periodo napoleonico. Non mancano, però, dei cambiamenti:
— l’Austria riacquista tutti gli antichi possedimenti (ad eccezione degli ex
Paesi Bassi austriaci — l’attuale Belgio — che vengono ceduti all’Olanda) e anche il territorio della soppressa Repubblica di Venezia. L’imperatore d’Austria, inoltre, si vede attribuire la presidenza della Confederazione germanica (che, con un’ampia generalizzazione, si può dire che
raccolga la lontana eredità del Sacro Romano Impero dichiarato decaduto da Napoleone), i cui membri, costituiti dagli Stati tedeschi, vengono ridotti da più di trecento a soli 39, attraverso un cospicuo accorpamento dei territori;
— l’Inghilterra non avanza rivendicazioni territoriali in Europa, ad esclusione di Malta e delle isole Ionie, ma conserva le conquiste coloniali
ottenute con le guerre napoleoniche (il Sud Africa e Ceylon, ex colonie
olandesi);
— la Prussia si ingrandisce a spese della Sassonia e di altri territori sulle
rive del Reno (nuovo confine con la Francia);
— la Russia ottiene gran parte della Polonia (che costituisce un regno autonomo in unione personale sotto lo zar, proclamatosi dinnanzi alla Dieta di Varsavia sovrano costituzionale del paese), nonché la Finlandia (ex
possedimento svedese) e la Bessarabia (ex turca);
— la Francia, ricostituita in regno sotto Luigi XVIII, ritorna, pressappoco,
ai confini precedenti il 1789;
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— l’Olanda viene incorporata al Belgio e assume il nome di regno dei
Paesi Bassi sotto la corona di Guglielmo d’Orange;
— la Svezia perde la Finlandia ottiene in cambio la Norvegia (ex danese);
— la Danimarca, il cui re è rimasto troppo a lungo fedele a Napoleone,
perde la Norvegia, ma riceve la Pomerania già possedimento svedese;
— la Svizzera viene riorganizzata in confederazione e gli altri Stati si impegnano a garantirne la neutralità.
5. L’ASSETTO DELL’ITALIA
A) Il quadro geografico
L’Italia, dopo il 1815 ritorna, sostanzialmente, sotto le precedenti dinastie:
— il Lombardo-Veneto (con Venezia) torna all’Austria e viene amministrato da un viceré;
— il regno di Sardegna è assegnato a Vittorio Emanuele I di Savoia e
acquisisce – in funzione anti-francese – i territori dell’ex repubblica di
Genova;
— il granducato di Toscana è assegnato a Ferdinando III d’Asburgo-Lorena;
— il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla è attribuito in vitalizio alla
moglie di Napoleone, Maria Luisa d’Austria;
— il ducato di Modena e Reggio è assegnato a Francesco IV d’Este;
— la repubblica di San Marino vede riconosciuta la sua secolare indipendenza;
— lo Stato Pontificio rimane sotto il controllo del papato (con Pio VII);
— il regno delle due Sicilie (ex regno di Napoli) continua a essere retto da
un Borbone, Ferdinando I (già re di Napoli con il nome di Ferdinando
IV e re di Sicilia con quello di Ferdinando III).
A proposito di quest’ultimo regno, va ricordato che Gioacchino Murat, pur essendo diventato re di Napoli nel 1808 grazie a Napoleone, cinque anni più tardi scelse di non seguire
l’imperatore francese nella guerra alla sesta coalizione, stringendo, invece, un accordo con
l’Austria per conservare il regno. Tale situazione causò un comprensibile imbarazzo tra le
potenze riunite a Vienna, dal momento che Murat aveva sì tradito Napoleone, ma restava al
potere senza restituire il trono al legittimo sovrano borbone.
A togliere le potenze europee dall’imbarazzo, ci pensò lo stesso Murat quando, nel 1815
durante i Cento giorni del Bonaparte, cambiò di nuovo bandiera per riavvicinarsi a Napoleone.
La sconfitta dell’imperatore segnò anche la fine politica di Murat che, dopo la sua cattura,
venne fucilato.
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Capitolo Primo
B) Conclusioni
Pur essendo gli storici generalmente concordi nel riconoscere il carattere conservatore e antiliberale del Congresso di Vienna, soprattutto per
quanto riguarda il tentativo di ripristinare l’ancien régime senza tener conto
né del nuovo ruolo assunto dalla borghesia con la rivoluzione francese né
delle aspirazioni nazionali dei popoli, le correnti storiografiche più recenti,
tendono a rivalutare gli sforzi compiuti nel tentativo di armonizzare i vecchi ordinamenti con le nuove istanze politiche, sociali e giuridiche.
Questo aspetto è particolarmente evidente nel campo della legislazione civilistica, se si
tiene conto del fatto che vennero conservate molte delle disposizioni entrate in vigore sotto il
dominio di Napoleone che garantivano la tutela di principi di libertà ed eguaglianza e difendevano il diritto di proprietà borghese contro l’invadenza dei pubblici poteri.
Bisogna sottolineare, inoltre, che l’assetto europeo stabilito al Congresso
di Vienna, fu assai duraturo e determinò un secolo di pace nei rapporti tra gli
Stati europei. I conflitti che si verificarono nel periodo precedente la prima guerra
mondiale non assunsero, infatti, portata generale, né provocarono sconvolgimenti politici, sociali e territoriali così drastici come quelli dell’età napoleonica.
