digital magazine ottobre 2009 N.60 ››jim o'rourke ››il teatro degli orrori ISLANDS - RAMONA FALLS TUNE-YARDS - FELICE BROTHERS ANTI-POP CONSORTIUM ZEN CIRCUS MASSIVE ATTACK 3-D Sentireascoltare n.60 Turn On p. 4 Islands 5 Ramona Falls 6 Tune-Yards 8 The Felice Brothers Tune In 10 Anti-Pop Consortium 14 Zen Circus Rubriche 130 Giant Steps 131 Classic Album 132 La sera della prima 150 I cosiddetti contemporanei Drop Out 18 With the Beatles Remastered 34 Jim O'Rourke 40 Il Teatro degli Orrori Recensioni 48 Gianluca Petrella, Helado Negro, Lightning Bolt, Luciano, Mountain Goats... Rearview Mirror 126 Massive Attack, Tim Buckley, Harmonia... Direttore: Edoardo Bridda Ufficio Stampa: Teresa Greco Staff: Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Daniele Follero, Stefano Solventi, Antonello Comunale, Teresa Greco Hanno collaborato: Leonardo Amico, Gianni Avella, Giorgio Avezzù, Luca Barachetti, Salvatore Borrelli, Sara Bracco, Marco Braggion, Luca Collepiccolo, Luca Colnaghi, Gabriele Marino, Francesca Marongiu, Andrea Napoli, Massimo Padalino, Giulio Pasquali, Stefano Pifferi, Andrea Provinciali, Antonio Puglia, Aldo Romanelli, Costanza Salvi, Vincenzo Santarcangelo, Giancarlo Turra, Fabrizio Zampighi. Guida spirituale: Grafica In e Adriano Trauber (1966-2004) Impaginazione: Nicolas Campagnari copertina: The Beatles by feti SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati.La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare Islands Soluzioni impensate In un balletto di alias e formazioni, ripercorriamo la storia dei canadesi Islands e del loro indie pop intelligente. Con un piccolissimo aiuto da parte di Eno N on accontentarsi mai. Questa la motivazione che lo fa evolvere. Stiamo parlando di Nick Thornburn alias Nick Diamonds, come si fa chiamare da un po’, deus ex machina dei canadesi Islands. Thornburn era nome da lui usato al tempo degli Unicorns, indie pop band from Montreal attiva nei primi anni 2000, nome che lo ha accompagnato in altre formazioni più o meno parallele, quali Th' Corn Gangg, Reefer e Human Highway. L’altro nominativo da tenere a mente è quello del batterista e “motore ritmico” Jamie Thompson (alias J'aime Tambour), con Diamonds sia negli Unicorns, sia nei Th' Corn Gangg che negli Islands. Se in questo balletto di alias e formazioni ci si è già smarriti, la cosa non sembri poi così peregrina, visto il grado di intrecci, nonché autoironia dei personaggi coinvolti. Unicorns allora innanzitutto, quasi meteora da due album, che hanno definito il suono già allora (2003-2004) caratteristico del duo, un indie pop tendente al melodico. Spezie che ritroviamo più o meno intatte negli Islands, che esordiscono nel 2006 con Return To The Sea, disco composito e bilanciato che tiene insieme indie, guitar, calipso, prog rock (!) e chamber pop, con l’aiuto di alcuni Arcade Fire e Wolf Parade, confermando l’ottimo momento della scena di Montreal. Segue l’affermazione della 4 Turn On band ma anche l’abbandono di Thompson. Così il buon Diamonds ricompatta tutto intorno a sé allargando la formazione e realizzando, nel 2008, Arm’s Way, un semi-concept assai orchestrato, che si nutre di continue variazioni sul tema, tra epicità Arcade, sinfonie, caraibicità e andamenti dance. La classica quadratura del cerchio. Si arriva dunque al terzo atto degli Islands con un colpo di teatro: il ritorno quest’anno del buon Jamie Thompson e la conseguente virata decisa verso il ritmo con l’ultimo Vapours (in recensioni). Album snello, melodico e ritmico, di sapore Ottanta ma non solo. L’alchimia tra Diamonds e Thompson si concretizza in un altrove che produce un valore aggiunto, che Diamonds gestisce bene in termini di leadership, tirando le fila all’interno delle varie incarnazioni della band. Il modo in cui risolve le indecisioni nel comporre e non solo, l’ha svelato di recente in una intervista ripresa dal suo Twitter, nella quale racconta come sin dai tempi del primo disco abbia fatto uso delle Oblique Strategies, le carte inventate da Brian Eno e Peter Schmidt nel 1975, basate su intuizioni e processi psicologici. Un mezzo per confrontarsi con un responso e decidere di conseguenza considerando soluzioni impensate. In questo c’è tutto di Diamonds. Teresa Greco Ramona Falls L’arte della costruzione pop Un pop d’artigianato che nasce da contraddizioni e giustapposizioni, una miscela ben dosata di acustico ed elettronico, stratificazioni ed eclettismo C osa fare se la lavorazione del fatidico terzo album della tua band si prolunga oltre il dovuto (più o meno 3 anni) ? Questo deve essersi chiesto Brent Knopf, l’uomo dietro alle programmazioni elettroniche e non solo dell’eclettico trio psych pop-rock Menomena, da Portland. Ecco allora che in parallelo compone in solitaria e con pochi mezzi il suo