Legge sociale e legge morale

annuncio pubblicitario
ALESSANDRO CATELANI
LEGGE MORALE E LEGGE SOCIALE: LA TUTELA DEI PRINCIPI MORALI DA
PARTE DELLA COLLETTIVITA'
1. Introduzione. 2. La legge come strumento di garanzia di valori etici. 3. Le garanzie costituzionali negli Stati che
tutelano i diritti umani. 4. Il sociologismo giuridico di Santi Romano. 5. Intersoggettività ed esteriorità delle
norme giuridiche. 6. L'interpretazione giuridica come scelta soggettiva e discrezionale. 7. Critica alla concezione
dell'interpretazione giuridica quale operazione meramente tecnica. 8. Il condizionamento dello Stato di diritto da
parte del dato sociale.
1. La legge sociale è quella che regola il comportamento degli uomini secondo le proprie
convinzioni, e che quindi ne condiziona il modo di vita. La legge sociale può o meno rispettare certi
principi morali. I due aspetti non necessariamente coincidono: il comportamento dei consociati può
rispettare certi principi morali, o può da essi essere difforme.
In una società moderna purtroppo la tendenza al degrado morale è evidente. Ci si deve
quindi chiedere in che modo si può garantire il rispetto di certi principi morali nel comportamento
delle persone. Al riguardo occorre fare una distinzione a seconda che si prospetti questo problema a
livello individuale, oppure dal punto di vista della collettività alla quale il soggetto appartiene. Sotto
il primo profilo il problema morale di fondo concerne ciascuna persona nella sua individualità; nel
secondo si tratta di definire gli strumenti attraverso i quali la società garantisce il rispetto di certi
principi morali, contrastando le deviazioni nelle quali può incorrere il costume sociale della
collettività.
Si intende qui affrontare soltanto il secondo di questi due profili, in riferimento quindi agli
strumenti di cui la società dispone per contrastare ogni deviazione da quei valori di cui essa è
portatrice.
2. I valori morali vengono garantiti all'interno della società attraverso le sue leggi, le quali,
in ogni loro componente, hanno lo scopo di garantire una civile convivenza, ed il corretto
funzionamento dell'intero corpo sociale. E' il rispetto della legge, è il principio di legalità che, nel
moderno Stato di diritto, garantisce la tutela dei diritti inviolabili dell'uomo.
La ragion d'essere del diritto positivo, che è quella di garantire il corretto svolgimento della
vita associata, assicurando il contemperamento delle contrapposte sfere giuridiche, appare
strettamente e inscindibilmente connessa a quel nucleo di norme morali, che vanno sotto il nome di
diritti inviolabili dell'uomo. Il diritto si identifica con la legalità, con l'osservanza della legge, la
quale ha questo scopo. Lo Stato assoluto disconosce la validità della legge, e si presta ad abusi.
Quello libero e democratico garantisce il rispetto della legge, e con ciò stesso la libertà di tutti.
Ogni norma giuridica ha dunque necessariamente un valore profondamente etico. La
funzione del diritto è quella di definire le contrapposte sfere giuridiche dei singoli consociati, in
1
quanto lo Stato ha lo scopo di consentire lo svolgersi di un'ordinata viva associata, e non può
prescindere dal soddisfacimento di questa finalità. Questo è il primo e fondamentale principio al
quale si attiene il diritto, e questa è l'essenza del diritto come fatto di relazione. Ogni norma
giuridica è necessariamente rivolta, se pure attraverso i contenuti più disparati, a garantire
l'esistenza stessa del corpo sociale.
A tale compito la norma morale istituzionalmente non è preordinata. La norma giuridica
colma una lacuna – se così si può dire impropriamente - della norma morale; per cui, se una società
non può fare a meno di un complesso di precetti morali, non può fare a meno neppure di precetti di
diritto positivo. La norma morale di per sé non è adatta a garantire un ordinato vivere civile
regolamentando le esigenze contingenti della società, perchè corrisponde ad una diversa funzione;
così che sono solo le società primitive che, non riuscendo a comprendere questa distinzione,
applicano i testi religiosi, nei quali sono contenute norme morali, come diritto positivo. Se è vero
che la norma morale è qualcosa di diverso dal diritto, in quanto tutela valori assoluti, essa tuttavia
non è idonea a soddisfare la funzione propria della norma giuridica. Essa non può sostituirsi a
quest'ultima, perchè è rimessa necessariamente agli uomini e non alla Divinità quella
regolamentazione dei rapporti intersoggettivi, che è indispensabile all'esistenza stessa della società.