D’altro canto, però, il carattere conservatore delle decisioni prese
dall’assemblea congressuale e la sostanziale posizione antistorica delle
monarchie restaurate rappresentarono comunque un elemento di notevole instabilità nei rapporti tra i sovrani e il popolo in quanto, la rivoluzione francese e Napoleone avevano permesso di vivere un’esperienza politica molto più avanzata, nell’ambito della quale aveva fatto capolino persino il principio democratico della sovranità del popolo e si erano affermati
i principi del rispetto della libertà e della dignità di ogni individuo, che
male si conciliavano con il ritorno agli antichi privilegi.
Per tali motivi sarebbero in seguito scoppiati violenti moti rivoluzionari
soprattutto dove più forti erano le rivendicazioni nazionali e le aspirazioni a
sistemi politici più consoni alle esigenze dei nuovi tempi.
6. LE NAZIONI EUROPEE NEI PRIMI ANNI DELLA RESTAURAZIONE
A) L’Europa Centrorientale
In Francia Luigi XVIII svolge un’azione moderatrice: non revoca le
confische rivoluzionarie ai danni della nobiltà e del clero (ma compensa i
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nobili delle confische a suo tempo subite), né abroga il Codice napoleonico.
Il re rimane, in teoria, sovrano assoluto e la Carta costituzionale, in quanto
«concessa» (octroyée) da lui stesso, resta in linea di principio sempre abrogata; in pratica, però, viene istituita una Camera rappresentativa, eletta da
un corpo elettorale ristretto ai soli ceti borghesi.
Il regime di Luigi XVIII si scontra costantemente con le spinte fortemente restauratrici dei cosiddetti Ultra che, sostenitori della monarchia più
del re stesso, in occasione delle elezioni indette dopo la seconda definitiva
sconfitta di Napoleone, scatenano un’ondata di persecuzioni e di terrore (il
cosiddetto terrore bianco) che consente loro di conquistare un’ampia maggioranza in parlamento. Il sovrano, però, per scongiurare altri moti rivoluzionari, successivamente scioglie le Camere e riesce a far eleggere un parlamento più moderato.
In Austria la Restaurazione assume le forme della repressione più aspra.
Metternich si serve dell’apparato burocratico e poliziesco per ripristinare
l’autorità assoluta dell’imperatore e schiacciare ogni velleità autonomistica
delle diverse etnie dell’impero.
Nella Confederazione germanica e in Prussia vengono aboliti tutti gli
ordinamenti costituzionali introdotti precedentemente sui modelli francesi.
Nello Stato zarista, sebbene il misticismo di Alessandro I alimenti diverse speranze in una politica di riforme, soprattutto dopo la concessione di una
modesta autonomia alla Polonia, si ritorna in breve ai metodi dispotici. Alessandro I, infatti, figura tra i principali sostenitori della politica di intervento
contro i successivi moti rivoluzionari scoppiati in Europa.
B) La Gran Bretagna
Tra il 1815 e il 1830 l’Inghilterra è governata dal partito dei tories, di
stampo conservatore e composto prevalentemente da rappresentanti dell’aristocrazia terriera. L’altro maggiore partito, quello dei whigs, aveva in realtà
la stessa base sociale, per cui soltanto tradizioni politiche differenti lo rendevano più aperto ad istanze liberali.
Le esigenze di rinnovamento di una nazione che stava attraversando profondi mutamenti
sia sociali sia economici erano invece interpretate dai radicali. Essi, però, non avevano, in
questo periodo, una voce forte in parlamento ed erano considerati pericolosi demagoghi da
entrambi gli schieramenti maggiori.
Come altri paesi europei, anche l’Inghilterrra è percorsa da una ventata
repressiva, al punto che, per fronteggiare le lotte operaie (inasprite dalla
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Capitolo Primo
grave carestia che colpisce in quegli anni l’Europa), viene sospeso nel 1816
l’Habeas corpus Act, l’antica legge anglosassone in base alla quale l’autorità di polizia era tenuta, entro breve tempo, a portare dinanzi all’autorità
giudiziaria le persone arrestate, comunicando i motivi dell’arresto, in modo
da scongiurare qualsiasi forma di detenzione arbitraria.
Con l’avvento al potere dei tories, di tendenze più liberali, l’Habeas
corpus viene ripristinato e l’Inghilterra prende le distanze dalle politiche
repressive degli Stati della Santa Alleanza.
7. LA SITUAZIONE DELL’ITALIA
Dopo i moti del 1820-21, la Restaurazione viene condotta con particolare severità, non soltanto nei domini austriaci diretti (Lombardo-Veneto, legazioni di Ferrara e Ravenna, ducato di Parma e Piacenza), ma anche nel
resto della penisola, nella quale alcuni Stati sono governati da dinastie legate strettamente all’Austria (il ducato di Modena e Reggio e il più liberale
granducato di Toscana).
Nel regno di Sardegna vengono cancellate le innovazioni introdotte nel
periodo napoleonico ed è ristabilito il potere ecclesiastico.
Lo Stato Pontificio continua ad essere dominato dai principi romani,
grandi proprietari di terre, gestite con sistemi di stampo feudale.
Nel Regno delle due Sicilie, ad una feroce persecuzione poliziesca scatenata da Ferdinando I segue, dopo qualche anno, una politica più moderata
condotta dal primo ministro, Luigi de’ Medici.
8. LE SOCIETÀ SEGRETE
Nelle monarchie restaurate il sistema repressivo della Santa Alleanza
non permette alcuna forma di dissenso e vieta ogni tipo di organizzazione
politica in grado di mettere in pericolo l’ordine e l’autorità costituita.
Per tale motivo gli oppositori del regime politico si riuniscono in società
segrete (o sette).