materiale, concependo il solo side project Ramona Falls, fin dal nome un omaggio ai luoghi natali nell’Oregon. Tipo con le idee chiare Brent, che approfitta dell’occasione per chiedere aiuto a molti amici della scena di Portland (tra cui Helio Sequence, la band di Mirah, 31 Knots, Loch Lomond), realizzando, in un work in progress di cui tira man mano le fila, l’esordio Intuit (recensito il mese scorso), un album dallo spiccato sapore pop, che rispetto alla band di provenienza presenta una certa regolarità ritmica e un più deciso senso della melodia. Miscelando acustico ed elettronico (è lui nella band l’inventore del Deeler, un programma che usa sequenze in loop durante la composizione), ballad e sovrapposizioni, melodie stratificate e cambi non esagerati di ritmiche - al contrario dell’indiavolato marasma dei Menomena - riesce a realizzare un’opera omogenea e personale, quietamente più introspettiva rispetto al lavoro trino con la band. I nomi più immediatamente accostabili sono i Mercury Rev psych rock, i Flaming Lips per l’acidità e il senso giocoso del pop melodico, ma anche Beatles, R.E.M. e i più contemporanei Arcade Fire e TV On The Radio per i cambi ritmici. C’è anche l’amore autodichiarato (che si nota in certi incastri) per il gruppo art post-punk inglese di fine ‘70 The Homosexuals, autori di un coacervo articolato che a dire di Knopf, lo ha colpito “per la produzione, per aver inserito molti elementi in ogni canzone, ma senza farlo sembrare un virtuosismo, solo una interessante esperienza d’ascolto”. Ma c’è dell’altro dietro a un personaggio come Knopf, che si rivela facendo caso ad alcuni particolari; un retaggio letterario - che si intuisce dalle liriche introspettive e non banali - che fa del fantastico e delle figure d’artista dell’argentino Jorge Luis Borges una delle sue ispirazioni; l’amore per il Tao e il suo interrogarsi sulle contraddizioni, metodo usato nella composizione musicale. E ancora, il rivelare come costruisce i pezzi, celando “piccole easter eggs che si possono trovare solo ascoltando più volte una canzone, per scoprire qualcosa di nuovo ogni volta nella musica”. Un artigiano, un paziente cesellatore del suono. L’arte della costruzione pop è tutta qua. Teresa Greco Turn On 5 Tune-yards Suoni dal mondo dal pianeta casa Pensate a MIA e al significato più intimo del pop globale d'oggi, in chiave lo-fi si chiama per forza TuneYards 6 Turn On L ’indie da cameretta lo vedo sempre più un frullatore di spezie mainstream e indie. E nell’immaginarlo così penso a M.I.A.. Un nome lontano e vicino parlando di Merrill Garbus in arte Tune-Yards. E il paragone la riguarda soprattutto ricordandoci che la cameretta non significa soltanto un appartamentino crepato a Londra o a Portland, ma anche una stanza a Dheli o una capannina di palme ai caraibi. Siamo nei 2000 e siamo globali e se dici mainstream pensi all’hip hop, alle slavatissime produzioni nu soul, al sincopato e alle rime, basi che in contesti diversissimi come l’alt folk o il pop più narrativo, diventano terreni fertilissimi se presi nell’originaria giocosità e nella fatica del fare musica e dell'esprimersi fuori dai cori. Poi, in pratica, dietro le sincopi c’è sempre una drum machine. E pure dietro le tracce e i layer c'è un suono è pur sempre riconducibile ad un hardware economico. Pensate indie. Alle Cocorosie tra i vinili e la mossetta sincopata, o al Casiotone For The Painfully Alone nella cover della Streets Of Philadelphia springsteen-iana. Incroci di un sound big con obiettivi, mezzi e strumenti necessariamente (volutamente) ristretti. Soprattutto con fini e potabilità circoscritte. L’attitudine di Merrill, ragazzona dall’aspetto rustico e sbilenco, prende linfa da queste parti. Registra in digitale e poi sporca in cassetta. Pure lei usa l’hop e il soul ma apparecchiandolo nel salotto di una cameretta dopo aver messo nel box il figlio esce una melodia piuttosto disallineata e difficilmente accordabile secondo i programmi autotune. Poi sulle pareti casalinghe c'è il classico patchwork da studenti off. Un poster del Tirolo, una cartolina dal Punjab, un quadro di una tribù keniota, e più giù, sul tappeto, dischi di Woody Guthrie, Juana Molina, Bob Marley, Odetta e dozzine di folk singer, cantanti a cappella d'ogni latitudine, gruppi feedle. Quando stai già pensando alla posa intellettuale della musicista che te la svolterà avant alla nova york, lei invece ti parla punk al naturale proprio come le Slits o le Raincoats, quindi, sincera e naif ti canta un folk che chiamiamo folk soltanto perché lo strumento prediletto è l’ukulele. E il chitarrino non è certo roba mainstream attualmente, come neppure la dieta e l'occhiaia da monitor notturno. Merrill non ci bada, mangia di tutto e dalla bocca gorgheggia speziato, corde legnose, ululati free che