Una società non si può reggere soltanto sulla base di precetti morali, ma necessita, quale condizione
indispensabile della sua esistenza, di un complesso di norme positive. La morale non può risolvere
tutti i problemi della società, alla cui soluzione non è preordinata. La volontà umana e collettiva è
insostituibile, e non si presta ad essere scambiata con norme morali, o comunque con altre norme
non giuridiche. Solo la volontà umana e collettiva ha questa attitudine.
3. La norma giuridica è dunque di per sé moralmente valida, ed è lo strumento
indispensabile attraverso il quale si garantiscono quei precetti morali che attengono alle regole della
civile convivenza, e che vanno sotto il nome di giustizia. E' indubbio però che, essendo il diritto
opera umana e non divina, esso si presti a deviare dai suoi fini istituzionali: le norme giuridiche
positive possono purtroppo essere anche immorali.
Ad evitare che ciò avvenga sono state introdotte, negli Stati moderni, le Carte Costituzionali.
In uno Stato libero e democratico la legge, per non essere espressione dell'arbitrio del potere
pubblico – dal che deriverebbe la possibilità di un suo contenuto immorale – deve ottemperare a
precetti etici, i quali devono essere concretamente fatti valere a livello di diritto positivo, attraverso
i precetti contenuti nella Costituzione.
Ogni Costituzione codifica, attribuendogli efficacia di legge costituzionale, e quindi una
posizione sopraordinata nella gerarchia delle fonti normative, valori dello spirito, quali criteri
generalissimi ai quali lo Stato si deve uniformare. Le norme morali non sono scritte, per cui per
avere una loro effettiva consistenza, devono essere espresse attraverso norme positive che, come
tutte le norme giuridiche, anch'esse siano opera umana, ma che appiano sopraordinate rispetto ad
altre, e che in quanto tali esprimano, sul piano appunto del diritto positivo, precetti etici, valori
spirituali fissi e immutabili, e rappresentino un limite e un condizionamento contenutistico nei
confronti delle concrete norme legislative, le quali rispetto ad esse siano subordinate. A prescindere
da una tale positivizzazione e costituzionalizzazione, quei precetti morali non possono
concretamente essere fatti valere. Sono pertanto le Costituzioni, e solo quelle, che sono in grado di
tutelare, negli Stati moderni, i diritti inviolabili dell'uomo. La formazione delle Costituzioni che
disciplinano lo Stato moderno, basato sui principi di libertà e di democrazia, segna una svolta
assolutamente decisiva nella storia dell'umanità: perchè per la prima volta, sul piano giuridico, la
struttura degli ordinamenti viene ad essere caratterizzata da valori morali, i quali li improntano di
2
sé, imponendoli alle restanti norme del diritto positivo. Il diritto positivo non appare quindi più
condizionato da un rapporto di forza, ma viene improntato a valori morali i quali, partendo dal
vertice della piramide normativa, si ripercuotono fino alla base, attribuendo un significato etico
indelebile ad ogni – anche il più insignificante - precetto giuridico.
Nel nostro ordinamento, ma anche, più in generale, in tutti gli Stati moderni di origine
europea, questi valori sono fondamentalmente quelli del Cristianesimo e di una cultura laica e
liberale che, se pur si contrappone a quella religiosa, converge verso quest'ultima in maniera
significativa, giungendo alle stesse conclusioni. Il diritto positivo del nostro, così come di tutti gli
altri ordinamenti di origine europea, è dunque impregnato di valori assoluti che sono
fondamentalmente cristiani e, anche se laici, di remota origine cristiana. Tutti questi valori si
ritrovano, e costituiscono la ragion d'essere, nelle norme positive, le quali di essi sono in maniera
più o meno immediata, espressione. Quelli che sono i diritti inviolabili dell'uomo, definiti nell'art. 2
della Costituzione, e nelle norme seguenti della stessa sui diritti di libertà, corrispondono ad una
concezione la quale rispecchia una tradizione di pensiero e di cultura, sia laica che religiosa,
improntata a questi valori.