I motivi ispiratori e gli obiettivi di tali gruppi sono assai vari. Tuttavia, le
società segrete sono accomunante dalla particolare importanza attribuita
al problema nazionale e dall’insofferenza nei confronti della dominazione
straniera.
Esse sono, inoltre, espressione di una comune base sociale, quella della piccola e media borghesia della campagna e della città, le cui aspirazioni
L’età della restaurazione
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di affermazione sociale, mortificate dai regimi restaurati, erano state in parte realizzate da Napoleone che, tra l’altro, premiando talento e capacità,
aveva aperto a tutti i cittadini la possibilità di fare carriera.
Gli affiliati delle sette sono soprattutto giovani borghesi e militari, ma
non manca qualche nobile più aperto alle nuove problematiche.
La più importante società segreta italiana, diffusa anche in Francia, è la
Carboneria, così denominata perché deriva i propri rituali e le cerimonie di
iniziazione dal mestiere dei carbonari. Segue la Giovine Italia, fondata da
Giuseppe Mazzini che, pur tenendo segreti i nomi degli adepti, proclama
apertamente il suo fine primario: liberare l’Italia dal giogo straniero.
Per garantire la sicurezza dei membri ed evitare così delazioni e arresti di massa, tutta
l’organizzazione carbonara è improntata alla massima segretezza. Chi aderisce alla setta non
soltanto non conosce i nomi dei capi e, spesso, neanche quelli degli altri membri, ma neppure
la loro linea di condotta politica. Ciò fa sì che arrivino a confluire nella Carboneria esponenti di
opposte fedi politiche.
Le sette segrete hanno un ruolo predominante nello scoppio dei moti del
1820-21 e del 1830-31; esse falliscono, tuttavia, il loro obbiettivo, sia per la
mancanza di un organico programma politico che per l’inesistenza di
un saldo apparato organizzativo. Il fallimento dei moti carbonari segna
una battuta d’arresto nel fenomeno delle associazioni segrete, mentre, contemporaneamente, si vanno sviluppando nuove forme di attività politica.
Glossario
Ultra: nella Francia della restaurazione, fazione ultrareazionaria che intendeva ripristinare
le istituzioni monarchiche senza nessuna concessione alle nuove istanze sociali e politiche
che andavano emergendo.
Cronologia
1814: Apertura del Congresso di Vienna (4 ottobre).
1815: Cento giorni di Napoleone (20 marzo-8 luglio).
Nascita della Santa Alleanza (settembre).
Nascita della Quadruplice Alleanza (novembre).
1816: Sospensione dell’Habeas corpus Act in Inghilterra.
1821: Morte di Napoleone (5 maggio).
CAPITOLO DODICESIMO
L’ITALIA NEL VENTENNIO 1919-1939:
L’ASCESA DEL FASCISMO
SOMMARIO: 1. Il malcontento italiano all’indomani del primo conflitto mondiale.
- 2. Partiti e movimenti di massa in Italia nel primo dopoguerra. - 3. Tensioni sociali e
governi liberali. - 4. L’avvento del fascismo. - 5. La dittatura di Mussolini. - 6. L’Italia
fascista.
1. IL MALCONTENTO ITALIANO ALL’INDOMANI DEL PRIMO
CONFLITTO MONDIALE
La crisi della classe dirigente liberale e la scarsa cultura democratica
amplificano i problemi che l’Italia deve affrontare nel primo dopoguerra.
In questo mutato clima, fanno il loro ingresso (o acquistano maggiore
influenza) nuove forze politico-sociali. Si assiste alla formazione del Partito popolare (che pone fine all’autoesclusione dei cattolici dalla vita politica del paese), alla crescita del Partito socialista nonché alla fondazione
di gruppi di ex combattenti insoddisfatti del quadro politico e decisi a
darsi una rappresentanza autonoma.
Contemporaneamente si diffonde il malcontento per le decisioni della
Conferenza di Parigi e per la mancata attribuzione all’Italia di territori che
— secondo la propaganda nazionalista — le sarebbero spettati. Nasce, così,
il mito della «vittoria mutilata». In tale contesto neo-patriottico sorge la
questione di Fiume, con la conseguente occupazione della città da parte di
Gabriele D’Annunzio (Cfr. Cap. 10).
2. PARTITI E MOVIMENTI DI MASSA IN ITALIA NEL PRIMO
DOPOGUERRA
I cattolici fanno il loro ingresso nella vita politica nel 1919, quando don
Luigi Sturzo, un sacerdote siciliano, dà vita al Partito popolare italiano (PPI).
Il nuovo schieramento assume subito dimensioni di massa perché si appoggia alle organizzazioni sindacaliste della Chiesa, molto diffuse soprattutto nelle campagne. In occasione delle prime elezioni del dopoguerra, nel
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Capitolo Dodicesimo
1919, il PPI consegue un discreto successo, ottenendo 100 seggi alla Camera.
Il partito mostra però delle debolezze dovute alla presenza al suo interno
di forze eterogenee: i riformatori sociali a capo delle «leghe bianche»,
infatti, siedono a fianco di cattolici moderati e conservatori.
Nell’immediato dopoguerra il Partito Socialista Italiano (PSI) triplica
il proprio elettorato e diventa il primo partito d’Italia nelle elezioni del 1919.
Al suo interno si sono formati tre schieramenti:
— il gruppo riformista, facente capo a Filippo Turati, è favorevole alla collaborazione con
i governi borghesi e nel 1922 dà vita al Partito socialista unitario;
— il gruppo massimalista, che costituisce la maggioranza, considera la collaborazione con
i governi borghesi — indipendentemente dai programmi e dalle intenzioni — un tradimento e professa un rivoluzionarismo astratto, cui non corrispondono serie intenzioni di
effettiva presa del potere;
— il gruppo comunista, facente capo ad Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che nel
1921 si distacca dal PSI e fonda a Livorno il Partito comunista d’Italia, aderendo alla
Terza Internazionale. Questa scissione rende più debole la sinistra, che, divisa in due, è
incapace di assumere iniziative efficaci per superare la crisi sociale.
