SCIENZE DELLA VITA E DELLA SALUTE | SCIENZE E RICERCHE • N. 31 • 15 GIUGNO 2016
Vaccinarsi contro il tumore?
FLAVIA ANASTASI
La vaccinazione, pratica diffusa fin dal secolo scorso, ha
debellato nel corso del tempo molte malattie infettive pericolose per l’essere umano. Gli ultimi sviluppi della tecnologia
medica e cellulare sono giunti alla prevenzione del cancro
causato dal virus del Papilloma umano, attraverso l’immunizzazione tramite vaccino (VLPS).
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ià nel lontano V sec. a.c. Tucidide descriveva gli effetti di un epidemia infettiva,
la peste, che colpiva Atene nel 430 a.c.
circa, osservando in occasione dell’evento che “Il male non colpisce mai due
volte: o almeno, l’eventuale ricaduta non è mai letale”. In
questa semplice affermazione, lo storico esplicitava l’effetto
dell’immunizzazione dopo aver contratto il virus, evidenziando che l’organismo umano che aveva in sè il patogeno
era in grado, in alcuni casi, di combatterlo autonomamente e
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diventava immune allo stesso.
La letteratura antica greca e romana del I sec. d.c., attraverso le opere dello scrittore romano Celso, descriveva
l’infezione da Papilloma Virus, causa di lesioni in soggetti
omosessuali o con abitudini sessuali promiscue. L’HPV era
una malattia infettiva, sessualmente trasmissibile, e prematuri erano i tempi per determinare che si trattasse anche di un
agente patogeno infettivo in grado di causare il cancro nelle
vie genitali dell’essere umano. Un momento storico decisivo
nella storia dei vaccini fu la scoperta (del tutto casuale) di
un medico inglese a Berkley, Edward Jenner: nel 1796, lo
studioso inoculò su James Phipps, un bambino di otto anni
sano, il virus del vaiolo e osservò che il contatto con l’agente
patogeno poteva rendere il soggetto immune dal contagio. Le
sue osservazioni empiriche iniziarono dall’immunità naturale che mostravano i mungitori di vacche affette da malattia
con pustole; questi ultimi, infatti, non erano colpiti dal virus
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e gli resistevano; tale pratica scoperta dal medico inglese,
consisteva nell’utilizzare la virulenza del patogeno per sviluppare l’immunità. L’era dei vaccini ebbe inizio nella metà
del ventesimo secolo, nel corso di un periodo in cui alcune malattie infettive erano portatrici di morte e disabilità in
un’ampissima parte della popolazione mondiale. Il vaiolo,
il morbillo, la poliomelite erano infezioni letali. Nel 1900 si
contavano circa 400 milioni di decessi causati dal virus del
vaiolo in tutto il mondo; solo a partire dagli anni settanta
dello scorso secolo avvenne lo sradicamento di questo patogeno, grazie all’introduzione della vaccinazione di massa
ad opera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Questa pratica clinica, ad esempio, permetteva nell’arco temporale di un decennio, la scomparsa nella popolazione, delle epidemie da vaiolo in Occidente. Il virus del
Papilloma umano, invece, dovrà attendere ancora molto
tempo per essere perfettamente identificato dagli scienziati; l’HPV non era oggetto di studi di oncologia virale
poiché non era coltivabile in vitro e si replicava soltanto
in cellule differenziate. A partire dalla seconda metà del
millenovecento però, le scoperte della biologia molecolare in campo scientifico e medico, ampliarono notevolmente la possibilità di esplorare le cellule epiteliali colpite da lesioni cancerose, nella mucosa della cervice uterina.
Questi trionfi della medicina hanno cambiato l’aspettativa
di vita della popolazione mondiale e i successivi sviluppi
della tecnologia in microbiologia nel proseguo degli anni,
hanno incoraggiato l’opinione pubblica e la massa a nutrire
ottimistiche speranze nelle capacità preventive della scienza biologica e medica. Sin dagli anni ’70 del secolo scorso
il medico tedesco H. Zur Hausen concentrava i suoi studi
scientifici sull’ipotesi di una correlazione diretta tra virus
del Papilloma Umano e l’insorgenza di lesioni neoplastiche
alla cervice dell’utero nella donna. I suoi progressi scientifici
permettevano di stabilire un nesso di causalità tra i tipi 16 e
18 del virus e il cancro della cervice uterina; in alcuni casi
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si rilevava la presenza di genoma nelle cellule neoplastiche
integrate in cromosomi. A partire dal 2006 iniziava la produzione di un vaccino ad hoc per la prevenzione del tumore al
collo dell’utero, costituito da particelle simili al virus, commercializzato in Italia già dall’anno successivo. Nel 2008 lo
studioso tedesco veniva insignito del premio Nobel per la
medicina e la fisiologia, grazie a questa innovativa scoperta.