4. Questa funzione garantista è strettamente connessa alla natura normativa del diritto. Essa
risulta pertanto del tutto disconosciuta qualora si accetti la teoria – assolutamente prevalente in
Italia – che identifica il diritto con lo stesso ordinamento giuridico. Tale teoria, formulata da Santi
Romano, identifica il diritto con l'esistenza stessa della società. Dato giuridico e dato sociale
sarebbero, secondo il Romano, esattamente la stessa cosa. Nell'evidenziare la presenza di una
pluralità di ordinamenti giuridici, ognuno dei quali sarebbe pienamente dotato del carattere della
giuridicità, Romano attribuisce carattere giuridico a qualunque fenomeno sociale che si verifichi in
rerum natura. Questa teoria viene indubbiamente a negare una funzione di garanzia al fenomeno
giuridico nei confronti del dato sociale. Qualora si accetti
- come in Italia viene quasi
unanimamente accettata – la teoria di Santi Romano che identifica il diritto con la società, non vi è
alcuna possibilità di far valere certi principi morali all'interno del corpo sociale: se si afferma che il
diritto vero è quello che risulta dall'oggettivo comportamento dei consociati, sulla base della
pluralità degli ordinamenti giuridici, e della piena giuridicità di ognuno di essi, ne deriva che –
come afferma espressamente il Romano – anche le organizzazioni criminali avrebbero carattere
pienamente giuridico, e si legittima qualunque comportamento, anche il più immorale, che
concretamente si verifichi.
Ma questa teoria deve essere criticata: la norma giuridica emessa dagli organi esponenziali
di una società organizzata si contrappone alla società alla quale si indirizza, perchè ha lo scopo di
condizionarla ai suoi precetti, e con la società non si identifica. Per regolamentare un certo corpo
sociale, la società non può emettere che norme giuridiche di comportamento, imponendo il rispetto
di certe regole nei rapporti intersoggettivi. L'esistenza di una società implica che una volontà
umana, espressione della collettività, regoli i rapporti fra gli uomini che ne fanno parte: una società
non può esistere se consociati, attraverso una volontà collettiva, non regolino i rapporti
intersoggettivi che tra di essi intercorrono. Il diritto è indispensabile in quanto vi devono essere dei
comandi i quali promanino dagli organi esponenziali della collettività, e che disciplinino l'agire dei
consociati nei loro reciproci rapporti. Una società nella quale non vi sia alcuna regola di
comportamento, ed ognuno faccia quello che vuole, non è una società. Una società, se esiste, è
necessariamente ordinata, organizzata da precetti che hanno una tale fonte, ed i cui destinatari sono
tutti coloro che ad essa appartengono. Il fenomeno giuridico è un prodotto della vita associata, nel
senso che una società esprime necessariamente un complesso di norme giuridiche che regolano
3
l'agire dei consociati nei loro reciproci rapporti, e dalla cui esistenza il corpo sociale non può
prescindere.
5. Il diritto positivo, come complesso di norme giuridiche, esercita dunque una funzione di
garanzia di valori morali che il sociologismo giuridico di Santi Romano ha invano cercato di
negare. Bisogna tuttavia precisare che questa funzione garantista è tuttavia condizionata e delimitata
dalla intrinseca natura del fenomeno giuridico e normativo.
La norma giuridica è per sua natura intersoggettiva, e da ciò deriva anche il suo carattere
esteriore. Intersoggettività ed esteriorità del fenomeno giuridico sono strettamente interdipendenti e
connesse, e costituiscono due aspetti imprescindibili della medesima realtà normativa.
L'intersoggettività della norma va intesa sia in riferimento ai rapporti tra l'organo da cui essa
promana e la collettività alla quale si dirige, sia in riferimento all'oggetto suo proprio, il quale
necessariamente costituisce una relazione intersoggettiva. L'oggetto proprio della norma è
necessariamente costituito da un rapporto intersoggettivo. Tutto ciò attiene all'essenza del diritto
come fatto normativo, perchè solo le norme dotate di quei caratteri entrano a far parte del diritto
positivo.