ti riempiono di libertà. Non è la solita slaker, epperò così vicina all’istinto sembra un tutt’uno con le proprie fascinazioni e dunque la musica Tune-Yards, nome d’arte programmatico, ti racconta la storia di una fuga e un ritorno. Musica infantile nel senso di dialogo però. L’esordio BiRd-BrAiNs si costruisce attorno a una catarsi terzomondista perennemente intinta di troniche povere che la direbbero folktronica se usare questa parola non portasse sfiga. Poi, infine, ci sono le schegge impazzite; colpi di genio straccione e straziato che le escono dal cervello. Belli come il sole. Altri mondi mainstream masticati e ributtati nella pappa: una Björk, un Thom Yorke, persino lo Sting isterico dei primi Police. Tutto sale che glielo senti nelle labbra tra un ruttino del bambino e un setting di freeware. La sacra promessa del from me to you del lo-fi difficilmente si realizza. Per quest’esordio, su una 4AD a caccia di talenti in chiaro, ecco che ci viene servito: canzoni variegate, registrate in due anni di session e di cui questa versione non è che la ristampa a un anno di distanza, anzi, il corso ufficiale dopo l’autoproduzione. Canzoni da riciclaggio creativo perché il progetto tUnE-YaRdS - che solo qui ci prendiamo l’amore di scriverlo così come lei lo vorrebbe – considera warholamente il furto come nobile arte. Canzoni simpaticamente mutanti come piacerebbero a un fan di Futurama, dacché dentro ci trovi anche un albero genealogico di passione che parte dai genitori musici. Infine la fortuna, gioca anche lei nelle sorti di Merrill: della personale ossessione per la Christmas Music non vi è traccia nell’album. Ci troviamo, invece, le tracce dei suoi amori per i Pupi e il teatro (in cui si è laureata by the way), che l'hanno ispirata verso un folk-pop d’interpretazione e non d’immedesimazione. Soprattutto, BiRd-BrAiNs è due anni e mezzo di talento coltivato ed espresso con lei e con noi (e il figlio …sempre che sia il suo quello che sentiamo nel disco) e tanti saluti anche a Thao Nguyen, ragazza simpatica e compagna di tour americano (nuovo album all’attivo anche per lei, tra l'altro). Per chi fosse interessato al vinile di questo bell'esordio contatti la Marriage Records, guarda caso Portland, Oregon. Edoardo Bridda Turn On 7 The Felice Brothers Di radici e di ali Non tutti riescono a farsi schiacciare dal passato e incidere sull'attualità. I tre fratelli Felice, ad esempio. 8 Turn On I nutile far finta di non saperlo: i gruppi attuali hanno una gran fortuna che tuttavia in pochi sanno sfruttare. Possono avere a disposizione il senno di poi sonoro di cinque decenni d’evoluzione della “cosa rock” e dei suoi derivati, il privilegio di scartabellare tra testi sacri e note a pie’ di pagina in cerca di un linguaggio il più possibile “originale”. Non appartengono però a tutti la capacità critica e l’attitudine sincretica necessarie; né l’attenzione rivolta verso le Canzoni in un epoca in cui la maggioranza bada alla peculiarità del suono. Non basta mettere in relazione tra loro segmenti di stile differenti: li si deve legare con un collante, altrimenti ci si blocca a metà del guado. Perché, potenzialmente, non vi è limite alcuno a ciò che si può cavare dal cilindro per sottrarre il rock al ruolo di vuota pantomima in cui è caduto. Capito come si fa, Arciduchi Ferdinandi e Babbuini Polari? Come gli LCD Soundsystem, come gli Art Brut, come i Felice Brothers. Che si stanno vieppiù imponendo - con la serenità del saggio provinciale - come uno dei più scintillanti aggiornamenti di The Band. Della stessa indagine nel cuore rurale dell’America ottimista e lavoratrice che non è probabilmente mai esistita se non nei sogni di D.H. Thoreau e Walt Whitman. I quali avrebbero gradito un soggiorno nella piccola Palenville dove tutto è iniziato, piccolo borgo sulle Catskill Mountains a venti minuti da Woodstock e dunque da quel Big Pink che sappiamo. La storia, bella e molto americana, vede tre fratelli - Simone (batterista, scrittore di racconti), Ian (chitarra, voce) e James (fisarmonica, tastiere) - trascorrere le domeniche a suonare, diventare grandi e tirar dentro il compagno di dadi e bassista Christmas Clapton; trasferirsi in seguito a New York e suonare dovunque, dai locali alla metropolitana. Finché nel novembre del 2006 esordiscono con verve tutta da sbozzare e l’autoprodotto Through These Reigns And Gone (6,8/10). Più a fuoco l’opera seconda di una stagione più vecchia e baciata da superiore maturità, Tonight At The Arizona (Loose, 2007; 7,2/10), foriera sul resto della narrativa The Ballad Of Lou The Welterweight e della polvere dylaniana raccolta in Rockefeller Druglaw Blues. Sono i miti sempiterni che da sempre indaga Greil Marcus a essere investiti di nuova luce, quella Storia che si fa leggenda e l'opposto alla