La classe del Papilloma Virus ad alto potere oncogeno (circa 30 ceppi) possedeva la capacità di trasformare le cellule
sane in tumorali, si scopriva l’esistenza di circa 200 tipi di
virus, ognuno dei quali veniva identificato con un numero; il
70% dei tumori alla cervice uterina erano attribuibili ai tipi
16 e 18; i tipi 6 e 11 erano responsabili del 90% di condilomi e verruche dell’apparato genitale. Il virus non poteva
essere combattuto da nessun farmaco, per questo necessitava di una robusta strategia preventiva, applicabile tramite la
pratica clinica della vaccinazione; si svilupparono dunque
vaccini a sub-unità, senza la presenza di patogeni vivi, da
somministrare in 3 dosi nel corso di un anno. L’American
Cancer Society college of Obstretician and Ginecologist US
Prevention Task force raccomandava l’inizio del papanicolaus test (pap-test) a partire dai 3 anni successivi dall’inizio
dell’attività sessuale e comunque dopo i i 21 anni. L’esame
citologico del suddetto test era estremamente importante per
identificare precocemente le lesioni precancerose e la presenza di infezione da HPV ad alto rischio oncogeno nelle
giovani donne, una corretta prevenzione si attuava con il pap
test da effettuare ogni triennio.
La ricerca sui vaccini anti HPV consisteva nello sviluppare preparazioni con proteine strutturali capsidiche L1 ed
L2. Il genoma del virus era infatti circondato da un guscio
proteico, il capside, composto da circa trecentosessanta copie di un proteina L1 e da dodici copie di proteina L2; la
struttura del capside si presentava modulare, con capsomeri
che si ripetevano; le proteine L1 ed L2 si autoassemblavano
per formare il capside, con una forma di icosaedro, dunque
il genoma era una singola molecola di dna circolare a doppia elica divisa in 6 geni E ( early )per la promozione della
replicazione cellulare, e due geni L (late) che codificavano
per due proteine strutturali L1 e L2. L’oncoproteina E 6 del
capside virale del papilloma virus di tipo 18 era la responsabile, insieme ad E 7, dell’induzione in trasformazione cellulare maligna e del conseguente cancro alla cervice uterina.
In seguito all’interazione di E6 con P53 (antigene tumorale,
fattore di trascrizione che regola il ciclo cellulare con funzione di soppressione tumorale) quest’ultima veniva inibita,
(E7 interagiva con Prb) provocando la perdita di controllo
del ciclo cellualre e apoptosi con successiva trasformazione
neoplastica. La proteina oncogena E 6 nell’HPv ad alto rischio alterava la crescita cellulare tramite i suoi effetti sulla
proteina P 53. La ricerca sui vaccini si concentrava sulla preparazione con proteine strutturali L1 ed L2 per determinare
la produzione di anticorpi che bloccassero l’infezione virale
e l’ingresso del virus nel tratto genitale. Gli orientamenti clinici erano basati sulla valutazione dell’efficacia dei vaccini cosituiti da Virus Like Particles (VLPS),i quali agivano
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con l’iperespressione di una sola proteina L1 oppure in coespressione di L1 e L2. Gli HPV -VPLS avevano la capacità
di minare la struttura morfologica dei virioni dell’infezione,
provocando una risposta immunitaria con alti livelli di anticorpi neutralizzanti. Ciò perché gli HPV-VPLS non essendo
costruiti con DNA virale non avevano proprietà infettive,
né oncogene. Questa tipologia di vaccino era stata studiata sui virus del papilloma orale canino, del coniglio e bovino. Infatti le VLPS L1 si dimostrarono potenti immunogeni
per la protezione da infezione virale e conseguenti lesioni.
