Ben Goldacre
Effetti collaterali
Come le case farmaceutiche ingannano medici e pazienti
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Traduzione di Tullio Cannillo
ISBN 978-88-04-62926-9
Copyright © Ben Goldacre 2012
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
Bad Pharma. How Drug Companies Mislead
Doctors and Harm Patients
I edizione aprile 2013
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A chi fosse interessato
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I
Dati mancanti
I finanziatori ottengono la risposta che vogliono
Prima di iniziare dobbiamo affermare una cosa vera al di là
di ogni dubbio: i trials finanziati dall’industria hanno maggiori
probabilità di produrre un risultato positivo, compiacente, rispetto a quelli finanziati in modo indipendente. Questa è la nostra premessa essenziale, e il paragrafo che vi accingete a leggere è molto breve, perché si tratta di uno dei fenomeni meglio
documentati nel campo della «ricerca sulla ricerca». Negli ultimi tempi il fenomeno è diventato anche più facile da studiare
perché le norme sull’obbligo di dichiarare il finanziamento da
parte dell’industria si sono fatte un po’ più chiare.
Possiamo cominciare da qualche indagine recente: nel 2010
tre ricercatori di Harvard e di Toronto presero in esame tutti i
trials relativi a cinque importanti classi di farmaci – antidepressivi, medicine per l’ulcera, e così via – e poi valutarono due elementi chiave: erano positivi? Erano finanziati dall’industria?1
Rintracciarono oltre cinquecento trials in totale: l’85 per cento
degli studi finanziati dall’industria erano positivi, mentre dei
trials finanziati dallo Stato lo erano soltanto il 50 per cento. Si
tratta di una differenza assai significativa.
Nel 2007 alcuni ricercatori presero in considerazione tutti i
trials pubblicati che si proponevano di esplorare i benefici di
una statina.2 Le statine sono farmaci destinati ad abbassare il
tasso di colesterolo, allo scopo di ridurre il rischio di un attacco cardiaco; vengono prescritte in grandi quantità, e avranno
un ruolo di primo piano in questo libro. Tale studio individuò
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192 trials in tutto, che confrontavano una statina con un’altra,
oppure una statina con un tipo diverso di trattamento. Una
volta che i ricercatori ebbero escluso l’influenza di altri fattori
(vedremo meglio in seguito che cosa questo significhi), constatarono che i trials finanziati dall’industria avevano una probabilità venti volte maggiore di dare risultati favorevoli al farmaco testato. Di nuovo, si tratta di una differenza molto grande.
Faremo ancora un esempio. Nel 2006 un gruppo di ricercatori prese in esame tutti i trials di farmaci psichiatrici riportati
su quattro riviste accademiche in un periodo di dieci anni, rinvenendo 542 risultanze in totale. Le industrie sponsor avevano
ottenuto esiti favorevoli per i loro medicinali nel 78 per cento
dei casi, mentre i trials finanziati in modo indipendente avevano dato un risultato positivo soltanto nel 48 per cento dei casi.
Un farmaco in competizione nel trial con quello del finanziatore avrebbe avuto non poco filo da torcere: infatti avrebbe vinto
soltanto il 28 per cento delle volte.3
Questi sono risultati penosi e spaventosi, ma provengono
da singoli studi. Quando in un campo si sono fatte molte ricerche è sempre possibile che qualcuno – come me, per esempio –
selezioni ad arte i risultati e ne dia un quadro parziale. In sostanza, potrebbe darsi che io stia facendo precisamente quello
di cui accuso l’industria farmaceutica, e vi stia parlando soltanto degli studi che sostengono la mia tesi, nascondendovi quelli rassicuranti.
Per mettersi al riparo da questo rischio, i ricercatori hanno
inventato la revisione sistematica. Esamineremo questo strumento in modo più approfondito nel capitolo i, dato che è un
punto chiave della medicina moderna, ma una revisione sistematica è una cosa piuttosto semplice: invece di scorrere a caso
la documentazione di ricerca, scegliendo qua e là consapevolmente o inconsapevolmente gli articoli che confermano le proprie convinzioni, si affronta in modo scientifico, sistematico, lo
stesso procedimento di ricerca dei dati scientifici, assicurandosi che i propri dati siano quanto più possibile completi e rappresentativi di tutti gli studi che sono mai stati fatti.
Le revisioni sistematiche sono decisamente onerose. Nel 2003,
per coincidenza, ne furono pubblicate due che riguardavano
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entrambe le questioni cui siamo interessati. Esse prendevano
in considerazione tutti gli studi pubblicati in precedenza volti a indagare se il finanziamento da parte dell’industria fosse
associato a risultati favorevoli all’industria stessa. Le impostazioni dei due studi in merito all’individuazione degli articoli
di ricerca erano leggermente differenti, ma entrambi concludevano che i trials finanziati dall’industria avevano nel complesso una probabilità quattro volte maggiore di dare risultati positivi.4 Un’ulteriore revisione del 2007 prese in esame i nuovi
studi che erano stati pubblicati nei quattro anni successivi alle
prime due revisioni: individuò altri venti lavori, e tutti eccetto
due confermavano che i trials finanziati dall’industria avevano
maggiori probabilità di dare risultati compiacenti.5
Sto dando ampio risalto a queste prove perché voglio essere assolutamente chiaro sul fatto che non c’è alcun dubbio sulla questione. I trials finanziati dall’industria danno risultati favorevoli, e questa non è una mia opinione, né un’impressione
ricavata da un superficiale studio occasionale. Si tratta di un
problema ben documentato, su cui si sono condotte estese ricerche, senza che nessuno sia uscito allo scoperto per intraprendere una qualche azione efficace.
C’è un ultimo studio di cui vorrei parlarvi. Risulta che questa
situazione, per cui i trials finanziati dall’industria hanno probabilità enormemente maggiori di dare risultati positivi, persiste anche quando ci si allontana dagli articoli accademici
pubblicati e si prendono in considerazione gli esiti dei trials
provenienti dai congressi accademici, ove i dati spesso compaiono per la prima volta (anzi, come vedremo, i risultati dei
trials a volte emergono soltanto in un congresso accademico, con scarsissime informazioni sulle modalità con cui è stato condotto lo studio).
Fries e Krishnan hanno studiato tutti i compendi di ricerca presentati alle riunioni del 2001 dell’American College of
Rheumatology che riferivano di un qualsiasi trial, e dichiaravano il finanziamento dell’industria, per verificare quale frazione
di essi riportasse risultati che favorivano il farmaco dello sponsor. Per comprendere una piccola frase a effetto che seguirà è
necessario che ci facciamo un’idea di come si presenta un arti-
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colo accademico. In generale, la parte sulle conclusioni è ampia: vengono forniti per ogni risultato, e per ogni possibile fattore causale, i numeri grezzi, ma non soltanto in forma grezza.
Vengono indicati gli «intervalli», a volte vengono analizzati i
sottogruppi, vengono effettuati test statistici, e ogni aspetto del
risultato viene esposto sotto forma di tabella, oltre che in forma descrittiva più breve nel testo, dando spiegazioni delle conclusioni più importanti. Questo lungo procedimento occupa di
solito parecchie pagine.
Nel lavoro di Fries e Krishnan del 2004 tale livello particolareggiato non era necessario. La parte sulle conclusioni è costituita da un’unica frase, semplice e – mi piace pensare – di tono
alquanto «passivo-aggressivo»:
I risultati di tutti gli rct (Randomized Clinical Trials, trials
clinici casualizzati) (45 su 45) erano favorevoli al farmaco dello sponsor.
Questa conclusione estrema ha un effetto collaterale molto interessante per quanti apprezzano le scorciatoie che fanno risparmiare tempo. Dal momento che ogni trial finanziato
dall’industria aveva un risultato positivo, non c’era bisogno di
sapere altro su una ricerca per predirne l’esito: se era finanziata
dall’industria, si poteva prevedere con assoluta certezza che il
trial avrebbe concluso che il farmaco era ottimo.
Come è possibile? Come riescono i trials sponsorizzati dall’industria a ottenere quasi sempre un risultato positivo? Si tratta, per quanto è dato sapere, di una combinazione di fattori. A
volte i trials sono intenzionalmente falsati. Si può confrontare il nuovo farmaco con qualcosa che si sa essere scadente: un
medicinale esistente in dosaggio inappropriato, o una pillola di zucchero placebo che non fa quasi nulla. Si possono scegliere i pazienti con molta cura, in modo che abbiano maggiori
probabilità di migliorare con il trattamento testato. È possibile
osservare i risultati ancora parziali e arrestare il trial prematuramente se questi sembrano buoni (il che costituisce – per interessanti ragioni che discuteremo – veleno statistico). E così via.
Ma prima di arrivare a tali affascinanti contorsioni e sotterfugi metodologici, a questi aggiustamenti e forzature che im-
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pediscono a un trial di essere un test imparziale dell’efficacia di
un trattamento, c’è qualcosa di molto più semplice.