radice del Nuovo Mondo e dei suoi destini. Nei quali viene voglia di credere, apprendendo che - una volta che la ruota ha preso a girare - i Nostri si trovano a condividere palchi (pare che dal vivo siano immensi) con Bright Eyes e a prendere parte a uno dei concerti della serie Midnight Ramble organizzata da Levon Helm. Poi uno non deve credere al fato… Palato fino, Conor Oberst decide di metterli sotto contratto per la Team Love Records, impegno onorato nei primi mesi del 2008 dal passo avanti di un album omonimo (Team Love, 2008; 7,3/10) assai gradito da queste parti, solido come una quercia e vigoroso da schiantare qualsiasi cartolina in circolazione. La strada che ha condotto alla primavera scorsa e a un opera splendida come Yonder Is The Clock è costellata da concerti su concerti, particolarmente memorabile quello del celeberrimo Newport Folk Festival (dove Zimmie si mise contro i puristi e chi non poteva capire) nel quale nemmeno una tempesta e la mancanza di elettricità hanno potuto fermare la band. Semplice la spiegazione: è l’onestà ferma di chi ha sudato di fatica per arrivare lì partendo dal basso (di nuovo The Band…); di chi sembra incarnare a beneficio della contemporaneità un’era che reputavamo consegnata ai musei, al rimpianto, alla seppiata nostalgia. Così non è, perché con il “vero” terzo LP i Brothers impongono la cifra autoriale nella quale avevamo sperato, ma che per timore e scaramanzia preferivamo rimandare a un futuro molto prossimo. Sono invece splendido “qui e ora” l’uscire a testa alta dal passato (il traditional Memphis Flu, la festa sull’aia Penn Station); la tradizione restituita a nuova vita sulla scorta dei Maestri (All When We Were Young rivaleggia amichevolmente con I Shall Be Released); i frammenti di ieri che compongono la linfa vitale di oggi (Chicken Wire un Bob Dylan mai esistito tra Blonde On Blonde e The Basement Tapes, The Big Surprise e Boy From Lawrence County ponti stesi tra Blood On The Tracks e Time Out Of Mind). Quando poi si mostra la capacità di usare lo studio di registrazione e strapazzare il cajun, si ricorda a Leonard Cohen come si scrivono brani immensi e si conosce la lezione vocale di Steve Earle e Micah P. Hinson, lo stupore si fa meraviglia e infine certezza. La certezza di avere tra di noi gente destinata a lasciare il segno danzando come indomita e coraggiosa tra le epoche, sotto un lucido cielo stellato. Giancarlo Turra Turn On 9 Anti-Pop Consortium Fluorescent Back è un ritorno a buoni livelli per il combo che ha minato le basi dell'hip-hop. Niente di meglio per ripercorrerne le gesta - Marco Braggion 90 s : G ioventù pre - millennium Sì, anche loro vengono dalla pre-millennium tension. Loro chi? Beans, Sayyid e High Priest (più il produttore Earl Blaize): più comunemente detti Antipop Consortium. Un nome, un programma. La leggenda dice che si siano incontrati nel 1997 in un poetry slam a New York. Il nome della crew primigenia è Brooklyn Boom Poetic Collective. Quella sera al Nuyorican Theatre lo spettacolo guidato dal santone Bob Hollman si chiama 'Rap Meets Poetry'. Praticamente una palestra per nerd della parola, come i tre MC dimostrano di essere. Il trio sta lì a 10 TUNE IN parlare di filosofia, a buttare giù testi e rime contro il sistema e a pensare una nuova strada per l'hip-hop: un percorso che svicoli dal gangsta, che abbia delle idee più interessanti del solito 'yo yo' e che scateni en passant - una rivoluzione. Il pre-consorzio all'inizio è solo un affare di cassettine, stampate per la label autoprodotta Anti Pop Recordings. Dopo aver fatto circolare nei giri giusti i corpi del reato, i quattro si nominano definitivamente Antipop Consortium e nell'anno di grazia 1999 qualcuno con le orecchie a punta li sente. L'alieno è DJ Vadim che produce insieme a Prime Cuts l'esordio del trio: The Isolationist (sulla sua mitica label di battaglia Jazz Fudge). Siamo nell'anno a specchio, l'anno di attesa, il millennium bug che incombe e quella tensione non risolta professata dal santone Tricky, quel millenarismo che sfocierà in un nulla di fatto, in una delusione che precede questi 'cazzo di anni 00'. La dissoluzione del manicheismo post-muro-diBerlino se la portano avanti anche i tre. Si abituano presto al suono UK e si fanno di suoni Ninja Tune. Il loro produttore e mentore è infatti uno degli alfieri di quell'abstract-hop che farà la fortuna della label col ninja volante che lancia vinili come stellette. Un po' eclissati dalla presenza del maestro (che 3 anni prima aveva pubblicato quella bomba/manifesto 'althop' che è USSR Repertoire), un po' imbarazzati dal debutto, i tre b-boyz americani ci regalano un disco di rap ben fatto, uno standard di suoni inglesissimi tagliati con l'accetta dal capoccia Vadim: quei vibrafoni in loop sovrapposti alle voci