Codice cliente: 8032423 28 Mercoledì 27 Aprile 2016 Corriere della Sera # Bruxelles Il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori è marginale nella complessa struttura di governo Ue Il rischio è esaltare il carattere funzionariale-burocratico di istituzioni contro cui è facile che crescano i populismi ANALISI COMMENTI L’ Il corsivo del giorno di Maria Serena Natale TRE PRESIDENTI PER SALVARE LA POLONIA SE L’UNIONE PERDE IL PILASTRO DELL’EST È la più grave crisi istituzionale dalla caduta del comunismo. A sei mesi dalle elezioni che hanno riportato gli ultraconservatori al potere, la Polonia si avvita in un pericoloso scontro ai vertici. L’ultima chiamata viene da tre ex presidenti che incarnano la storia e le anime della democrazia risorta. Lech Walesa — l’epopea di Solidarnosc, gli scioperi dei cantieri navali di Danzica, la Madonna nera di Czestochowa. Aleksander Kwasniewski — il superamento del comunismo, la riconciliazione, l’ingresso nella Nato. E Bronislaw Komorowski — stabilità e orgoglio cattolico, la nazione unita nella tragedia (Smolensk 2010, il disastro aereo nel quale morì il capo dello Stato Lech Kaczynski). Insieme hanno firmato un appello ai polacchi «per difendere la democrazia» dalla stretta autoritaria del governo guidato da Beata Szydlo e fedele a Jaroslaw Kaczynski, il gemello sopravvissuto per realizzare il sogno della Quarta Repubblica rifondata su un’ideale integrità che non ammette legami con il passato né cessioni di sovranità. Giustizia, informazione, aborto: l’esecutivo ha lanciato una campagna totale di accentramento del potere, controllo su memoria e coscienza nazionale, indurimento legislativo secondo le posizioni del clero conservatore. Il conflitto con la Corte suprema che rivendica la propria autonomia è il simbolo di una lacerazione sempre più profonda che investe istituzioni e società civile. I tre presidenti denunciano «l’usurpazione del potere, azioni antieuropee e xenofobe che minano la coesione della Ue e fanno il gioco della Russia imperialista». Szydlo: «Credono di essere la democrazia. Io dico che la democrazia siamo noi polacchi». Echi dal passato nella Polonia pilastro d’integrazione e ponte con l’Est, fino a oggi. [email protected] © RIPRODUZIONE RISERVATA Su Corriere.it Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it Europa è mortale? Così un giornale non sospettabile di antieuropeismo come Le Monde ha intitolato un lungo articolo sulla situazione attuale dell’Unione Europea. Per sottolineare il rischio di fine imminente che la minaccia e insieme l’inconsapevolezza che di ciò sembriamo avere, l’autore dell’articolo, Arnaud Leparmentier, ha paragonato la nostra condizione a quella che Stefan Zweig, nel Mondo di ieri, attribuiva all’impero asburgico alla vigilia del fatidico giugno 1914: «Tutto nella nostra quasi millenaria monarchia austriaca sembrava duraturo e lo Stato stesso appariva il sommo garante di questa ininterrotta solidità». Le cose, come è universalmente noto, avrebbero preso tutt’altra direzione. Non è la prima volta che vengono formulati paragoni del genere: tre anni fa un centro studi americano, il Pew Research, definì la Ue come «il malato d’Europa», riprendendo l’espressione che un tempo si usava per l’impero ottomano (e anche in questo caso è ben noto come andò a finire). Eppure la nostra discussione pubblica sembra non prendere troppo sul serio questi segnali di allarme e predilige temi e toni legati alla quotidianità: la polemica Merkel-Draghi, la guardia di frontiera europea, l’ultima dichiarazione di Juncker sulla richiesta italiana di flessibilità e così via. Tutte cose rilevanti, non c’è alcun dubbio, e tuttavia che danno vita a dibattiti e