Talvolta le compagnie farmaceutiche conducono numerosissimi trials e, quando vedono che i risultati sono insoddisfacenti, si limitano a non pubblicarli. Questo non è un problema
nuovo, e non è limitato alla medicina. In realtà il problema dei
risultati negativi di cui si perdono le tracce affligge praticamente
ogni area della scienza. Altera le conclusioni in campi disparati
come l’imaging cerebrale e l’economia, vanifica tutti gli sforzi
di escludere la distorsione dai nostri studi, e nonostante tutto
quello che vi diranno autorità di controllo, compagnie farmaceutiche e perfino qualche accademico, è un problema che rimane irrisolto da decenni.
In effetti, ha radici talmente profonde che anche se lo risolvessimo oggi – subito, una volta per tutte, definitivamente, senza lasciare alcun difetto o scappatoia nella nostra legislazione –
ciò non migliorerebbe la situazione, perché continueremmo a
praticare la medicina, prendendo serenamente decisioni su
quale trattamento sia migliore, sulla base di decenni di dati
clinici che sono – come ormai avrete compreso – fondamentalmente distorti.
Ma c’è una possibilità per il futuro.
Perché i dati mancanti hanno importanza
La reboxetina è un medicinale che io stesso ho prescritto. Altri farmaci non avevano avuto effetto su un particolare paziente,
e così volevamo provare qualcosa di nuovo. Avevo letto i dati
dei trials prima di stilare la prescrizione, e avevo visto solo test
ben concepiti, imparziali, con risultati positivi in misura schiacciante. La reboxetina era meglio di un placebo, e non inferiore a
qualunque altro antidepressivo nei confronti diretti. È ammessa all’uso dalla Medicines and Healthcare products Regulatory
Agency (l’mhra), che regola l’uso di tutti i farmaci nel Regno
Unito. Milioni di dosi ne vengono prescritte ogni anno, in tutto
il mondo. La reboxetina costituiva chiaramente un trattamento sicuro ed efficace. Il paziente e io discutemmo brevemente i
dati, e convenimmo che era il trattamento giusto da provare a
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quel punto. Firmai un pezzo di carta, una prescrizione, in cui
dicevo di volere che il mio paziente prendesse questa medicina.
Ma eravamo stati entrambi indotti in errore. Nell’ottobre 2010
un gruppo di ricercatori riuscì infine a mettere insieme tutti i
trials che erano stati condotti fino a quel momento sulla reboxetina.6 Grazie a un lungo procedimento investigativo – ricerche
sulle riviste accademiche, ma anche richieste di dati ai produttori e raccolta di documenti degli enti di controllo – il gruppo fu
in grado di radunare tutti i dati, sia quelli provenienti da trials
che erano stati pubblicati, sia quelli provenienti da altri che non
erano mai apparsi su pubblicazioni accademiche.
Quando tutti questi dati dei trials furono riuniti, formarono un’immagine sbalorditiva. Erano stati effettuati sette trials
che confrontavano la reboxetina con dei placebo. Di essi, uno
soltanto, condotto su 254 pazienti, aveva ottenuto un risultato positivo chiaro, e quell’unico era stato pubblicato su una rivista accademica perché medici e ricercatori lo leggessero. Ma
erano stati effettuati altri sei trials, su pazienti quasi dieci volte più numerosi. E tutti avevano dimostrato che la reboxetina
non era meglio di un’innocua pallina di zucchero. Nessuno di
questi trials era stato pubblicato. Io non avevo la minima idea
che esistessero.
C’era di peggio. I trials che confrontavano la reboxetina con
altri farmaci presentavano esattamente la medesima situazione:
tre studi di piccole dimensioni, 507 pazienti in totale, indicavano che la reboxetina valeva quanto una qualsiasi altra medicina, ed erano stati tutti pubblicati. Ma i dati relativi a 1657 pazienti erano rimasti inediti, e mostravano che i pazienti trattati
con reboxetina avevano risultati peggiori di quelli curati con
altri farmaci. Come se non bastasse, c’erano anche i dati sugli
effetti collaterali. Il medicinale sembrava comportarsi bene nei
trials che comparivano sulle pubblicazioni accademiche; ma
quando prendemmo visione degli studi non pubblicati, risultò che i pazienti avevano maggiori probabilità di presentare effetti collaterali, di smettere di prendere il farmaco e di ritirarsi
dal trial a causa degli effetti collaterali, se prendevano la reboxetina invece di uno dei suoi concorrenti.
Se mai aveste qualche dubbio che i fatti descritti in questo li-
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bro mi mandino in bestia – e vi prometto che, qualunque cosa
accada, mi atterrò ai dati, e mi sforzerò di darvi un quadro imparziale di quanto si conosce – non avete che da considerare
questa vicenda. Avevo fatto tutto ciò che ci si aspetta da un medico. Avevo letto tutti gli articoli, li avevo valutati criticamente,
li avevo compresi, li avevo discussi con il paziente, e insieme
avevamo preso una decisione, basandoci sulle prove disponibili. Stando ai dati pubblicati, la reboxetina era un medicinale
sicuro ed efficace. In realtà non era migliore di una pallina di
zucchero, e anzi faceva più male che bene. Come medico avevo
fatto qualcosa che, alla luce di tutte le prove, aveva nuociuto al
mio paziente, semplicemente perché i dati «scomodi» non erano stati pubblicati.
Se trovate la cosa sorprendente, o immorale, siete solo all’inizio del viaggio. Dal momento che nessuno aveva infranto la
legge in quella situazione, la reboxetina è ancora sul mercato, e il sistema che aveva consentito tutto ciò è ancora in vigore, per tutti i farmaci, in tutti i paesi del mondo. I dati negativi
scompaiono, per tutti i trattamenti, in tutte le aree della scienza. Le autorità di controllo e gli ordini professionali da cui ragionevolmente ci aspetteremmo la repressione di simili pratiche ci hanno traditi.
Tra qualche pagina passeremo in rassegna la documentazione
che dimostra tutto ciò al di là di qualunque dubbio, comprovando che la publication bias (distorsione nella pubblicazione)
– il processo per cui i risultati negativi non vengono pubblicati –
è endemica in tutti i settori della medicina e dell’attività accademica; e che le autorità di controllo non hanno fatto nulla in
merito, sebbene da decenni si accumulino dati che denunciano
le dimensioni del problema. Ma prima di arrivare a quella documentazione, è necessario che ne avvertiate le implicazioni, e
quindi dobbiamo soffermarci sulla ragione per cui i dati mancanti hanno importanza.
Le prove fattuali sono l’unico modo possibile per sapere se
qualcosa funziona – o non funziona – in medicina. Si procede testando i trattamenti, con tutta la cautela possibile, in trials di confronto diretto, e raccogliendo tutte le prove. Quest’ultimo passo
è cruciale: se vi nascondo metà dei dati, mi sarà assai facile con-
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vincervi di qualcosa che non è vero. Se, per esempio, lancio una
moneta cento volte, ma vi comunico i risultati soltanto quando
esce testa, posso convincervi che si tratta di una moneta che ha
una testa su entrambe le facce. Ma ciò non significa che io abbia
realmente una moneta con due teste: significa che vi sto ingannando, e che voi siete degli sciocchi a permettermi di farla franca. Questa è esattamente la situazione che tolleriamo, e abbiamo
sempre tollerato, in medicina. I ricercatori sono liberi di condurre quanti trials vogliono, e poi scegliere quali pubblicare.
Le ripercussioni di questo stato di cose vanno molto oltre la
semplice disinformazione dei medici in merito ai benefici e ai
danni che i loro interventi procurano ai pazienti. La ricerca medica non è un’attività accademica astratta: ha per oggetto le persone, cosicché ogni volta che non pubblichiamo una ricerca esponiamo persone reali, vive, a sofferenze non necessarie ed evitabili.
Il tgn1412
Nel marzo 2006 sei volontari si presentarono in un ospedale di Londra per prendere parte a un trial. Era la prima volta in
assoluto che un nuovo farmaco chiamato tgn1412 veniva somministrato a esseri umani, e i volontari erano pagati 2000 sterline a persona.7 Nel giro di un’ora questi sei uomini svilupparono mal di testa, dolori muscolari e un senso di malessere. La
situazione poi peggiorò: febbre elevata, agitazione, momenti in
cui dimenticavano chi erano e dove si trovavano. Di lì a poco
manifestarono brividi e arrossamenti, mentre il polso accelerava e la pressione sanguigna calava. Poi le cose precipitarono:
uno entrò in insufficienza respiratoria, con livelli di ossigeno
nel sangue in rapida caduta mentre i polmoni si riempivano di
liquido. Nessuno sapeva perché. Un altro vide la pressione sanguigna scendere a soli 65/40, smise di respirare normalmente
e fu portato d’urgenza in un’unità di terapia intensiva, addormentato, intubato, ventilato meccanicamente. Nel giro di un
giorno tutti e sei erano in condizioni disastrose: liquido nei polmoni, difficoltà respiratorie, reni fuori uso, sangue che coagulava in modo incontrollabile in tutto il corpo e globuli bianchi
che scomparivano. I medici rifilarono ai malcapitati tutto ciò
che poterono: steroidi, antistaminici, bloccanti dei recettori del
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sistema immunitario. Tutti e sei vennero ventilati in terapia intensiva. Smisero di produrre urina; furono messi in dialisi; il
loro sangue fu sostituito, prima lentamente, poi rapidamente;
erano carenti di plasma, globuli rossi, piastrine. La febbre continuava. Uno prese la polmonite. E poi il sangue smise di arrivare alle regioni periferiche del corpo. Le dita delle mani e
dei piedi divennero rosse, poi marroni, e nere per la cancrena.