di Hydrogen Slush, lo slow motion tempo caro a Funky Porcini di Sensory Deprivation e la parlata spastica e compulsiva che è il loro marchio di fabbrica, le atmosfere cupe ereditate dal primo Dr. Dre ma concentrate a bomba sul testo. Se hip-hop vuol dire strada, nel passaggio da New York a Londra si lascia la sporcizia e si zooma dall'alto sul panorama street. L'estetica del poetry slam viene ripulita e l'incontro con il DJ/produttore incomincia a mettere i paletti all'estetica del combo. Il suono appartiene a Vadim, ma i testi sono nelle menti dei ragazzi che ci raccontano di mondi à la Ballard (Mechanic Robotic), di sogni disturbati da voci sintetiche computerizzate (che in altri ambienti avevano creato il continuum 'ardkore, esperienza e non-movimento sempre e comunque UK, con le voci in elio strafatte), declamazioni che hanno nel sangue le esperienze di Allen Ginsberg (la meditazione di Timeless Void) o effetti speciali che vengono direttamente dal turntable (Masters of the Scratch). Per iniziare, quindi, un disco old school. Un buon biglietto da visita che non esplode ma che si regge solido in piedi. 00 s : P iccoli rappers crescono Il passaparola è velocissimo e il nome del trio inizia a sentirsi nei circoli, nelle stanze della critica più attenta, nelle redazioni e nei club più 'avant'. La tensione si scioglie nel 2000 con l'esordio Tragic Epilogue sulla 75 Ark del mago dello scratch Dan The Automator. E qui si inizia a spaccare. Te- sti e suoni, tutta l'anima spremuta in due direzioni convergenti: un magma che si mixa a perfezione. La cupezza della visione narrata dalle voci (il sogno in acido di 9.99: Like Manson, like Manson / Something's fucked up here, it's just not right) è duplicata e assistita dalle basi sullo stesso piano delle lyrics. Da qui il parallelo con la Anticon, l'altra sponda che iniziava a staccare mattoni su mattoni dal wall dell'hop (Gun talk run New York / Down here we run lyrics). C'è ancora un po' di influenza di old school Ninja, ma sono le sperimentazioni, le linee melodiche quasi a cappella dei tre che si sovrappongono e stravolgono la classica forma canzone. Song che viene innestata con elementi elettronici, hip-hop mutante per eccellenza, che non lo puoi quasi più chiamare hip-hop se non fosse per la cadenza ereditata dalle gare di poesia newyorkesi (vedi la meditazione in What Am I: Necks twist turn off selective words / Play double effects you triple tapes flex and nerves / Revenge of the nerds / Seen in blurs / Only the sound of words splurred / Now you remember when men get dis-mem-bered). I ragazzi si staccano dalla sottile linea dorata dei medaglioni e delle dentiere gangsta e fanno propria la lezione del Wu Tang Clan: gente che ha da sempre segnato un solco, l'ortodossia più puntigliosa che mai per quanto riguarda le tattiche indie usate nella produzione/marketing delle loro uscite. Ma il consorzio non è un affare di label. I tre sono - già dall'inizio - un'intersezione postmoderna, una cosa che va e viene, un continuo rimando a esperienze altre. Le collaborazioni si moltiplicano e la crew si vede face to face con il joker dell'hop: Mike Ladd li invita a far parte del progetto alieno The Infesticons su Big Dada. Su Gun Hill Road Beans e Priest si mettono sullo stesso piano del gotha del rap alieno internazionale. La loro Quarterback Theme è l'incontro con l'elettronica sperimentale che li porterà all'evoluzione deviante. Pieni di entusiasmo raccolgono le forze e sempre nello stesso anno (è già il 2001) escono pure con Shopping Carts Crashing (autoproduzione su Antipop Recordings): un disco che inizia a contaminare strumenti ereditati dalla musica classica con lyrics taglienti, il misto che non c'è ancora ma di cui inconsapevolmente il pubblico hop ha bisogno. Anticipa le atmosfere gloomy del grime, The Hand Behind The Piano Of Time Is God innesta vocals dalla lirica con il pendulum di DJ Krush, New York è puro field street sound con laser in acido, Systaltic Quiescenceè glitch ambient in slow motion per i Massive Attack. Nello stesso anno aprono le date dei tour dei Radiohead e TUNE IN 11 fanno pure un giro per il mondo con DJ Shadow. Il live con i due pesi massimi è il preludio al botto. Nel 2002 la Warp li chiama e nasce uno dei dischi culto dell'alt-hop di sempre. C apolavori , seeding e dissoluzioni Se con i lavori precedenti avevano buttato idee e spunti, con Arrhythmia raggiungono la maturità. Quel disco è fresco e già classico. A riascoltarlo non risente del passare del tempo: le voci si amalgamano alla perfezione, i ritmi non cadono nella banale ripetizione dell'hop, gli strumenti sono insoliti e non convenzionali. Tanto per dire i ragazzi creano una track con una pallina da ping pong (Ping Pong), con dei suoni a 8 bit à la Sega Megadrive (Mega), con inserti