Le aspirazioni rivoluzionarie del Partito socialista, le divisioni interne a
quello cattolico, la debolezza dei governi liberali, danno ampio spazio alla
nascita e diffusione di organizzazioni di ispirazione nazionalistica fra le quali
si distinguono i Fasci di combattimento, un movimento fondato nel 1919 da
Benito Mussolini, cui aderiscono ex combattenti, spesso disoccupati e profondamente scontenti, e alcuni gruppi sbandati di ex socialisti rivoluzionari.
3. TENSIONI SOCIALI E GOVERNI LIBERALI
Terminato il conflitto, l’Italia si trova a dover affrontare una difficile
situazione economica: la smobilitazione dell’esercito e il conseguente rallentamento dell’industria pesante, che ha lavorato per l’economia bellica,
fanno aumentare la disoccupazione, mentre l’inflazione subisce una considerevole accelerazione.
La conseguenza di queste dinamiche fu un’ondata di agitazioni sociali che, nel 1919-1920,
attraversa l’Italia: l’aumento del costo della vita scatena una rincorsa tra salari e prezzi al consumo, il che determina una serie di scioperi organizzati dai sindacati sia nell’industria sia nel
settore dei servizi pubblici. Nel 1919 si verificano anche occupazioni di terre incolte di proprietà di latifondisti: i contadini, organizzati in leghe (rosse a guida socialista e bianche a guida
cattolica), chiedono una riforma agraria, che del resto è stata promessa dal governo, all’indomani della disfatta di Caporetto, per risollevare il morale delle truppe. Tali agitazioni, però, non
sono organizzate né collegate tra loro, sicché vengono facilmente controllate e sedate.
L’Italia nel ventennio 1919-1939: l’ascesa del fascismo
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Le elezioni del 1919 sono le prime ad essere svolte con il sistema di voto
proporzionale, fondato sul principio della corrispondenza tra i voti ottenuti
dai diversi partiti e i seggi ad essi attribuiti. I risultati sono disastrosi per la
vecchia classe dirigente e vedono l’affermazione dei socialisti come primo
partito, seguiti dai popolari.
Tra il 1919-1922 si alternano vari governi a guida liberale, presieduti da
uomini politici di sicuro prestigio: Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi,
Luigi Facta. Nonostante ciò, la crisi dei liberali e della struttura democratica dello Stato si fa sempre più acuta ed evidente.
Nel 1920 torna a capo del governo Giolitti, con un programma riformista molto innovativo che
prevede, tra l’altro, per le società c.d. «anonime», la nominatività dei titoli azionari per individuare
e tassare i possessori, nonché un’imposta straordinaria sui profitti extra dell’industria bellica.
In politica estera, invece, vengono appianati i contrasti di confine con la Iugoslavia mediante la stipulazione del Trattato di Rapallo (12 novembre 1920), in virtù del quale viene
riconosciuto lo Stato libero di Fiume. L’Italia si vede assegnare parte delle Alpi Giulie e la città
di Zara con le isole Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosta, mentre la Iugoslavia ottiene la Dalmazia. In politica interna, infine, non ha successo il disegno giolittiano finalizzato a ridimensionare il PSI attraverso l’eliminazione dell’ala rivoluzionaria del partito e la concessione di
alcune riforme ai moderati.
La tensione sociale e politica giunge al culmine nel settembre 1920 quando
i sindacati dei metalmeccanici organizzarono l’occupazione delle fabbriche.
Per un momento sembrò che si potesse dar vita anche in Italia a dei consigli di fabbrica
simili ai soviet creati durante la rivoluzione d’ottobre in Russia. In realtà le occupazioni si
risolvono in un fallimento, sia per l’atteggiamento accorto di Giolitti, che — come già aveva
fatto nel 1904 — rifiuta di fare intervenire la forza pubblica e fa da mediatore difendendo il
diritto degli operai ad un limitato controllo sulle aziende, sia per la tiepida accoglienza che le
richieste degli operai hanno al di fuori degli stabilimenti industriali.
In compenso, lo sciopero rafforza le paure dei ceti medi nei confronti non solo della
classe operaia, ma anche delle leghe agricole socialiste che in quei mesi conducevano una
lotta parallela specialmente nelle campagne della valle padana.
Tale conclusione accentua le divisioni all’interno del PSI, sicché, durante il congresso socialista del 1921, la corrente di sinistra guidata da Gramsci
e Togliatti si scinde per fondare, come detto, il Partito comunista.
4. L’AVVENTO DEL FASCISMO
Il 23 marzo 1919 Benito Mussolini fonda il movimento dei Fasci di
combattimento, che inizialmente si schiera a sinistra dichiarandosi repub-
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Capitolo Dodicesimo
blicano e chiedendo riforme sociali, nonostante un ostentato nazionalismo e
una forte avversione nei confronti del PSI.
L’esaltazione della forza e della violenza è una caratteristica che il nuovo movimento
conserva anche quando si sposta politicamente a destra.
I Fasci di combattimento si strutturano militarmente: i militanti, vestiti di una camicia
nera, sono inquadrati in squadre di azione.
Ha inizio, così, il fenomeno dello squadrismo: le «camicie nere» cominciano a compiere
spedizioni punitive contro le organizzazioni socialiste e popolari.