Con uno sforzo sovrumano, se non altro riuscirono tutti a venirne fuori vivi.
Il ministero della Sanità convocò un gruppo di esperti scientifici per cercare di capire che cosa fosse accaduto, e questo sollevò due interrogativi.8 In primo luogo, possiamo impedire che
cose del genere si ripetano? È ovviamente assurdo, per esempio,
somministrare un nuovo trattamento sperimentale nello stesso momento a tutti e sei i partecipanti a un trial first-in-man, se
tale trattamento costituisce un’incognita assoluta. Nuovi farmaci dovrebbero essere somministrati ai partecipanti con un
procedimento in più fasi, gradualmente, nel corso di un’intera
giornata. Quest’idea riscosse notevole attenzione da parte delle autorità di controllo e dei media.
Meno ne ricevette un secondo interrogativo: si sarebbe potuto prevedere questo disastro? Il tgn1412 è una molecola che si
lega a un recettore chiamato cd28 sui globuli bianchi del sistema immunitario. Era un trattamento nuovo e sperimentale, che
interferiva con il sistema immunitario in modi che sono scarsamente compresi, e difficili da riprodurre negli animali (a differenza, per esempio, di quanto avviene con la pressione sanguigna, perché i sistemi immunitari sono fortemente variabili
tra differenti specie). Ma, come accertò il rapporto finale, c’era
un’esperienza precedente con un intervento simile: semplicemente non era stata oggetto di pubblicazione. Un ricercatore
presentò alla commissione di inchiesta dei dati non pubblicati
relativi a uno studio che aveva condotto su un singolo soggetto
umano ben dieci anni prima, servendosi di un anticorpo che si
legava ai recettori cd3, cd2 e cd28. Gli effetti di questo anticorpo
avevano delle analogie con quelli del tgn1412, e il soggetto su
cui era stato testato si era ammalato. Ma nessuno avrebbe avuto la minima possibilità di saperlo, perché quei dati non erano
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mai stati condivisi con la comunità scientifica. Giacevano inediti, sconosciuti, mentre avrebbero potuto contribuire a salvare sei uomini da una terribile ed evitabile sofferenza.
Quel primo ricercatore non avrebbe potuto prevedere il danno specifico cui aveva contribuito, ed è difficile biasimarlo come
singolo, perché operava nell’ambito di una cultura accademica
in cui era del tutto normale lasciare inediti dei dati. La medesima
cultura sussiste anche oggi. Il rapporto finale sul tgn1412 concludeva che condividere i risultati di tutti gli studi first-in-man era
essenziale: avrebbero dovuto essere pubblicati, fino all’ultimo, di
routine. Ma i risultati dei trials in fase 1 non venivano pubblicati
all’epoca, e non vengono pubblicati neanche ora. Nel 2009, per
la prima volta, fu pubblicato uno studio che indagava su quanti
di questi trials first-in-man vengono pubblicati, e quanti rimangono sconosciuti.9 Furono presi in considerazione tutti i trials
di questo tipo approvati da un comitato etico in un anno. Dopo
quattro anni, nove su dieci erano ancora inediti; dopo otto anni,
quattro su cinque non erano ancora stati pubblicati.
In medicina, come vedremo ripetutamente, la ricerca non è
un’entità astratta: ha un rapporto diretto con la vita, la morte, la
sofferenza e il dolore. Con ognuno di questi studi non pubblicati rischiamo potenzialmente un altro caso tgn1412. Neppure
una clamorosa notizia di risonanza internazionale, con immagini raccapriccianti di giovani che dai letti di ospedale esibivano mani e piedi anneriti, è bastata a smuovere le acque, perché
la questione dei dati mancanti è troppo complicata per essere
riassunta in una frase.
Quando non condividiamo i risultati di una ricerca fondamentale, come nel caso di un piccolo studio first-in-man, esponiamo le persone a rischi inutili in futuro. Questo era forse un
caso estremo? Il problema è limitato ai primi trials di nuovi
farmaci sperimentali, con piccoli gruppi di partecipanti? No.
Negli anni Ottanta del secolo scorso, i medici cominciarono a
somministrare farmaci antiaritmici a tutti i pazienti che avevano avuto un attacco cardiaco. Questa pratica era perfettamente
sensata sulla carta: sapevamo che i medicinali antiaritmici contribuivano a prevenire ritmi cardiaci anormali; sapevamo che le
persone che avevano avuto un attacco cardiaco avevano elevate
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probabilità di presentare ritmi cardiaci anormali; sapevamo che
spesso tali sintomi passavano inosservati, non venivano diagnosticati né curati. Dare antiaritmici a chiunque avesse avuto un attacco cardiaco era una misura preventiva semplice e ragionevole.
Purtroppo risultò che ci sbagliavamo. Questa pratica di prescrizione, pur seguita con le migliori intenzioni, e sulla base dei
principi più sani, in realtà uccideva le persone. E siccome gli
attacchi cardiaci sono molto comuni, le uccideva in grandissimi numeri: ben più di 100.000 persone morirono senza ragione
prima che ci si rendesse conto che il delicato equilibrio tra beneficio e rischio era del tutto differente per pazienti senza un
ritmo cardiaco comprovatamente anormale.
Qualcuno avrebbe potuto prevederlo? Purtroppo sì. Un trial nel
1980 aveva testato un nuovo farmaco antiaritmico, la lorcainide,
in un piccolo numero di soggetti maschi – meno di cento – che
avevano avuto un attacco di cuore, per vedere se era di qualche
giovamento. Nove uomini su quarantotto che avevano assunto
la lorcainide morirono, a fronte di un solo decesso su quarantasette tra coloro che avevano assunto un placebo. Il medicinale
era nelle prime fasi del suo ciclo di sviluppo, e non molto tempo dopo questo studio fu abbandonato per ragioni commerciali.
Dal momento che non era sul mercato, non si pensò neppure di
pubblicare il trial. I ricercatori supposero che si trattasse di una
peculiarità della loro molecola, e non ci pensarono più. Se avessero pubblicato i dati del trial, saremmo stati molto più cauti nel
provare altri farmaci antiaritmici su persone che avevano subito
attacchi cardiaci, e l’enorme tributo di vite umane – oltre 100.000
persone morte prematuramente – avrebbe potuto essere bloccato prima. Più di un decennio dopo, i ricercatori pubblicarono finalmente i loro risultati, con un mea culpa che riconosceva il danno che avevano fatto non comunicandoli prima:
Quando effettuammo il nostro studio nel 1980, pensammo
che l’accresciuta mortalità riscontrata nel gruppo della lorcainide fosse un semplice caso. Lo sviluppo della lorcainide fu abbandonato per ragioni commerciali, e questo studio non fu mai
pubblicato; oggi costituisce un buon esempio di publication bias.
I risultati descritti qui avrebbero potuto metterci in guardia dai
guai futuri.10
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Come vedremo tra breve, questo problema dei dati non pubblicati è presente in tutte le aree della medicina, e anzi in tutta
l’attività accademica, sebbene la scala del problema e il danno
che causa siano stati documentati oltre ogni dubbio. Esamineremo casi relativi alla ricerca sul cancro, al Tamiflu, ai medicinali anticolesterolo che dominano il mercato, ai farmaci antiobesità, agli antidepressivi e non solo, con elementi di prova
che vanno dagli albori della medicina fino al giorno d’oggi, e
dati che vengono ancora tenuti nascosti, nel momento in cui
scrivo, su farmaci ampiamente utilizzati, che molti di voi che
leggete questo libro avranno preso stamattina. Vedremo anche
come autorità di controllo e organi accademici abbiano ripetutamente mancato di affrontare il problema.
Poiché i ricercatori sono liberi di seppellire qualunque risultato vogliano, i pazienti sono esposti al rischio di subire danni su una scala incredibile in tutti i settori della medicina, dalla ricerca alla pratica. I medici non possono avere la
minima idea dei veri effetti dei trattamenti che somministrano. Questo farmaco agisce davvero al meglio, o semplicemente sono all’oscuro di metà dei dati? Questa costosa medicina
vale il suo prezzo, o i dati sono stati falsificati? Questo medicinale ucciderà i pazienti? C’è qualche indizio che sia pericoloso? Nessuno può dirlo.