analisi non adeguati alla crisi di fondo che l’Unione Europea sta attraversando. Una crisi che, a partire dal 2008, è esplosa proprio sul terreno che più costituiva il legittimo vanto degli europei: l’economia. Ma anche una cri- mediocri. Fiamma conosce bene il Medio Oriente non solo perché ci ha vissuto, ma perché è allieva di uno dei migliori e più eminenti storici di quell’area, il grande Bernard Lewis, di cui culturalmente anche io umilmente mi considero scolaro. Fiamma meglio di molti altri saprebbe spiegare puntualmente le ragioni di Israele agli italiani, non solo restando sulla difensiva: e noi di questo abbiamo bisogno. C’è chi ne fa una questione di «doppia fedeltà» — persino «tripla» — , all’Italia, all’ebraismo e a Israele, riaprendo incomprensioni e timori di ottocentesca memoria: ebrei o italiani? Oppure: ebrei o israeliani? Ci vorrebbero pagine per spiegare quanto peregrine e improprie siano queste domande, che chiudono gli occhi colpevolmente o per ignoranza al contributo costante che gli ebrei italiani, pur fedeli a loro stessi (e questo oggi riguarda an- Apprezzamento Moltissime persone si sono compiaciute, sia tra la gente comune che tra i «notabili» Negare la storia Ciò che indigna veramente sono le contestazioni alla Brigata ebraica che Israele), hanno dato con amore e talvolta con eroismo a questo Paese da ventidue secoli. A chi ha paura di sentirsi rifare simili domande rispondo: 1) tanto tristemente ce le fanno lo stesso e da decenni in varie odiose versioni; 2) oggi i nostri connazionali, specie certi intellettuali o politici, se le pongono a noi, devono porle necessariamente a centinaia di migliaia di musulmani, indù e così via… Il governo italiano non ha contrarietà nei confronti di questa nomina, come da smentite ufficiali. Lo Stato di Israele ha avanzato una nomina di valore per l’Italia con il nome di Fiamma Nirenstein. Quello che certi giornali dovrebbero scrivere, invece, è ciò che indigna davvero gli ebrei italiani, ossia che certa sinistra contesti la Brigata ebraica il 25 Aprile, negando la storia e con questa il contributo ebraico alla Resistenza e alla sconfitta del nazifasci- NIRENSTEIN AMBASCIATRICE UNA NOMINA POSITIVA M i sono deciso a scrivere in relazione alla nomina di Fiamma Nirenstein: io sto dalla sua parte e mi rallegro che sia in pectore la nuova ambasciatrice dello Stato di Israele in Italia. Non è vero che i rabbini italiani e gli ebrei italiani siano contrari alla sua nomina: potrei elencare moltissime persone, che vivono giorno dopo giorno, assiduamente e attivamente l’ebraismo, che si sono compiaciute per questa scelta, sia tra la gente comune sia tra i «notabili». Vi saranno certo anche i contrari, pure autorevoli, ma non sono l’unica voce, né quella maggioritaria. Fiamma è una donna intelligente e responsabile oltreché colta, attiva ed estrosa. E già questo fa bene sia all’Italia sia all’ebraismo italiano, vista la cultura talvolta asfittica, da salotto buono o da palazzo, che ci contraddistingue da troppo tempo e con risultati di Giovanni Belardelli si che in questi ultimi anni si è andata allargando ad altri terreni: dall’incapacità di dar corpo a una politica estera europea alla indisponibilità di molti Paesi dell’Ue ad applicare gli accordi sul ricollocamento dei richiedenti asilo. Il modo prevalente in cui la maggioranza dei media, dei politici, degli esperti di vario genere affronta ciascuno dei terreni di crisi è caratterizzato da forme verbali esortative: di fronte a Stati che ripristinano i controlli alle frontiere si dichiara che non ci devono essere muri; di fronte alle migrazioni di massa si afferma che si deve realizzare la redistribuzione dei migranti; che si deve