Le azioni di violenza squadrista sono sostenute o coperte dai grandi
proprietari terrieri e dagli industriali e godono della complicità di vari
organi dello Stato. Molti esponenti della classe dirigente, infatti, vedono nel
fascismo un valido strumento per limitare l’influenza dei partiti di massa e
contrastare il «pericolo rosso» di una rivoluzione comunista anche in Italia.
In occasione delle elezioni del 1921, Giolitti, per arginare la forza parlamentare di socialisti e popolari, dà vita ai «blocchi nazionali», nei quali
include anche i fascisti, sottovalutando la forza di quel movimento e fidando nel fatto che presto sarebbero rientrati nella legalità costituzionale.
Nella consultazione elettorale i fascisti riescono ad ottenere 35 seggi in
Parlamento e si affrettano a smentire le previsioni del vecchio statista. Non
solo, infatti, non rinunciano all’uso sistematico della violenza (che anzi aumenta notevolmente), ma si distaccano dalla maggioranza per unirsi
all’opposizione.
Nel novembre di quello stesso anno i Fasci di combattimento si trasformano in Partito
nazionale fascista (PNF) per meglio inserirsi nel gioco politico ufficiale.
Gli squadristi, approfittando della debolezza dei governi liberali, continuano a rendersi protagonisti di imprese clamorose, tra cui la violenta offensiva contro lo sciopero proclamato dal
movimento operaio il 1° agosto 1922 per sollecitare la difesa delle libertà politiche e sindacali.
In una situazione politica sempre più destabilizzata, durante il congresso fascista, tenutosi a Napoli in ottobre, si decide che è necessaria una dimostrazione di forza per costringere il re a nominare Mussolini capo del
governo. Così nasce l’idea della marcia su Roma che ha luogo il 28 ottobre.
Il governo Facta dinnanzi a tale minaccia per la sicurezza dello Stato
dichiara lo stato d’assedio: l’esercito potrebbe facilmente sbarazzarsi delle
squadre fasciste, ma il re Vittorio Emanuele III rifiuta di firmare la proclamazione dello stato d’assedio e, dopo le dimissioni di Facta, con un’azione
politica senza precedenti, incarica Mussolini di formare un nuovo governo.
L’Italia nel ventennio 1919-1939: l’ascesa del fascismo
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Il 30 ottobre Mussolini arriva a Roma e la sera stessa il governo è formato; pochi capiscono che si tratta del primo passo verso un cambiamento
radicale dell’assetto politico ed istituzionale del paese: la dittatura.
5. LA DITTATURA DI MUSSOLINI
A) La creazione delle basi della dittatura
Giunto al potere, Mussolini istituisce il Gran consiglio del fascismo —
principale organo ispiratore delle politiche del governo — e inserisce le
squadre fasciste nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che
costituiscono un vero e proprio braccio armato del partito con il fine di
reprimere con la violenza ogni forma di opposizione.
Allo stesso tempo, cerca di rassicurare i suoi alleati — i cosiddetti «fiancheggiatori» — inserendo ministri liberali e popolari nel suo governo e promettendo la «normalizzazione» dello Stato.
Mussolini inoltre, può contare sull’appoggio del potere economico
— fortemente agevolato dalle riforme varate in politica interna — e sul
sostegno della Chiesa, che riconosce al fascismo il merito di aver fermato
l’ondata rivoluzionaria socialista.
La prima vittima dell’avvicinamento tra Chiesa e fascismo, però, è proprio il partito dei cattolici: nell’aprile del 1923, infatti, Mussolini impone le
dimissioni dei ministri popolari.
Per rafforzare la propria maggioranza parlamentare, il governo Mussolini, in occasione delle elezioni del 1924, cambia la legge elettorale passando
al sistema di voto maggioritario, in base al quale il candidato che ottiene il
maggior numero di voti si attribuisce il seggio senza tener in alcun conto i
voti ottenuti dagli altri candidati con meccanismi di recupero (sistema proporzionale).
Grazie al nuovo meccanismo elettorale, che prevede anche un premio
alla lista che consegue la maggioranza relativa (cui sono attrtibuiti i due
terzi dei seggi disponibili), e ad un’abile propaganda, il 65% dei suffragi va
comunque alla lista di Mussolini, il quale ne approfitta per intensificare le
aggressioni contro i deputati dell’opposizione.
Il 10 giugno 1924, pochi giorni dopo aver pronunciato in parlamento una dura requisitoria contro il fascismo denunciando i brogli e le irregolarità commesse durante le ultime elezioni, il segretario del Partito socialista unitario, Giacomo Matteotti, esponente della sinistra
riformista e moderata, viene rapito a Roma da un gruppo di squadristi e ucciso a pugnalate. Gli
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esecutori materiali vengono arrestati, ma non si scoprono i mandanti. Appaiono tuttavia chiare
a tutti le responsabilità politiche e morali di Mussolini e del governo.
L’indignazione generale suscitata dal delitto Matteotti sembrò fare vacillare il governo. In segno di protesta, i deputati dell’opposizione abbandonano i lavori parlamentari dando luogo alla cosiddetta secessione dell’Aventino. Tale gesto di condanna morale non ha effetti pratici in quanto il re non
prende alcun provvedimento e, d’altra parte, l’appello ad una manifestazione di piazza per provocare la caduta del governo non poteva avere alcun
successo perché per la maggioranza della popolazione tale evento avrebbe
significato un ritorno all’instabilità di pochi anni prima.
Mussolini si sente, così, legittimato a riprendere l’iniziativa.