È una strana situazione che si è creata nella medicina, una
disciplina in cui ci si aspetta che ogni cosa sia basata su prove,
e in cui la pratica quotidiana è pure condizionata dall’apprensione per le questioni medico-legali. In uno dei settori più regolamentati dell’attività umana, abbiamo distolto gli occhi dalla
cosa essenziale, e abbiamo permesso che le prove che guidano la pratica fossero inquinate e distorte. Sembra inconcepibile. Ora vedremo quanto vada in profondità questo problema.
Perché riassumiamo i dati
La questione dei dati mancanti è stata ampiamente studiata
in medicina. Ma prima che io ne esponga le prove, dobbiamo
comprendere esattamente perché ha importanza, da un punto
di vista scientifico. E a questo fine dobbiamo capire cosa siano
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le revisioni sistematiche e le «meta-analisi». Insieme, queste
sono due delle idee più potenti della medicina moderna. Sono
incredibilmente semplici, ma sono state inventate sorprendentemente tardi.
Quando vogliamo scoprire se qualcosa funziona o no, facciamo un trial. È un procedimento molto semplice, e il primo
tentativo documentato di una qualche specie di trial si trova
nella Bibbia (Daniele 1,12, se siete interessati). In primo luogo ci
occorre una domanda in attesa di risposta, per esempio: «Somministrare steroidi a una donna che partorisce un bambino prematuro aumenta le probabilità di sopravvivenza del neonato?».
Poi dobbiamo trovare delle persone che facciano al caso nostro,
nello specifico madri in procinto di partorire un bimbo prematuro. Ce ne vuole un numero ragionevole, diciamo duecento per
questo trial. Quindi le dividiamo in due gruppi a caso, diamo
alle madri del primo gruppo il miglior trattamento disponibile al momento (qualunque esso sia nella nostra città), mentre
le madri del secondo gruppo ricevono il medesimo trattamento oltre ad alcuni steroidi. Alla fine, quando tutte le duecento
donne hanno completato il nostro trial, contiamo quanti bambini sono sopravvissuti in ciascun gruppo.
Questa è una domanda che ci si è posta nel mondo reale,
e numerosi trials sono stati condotti su tale argomento, dal
1972 in avanti: due trials mostrarono che gli steroidi salvavano delle vite, ma cinque non misero in luce alcun beneficio significativo. Ora, sentirete dire spesso che i medici sono
in disaccordo quando le prove sono contrastanti, e questo è
esattamente quel tipo di situazione. Un medico fortemente
convinto dell’efficacia degli steroidi – magari concentrato su
qualche meccanismo molecolare teorico, mediante il quale il
farmaco potrebbe fare qualcosa di utile nel corpo – potrebbe dire: «Guardate questi due trials positivi! Certo che dobbiamo somministrare gli steroidi!». Mentre un medico incerto
sull’efficacia degli steroidi potrebbe additare i cinque trials
negativi e dire: «Nell’insieme i dati non mostrano alcun beneficio. Perché rischiare?».
Fino a tempi molto recenti, la medicina procedeva fondamentalmente in questo modo. Si scrivevano lunghi articoli di rasse-
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gna – saggi che esaminavano la documentazione esistente – ove
si citavano i dati dei trials in cui ci si era imbattuti, operando in
una maniera completamente priva di sistematicità, che spesso
rifletteva i pregiudizi del ricercatore. Poi, negli anni successivi
al 1980, si cominciò a fare una cosa chiamata «revisione sistematica». Si tratta di una rassegna chiara e, appunto, sistematica
della letteratura, condotta con l’intento di procurarsi tutti i dati
dei trials in qualunque modo accessibili su un particolare argomento, senza alcuna propensione verso un insieme particolare
di risultati. In una revisione sistematica, si descrive con precisione come si sono cercati i dati: quali database si sono esplorati, quali motori di ricerca e indici si sono usati, perfino quali
parole si sono cercate. Si specificano preliminarmente i tipi di
studi che possono essere inclusi nella rassegna, e poi si presenta tutto ciò che si è trovato, compresi gli articoli che si sono
scartati, con una spiegazione del motivo per cui lo si è fatto. In
questo modo si garantisce che i metodi utilizzati siano del tutto trasparenti, replicabili e aperti alla critica, fornendo al lettore un quadro chiaro e completo delle prove disponibili. Può
sembrare un’idea semplice, ma le revisioni sistematiche sono
estremamente rare al di fuori della medicina clinica, e rappresentano senz’altro una delle idee più importanti e trasgressive
degli ultimi quarant’anni.
Quando si sono raccolti tutti i dati dei trials, si può eseguire
una procedura chiamata meta-analisi, nella quale si riuniscono
tutti i risultati in un gigantesco tabulato, si mettono insieme tutti i dati e si ottiene un’unica figura riassuntiva, la sintesi più accurata di tutti i dati concernenti un problema clinico. Il risultato del procedimento è chiamato «blobbogramma», o «grafico a
foresta». Ne è un esempio il logo della Cochrane Collaboration,
un’organizzazione accademica internazionale senza fini di lucro che produce fin dagli anni Ottanta del secolo scorso ineccepibili rassegne di dati su importanti questioni mediche.
Questo blobbogramma rappresenta i risultati di tutti i trials
effettuati in merito alla somministrazione di steroidi per favorire la sopravvivenza dei bambini prematuri. Ciascun segmento orizzontale è un trial: se il segmento è spostato più a sinistra, il trial ha mostrato che gli steroidi avevano effetti benefici e
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salvavano vite. La linea verticale centrale è la «linea di effetto
nullo», e se il segmento orizzontale del trial tocca la linea di effetto nullo, vuol dire che il trial non ha evidenziato alcun beneficio statisticamente significativo. Alcuni trials sono rappresentati da segmenti orizzontali più lunghi: si trattava di trials
più limitati, il che significa che erano maggiormente suscettibili di errore, cosicché la stima del beneficio presenta un’incertezza più ampia, e quindi il segmento orizzontale è più lungo.
Infine, la losanga in basso mostra l’«effetto complessivo»: cioè
il beneficio globale dell’intervento, stimato mettendo insieme
i risultati di tutti i singoli trials. Tali losanghe sono molto più
limitate in orizzontale dei segmenti che corrispondono ai singoli trials, perché la stima è molto più accurata, riassumendo
l’effetto del farmaco su un numero molto maggiore di pazienti. Questo blobbogramma mostra che, essendo la losanga ben
lontana dalla linea di effetto nullo, la somministrazione di steroidi è altamente benefica. Di fatto, riduce quasi della metà le
probabilità di decesso di un bambino prematuro.
La cosa sorprendente di questo blobbogramma è che lo si sia
dovuto inventare, e che ciò sia accaduto così tardi nella storia
della medicina. Per molti anni abbiamo avuto a disposizione
tutte le informazioni che occorrevano per sapere che gli steroidi
salvavano vite, ma nessuno era certo che fossero efficaci, perché
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nessuno aveva condotto una revisione sistematica fino al 1989.
Di conseguenza, il trattamento non fu somministrato su vasta
scala, e morì un enorme numero di bambini che si sarebbero
potuti salvare; non perché non avessimo le informazioni, ma
semplicemente perché non ne facevamo una sintesi appropriata.
Nel caso pensaste che questo sia un fatto isolato, vale la pena
di valutare con precisione in quale stato deprecabile si trovasse
la medicina fino a tempi spaventosamente recenti. La figura della pagina accanto contiene due blobbogrammi che rappresentano tutti i trials condotti per verificare se la somministrazione di
streptochinasi, un farmaco che arresta la coagulazione, aumenti la
sopravvivenza in pazienti che hanno avuto un attacco cardiaco.11
Si consideri prima il grafico a foresta a sinistra. Si tratta di un
grafico a foresta tradizionale, tratto da una rivista accademica,
che risulta un po’ più laborioso di quello stilizzato presente nel
logo della Cochrane. Ma i principi generali sono esattamente
gli stessi. Ciascun segmento orizzontale rappresenta un trial, e
si può vedere che c’è un guazzabuglio di risultati, in cui alcuni trials indicano un effetto benefico (non toccano la linea verticale di effetto nullo, contraddistinta dall’«1» in alto) mentre
altri non mostrano alcun beneficio (incrociano quella linea). In
basso, però, si può vedere l’effetto complessivo: un punto, che
in questo blobbogramma di vecchio tipo prende il posto di una
losanga. E si può vedere con chiarezza che complessivamente
la streptochinasi salva delle vite.