Si approfondirono anche le reazioni sulle scimmie Rhesus
dopo la somministrazione per via intramuscolare di HPV
11 VLPS in aggiunta ad una sostanza adiuvante. L’effetto
consisteva in una maggiore produzione di immunoglobuline.
Negli esseri umani i vaccini approvati dalla Food and Drug
Administration sono stati Gardasil (prodotto da Merck and
co. per la prevenzione di lesione precancerose nei tratti genitali femminili e maschili nei giovani di età dai 9 ai 26 anni
causati da HpV di tipi 16 e 18, 6 e 11) nonchè Cervarix (della
Glaxosmithkline vaccino bivalente contro i tipi 16 e 18); gli
scienziati del National Institute Cancer americano avevano
sviluppato in parte, insieme alle due case farmaceutiche, le
tecnologie su cui si basavano i sopracitati vaccini.
Il cancro alla cervice uterina rimaneva comunque un nemico temibile; infatti il 30% dei tumori al collo dell’utero non risultava sensibile a quest’ultime immunizzazioni.
Dopo la commercializzazione, l’Advisory committee on immunization pratices (ACIP) negli Stati Uniti raccomandava
una serie di indicazioni da seguire per queste due vaccinazioni: a quale età andavano somministrate (dagli undici anni
in su, sia maschi che femmine); quali dosi andavano utilizzate e in quale arco temporale; in quali circostanze cliniche
non andasse prescritto. Ogni stato americano aveva facoltà
di decidere se rendere disponibile o meno la vaccinazione
contro l’HPV per i propri ragazzi. I dati del sito Center for
disease and control prevention americano riportavano che
tra l’elenco delle scuole di ogni ordine e grado degli Stati
del Nord america; fin dall’anno 2008 in alcune scuole medie superiori della Colombia, dell’Indiana e della Virginia,
era stato distribuito alle ragazze materiale informativo sulla
prevenzione dell’HPV. Il “Journal of Communiy Health”,
ultimamente, riportava che nell’anno duemilatredici l’adesione a queste vaccinazioni risultava essere molto bassa
tra i giovani, soprattutto in relazione alle classiche pratiche
di immunizzazione raccomandate dall’Advisory committe
on immunization pratices ( tetano e difteria,meningococco,
influenza). Soltanto poco più della metà delle ragazze tra
i 13 e i 17 anni avevano ricevuto l’ultima dose di vaccino
contro l’HPV, nei maschi della medesima età il numero delle dosi somministrate scendeva ancora di più. Per gli altri
vaccini invece si raggiungeva la quasi totalità delle relative
somministrazioni. Per aumentare l’adesione alla prevenzione del cancro alla cervice uterina e alle zone genitali, una
soluzione poteva essere introdurre la pratica clinica stessa
all’interno delle scuole. L’età della vaccinazione ( dai 9 anni
in su) permetteva di avere potenzialmente una risposta più
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ampia, dato che tutti i giovani di quell’età frequentavano
il ciclo scolastico d’obbligo. La principale preoccupazione era convicere i genitori dei ragazzi a vaccinarsi; infatti,
trattandosi di minorenni, la scelta sull’adesione, ricadeva
necessariamente su di essi. L’evidenza scientifica risultante
dall’indagine effettuata nel Richmond county (Georgia) da
L. Gargano dimostrava una bassa sensibilità sull’argomento HPV, da parte dei genitori di alcune scuole elementari e
medie prese in considerazione per lo studio condotto. Il protocollo di studio era stato approvato dall’Emory Institutional
review board e voleva conoscere quali fattori psicosociali e
demografici influenzassero l’adesione o meno dei genitori
dei ragazzi in età da vaccinazione nelle scuole. Lo sviluppo
del questionario che era stato loro somministrato, si basava sulla teoria dell’Health Belief Model (cfr. Becker, 1974,
relazione tra prevenzione della salute e grado di minaccia
percepita) e intendeva rilevare la percezione, da parte dei genitori dei figli arruolati nello studio, della malattia HPV e le
sue conseguenze, gli ostacoli e i benefici alla vaccinazione
contro il Virus del Papilloma Umano. Inoltre erano stati attivati nelle scuole medie brevi corsi sul suddetto virus condotti
da insegnanti di scienze per i ragazzi e le ragazze. L’invito
a partecipare con la compilazione di un questionario, sia on
line che telefonico, diede tali risultati: soltanto il 10% dei
questionari per i genitori ritornò completamente compilato.