B) L’affermazione e il consolidamento della dittatura
Il 3 gennaio 1925 in un noto discorso tenuto alla Camera, egli dichiara:
«Io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto
è avvenuto […]. Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono
il capo di questa associazione a delinquere!».
Di fatto con queste parole Mussolini proclama la dittatura.
Entro il 1926, il capo del Governo raggiunge il controllo completo della
situazione e decreta la soppressione di ogni libertà attraverso i seguenti provvedimenti, denominati leggi fascistissime: «fascistizzazione» della stampa,
persecuzione degli antifascisti, rafforzamento dei poteri del capo del Governo, reintroduzione della pena di morte, istituzione di un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, creazione di una forza di polizia politica
segreta, l’OVRA (Opera di vigilanza e repressione antifascista, oppure Organizzazione volontaria di repressione antifascista), e scioglimento di tutti
i partiti, tranne quello fascista.
Su queste basi, si viene costruendo il pieno e incondizionato trionfo di Mussolini, dimostratosi
un vero camaleonte in politica, dal momento che per lui i principi e le dottrine, più che come
valori assoluti, valgono come espedienti tattici da impiegare a seconda delle circostanze.
Non a caso, egli è riuscito a inserirsi nella difficile situazione dell’Italia del dopoguerra avvalendosi di tutti i motivi di malcontento e di disorientamento vivi nel paese: dalla preoccupazione dei conservatori per la pressione delle masse popolari che reclamano migliori condizioni di
vita all’insoddisfazione diffusa dei ceti piccolo-borghesi che risentono degli effetti della difficile situazione economica; dai fermenti nazionalistici alimentati dal mito della «vittoria mutilata» alla crisi dello Stato liberale.
La passività degli organi dello Stato di fronte alla violenza squadrista, il massiccio appoggio
finanziario del grande capitale industriale e agrario, il filofascismo di una larga parte della
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classe dirigente e dell’esercito e la disorganizzazione dei socialisti permettono a Mussolini,
uomo dalle grandi abilità demagogiche e dallo spregiudicato opportunismo, di assumere, in
definitiva, il pieno controllo del paese.
6. L’ITALIA FASCISTA
Nella seconda metà degli anni ’20, dunque, l’Italia è soggetta ad un regime totalitario dove l’organizzazione dello Stato e quella del partito fascista
si sovrappongono.
È stato rilevato che le «leggi fascistissime» degli anni Venti di fatto non spostarono il centro del
potere sul partito, anche se il partito unico gode di numerose prerogative, ma rafforzarono il
potere esecutivo a scapito del parlamento, privato di quasi tutte le sue funzioni.
A questo proposito, scrive Giampiero Carocci: «Si trattava di uno stato che portava alle ultime, rigorose conseguenze le aspirazioni dei conservatori a un regime che deprimesse il parlamento, esaltasse l’esecutivo, mettesse tutto il potere nelle mani di una minoranza di ottimati
[…] A questa azione di accentramento statale […] fece da puntuale riscontro il massiccio
potenziamento degli organi repressivi».
Sempre Carocci sottolinea che il fascismo presenta elementi di continuità, rispetto allo stato
liberale, «a livello delle istituzioni [e] dei rapporti di classe che il fascismo […] non aveva
mutato, se non accentuando la subordinazione delle classi popolari alla borghesia».
D’altra parte un elemento di rottura è rappresentato «dal fatto che la classe dirigente delegava
maggiori competenze di prima all’apparato amministrativo dello stato, sia come strumento coercitivo che come strumento creatore di consenso e come strumento di intervento nella
vita economica e sociale».
A) Gli obbiettivi del regime
Restano, comunque, ancora due «ostacoli» alla piena attuazione del
disegno totalitario: la Chiesa e la Corona.
Nel 1929, Mussolini firma con la Santa Sede i Patti Lateranensi, che
rappresentano per il fascismo, un grande successo politico sancito dal plebiscito elettorale, e per la Chiesa, l’acquisizione di una posizione privilegiata nei rapporti con lo Stato.
I Patti Lateranensi si articolano in tre parti:
— un trattato internazionale con cui la Santa Sede riconosce lo Stato italiano, e il governo
italiano, a sua volta, riconosce lo Stato della Città del Vaticano;
— una convenzione finanziaria con cui l’Italia si impegna a pagare un’indennità per risarcire
il Vaticano dei territori persi;
— un Concordato che regola i rapporti tra Regno d’Italia e Chiesa (esonero dal servizio
militare per i sacerdoti, validità civile del matrimonio religioso, insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, libertà di azione per le organizzazioni cattoliche).
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L’altro limite ai propositi totalitari era la presenza del re, cui spettavano
il comando supremo delle forze armate, la scelta dei senatori, la nomina e la
revoca del capo del Governo.
In realtà, pur lasciando formalmente in vigore lo Statuto albertino, Mussolini lo priva di ogni significato. Infatti, mentre il parlamento perde praticamente ogni funzione, il capo del Governo (oramai chiamato duce del
fascismo) attribuisce a se stesso poteri tali per cui avrebbe dovuto rispondere del proprio operato soltanto al re.
Il potere legislativo viene delegato al governo, mentre assume una
valenza istituzionale il Gran consiglio del fascismo, il cui parere, a partire dal 1928, diventa obbligatorio per tutte le questioni di carattere
istituzionale.
B) Le riforme e il corporativismo
Durante il ventennio fascista si registra un aumento dell’urbanizzazione
e del numero degli occupati nell’industria e nel terziario, tuttavia la società
resta arretrata.