E allora che cos’è il grafico sulla destra? È una cosa chiamata meta-analisi cumulativa. Se si osserva l’elenco di studi sulla
sinistra del diagramma, si vede che questi sono disposti in ordine di data. La meta-analisi cumulativa sulla destra somma di
volta in volta i risultati di ciascun trial, così come sono pervenuti, a quelli dei trials precedenti. Ciò fornisce, per ogni anno,
la migliore stima corrente possibile di come le prove sarebbero
apparse in quel momento, se qualcuno si fosse dato la pena di
effettuare una meta-analisi dei dati disponibili. In questo blobbogramma si può vedere che i segmenti orizzontali, gli «effetti complessivi», si accorciano con il passare del tempo, via via
che vengono raccolti dati sempre più numerosi, e la stima del
beneficio complessivo di questo trattamento diventa più accu-
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rata. Si vede anche che questi segmenti orizzontali hanno smesso di incrociare la linea verticale di effetto nullo molto tempo
fa, e, fatto cruciale, hanno smesso molto tempo prima che cominciassimo a somministrare la streptochinasi a chiunque avesse un attacco cardiaco.
Meta-analisi tradizionale e cumulativa di 33 trials sulla somministrazione endovenosa di streptochinasi
per l’infarto acuto del miocardio. I rapporti di previsione (odds ratios) e gli intervalli di confidenza
al 95% per l’effetto del trattamento sulla mortalità sono rappresentati in scala logaritmica.
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Nel caso non l’aveste già indovinato da soli – a dire il vero,
la stessa classe medica fu lenta a capire – questo diagramma
ha implicazioni devastanti. Gli attacchi cardiaci sono una causa
di morte molto comune. Disponevamo di un trattamento che
funzionava, e avevamo tutte le informazioni che occorrevano
per sapere che funzionava, ma ancora una volta non le avevamo organizzate in modo sistematico per desumerne la risposta corretta. Metà delle persone coinvolte in quei trials nella
parte inferiore del blobbogramma erano state destinate a caso
a non ricevere streptochinasi, a mio parere in modo eticamente ingiustificabile, perché avevamo tutte le informazioni necessarie per sapere che la streptochinasi funzionava: quelle persone erano state private di trattamenti efficaci. Ma non erano le
sole, perché lo stesso era accaduto all’epoca alla maggior parte
delle persone in tutto il mondo.
Queste vicende chiariscono, spero, perché revisioni sistematiche e meta-analisi sono così importanti: dobbiamo mettere insieme tutti i dati relativi a una questione, e non limitarci a scegliere i frammenti in cui ci imbattiamo, o di cui intuitivamente
ci piace l’aspetto. Per fortuna i medici sono arrivati a rendersene conto nel corso dell’ultimo ventennio, e oggi le revisioni sistematiche con meta-analisi sono usate in modo quasi universale per garantire la sintesi più accurata possibile di tutti i trials
condotti su un particolare problema.
Ma queste vicende dimostrano anche perché la mancata conoscenza dei risultati dei trials è così pericolosa. Se un ricercatore o un medico «scelgono a piacimento» quando riassumono le
prove esistenti, e considerano soltanto i trials che sostengono la
loro intuizione, possono produrre un quadro fuorviante della ricerca. Questo è un problema per quel singolo, e per chiunque sia
tanto sprovveduto o sfortunato da farsi influenzare da lui. Ma
se tutti, l’intera comunità medica e accademica, siamo all’oscuro dei trials negativi, quando raccogliamo le prove per ricavarne – come dobbiamo fare – la migliore visione possibile di ciò che
funziona, siamo completamente fuorviati. Ci facciamo un’idea
falsata dell’efficacia del trattamento: ne esageriamo erroneamente i benefici, o forse addirittura concludiamo erroneamente che
un intervento è stato benefico, mentre in realtà ha nociuto.
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Dati mancanti
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Ora che comprendete l’importanza delle revisioni sistematiche, potete capire perché i dati mancanti sono importanti. Ma
potete anche convincervi del fatto che, quando spiego quanti
dati dei trials restano sconosciuti, vi sto fornendo una rassegna
onesta della letteratura, perché vi illustro la situazione servendomi di revisioni sistematiche.
Quanti dati mancano?
Se volete dimostrare che alcuni trials sono rimasti inediti,
andate incontro a un problema non da poco: dovete provare
l’esistenza di studi cui non avete accesso. Per aggirare questa
difficoltà, si è escogitato un metodo semplice: si identifica un
gruppo di trials di cui si sa che sono stati effettuati e completati, e poi si verifica se sono stati pubblicati. Trovare un elenco di
trials completati è la parte difficile dell’impresa, e per riuscirci si sono impiegate varie strategie: setacciare, per esempio, gli
elenchi di trials che sono stati approvati da comitati etici (o da
«commissioni di revisione istituzionali» negli Stati Uniti); oppure scovare i trials discussi dai ricercatori nei congressi.
Nel 2008 un gruppo di ricercatori decise di verificare l’eventuale pubblicazione di ogni trial che fosse stato notificato alla
Food and Drug Administration (fda) statunitense in relazione a
tutti gli antidepressivi immessi sul mercato tra il 1987 e il 2004.
Non era un’impresa da poco. Gli archivi dell’fda contengono
una ragionevole quantità di informazioni su tutti i trials sottoposti all’autorità regolatrice in vista del conseguimento di una
licenza per un nuovo farmaco. Ma questi non esauriscono assolutamente la totalità dei trials, perché quelli condotti dopo
che il farmaco è giunto sul mercato non vi compariranno; e le
informazioni fornite dall’fda sono di difficile esplorazione, oltre che spesso limitate. Si tratta comunque di un considerevole
sottoinsieme di trials, più che sufficiente per cominciare a indagare sulla frequenza con cui questi vanno dispersi, e sulla ragione di ciò. Inoltre si tratta di una porzione rappresentativa dei
trials effettuati da tutte le maggiori compagnie farmaceutiche.
I ricercatori individuarono in totale settantaquattro studi,
che rappresentavano i dati relativi a 12.500 pazienti. Trentot-
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to di questi trials fornivano risultati positivi, e concludevano
che il nuovo farmaco funzionava; trentasei erano negativi. I risultati, in realtà, erano quindi equamente suddivisi tra successo e insuccesso per i farmaci. Poi i ricercatori si misero a cercare questi trials nella letteratura accademica pubblicata, cioè tra
il materiale disponibile per medici e pazienti. In questo modo
si delineò un quadro assai diverso. Trentasei dei trials positivi
– tutti eccetto uno – risultavano pubblicati integralmente, spesso
con molta enfasi. Ma i trials con esiti negativi avevano una sorte ben diversa: di essi soltanto tre erano stati pubblicati. Ventidue erano semplicemente perduti, non comparendo in nessun
altro luogo che in quei polverosi, disorganizzati e scarni dossier dell’fda. I rimanenti undici che presentavano risultati negativi nei compendi dell’fda comparivano sì nella letteratura
accademica, ma erano presentati come se il farmaco fosse risultato un successo. Se pensate che ciò sia assurdo, sono d’accordo con voi: vedremo nel capitolo iv, sui «cattivi trials», come i
risultati di uno studio possano essere rimaneggiati e «addomesticati» in modo da distorcerne e amplificarne le conclusioni.
Questo fu un lavoro davvero notevole, che riguardava dodici
farmaci di tutti i maggiori produttori, senza che nessuno fosse
messo nella parte del «cattivo». Lo studio smascherava chiaramente un sistema corrotto: nella realtà abbiamo trentotto trials
positivi e trentasei negativi; nella letteratura accademica ce ne
sono quarantotto positivi e tre negativi. Per un momento provate a passare mentalmente dall’una all’altra di queste due descrizioni: «trentotto trials positivi e trentasei negativi», oppure
«quarantotto trials positivi e solo tre negativi».
Se stessimo parlando di un unico studio, di un unico gruppo
di ricercatori, che avessero deciso di cancellare metà dei propri
risultati perché non fornivano il quadro generale voluto, definiremmo tale comportamento come «frode scientifica». Eppure, in qualche modo, quando si verifica esattamente lo stesso fenomeno, ma con la scomparsa di interi studi, per mano
di centinaia e migliaia di persone sparse in tutto il mondo, sia
nel settore pubblico che in quello privato, lo accettiamo come
un fatto normale della vita.12 La cosa passa sotto gli occhi vigili delle autorità di controllo e degli ordini professionali che,
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d’abitudine, non fanno nulla, nonostante l’innegabile effetto
che ciò ha sui pazienti.
Ancora più strano è il fatto che siamo al corrente del problema della scomparsa degli studi negativi praticamente da quando si è cominciato a fare scienza in modo serio.
Il fenomeno fu documentato in modo formale da uno psicologo di nome Theodore Sterling nel 1959.13 Questi esaminò uno
per uno tutti gli articoli pubblicati sulle quattro principali riviste di psicologia dell’epoca, e scoprì che 286 su 294 riferivano
un risultato statisticamente significativo. La cosa, spiegò, era
ovviamente sospetta: non poteva essere una rappresentazione
corretta di ogni studio che era stato condotto, perché se lo si
fosse creduto, si sarebbe dovuto credere anche che quasi tutte
le teorie mai sottoposte a verifica da uno psicologo in un esperimento si erano rivelate esatte. Se davvero gli psicologi erano
così bravi nel predire i risultati, non ci sarebbe quasi stata ragione di prendersi la briga di condurre esperimenti di sorta.