Dall'intersoggettività del fenomeno giuridico deriva anche la sua natura esteriore. Quanto
statuito dalla norma e la sua natura precettiva rilevano nella loro oggettività, nel loro contenuto,
mentre resta del tutto irrilevante quello che avviene all'interno della sfera psichica del soggetto
destinatario, e quindi nella sua coscienza. Il diritto è una realtà esteriore, e come tale va considerato.
Il diritto non è un fatto interiore, ma un fatto di relazione, un modo di essere nei rapporti tra
soggetti, che attiene alla sfera dei singoli; per cui non ha significato ciò che accade nella coscienza
degli individui, quando il precetto imponga alcunchè.
Il diritto non penetra all'interno delle coscienze, ed è solo una realtà esterna, non perchè
imponga necessariamente un calcolo utilitaristico anziché una valutazione morale, come
comunemente si ritiene, ma perchè è unicamente un fatto di relazione, che ha lo scopo di garantire,
in ogni società, la coesistenza fra gli uomini.
L'imperativo giuridico, proprio del diritto positivo, necessariamente investe soltanto il
comportamento esteriore dei consociati; per cui tutto quello che è interno all'individuo, quando il
suo comportamento sia conforme al precetto, non rileva minimamente all'esterno, nei rapporti
intersoggettivi.
La garanzia che la società può procurare ai propri consociati, attraverso le norme giuridiche,
deve dunque tenere conto di questa esteriorità dei precetti normativi che, come fatto umano,
riguardano necessariamente soltanto l'aspetto esteriore del loro comportamento.
La norma morale, rispetto alla norma giuridica, è infinitamente diversa. Le norme morali
non provengono da un'autorità umana, ma divina. Ne deriva che la determinazione della volontà del
singolo da parte della Divinità, quale autorità superiore e trascendente, è un problema morale, ma
non è un problema giuridico: il diritto si arresta all'esteriorità del comportamento, alla forma di
esso, alla struttura oggettiva della società, ed è del tutto estraneo ai problemi di coscienza, che
ciascuno può risolvere come meglio crede. La moralità si distingue dalla legalità, che è solo
conformità esteriore alla legge. Al diritto basta la legalità, quale regolamentazione dei rapporti
intersoggettivi, che come tali sono necessariamente esteriori. Pertanto un'azione può essere
condannabile non giuridicamente, ma moralmente.
Il diritto può garantire pertanto l'osservanza di quelle norme morali che attengono ai rapporti
intersoggettivi, e che vanno sotto il nome di giustizia. Il diritto deve garantire soltanto quei precetti
morali che, imponendo il rispetto della persona e della sua dignità, garantiscono una civile
4
convivenza. Richiedere al diritto una più incisiva funzione a tutela di valori etici sarebbe non solo
impossibile, ma anche altamente immorale: la civiltà moderna, a differenza di quella più antica che
confondeva il diritto con la religione, ha ormai garantito il principio della libertà di coscienza, che
necessariamente consegue all'esteriorità del fenomeno giuridico, il quale impone di considerare
come irrilevante tutto quello che attiene alla sfera interiore del singolo.
6. Il rispetto delle regole morali si identifica con la salvaguardia dei diritti umani. E questi a
loro volta sono tutelati sulla base del principio di legalità. Ci si deve però chiedere se questa
garanzia sia sufficiente per tutelare realmente i diritti umani all'interno della società. Perchè lo Stato
di diritto e la garanzia dei valori morali che ad esso è connaturata sussista realmente non è
sufficiente l'enunciazione astratta di questi principi contenuti nella Carta Costituzionale e in altri
corrispondenti documenti che sussistono a livello comunitario e internazionale, ma occorre che tali
principi siano concretamente applicati e fatti valere.
L'applicazione delle norme giuridiche al caso concreto è operazione complessa e difficile.