da club (Ekg, Ghost Lawns), vocoder robotici (Tron Man Speaks), archi orchestrali (Conspiracy Of 12 TUNE IN Truth) e altre diavolerie pseudosintetiche. La parola d'ordine non è tanto sorprendere, come sembrerebbe dall'organico straniante, bensì esplorare e nello stesso tempo coniare un nuovo linguaggio (I only spit pure hot, it's the brolic / so what if it's popular / I got to infect you in order to affect you / and I don't expect you go get it at first... devo infettarti per fare effetto su di te / e non mi aspetto che tu capisca subito) che da lì in poi sarà di base per qualsiasi discorso altro sul beat, magari anche politico (Please Mr. politician don't feed us your empty promises / it's obvious you're oblivious but not impervious / and you still will crumble, stay humble still number one). Arrythmia inaugura una strada che anticipa El-P, Subtle, Doom, il miscuglio dell'hip-hop con il rock e l'elettronica di centinaia di futuri emuli. Il successo li porta ancora una volta ad interrogarsi sulla funzione della proposta, sull'essenza di quello che stanno traducendo in suono. I tre moschettieri hanno in testa troppi mondi, troppe coordinate. Il loro è l'eterno dilemma estetico del postmoderno (Celebrate every day as new year's / Is lookin' in the mirror to watch my balls drop) che non riesce a descrivere e che seziona all'infinito. L'ossimoro mai risolto della frammentazione e del relativismo (Schemes are not always what they seem / In the maze these days there's many demons / To get you soul by any means) che attanaglia negli stessi anni anche i Radiohead. In questo capolavoro si riesce per un istante - lungo poco più di 40 minuti - a riprendere la tradizione e a distruggerla da dentro. I semi che lanciano i Nostri si nutrono di una terra ricca e feconda; ma il successo spiazza il combo e le piante generate hanno una fioritura troppo veloce. L'effimero che scompare nel mare magnum della rete, nel brainstorming dei dischi autoprodotti e del sampling selvaggio. I tre provano allora a giocare la carta della sperimentazione jazzy con l'aiuto di uno dei maghi del crossover: Matthew Shipp. Per la sua Blue Series si inventano uno split che va ad intaccare anche il mondo impolverato della noblesse black. Antipop Vs. Matthew Shipp è il lascito prima della dissoluzione. Nei suoi solchi digitali c'è la coda lunga della tradizione nera che si affianca alle armonie del pianoforte del maestro e lo brucia come aveva già proposto Jerry Lee Lewis qualche decennio prima. Là era il rock, qui è l'hiphop sbilenco che tracima e che si sgretola in infiniti rimandi. Lo split con il guru del free è il canto del cigno prima del divorzio: A Knot In Your Bop è l'intaglio della ballad mid-tempo, Monstro City è grime ante litteram che si fa di pianoforte in echi dub, Free Hop la proposta che mescola la blackness più violenta del free con il math-noise che già aleggiava nelle menti dei Battles, Places I've Never Beenla cassa in quattro con gli innesti electro analogici cosmici. Un disco che promette e che mantiene. Uber nu-jazz squadrato hop. Da qui si decide all'improvviso di separarsi per la classica 'pausa di riflessione': nessun rimpianto, nessun piatto che vola. La notizia del divorzio in casa Antipop spiazza i fan. Ma oggi (che i quattro son di nuovo sul palco insieme) si capisce che non era poi così strano proporre proprio all'apice della carriera un nuovo cambio di rotta. Come sempre, il consorzio sa quello che fa. La scelta è il test per la convivenza in solitaria delle menti. La partenza verso strade personali è presto fatta: Beans se ne sta su Warp, gli altri due approdano con Airborn Audio su Ninja; come a dire il gotha del breaking, sia esso più electro, sia esso più votato al turntablizm. Beans lo vedi che è l'uomo immagine. Da subito i suoi lavori sono uno sfoggio di tecnica e stile, le copertine sciccose e la furbizia nel riciclarsi one man show ci propongono un personaggio che sa cosa vuol dire produzione. Sia in senso strettamente musicale che di marketing. Lui è sempre lì in copertina, con quel faccione black perfetto, quel fascino classico da divo. I suoi quattro dischi in solitaria (Tomorrow Right Now, Now Soon Someday, Shock City Maverick e Thorns) non approfondiscono le premesse consolidate insieme agli altri due soci, la sua è una mossa di discesa nella piazza pop, il farsi bello per le classifiche e per il palco. Fakeness dentro le vene ma con stile. La presa di posizione di chi ha bazzicato i sobborghi della sperimentazione e si vuole riscattare ma che in fondo non riesce a trovare la via sulla passerella con il tappeto rosso. Lui ci ha provato, ma ha bisogno degli altri. Trasferiti temporaneamente su Ninja, Sayyid e Priest si mettono a smanettare sul giradischi. Tra il 2003 e il 2005 sfornano anodini mix