Nel 1995, al termine della sua carriera, il medesimo ricercatore tornò sulla stessa questione, a distanza di oltre trentacinque
anni, e constatò che quasi nulla era cambiato.14
Sterling fu il primo a esporre queste idee in un contesto accademico formale, ma il punto essenziale era noto da diversi
secoli. Francesco Bacone aveva spiegato nel 1620 che spesso ci
fuorviamo da soli ricordando soltanto le volte in cui qualcosa funziona, e dimenticando quelle in cui accade il contrario.15
Fowler nel 1786 elencò i casi che aveva visto trattare con l’arsenico, e sottolineò che avrebbe potuto nascondere gli insuccessi, come altri forse sarebbero stati tentati di fare, ma che li aveva inclusi.16 Fare altrimenti, spiegò, sarebbe stato fuorviante.
Eppure è solo da una trentina d’anni che ci si è resi conto del
fatto che i trials mancanti costituivano un problema serio per
la medicina. Nel 1980 Elina Hemminki scoprì che quasi la metà
dei trials condotti alla metà degli anni Settanta in Finlandia e
Svezia era rimasta inedita.17 Poi, nel 1986, un ricercatore americano, Robert Simes, decise di fare uno studio sui trials relativi
a un nuovo trattamento per il cancro alle ovaie. Fu uno studio
importante, perché affrontava una questione di vita o di morte.
La polichemioterapia per questo tipo di cancro ha effetti colla-
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terali assai gravi, e molti ricercatori, sapendolo, avevano sperato che potesse rappresentare un miglioramento la somministrazione di un singolo farmaco, un «agente alchilante», prima di
passare alla chemioterapia vera e propria. Simes prese in esame
tutti i trials su tale questione citati nella letteratura accademica, che viene letta da medici e docenti universitari. A giudicare da questa, la somministrazione iniziale di un singolo farmaco sembrava una grande idea: le donne con un cancro ovarico
in stato avanzato (che non è comunque una bella diagnosi), se
prendevano l’agente alchilante da solo avevano una probabilità di sopravvivenza significativamente maggiore.
A questo punto Simes ebbe un’idea brillante. Sapeva che a
volte i trials non vengono pubblicati, e aveva sentito dire che gli
articoli contenenti risultati meno «entusiasmanti» erano quelli che più facilmente andavano dispersi. Dimostrare che ciò
sia accaduto, però, è una faccenda complicata: bisogna trovare un campione rappresentativo non alterato di tutti i trials che
sono stati effettuati, e poi confrontare i loro risultati con quelli
dell’insieme più ridotto di trials che sono stati pubblicati, per
verificare se vi sono differenze imbarazzanti. Non era semplice ottenere queste informazioni dalle autorità di controllo sui
farmaci (discuteremo in modo articolato questo problema più
avanti), così Simes si rivolse alla Banca dati internazionale per
la ricerca sul cancro. Qui c’era un registro di trials interessanti
che erano in corso negli Stati Uniti, tra i quali la maggior parte
di quelli finanziati dal governo; il registro ne conteneva anche
molti altri provenienti da tutto il mondo. Non era assolutamente un elenco completo, ma aveva una caratteristica cruciale: i
trials venivano registrati prima che pervenissero i loro risultati, cosicché qualsiasi lista tratta da questa fonte sarebbe stata,
se non completa, almeno un campione rappresentativo di tutta la ricerca condotta in precedenza, non distorto dagli esiti positivi o negativi dei singoli trials.
Quando Simes confrontò i risultati dei trials pubblicati con
quelli dei trials preregistrati, l’esito fu inquietante. Stando alla
letteratura accademica – gli studi che ricercatori e direttori delle riviste sceglievano di pubblicare – gli agenti alchilanti da soli
sembravano un’idea di grande efficacia, che riduceva in misu-
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ra significativa il tasso di mortalità per cancro ovarico in stato
avanzato. Ma quando si prendevano in considerazione soltanto i trials preregistrati – il campione non distorto rappresentativo di tutti i trials condotti in precedenza – il nuovo trattamento
non risultava migliore della vecchia chemioterapia.
Simes comprese immediatamente – come spero farete anche
voi – che la questione della maggiore efficacia di questo o di
quel trattamento del cancro era poca cosa rispetto alla bomba
che stava per far esplodere nell’ambito della letteratura medica.
Tutto ciò che si pensava di sapere sull’efficacia dei trattamenti era probabilmente distorto, in una misura che poteva essere difficile da determinare con precisione, ma che di certo aveva una grande influenza sulla cura dei pazienti. Si vedevano
i risultati positivi, e si trascuravano quelli negativi. C’era una
cosa ben definita che si doveva fare per questo: istituire un registro di tutti i trials clinici, esigere che gli studi venissero registrati prima dell’inizio, e insistere perché i risultati venissero pubblicati alla fine.
Questo accadeva nel 1986. Da allora, nel corso di un’intera
generazione, si è fatto ben poco. In questo libro prometto di non
opprimervi con i dati. Ma allo stesso tempo, voglio che nessuna
compagnia farmaceutica, nessuna autorità governativa, nessun
organo professionale, o nessun altro che metta in dubbio tutta questa storia, abbia la minima possibilità di svicolare. Perciò
ora prenderò in esame, quanto più rapidamente possibile, tutti
i dati sui trials mancanti, illustrando le principali impostazioni
che sono state adottate nell’analisi. Tutto ciò che state per leggere proviene dalle più attuali revisioni sistematiche sull’argomento, cosicché potete essere sicuri che si tratti di un compendio imparziale e non distorto dei risultati.
Un metodo di ricerca consiste nel raccogliere tutti i trials
agli atti di un’autorità di controllo del farmaco, a cominciare
da quelli iniziali condotti allo scopo di ottenere una licenza per
un nuovo medicinale, e poi controllare se compaiono tutti nella
letteratura accademica. Questo è il metodo adottato, come abbiamo visto, nello studio menzionato sopra, in cui i ricercatori
avevano scovato tutti gli articoli relativi a dodici antidepressivi, e scoperto che un insieme di risultati diviso in parti uguali
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tra positivi e negativi si traduceva in quarantotto articoli positivi e solo tre negativi. Questo metodo è stato ampiamente utilizzato in parecchie aree differenti della medicina:
•
•
•
Lee e colleghi, per esempio, hanno individuato tutti i 909
trials presentati unitamente alle domande di commercializzazione per tutti i novanta nuovi farmaci immessi sul mercato tra il 2001 e il 2002: hanno verificato che il 66 per cento dei trials con risultati significativi erano stati pubblicati, a
fronte del 36 per cento soltanto dei rimanenti.18
Melander nel 2003 prese in considerazione tutti i quarantadue trials su cinque antidepressivi sottoposti all’autorità svedese di controllo del farmaco nell’intento di ottenere l’autorizzazione alla commercializzazione: tutti i ventuno
studi con risultati significativi erano stati pubblicati; soltanto l’81 per cento di quelli che non avevano riscontrato alcun
beneficio lo erano stati.19
Rising e colleghi nel 2008 individuarono altri esempi di quelle valutazioni distorte che analizzeremo più avanti. Avevano cercato tutti i trials effettuati sui farmaci approvati in due
anni. Nel compendio dei risultati dell’fda, una volta che si
era riusciti a trovarli, c’erano 164 trials. Quelli con esiti favorevoli avevano una probabilità di essere pubblicati su riviste
accademiche più di quattro volte maggiore rispetto a quelli con esiti negativi. Per di più, quattro dei trials con esiti negativi, una volta apparsi nella letteratura accademica, erano
diventati favorevoli al farmaco.20
Se si preferisce, si possono prendere in considerazione le
presentazioni svolte ai congressi: un’enorme messe di ricerche
viene presentata in tali occasioni, ma la nostra migliore stima
attuale è che soltanto metà circa di esse appaia poi nella letteratura accademica.21 Gli studi presentati solo ai congressi sono
quasi impossibili da trovare, o da citare, e sono particolarmente difficili da valutare a causa delle scarse informazioni disponibili sui metodi specifici adottati nella ricerca (informazioni
spesso ridotte a non più di un paragrafo). E come si vedrà tra
poco, non tutti i trials rappresentano un test imparziale di un
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trattamento: alcuni possono essere distorti intenzionalmente,
per cui questi particolari hanno grande importanza.
La più recente revisione sistematica degli studi relativi alla
sorte delle comunicazioni presentate ai congressi è stata effettuata nel 2010, e ha individuato trenta studi distinti che si chiedevano se le presentazioni negative rivolte ai congressi – in campi disparati come gli anestetici, la fibrosi cistica, l’oncologia e
il pronto soccorso – scomparissero prima di diventare memorie accademiche vere e proprie.22 I risultati non positivi hanno una probabilità enormemente maggiore di andare perduti.