attuare un servizio di sicurezza europeo; anzi, più in generale, una vera unione politica europea. Il discorso europeista, in sostanza, corrisponde sempre più a quella forma verbale esistente in alcune lingue che è l’ottativo: una forma che esprime un desiderio, un auspicio e poco si cura del fatto che la sua realizzazione trovi ostacoli spesso non superabili. Primo fra tutti il fatto che, su ciascuna delle soluzioni appena citate, è ampiamente documentato il disaccordo dell’opinione pubblica di questo o quel Paese. Ma di ciò che pensano i cittadini europei — della loro crescente disaffezione per le istituzioni comunitarie — generalmente poco ci si cura. A volte, anzi, si è teorizzato che non vi si debba prestare troppa attenzione: quei cittadini, e i loro governi, avrebbero la colpa di non riuscire a prescindere dall’orizzonte nazionale, soltanto negando il quale l’Europa può avere un futuro. Sta probabilmente qui, nell’illusione che gli Stati nazionali fossero entrati in una crisi de- LA SCELTA DI ISRAELE di Giuseppe Laras C’È POCA DEMOCRAZIA IN QUESTA EUROPA Prospettive È molto pericoloso trascurare la crescente disaffezione dei cittadini comunitari Errore Molti si sono illusi che l’orizzonte dello Stato nazione fosse entrato in una crisi irreversibile finitiva dopo il 1945 e fossero perciò destinati a una rapida scomparsa, uno dei limiti culturali originari dell’europeismo ufficiale. Non solo perché quella previsione non si è realizzata, ma anche perché ad essa si accompagnava la mancata comprensione del nesso tra Stato nazionale e democrazia. Sulla scia di John Lennon possiamo auspicare che in un futuro più o meno lontano non sia più così («Imagine there’s no countries, it isn’t hard to do…»), ma fino a oggi lo Stato nazionale ha rappresentato (e continua a rappresentare) la premessa e l’ambito di esistenza della democrazia. Stigmatizzare il fatto che la cancelliera Merkel sia tornata indietro rispetto al suo iniziale atteggiamento di apertura verso gli immigrati per seguire l’orientamento dell’opinione pubblica tedesca ha poco senso. Cos’altro mai dovrebbe fare il capo del governo in un regime democratico? Ma la democrazia, il rapporto di fiducia tra eletti ed elettori, è marginale se non assente nella complessa struttura di governo delle istituzioni europee. Secondo alcuni ciò sarebbe addirittura un bene, perché solo il carattere funzionarialeburocratico di quelle istituzioni permetterebbe di fare il superiore interesse europeo contro gli interessi nazionali. Prima o poi bisognerà riconoscere che è una strada pericolosa, che rischia di allontanare ancora di più i cittadini dalle istituzioni europee, lasciando ai vari populismi antieuropeisti — dal partito di Farage ad Alternative für Deutschland — la non disprezzabile risorsa di potersi presentare come i paladini della democrazia. © RIPRODUZIONE RISERVATA smo. Vi è di più: si assiste a un doloroso e pernicioso capovolgimento della storia quando la bandiera della Brigata ebraica è vilipesa e invece sventolano, senza che nessuno si interroghi, bandiere palestinesi che, almeno in relazione alla storia della Seconda guerra mondiale, sono espressione di coloro che con Hitler erano alleati non solo per motivi contingenti ma ideologici. Mi riferisco a un certo Muftì — e ad altri come lui — , la cui storia è tutt’altro che trascurabile, e all’odio antisemita nazista che per decenni, anche dopo, egli ha inoculato ovunque gli sia stato possibile nel mondo islamico. E le ricadute sono purtroppo ben tangibili oggi. La verità, come insegnano non solo i Maestri di Israele, va sempre detta, perseguita e ribadita. Presidente del Tribunale rabbinico Centro Nord Italia © RIPRODUZIONE RISERVATA