L'enunciazione delle norme giuridiche inevitabilmente non può definire la realtà nella sua
compiutezza: la rappresentazione formale della realtà necessariamente si traduce in una
schematizzazione, che in quanto tale è praticamente impossibile che rispecchi la situazione concreta
alla quale si riferisce in tutte le multiforme e infinite varianti che può assumere. Il fenomeno
giuridico come entità formale necessariamente dunque si presta, per sua natura, ad essere integrato
da disposizioni più specifiche, che lo adattino alla situazione sostanziale. Ogni disposizione più
specifica aggiunge sempre e necessariamente qualcosa di nuovo rispetto alle astratte prescrizioni
legislative, che la norma configura nella loro generalità. La forma ha quindi valore – per così dire –
deformante di un contenuto più specifico e, in quanto tale, diverso. Proprio perchè l'idea è
un'astrazione, è praticamente impossibile che essa riproduca con assoluta esattezza la situazione alla
quale si riferisce. L'idea implica sempre un'astrazione, e quindi una generalizzazione della realtà
materiale, che deve essere adattata alla materia, nella sua concretezza.
L'interpretazione non è un'attività meramente conoscitiva, ma è una manifestazione di
volontà attraverso la quale si sceglie, tra le varie possibilità che offre la norma interpretata, un
significato specifico, e a questo si attribuisce vincolatezza. L'interpretazione è dunque creazione
normativa, basata su criteri che sfuggono al diritto, e cioè su criteri pregiuridici. La scelta delle
norme concrete solo in apparenza è un fatto meccanico, basato su una tecnica giuridica, perchè in
realtà tale tecnica è al servizio di criteri pregiuridici. Tra la forma normativa e la materia dei
rapporti sociali si interpone l'interprete, il quale giudica soggettivamente, sulla base di criteri sociali
e pregiuridici. Il diritto vissuto è quello fatto valere dagli interpreti, e questi possono anche, pur
rispettandole, adottare soluzioni differenziate.
Scrive Kelsen che “ L'interpretazione è un procedimento spirituale che accompagna il
processo di produzione del diritto nel nuovo sviluppo da quello superiore a uno inferiore regolato da
quello superiore...” ( Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, 1970, pag. 117 ); “ In tutti
questi casi di indeterminatezza si presentano parecchie possibilità di esecuzione...In conseguenza,
l'interpretazione della legge non deve condurre necessariamente a un'unica decisione come la sola
esatta, bensì, possibilmente, a varie decisioni che hanno tutte il medesimo valore in quanto
corrispondono alla norma da applicarsi anche se una soltanto tra esse, nell'atto della sentenza,
diventa diritto positivo...La teoria comune dell'interpretazione vuole far credere che la legge
applicata al caso concreto possa fornire sempre e soltanto l'unica decisione esatta, e che l'esattezza
della decisione dal punto di vista del diritto positivo sia fondata sulla legge stessa...” ( op. ult. cit.,
pag. 120-122 ).
5
Ogni norma inferiore, che si elabora in via interpretativa, non è puramente attuativa e
interpretativa di quella superiore, ma riempie uno schema vuoto attraverso una portata innovativa,
perchè le possibilità di esecuzione sono molteplici. Alle possibilità date dallo schema corrispondono
molteplici decisioni esatte. La scelta dipende dalla volontà dell'interprete, e quindi non ha carattere
meramente conoscitivo. L'applicazione della norma al caso concreto avviene secondo criteri etici, o
di convenienza, di opportunità e di equità, e che quindi non sono schematizzabili in formule
giuridiche precostituite, e che costituiscono criteri sociologici che condizionano integralmente
l'attività interpretativa. La norma giuridica astratta è filtrata attraverso il dato sociale per diventare
concreta, e non può essere applicata a prescindere da quello. All'interprete spetta il compito di
scegliere tra i vari significati possibili della norma quello più aderente alle esigenze della società –
così come può anche purtroppo eluderne i precetti, violando i principi dello Stato di diritto -. Tutto
dipende da chi applica la legge, all'interno del processo di produzione normativa nel quale esso si
traduce. Le regole della tecnica giuridica non sono che schematizzazioni di operazioni logiche, le
quali possono essere piegate a qualunque finalità dell'interprete.
Di identico contenuto sono le considerazioni di una altro grande giurista, Piero Calamandrei.