Il fascismo, portavoce dei valori tradizionali, ma tendente a creare, nello
stesso tempo, «uomini nuovi», trova i suoi sostenitori tra la borghesia medio-piccola e soprattutto tra i giovani, grazie allo stretto controllo esercitato
sulla cultura e sulla scuola anche mediante la riforma Gentile (1923), riforma scolastica che cerca di accentuare la severità degli studi privilegiando
le discipline umanistiche a scapito di quelle tecniche e rafforzando il controllo sugli insegnanti, cui viene imposto il giuramento di fedeltà al regime.
Infine, va ricordato che, nel 1931, entra in vigore anche un nuovo codice
penale, il Codice Rocco, col quale, tra le altre cose, viene ripristinata la
pena di morte anche per i reati non politici.
Il fascismo si rende fautore di soluzioni nuove per i problemi economici, credendo di individuare nel corporativismo l’alternativa valida al capitalismo da un lato e al socialismo dall’altro.
I principi generali del corporativismo fascista sono enunciati nel 1927,
nella Carta del lavoro e vengono poi istituzionalizzati con la creazione
delle corporazioni (1934), che raggruppano imprenditori e lavoratori
nelle diverse categorie, e con la fondazione della Camera dei fasci e delle
corporazioni (1939), che sostituisce la Camera dei deputati.
Il corporativismo è la teoria politica che mira a organizzare la collettività tramite associazioni rappresentative degli interessi professionali (corporazioni).
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Richiamandosi all’esperienza medievale dei comuni italiani, in cui le corporazioni erano
abilitate a controllare e ad organizzare i vari mestieri e le attività politico-economiche ad essi
connesse, il corporativismo moderno si è poi articolato in due filoni principali:
— quello cattolico, per il quale le corporazioni dovrebbero rappresentare, potenzialmente,
una forma di anti-Stato;
— quello fascista, nel quale, al contrario, le corporazioni agiscono come associazioni professionali strettamente dipendenti dallo Stato, tanto da poter essere utilizzate come suo strumento di controllo politico.
Il corporativismo e la Carta del lavoro furono sbandierati dal fascismo come «terza via» nei
rapporti tra datori di lavoro e operai, in alternativa al capitalismo e al comunismo. L’interesse
superiore della nazione e l’intervento dello stato avrebbero risolto il dissidio tra le classi e
pacificato la società. Tuttavia, nella sostanza la politica del fascismo appoggiava i grandi ceti
industriali, nonostante l’«interventismo» del governo in economia.
La Carta del lavoro, sostiene Renzo De Felice, servì gli scopi politici di Mussolini. «Essa valse
infatti a dare una patina di socialità al nuovo regime, permettendogli di presentarsi come avviato su una strada nuova e giusta, con un Mussolini che […] mostrava di essere pronto ad ‘andare
al popolo’ e a sfidare anche le oligarchie economiche».
C) La politica economica
Nel 1925, intanto, lo Stato è già passato, dopo aver tentato la via del liberismo,
a una linea protezionistica, puntando sulla deflazione, sulla stabilizzazione della
lira e su un maggiore coinvolgimento del governo in campo economico.
Il primo intervento è costituito dalla cosiddetta battaglia del grano, che mira al raggiungimento dell’autosufficienza nel settore cerealicolo mediante l’aumento della superficie coltivata a grano e l’utilizzo di tecniche agricole avanzate. L’obiettivo viene quasi raggiunto, seppure a scapito di altri settori.
Altro intervento governativo è quello teso a rivalutare la lira per far tornare la moneta
nazionale a «quota 90» (ossia riportarla a un tasso di cambio in virtù del quale sarebbero
occorse 90 lire per una sterlina), così da restituire al paese la stabilità monetaria, che viene
conseguita grazie anche ai prestiti delle banche americane.
Quando la crisi del 1929 colpisce anche l’Italia, il governo reagisce con una politica di lavori
pubblici diffusi che devono servire ad allentare le tensioni sociali dovute alla presenza di un ingente
numero di disoccupati. Tale strategia viene messa in opera soprattutto tra il 1933-1934, quando è
bonificato l’agro pontino e vengono edificate due città: Sabaudia e Littoria (l’odierna Latina).
L’intervento statale maggiore si ha, però, in campo industriale e creditizio con la creazione, alle strette dipendenze del governo, dell’Istituto mobiliare italiano (IMI) e dell’Istituto
per la ricostruzione industriale (IRI): il primo ha il compito di sostituire le banche nel sostegno all’industria; il secondo, valendosi di fondi statali, rileva le partecipazioni industriali dalle
banche in crisi, acquisendo il controllo di alcune importanti imprese.
In tal modo, lo Stato arriva a controllare, con tali istituti, una quota dell’apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro Stato, così da affermarsi come vero e proprio
Stato imprenditore.
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Nel 1935, superata la crisi, l’Italia indirizza poi la sua economia prevalente verso la produzione bellica, il che accentua l’isolamento economico del paese da parte dei paesi democratici
che già vedono nelle dittature europee un pericolo per la pace.
D) La politica estera
In politica estera la componente nazionalista, connaturata all’ideologia
fascista, promuove una propaganda patriottica che rinverdisce le aspirazioni coloniali dell’Italia.
Nel 1935 ha inizio l’invasione dell’Etiopia per dare sfogo alle mire espansionistiche fasciste e per mobilitare le masse al fine di distogliere l’attenzione dai problemi economico-sociali
del paese.
Mussolini pensa di poter sfruttare la tensione diplomatica creata in Europa dalla
politica aggressiva della Germania per far sì che le potenze democratiche guardino all’Italia come ad un prezioso alleato. Però l’Etiopia è uno Stato indipendente, aderente alla
Società delle Nazioni, ed il nostro paese ha agito senza alcuna dichiarazione di guerra. Francia
e Gran Bretagna non possono fare altro che condannare l’invasione, mentre la Società delle
Nazioni decide di adottare sanzioni economiche nei confronti dell’Italia che ha aggredito un
paese neutrale.