Se si è molto fortunati, si può rintracciare un elenco di trials
la cui esistenza è stata pubblicamente notificata prima del
loro inizio, magari su un registro istituito proprio per esplorare la questione che interessa. Per quanto riguarda l’industria farmaceutica, fino a tempi recentissimi ci sarebbe voluta
molta fortuna per trovare un elenco simile di dominio pubblico. Nel caso della ricerca finanziata dalle istituzioni dello
Stato, le cose stanno in modo un po’ diverso, ma qui cominciamo a scoprire qualcosa di nuovo: sebbene la stragrande
maggioranza dei trials siano condotti dall’industria, con il risultato che è questa a determinare l’atteggiamento della comunità, il fenomeno di cui stiamo parlando non è limitato al
settore commerciale.
•
•
•
Già nel 1997 in una revisione sistematica con questa impostazione c’erano quattro studi, i quali avevano stabilito che i
trials con risultati significativi avevano probabilità due volte e mezzo maggiore di essere pubblicati rispetto a quelli che
ne erano privi.23
Un articolo del 1998 esaminava tutti i trials effettuati da due
gruppi di ricercatori finanziati dagli US National Institutes of
Health nei dieci anni precedenti, e, di nuovo, concludeva che
gli studi con risultati significativi avevano maggiori probabilità di essere pubblicati.24
Un altro articolo esaminava i trials di farmaci notificati all’Agenzia nazionale finlandese, e concludeva che il 47 per cento dei
risultati positivi era stato pubblicato, a fronte dell’11 per cento soltanto di quelli negativi.25
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•
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Un quarto articolo considerava tutti i trials che avevano coinvolto il reparto farmaceutico di un ospedale oftalmico dal
1963: il 93 per cento dei risultati significativi era stato pubblicato, mentre soltanto il 70 per cento di quelli negativi era
arrivato alla pubblicazione.26
La conclusione che si vuol trarre da tale massa di dati è semplice: questa non è un’area su cui si faccia poca ricerca; al contrario, i fatti sono sotto i nostri occhi da molto tempo, e non
sono né contraddittori né ambigui.
Due studi francesi del 2005 e del 2006 adottarono una nuova
impostazione: furono interpellati dei comitati etici, che fornirono
elenchi di tutti gli studi che avevano approvato; poi fu chiesto
ai ricercatori se i trials avevano prodotto risultati positivi o negativi, e infine furono individuati gli articoli accademici pubblicati.27 Il primo studio stabilì che i risultati positivi avevano
probabilità doppia di essere pubblicati; il secondo che avevano probabilità quadrupla. In Gran Bretagna due ricercatori inviarono un questionario a tutti i responsabili di 101 progetti finanziati dal dipartimento Ricerca e Sviluppo dell’nhs (National
Health Service, Servizio sanitario nazionale): non si trattava di
ricerca industriale, ma vale comunque la pena di prendere nota
dell’esito. In questo caso si ebbe un risultato insolito: non c’era
alcuna differenza statisticamente significativa tra le percentuali
di pubblicazione degli articoli positivi e negativi.28
Ma non è sufficiente limitarsi a elencare gli studi. Considerando in modo sistematico tutte le evidenze di cui disponiamo
finora, che quadro d’insieme ci si prospetta?
Non è il caso di affastellare tutti gli studi di questo tipo in
un unico gigantesco tabulato, per produrre un’immagine riassuntiva del publication bias, perché si tratta di studi assai diversi tra loro, condotti in campi differenti e con metodi differenti.
Questa è un’avvertenza che si deve avere in molte meta-analisi
(anche se non andrebbe enfatizzata: qualora ci fossero numerosi trials che confrontano, per esempio, un dato trattamento con
un placebo, e adottano tutti la medesima misura del risultato,
li si potrebbe benissimo considerare tutti in blocco).
Tuttavia, alcuni di questi studi si possono ragionevolmen-
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te raggruppare. La più recente (2010) revisione sistematica sul
publication bias, da cui sono tratti gli esempi citati sopra, riunisce i dati di svariati campi.29 Dodici studi confrontabili si occupano delle presentazioni ai congressi, e nell’insieme stabiliscono che un trial con un risultato positivo ha una probabilità di
essere pubblicato 1,62 volte maggiore. Secondo i quattro studi
che considerano elenchi di trials registrati prima che avessero
inizio, i risultati positivi hanno una probabilità di essere pubblicati 2,4 volte maggiore. Queste sono le nostre migliori stime
dell’entità del problema. Sono stime attuali, e incontrovertibili.
Tutti questi dati mancanti non rappresentano semplicemente
un problema accademico astratto: nel mondo reale della medicina, i dati pubblicati vengono usati per prendere decisioni sui
trattamenti. Il problema riguarda aspetti essenziali di tutto ciò
che fanno i medici, per cui vale la pena di analizzare in modo
un po’ più approfondito l’incidenza che ha sulla pratica medica.
In primo luogo, come abbiamo visto nel caso della reboxetina,
medici e pazienti sono indotti in errore circa gli effetti del medicinale che usano, e possono finire per prendere decisioni che
causano sofferenze evitabili, o anche la morte. Potrebbe inoltre
capitarci di scegliere senza motivo trattamenti costosi, essendo stati indotti a credere erroneamente che siano più efficaci di
vecchi farmaci meno cari. Ciò comporta uno spreco di denaro,
in ultima analisi privando i pazienti di altre cure, dato che le risorse per il sistema sanitario non sono mai infinite.
Vale la pena anche di chiarire che questi dati vengono nascosti a tutti nel mondo della medicina, dal livello più basso
a quello più elevato. Il nice, per esempio, il National Institute
for health and Clinical Eccellence (Istituto sanitario nazionale
per l’eccellenza clinica), creato dal governo britannico per effettuare compendi accurati e imparziali di tutti i dati sui nuovi
trattamenti, non è in grado né di identificare né di acquisire i
dati sull’efficacia di un medicinale che siano stati nascosti dai
ricercatori o dalle compagnie: in termini legali, il nice non ha
diritto ad accedere a quei dati più di quanto ne abbiate voi o io,
anche se prende per conto dell’nhs decisioni in merito all’efficacia e all’efficienza dei costi che riguardano milioni di persone. In realtà, come vedremo, l’mhra e l’ema (European Medi-
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cines Agency) – le autorità che decidono quali farmaci possono
essere messi sul mercato nel Regno Unito – spesso hanno accesso a queste informazioni, ma non le condividono con il pubblico, con i medici, e neppure con il nice. Questa è una situazione
davvero singolare e scandalosa.
Così, mentre i medici sono tenuti all’oscuro, i pazienti rischiano trattamenti di seconda qualità, inefficaci, non necessari
e inutilmente costosi che non sono migliori di quelli economici; i governi pagano trattamenti inutilmente dispendiosi e assorbono il costo di danni prodotti da trattamenti inadeguati o
nocivi; e i volontari che partecipano ai trials, come quelli dello
studio sul tgn1412, rischiano danni gravissimi che ne mettono
in pericolo la sopravvivenza e lasciano cicatrici indelebili, ancora una volta senza che sia necessario.
Allo stesso tempo l’intero programma di ricerca medica viene
ritardato, dato che importanti risultati negativi vengono tenuti nascosti a coloro che potrebbero usufruirne. Ciò colpisce tutti, ma è particolarmente rilevante nel mondo delle «malattie
rare», patologie che affliggono soltanto piccoli numeri di pazienti, perché queste aree neglette della medicina sono già a corto di risorse, e vengono trascurate dai dipartimenti di ricerca
della maggior parte delle compagnie farmaceutiche, dato che le
opportunità di ritorno economico sono più esigue. Coloro che
lavorano sulle malattie rare spesso effettuano ricerche su farmaci esistenti che sono stati messi alla prova e hanno fallito in
altre condizioni, ma che teoricamente potrebbero rivelarsi utili contro una particolare malattia rara. Se i dati forniti dalle ricerche precedenti sugli effetti di questi medicinali in altre patologie non sono disponibili, il compito di studiarne l’efficacia
contro la malattia rara diventa non solo più difficile ma anche
più pericoloso: può darsi che si sia già dimostrato che quei farmaci sono utili o che hanno effetti che contribuirebbero ad accelerare la ricerca, oppure che sono dannosi quando vengono
utilizzati per altre malattie, o che ci sono significativi indicatori di sicurezza che aiuterebbero a proteggere da conseguenze negative i partecipanti a future ricerche. Nessuno può dirlo.
Infine, ed è forse la cosa più vergognosa, quando permettiamo
che i dati negativi non vengano pubblicati, tradiamo i pazien-
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ti che hanno partecipato ai relativi studi: le persone che hanno
messo a disposizione il proprio corpo, e a volte dato la propria
vita, nell’implicita convinzione di contribuire a creare nuova
conoscenza, che in futuro potrebbe aiutare altri nella loro stessa condizione. Anzi, la loro convinzione non è implicita: spesso è precisamente ciò che diciamo loro, in quanto ricercatori,
ed è una menzogna, perché i dati potrebbero essere tenuti nascosti, e noi lo sappiamo.