Risultava necessaria una maggiore e più incisiva campagna
di sensibilizzazione affinchè il pericolo connesso all’infezione da HPV fosse compreso da tutti. Il medico Douglas R.
Lowy, a capo del laboratorio di oncologia cellulare presso
il National Institute of Cancer degli Stati Uniti, in merito ai
due vaccini sopracitati, (Cervarix e Gardasil), affermava che
“…dopo il monitoraggio sulla sicurezza dei due vaccini, prima della licenza di commercializzazione, entrambi si sono
dimostrati efficaci e sicuri, al pari di tanti altri tipi di vaccini.
Essi sono stati usati da milioni di persone negli Stati Uniti e
in altri paesi, i problemi più comuni riscontrati sono stati brevi dolori nel sito dell’iniezione. Si sono verificate rare reazioni allergiche. Ci sono state le stesse problematiche comuni
ad altre vaccinazioni. I vaccini contro l’HPV non sono stati
sufficientemente testati durante il periodo di gravidanza della
donna e non dovranno essere somministrati a donne incinte.”
Il “New England Medicine Journal” recentemente riportava che la Merck e co., azienda farmaceutica americana, stava sviluppando una seconda generazione di vaccini contro
l’HPV ad alto rischio oncogeno, al fine di offrire una maggiore protezione rispetto al quadrivalente già in commercio
(Gardasil, contro l’HPV di tipo 16-18-6-11). Il nuovo vaccino sperimentale era nonavalente, ovvero adatto a prevenire
ben nove tipi di infezione virale ( i tipi 31-33-45-52-58 di Papilloma Virus, più i tipi 6-11-16-18). I risultati degli studi clinici ( fase III-IV) riportavano che la protezione da cancro alle
vie genitali saliva fino al 97%, considerando che venivano
prese in considerazione più tipologie di virus ( contro il 70%
del quadrivalente Gardasil). La Food and Drug Administration stava valutando la possibilità di rendere disponibile nel
mercato farmaceutico o meno, il nuovo vaccino nonavalente.
Recentemente la ricerca clinica per combattere il tumore nei
tratti genitali femminili, si sta orientando anche verso la sperimentazione di vaccini terapeutici, per superare la fase di
prevenzione e sperimentare una cura degli individui già affetti e colpiti da lesioni precancerose da Virus del Papilloma
Umano di tipo 16. I ricercatori dell’Arkansas Cancer Research Center University stanno valutando di studiare l’effetto
di un vaccino per la regressione delle neoplasie, lesioni intraepiteliali delle cellule nella cervice uterina. Il nuovo vaccino
si basa su un frammento sintetico delle proteina E 6 del virus
e di un estratto di lievito (Candin) per attivare un’efficace
risposta immunitaria che faccia regredire l’avanzamento del
tumore.
Gli studi clinici sono nella fase iniziale (fase 1); ancora
ci vorrà del tempo per poter eventualmente affermare l’esistenza di un vaccino, con la portentuosa capacità di curare e
debellare il cancro.
BIBLIOGRAFIA, WEBGRAFIA
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gli adolescenti nella scuola in relazione all’approvazione dei
genitori” trad. mia (originale dall’inglese: “School located
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among parent) Journal of community Health, Dicembre 2014
2. L. Mariani “L’infezione da HPV: dalla prevenzione
all’overtreatment” Ginecologia Oncologica, Istituto Nazionale Tumori Regina Elena, Roma
3. National Institute Cancer, “Papilloma Virus umano:
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Papillomavirus (HPV) Vaccines: An Interview with Douglas
R. Lowy, M.D.”) 20 Novembre 2014
4. Mayumi Nakagawa, “Un vaccino terapeutico per l’HPV,
fase prima dello studio clinico.” (trad.mia da “A Phase I Clinical Trial of an HPV Therapeutic Vaccine”, , Università
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6. http://www.cancer.gov
7. http://www.treccani.it/enciclopedia.it
8. Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica di Giuseppe Del Giudice, Maria Lattanzi, Rino Rappuoli, “I Vaccini”,
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