In verità, non fu mai data esecuzione a queste misure, il cui unico effetto fu quello di
accrescere la popolarità di Mussolini e di fare stringere l’opinione pubblica italiana intorno al
dittatore, nel nome della lotta dell’Italia «proletaria» contro le nazioni plutocratiche, e i loro
immensi imperi coloniali.
Dopo sette mesi di resistenza gli etiopi cedono e il 5 maggio 1936, le truppe italiane
entrano in Addis Abeba. La conquista dell’Etiopia non produce risvolti economici positivi
per il nostro paese, ma si traduce in un enorme successo politico di Mussolini: sono in
molti, infatti, ad avere la sensazione che l’Italia, grazie a Mussolini, sia entrata a far parte
del circolo degli Stati militarmente più forti.
Questa politica aggressiva che tenta di imitare quella nazista inasprisce i rapporti con le potenze democratiche e la rottura viene accentuata
dall’intervento italiano a sostegno della dittatura di Franco nella guerra
civile spagnola e dal progressivo riavvicinamento alla Germania (Asse
Roma-Berlino, 1936), che, sebbene sia stato voluto da Mussolini per fare
pressione su Francia e Gran Bretagna, si risolve poi nella subordinazione
dell’Italia alle scelte di Hitler dopo la firma del Patto d’acciaio nel 1939,
sottoscritto a distanza di poco tempo dall’annessione coatta dell’Albania
all’Italia.
L’avvicinamento alla Germania — e la scelta tutta politica di promulgare leggi antisemite (1938) per rinsaldare i rapporti con i tedeschi — suscitano preoccupazioni e dissensi nella maggioranza della popolazione.
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Del resto la stessa decisione di perseguire l’autarchia, cioè l’autosufficienza economica,
stava di fatto indebolendo l’economia italiana invece di rafforzarla e stava alienando simpatie
al regime. Infatti, nata per venire incontro alle esigenze di una politica estera espansionista e
militarista, la ricerca dell’autarchia si tradusse in un potenziamento degli investimenti nell’industria bellica a svantaggio della produzione di beni di consumo. Inoltre, trattandosi di produzioni che richiedevano materie prime di cui l’Italia era carente, il loro rafforzamento non faceva che accrescere il disavanzo della bilancia commerciale.
Negli anni della dittatura mussoliniana gli antifascisti sono costretti al
silenzio e all’esilio; solo i comunisti si impegnano — peraltro con scarso
successo — nell’agitazione clandestina.
Il regime fa tacere molte voci di opposizione ricorrendo anche all’assassinio: i fratelli
Carlo e Nello Rosselli ad esempio, che a Parigi avevano fondato il movimento «Giustizia e
Libertà» (1929), cadono sotto i colpi di sicari fascisti nel 1937.
Uomini che sarebbero diventati protagonisti della lotta di liberazione, come i socialisti Pietro Nenni, Sandro Pertini, Giuseppe Saragat e il comunista Palmiro Togliatti, sono costretti all’esilio; altri scontano lunghi anni di carcere, come accade ad Antonio Gramsci, che perde la vita
a causa delle sofferenze patite durante la prigionia. L’unica voce libera che si alza in patria contro
il fascismo è quella del filosofo Benedetto Croce, protetto dalla sua notorietà internazionale.
Molti esuli — repubblicani, democratici e socialisti — riunitisi in Francia, nel 1927,
nella «concentrazione antifascista», svolgono opera di elaborazione politica in vista di una
caduta del regime che essi non sono stati in grado di provocare direttamente. In effetti, il
vero merito dell’antifascismo sarà quello di aver preparato la classe dirigente della futura
Italia democratica.
Glossario
Corporativismo: modello di organizzazione sociale e del lavoro che prevede, attraverso la
costituzione di corporazioni, la rimozione della conflittualità tra le classi, della concorrenza tra le imprese e la soppressione degli scioperi e di manifestazioni similari organizzate
dai lavoratori. La più compiuta realizzazione giuridica economica del modello corporativistico fu introdotta in Italia in epoca fascista con l’emanazione della Carta del lavoro nel
1926; anche se in effetti il corporativismo fascista non fu mai pienamente operante. L’ordinamento corporativo fascista fu soppresso nel l944.
Cronologia
1919: Nascita del Partito popolare italiano
Governo Nitti
Costituzione dei Fasci di combattimento (23 marzo)
D’Annunzio occupa Fiume (12 settembre)
1920: Governo Giolitti
Trattato di Rapallo e fine dell’occupazione di Fiume (12 novembre)
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Capitolo Dodicesimo
1921: Nascita del Partito comunista d’Italia
Nascita del Partito nazionale fascista
1922: Marcia su Roma (28 ottobre)
Governo Mussolini
Istituzione del Gran consiglio del fascismo
1924: Vittoria fascista alle elezioni
Delitto Matteotti
Secessione dell’Aventino
1926: Leggi fascistissime
Arresto di Gramsci
1927: Emanazione della Carta del lavoro
1929: Patti lateranensi
1934: Istituzione dell’ordinamento corporativo
Patto di unità di azione tra PSI e PCI
1935: Invasione dell’Etiopia
1936: Asse Roma-Berlino
1937: L’Italia aderisce all’antiComintern ed esce dalla Società delle Nazioni
1938: Legislazione antisemita
1939: Annessione dell’Albania all’Italia
Patto d’acciaio tra Italia e Germania
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