Alla soggettività, e anche e soprattutto al significato morale delle decisioni interpretative dedica
Calamandrei la sua attenzione: “ ...il giudice non è un meccanismo...non è una macchina
calcolatrice...Ridurre la funzione del giudice a un puro sillogizzare vuol dire impoverirla, inaridirla,
disseccarla. La giustizia è qualcosa di meglio: è una creazione che sgorga di una coscienza viva,
sensibile, vigilante, umana. E' proprio questo calore vitale, questo senso di continua conquista, di
vigile responsabilità che bisogna pregiare e sviluppare nel giudice...” ( Opere giuridiche, Vol. I,
Napoli, 1965, pag. 648 ); “...il giudice di un ordinamento democratico non può assomigliare a una
macchina calcolatrice, dalla quale, col semplice premer di un tasto, venga fuori il cartellino con la
somma esatta; ma deve essere una coscienza umana totalmente impegnata nella difficile missione di
rendere giustizia, disposta ad accettare su di sé tutta la responsabilità della decisione, la quale non è
il prodotto di un'operazione aritmetica, ma la conclusione di una scelta morale. “ ( op. cit., ivi, pag.
650 ).
7. Queste affermazioni dottrinali urtano apertamente, frontalmente, con quella che è la
communis opinio, più volte proclamata a livello di opinione pubblica e di dibattito politico, su
quella che è la funzione dell'applicazione del diritto, che viene effettuata dagli organi giudicanti.
Questa operazione applicativa ed interpretativa della norma viene considerata, anche e anzi
soprattutto dai giuristi di più alto livello, in maniera esclusivamente meccanicistica, ed in grado
pienamente di garantire il rispetto della legalità sulla base dell'indipendenza della Magistratura.
Quest'ultima costituirebbe il maggiore e più significativo baluardo per il rispetto dei diritti umani, e
della legalità, rendendo perfette e ineccepibili tutte le sentenze dei giudici. La legalità si
realizzerebbe attraverso l'indipendenza della Magistratura, la quale sarebbe idonea e sufficiente a
raggiungere lo scopo. Mai si ammette che le scelte degli organi giudicanti siano soggettive e
possano essere criticate. Lo Stato di diritto sarebbe realizzato attraverso la creazione di una
Magistratura indipendente, che garantirebbe di per sé la corretta applicazione del diritto. Ogni
decisione sarebbe perfetta ed acquisterebbe valore assoluto solo perchè il giudice è indipendente.
Ma questa concezione appare in aperto contrasto con la reale natura della funzione
interpretativa ed applicativa del diritto al caso concreto che viene svolta dagli organi giudicanti.
Come osservava il Calamandrei già molti anni prima che venisse istituito il Consiglio superiore
della Magistratura, quale organo di garanzia dell'indipendenza dei Magistrati, questi non appariva
idoneo allo scopo, in quanto si sarebbe tradotto in un centro di potere identico, nella sua sostanza, a
6
quello governativo, ed in grado di condizionare pertanto i Magistrati in maniera non molto
dissimile. Si può aggiungere che la lunga permanenza al potere di una precisa corrente della
Magistratura rende ancora più grave il problema, essendo il Governo basato su un'alternanza di
contrapposte forze politiche, che nel Consiglio superiore può anche mancare per lunghissimo
tempo. Si può infine rilevare che la possibile politicizzazione, basata sull'alleanza tra correnti della
Magistratura e forze politiche può ulteriormente rendere pericolose le pressioni che provengono
dalle forze dominanti del Consiglio nei confronto dei Magistrati, ricattati da un interesse di carriera.
Afferma il Calamandrei: “...anche quando la Magistratura, ordinata come potere costituzionale
autonomo, non fosse più in alcun modo soggetta a ingerenze e a sindacati da parte del potere
governativo ( art. 104 ), non per questo il singolo magistrato sarebbe liberato dalle cure di ordine
personale e familiare, che gli deriveranno ancora dalla sua qualità di impiegato che vive del suo
stipendio ed è è naturalmente desideroso di promozioni e di miglioramenti economici. “( op. cit.,
pag. 656 ); “ ...è facilmente prevedibile che le elezioni del Consiglio superiore della Magistratura
daranno luogo al formarsi sotterraneo di tendenze politiche o confessionali in contrasto, e che i
magistrati in attesa di promozione cercheranno sempre, per non guastarsi la corriera, di conformarsi
alle tendenze che avranno prevalso nella formazione di quel supremo consesso giudiziario...” ( op.
cit., pag. 657 ).