underground e qualche EP. L'album che li riporta agli onori della cronaca (ma non della critica) è Good Fortune. Una cosa cupa, lenta e doom nell'anima che tenta di sperimentare con l'elettronica ma si insabbia nelle paludi dell'ostinato hop. Un disco ordinario, senza infamia e senza lode che è fatto di trucchetti per i novizi, ma che non mostra cuore. Il sangue è stato prosciugato e c'è bisogno di una flebo di vita, di un ritorno ai fasti precedenti. Il ritorno al consorzio/ casa madre è dietro l'angolo. N ow Nel 2007 la voce di una imminente reunion diventa realtà. I quattro (ormai con Blaize novello d'Artagnan con contratto a tempo indeterminato) supportano il tour dei Public Enemy. E con il live ritorna la magia. Abbiamo avuto bisogno di tempo per crescere e maturare come artisti singolarmente. Ora che abbiamo valutato i nostri punti di forza e di debolezza, siamo pronti a ritornare più in forma che mai. La chimica che abbiamo tutti insieme sul palco rende eccezionale la nostra nuova musica; è tempo di ritornare sulle scene.Questa la dichiarazione congiunta dei quattro oggi. Come già osservato (vedi la recensione di Fluorescent Back sul numero di Settembre) il coming back abbassa il tiro 'alt' e guarda al pop. Lo shift su Big Dada e la lungimiranza di un pezzo grosso del calibro di Roots Manuva sono il contorno giusto per il gran spolvero. Tutto misurato, il nuovo successo annunciato da tempo è solo una manovra commerciale? Per i più scafati è probabilmente la prima cosa che viene in mente, ma per chi scrive non è (per fortuna) l'unica chiave interpretativa. La storia è infatti nelle vene e i quattro uomini sanno come interpretare il famigerato 'quanto basta' del loro cookbook. C'è quindi la giusta dose di techno (NY To Tokyo, C Thru U), di electroragga spocchioso à la Gorillaz (Born Electric) e ovviamente di hip-hop trasversale (Shine, Reflections) con le proposte sperimentali sul potere alla parola (End Game, Superunfrontable) che sono ormai marchio di fabbrica storicizzato. Più che di barocchismo viene da pensare ad una maturità stabile che si muove. Insomma, se oggi non si può più definire alcunché, né parlare di correnti (soprattutto per il non genere che è oggi l'hip-hop), il consorzio le attraversa con delle surfate decise e senza sbavature. Quello che in una parola possiamo definire classico. TUNE IN 13 Zen Circus Andate tutti affanculo Irriverenti e senza mezze misure, sboccati ma lucidi, proletari ed essenziali: il punk-rock d'autore degli Zen Circus - Fabrizio Zampighi 14 TUNE IN “P agliacci ubriachi del proletariato del Duemila”. Cinismo e disillusione tipiche del clown fuori scena che si mescolano a una visione della musica proletaria - quanto può essere proletario il punk virato folk –, acuta e nel medesimo istante immediata. Perché essere innovatori partendo da presupposti stilistici riconoscibili e mantenere il tutto nei confini di una musica che crea identità all'istante – in una parola, “popolare” è ben più complesso che ricercare crossover inediti per farsi passare da sperimentatori. E allora punk sia, ma alla maniera della band pisana: “Il punk è un approccio alla musica senza pregiudizi. Una possibilità in più di sbagliare per aggiustare il tiro. La buona fede dell'errore. Una sana risata fatta fra persone che sanno bene che non sarà per sempre, ma sarà comunque fantastico finché durerà. Punk non è no future. Punk vuol dire budget-rock, costanza, artigianato di classe e creatività allo stato puro. è sempre stato così, finché i Sex Pistols prima ed i Nirvana poi hanno portato via tutta la poesia”. Coscienza di classe applicata alla musica, almeno a giudicare da una storia discografica lunga un decennio vissuta come un percorso accidentato, tortuoso, ricco di esperienze ma anche di cambiamenti. In grado di partire dalla base per arrivare a una maturazione graduale ma inevitabile. è il 1999 quando esce l'esordio del gruppo pisano. About Thieves, Farmers, Tramps And Policemen (Ice For Everyone, 1999) dichiara una parentela stretta con formazioni d'oltreoceano speculari (Violent Femmes) e cede a un'estetica essenziale che mescola punk, folk e attitudini da busker. Oltre a un nomadismo musicale fuori dagli steccati di genere capace di mescolare batterie spazzolate, strumentazione acustica, rockabilly, infatuazioni tex-mex, su testi in inglese, spagnolo e francese. C'è personalità in questa Babele in note e già si coglie quell'approccio da “cittadini del mondo” che caratterizzerà tutta la parabola artistica degli Zen Circus. Come sottolinea anche Appino: “Come tutti i ragazzini che si innamorano del rock volevo scappare dalla provincia, dall'“italietta”. Volevo andare in Europa, mescolarmi a quello che ritenevo fosse mio di diritto: il mondo. Quindi mi sono informato, ho imparato, sono andato a