Ma di chi è la colpa di tutto ciò?
Perché i trials negativi scompaiono?
Tra breve esamineremo casi più chiari di compagnie farmaceutiche che occultano i dati – in vicende nelle quali si possono
identificare singoli responsabili – spesso con l’aiuto di autorità di controllo. Quando ci arriveremo, spero che la vostra rabbia aumenterà. Ma prima vale la pena di soffermarci un momento a prendere atto di come il fenomeno del publication bias
si verifichi anche oltre l’ambito della messa a punto dei farmaci commerciali, in aree assolutamente lontane dell’attività accademica, dove le persone sono motivate soltanto dal desiderio di fama e dai propri interessi personali.
Sotto parecchi aspetti, dopo tutto, il publication bias, è un fenomeno molto umano. Se avete condotto uno studio che non ha
dato un entusiasmante risultato positivo, potreste erroneamente concludere che il vostro esperimento non è molto interessante per gli altri ricercatori. C’è poi la questione degli incentivi:
gli accademici vengono spesso valutati, con scarso costrutto, in
base a parametri rudimentali come il numero delle citazioni dei
loro articoli, e il numero degli studi «di impatto elevato» che
riescono a pubblicare su prestigiose riviste. Se le conclusioni negative sono più difficili da pubblicare sulle principali riviste, e
hanno meno probabilità di essere citate da altri accademici, gli
stimoli a darsi da fare per diffonderle sono minori. Invece, con
una conclusione positiva, avete la sensazione di aver scoperto qualcosa. Tutti, intorno, sono eccitati perché i vostri risultati sono eccezionali.
Il problema può essere illustrato in modo esemplare da una
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vicenda del 2010. Un ricercatore americano alquanto ortodosso,
Daryl Bem, pubblicò su un’autorevole rivista di psicologia un
competente articolo accademico in cui si fornivano prove del
fenomeno della precognizione, la capacità di prevedere il futuro.* Questo studio era ben concepito, e i risultati erano statisticamente significativi, ma molti rimasero scettici, per le stesse
ragioni per cui lo siete voi: se il genere umano fosse realmente
in grado di scorgere il futuro, probabilmente ne saremmo già
a conoscenza; e asserzioni eccezionali richiedono prove eccezionali, piuttosto che risultanze uniche.
Ma in realtà gli esperimenti di Bem sono stati ripetuti, senza
che si siano ottenuti i suoi risultati positivi. Almeno due gruppi
di ricercatori hanno replicato diversi esperimenti di Bem, usando esattamente gli stessi metodi, e nessuno dei due ha riscontrato alcuna prova a sostegno della precognizione. Un gruppo
sottomise i propri risultati negativi al «Journal of Personality
and Social Psychology» – precisamente la medesima rivista che
aveva pubblicato l’articolo di Bem nel 2010 – e quella rivista
respinse l’articolo senza troppi complimenti. Il direttore se ne
venne addirittura fuori a dire che non pubblicavano mai studi
che replicavano altre ricerche.
Qui abbiamo di fronte lo stesso problema che si incontra in
medicina: i risultati positivi hanno maggiori probabilità di essere pubblicati rispetto a quelli negativi. Di tanto in tanto viene
pubblicato uno stravagante risultato positivo che indica, per
esempio, che è possibile vedere nel futuro. Chissà quanti psicologi hanno tentato, nel corso degli anni, di trovare prove
di poteri paranormali, conducendo complessi e lunghi espe* Invece di escogitare nuovi esperimenti complessi per verificare se le persone poteva-
no prevedere il futuro, Bem si limitò a eseguire a ritroso alcuni classici esperimenti psicologici. Così, per esempio, effettuò un ben noto esperimento sull’influsso subliminale,
in cui si mostrano a delle persone due immagini speculari della stessa figura, e poi si
chiede loro quale preferiscano; ma, prima che facciano la scelta, si proietta sotto una o
l’altra per non più di qualche millisecondo un’immagine subliminale sgradevole. Nello svolgimento normale di questo esperimento, l’immagine subliminale rende meno
probabile che i soggetti scelgano quell’opzione. Nello studio di Bem le immagini subliminali sgradevoli venivano proiettate subito dopo che i soggetti avevano fatto la loro
scelta dell’immagine preferita. Ma, per quanto appaia inverosimile, Bem concluse che
queste immagini subliminali avevano ugualmente un effetto sulle scelte delle persone.
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rimenti, su decine di soggetti – magari centinaia – e poi non
hanno rinvenuto alcuna prova dell’esistenza di simili poteri?
Qualunque scienziato tentasse di pubblicare una tale conclusione farebbe molta fatica a trovare una rivista che la prendesse sul serio. Anche in presenza del chiaro bersaglio rappresentato dall’articolo di Bem sulla precognizione, che aveva avuto
vasta eco su seri giornali in tutta Europa e negli Stati Uniti, la
rivista accademica, pur con un innegabile interesse recente per
la questione, semplicemente rifiutò di pubblicare un articolo
con un risultato negativo. Eppure replicare quelle risultanze
era essenziale – Bem stesso lo aveva detto nel suo articolo – e
quindi anche essere al corrente delle repliche negative era di
importanza vitale.
Persone che lavorano in laboratori reali vi diranno che talvolta un esperimento produce ripetutamente risultati negativi,
prima che si profili l’esito sperato. Che cosa significa questo? A
volte gli insuccessi saranno effetto di problemi tecnici; ma altre volte costituiranno un contesto statistico di importanza vitale, magari anche in grado di mettere in questione il risultato
principale della ricerca. Si rammenti che spesso le conclusioni
di una ricerca non sono sentenze assolute del tipo «bianco» o
«nero», ma fragili correlazioni statistiche. Con il sistema attuale
la maggior parte di queste informazioni contestuali in merito
ai risultati negativi viene semplicemente nascosta sotto il tappeto, e ciò ha enormi implicazioni per il costo di replicazione
della ricerca, in modi che non sono immediatamente ovvi. Per
esempio, quando dei ricercatori non riescono a ripetere un risultato iniziale, può succedere che non sappiano se hanno fallito perché il risultato originale era un caso fortuito enfatizzato,
o perché hanno commesso qualche tipo di errore metodologico.
In effetti, dimostrare che un risultato era sbagliato costa molto
di più di quanto sia costato ottenerlo inizialmente, perché bisogna ripetere l’esperimento molte più volte per provare l’assenza
di un risultato, semplicemente a causa del modo in cui opera la
statistica della rivelazione di effetti deboli; e si deve anche essere assolutamente certi di aver escluso qualunque problema
tecnico, per non esporsi a figuracce qualora la propria ripetizione risulti poi inadeguata. Queste barriere frapposte alla con-
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futazione possono in parte spiegare perché sia così facile farla
franca con la pubblicazione di conclusioni che in definitiva risultano sbagliate.30
Il fenomeno del publication bias non costituisce un problema
soltanto nei recessi più astratti della ricerca psicologica. Nel 2012
un gruppo di ricercatori ha riferito sulla rivista «Nature» di aver
cercato di replicare cinquantatré studi iniziali di laboratorio su
bersagli promettenti per i trattamenti anticancro: su cinquantatré non è stato possibile replicarne ben quarantasette.31 Questa
analisi ha serie implicazioni per lo sviluppo di nuovi farmaci
in medicina, perché simili risultati non replicabili non rappresentano soltanto una questione accademica astratta: i ricercatori costruiscono teorie basandosi su di essi, confidano nella loro
validità, e approfondiscono la medesima idea utilizzando altri metodi. Se vengono semplicemente ingannati, e inseguono
dati erronei e casuali, ingenti quantità di denaro e di sforzi investiti nella ricerca vanno sprecati, e la scoperta di nuovi trattamenti medici ne viene gravemente ritardata.
Gli autori dello studio sono stati chiari in merito sia alla causa
che alla soluzione di questo problema. Risultati positivi casuali,
spiegavano, hanno spesso maggiori probabilità di essere proposti alle riviste – e di essere pubblicati – che non noiosi risultati
negativi. Si dovrebbero dare agli accademici maggiori incentivi
a pubblicare risultati negativi, oltre che maggiori opportunità.
Ciò significa modificare il comportamento delle riviste accademiche, e qui ci imbattiamo in un problema. Pur essendo di
solito essi stessi accademici, i direttori delle riviste scientifiche
hanno propri interessi e obiettivi, e hanno più cose in comune
con gli ordinari giornalisti e i direttori dei giornali di quanto
alcuni di essi vorrebbero ammettere, come dimostra con grande chiarezza l’episodio dell’esperimento sulla precognizione ricordato sopra. Se riviste come quella ivi coinvolta rappresentino un modello minimamente ragionevole per la comunicazione
della ricerca è questione vivacemente dibattuta negli ambienti accademici, ma questa è la situazione attuale. Le riviste sono
i guardiani dell’accesso, prendono decisioni su ciò che è pertinente e interessante per il loro pubblico, e sono in competizione
tra loro per conquistare i lettori.
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