La tanto conclamata indipendenza della Magistratura non è dunque che una chimera, che in
concreto non può sussistere, e che anzi viene sostituita, attraverso il Consiglio superiore, da una
aperta politicizzazione dell'organo di vertice della classe giudicante. Ma questo non è che un aspetto
in ultima analisi secondario della fase applicativa della legge, perchè la posizione dell'organo
giudicante è pur sempre un aspetto esteriore ed esterno rispetto all'operazione intellettuale
interpretativa. I problemi veri sono quelli sollevati dalla natura stessa dell'attività interpretativa. La
norma giuridica viene inevitabilmente filtrata – per così dire – attraverso il giudizio morale
dell'organo giudicante, così che è il livello morale di quest'ultimo che ne condiziona la pratica e
concreta applicazione. Di conseguenza lo Stato di diritto è tale nella misura in cui il concreto livello
morale degli organi giudicanti è in grado di far valere quei principi etici che la norma giuridica ha
reso coattivi. La norma giuridica, ed i valori che essa rappresenta, vengono concretamente vissuti
sulla base del consenso sociale che si ha nei loro confronti, per quello che riguarda coloro che sono
chiamati ad applicarla. Lo Stato di diritto si basa sul rispetto del principio di legalità, quale
strumento indispensabile per garantire i diritti umani; ma tale garanzia fondamentale, che pur ne è
alla base, non è da sola sufficiente a realizzarlo, perchè occorre che quei precetti siano
concretamente applicati, e che lo saranno se e nella misura in cui gli interpreti saranno in grado di
far valere correttamente quella normativa. Afferma il Ross, esponente del realismo giuridico
scandinavo, che “...Il giudice, come qualunque altro, è un essere umano. Dietro la decisione egli
pone la sua intera personalità. Anche se l'obbedienza al diritto ( la coscienza giuridico-formale ) è
fortemente radicata nella mentalità del giudice come come atteggiamento professionale morale, è
una completa finzione che questa sia il solo fattore determinante. Il giudice non è un automa che
meccanicamente converta norme di carta più fatti in decisioni. Egli è un essere umano che attenderà
con cura al proprio compito sociale, prendendo decisioni che egli sente “ giuste “ nello spirito della
tradizione giuridica e culturale...” ( Alf Ross, Diritto e giustizia, Torino, 1996, pag. 131 ).
8. Il rispetto dei diritti umani in tanto realmente sussiste in quanto il comportamento degli
organi giudicanti – che sono essi stessi uomini – sia in grado di far valere quei precetti giuridici che
garantiscono precetti morali. Ad una normativa perfetta sul piano astratto può pertanto non
corrispondere una reale salvaguardia di quei diritti, quando questo livello morale venga meno.
7
Una dimostrazione – purtroppo della massima evidenza – si ha a proposito della normativa
comunitaria e internazionale, la quale è estremamente perfezionata e valida nella sua enunciazione
astratta, mentre la sua concreta applicazione ne è spesso esattamente la negazione e l'antitesi. Si
tratta di due estremi opposti: da un lato una garanzia piena, incondizionata, nobilissima nei suoi
contenuti; dall'altro a volte una disapplicazione squallida e plateale, che è lo specchio del degrado
morale della società nella quale viviamo.
La corretta applicazione del diritto presuppone dunque che i valori morali siano
concretamente vissuti e seguiti all'interno della società. Da ciò purtroppo la debolezza dello Stato di
diritto, e della funzione di garanzia dei valori morali che è propria del principio di legalità. La legge
deve garantire l'osservanza di principi etici, ma è essa stessa condizionata, nel suo livello di
applicazione, dal livello morale degli organi giudicanti - e quindi in sostanza della stessa società –
alla quale si rivolge. Soltanto quando vi sia qualcuno in grado di applicarli concretamente, la società
avrà gli strumenti adeguati per svolgere una funzione di garanzia a salvaguardia della legge morale.
8
Scarica