vivere in Olanda, ho viaggiato tanto. In treno e a scuola leggevo libri in inglese. Guardavo i film in lingua originale. Parlavo con i miei colleghi stranieri nelle loro rispettive lingue. Facevo l'amore in altre lingue. Sognavo in altre lingue.” Di contro la fedeltà ai modelli di riferimento è fin troppo evidente e se da un lato non impedisce di godersi un disco comunque riuscito, dall'altro fa storcere il naso a chi cerca maggiore personalità in un opera prima. Nel 2002 Visited By The Ghost Of Blind Willie “Lemon Juice” Namington IV (Ice For Everyone, 2002) ribadisce la statura artistica del gruppo, partendo dalle buone premesse del primo disco e cercando nel contempo di svilupparle. Questa volta ci sono le chitarre elettriche a punteggiare gli scambi, c'è una preminenza di strutture punk-rock'n'roll, c'è il tentavo di acquistare credito e libertà d'azione allargando lo spettro delle influenze. In un disco che suona meno omogeneo rispetto al predecessore, sospeso com'è tra blues ubriachi à la Gun Club e beat accelerato Talking Heads, country slabbrati e ralenti narcotici, e che fa pensare a un momento di transizione in vista di un cambio di registro imminente. E infatti il successivo Doctor Seduction (La Parc Music/ Linfa, 2004) mette in pratica ciò che fino ad allora si era solo paventato: la svolta indie-pop. I referenti in questo caso sono i Pixies – almeno in apparenza – ma a cambiare è soprattutto la concezione generale della musica. Le ritmiche rallentano, ci si concentra sulla scrittura lasciando perdere l'irruenza scapestrata degli esordi, cresce l'importanza dei fraseggi e dei contributi strumentali. In Sweet Me compaiono anche gli archi, mentre il mood generale vira verso toni pacati e un'orecchiabilità immediata. è il disco della maturità. O comunque della svolta stilistica. Molto di quello che si ascolta in queste dieci stazioni finirà anche nei titoli successivi diventando parte integrante del suono della formazione. Anche in quel Vita e opinioni di Nello Scarpellini, gentiluomo (I dischi de l'amico immaginario, 2005) che esce un anno dopo e da cui emerge più che altrove la fusione tra gli Zen Circus del primo periodo e quelli di Doctor Seduction: un'entità in bilico tra punk e pop, garage e folk. Anche se l'impressione è che non tutto giri a dovere, a cominciare da quei primi esperimenti con l'idioma nazionale troppo sbracati (Apriro' un Bar), poco significativi (L'amico immaginario), o legati a una psichedelia al Valium di facciata (Fino a spaccarti sue o tre denti). Tutto fa sospettare che per il momento l'italiano sia solo una delle tante possibilità del gruppo (oltre all'inglese e al francese di Les Poches sont vides les gens) e non una scelta consapevole foriera di nuovi traguardi artistici. Bisogna aspettare tre anni perché il lavoro sui testi dia i frutti sperati. Talmente succosi da convincere i musicisti a puntare proprio su uno dei tre brani in lingua madre del programma, per lanciare TUNE IN 15 Villa Inferno (Unhip, 2008). Il pezzo si chiama Figlio di puttana e nella sua irriverenza rappresenta il nuovo corso di una band che punta evidentemente a un suono in bilico tra punk-rock e canzone d'autore, dileggio e ironia. Una sintesi mediata dall'ottimo lavoro di un Brian Ritchie (Violent Femmes) temporaneamente quarto Zen Circus nonché produttore artistico: “Avere avuto a che fare in studio e dal vivo con le persone che ci hanno influenzato o che stimiamo musicalmente ci rende elettrici, orgogliosi e felici. Collaborare è diventato anche necessario per alimentare il rapporto fra noi tre. è un po' come far ingelosire la moglie o il marito dopo anni di matrimonio: si ravviva il rapporto. Inoltre se prima eravamo convinti di esserci dati alla musica che facevamo al 100%, ci siamo poi resi conto che non era vero. Potevamo fare di più, molto di più. E sono felicissimo di suonare in uno di quei 16 TUNE IN pochissimi gruppi che, al contrario di quanto avviene con il modello inglese, migliorano disco dopo disco”. Sono della partita anche Giorgio Canali, Kim e Kelly Deal, Jerry Harrison, per un'opera matura sospesa tra il synth-pop di Punk Lullaby e il post-punk di Wild Wild Life (cover dei Talking Heads), il buskerrock di Vana gloria e il punk à la Clash di Beat The Drum, il folk-rock di He Was Robert Zimmerman e la canzone d'autore sdrucita di Vent'anni. E arriviamo al 2009. Con un titolo come Andate tutti affanculo (Unhip, 2009) - in spazio recensioni - non rimangono molti dubbi sul contenuto dell'ultima fatica del gruppo: “Volevamo scrivere un disco di protesta alla nostra maniera che fosse anche popolare. Tutto è nato dall'urgenza di confezionare una raccolta di brani che potesse essere intesa come una serie di piccole istantanee del nostro Paese visto da anni di furgone”. Un'opera che istituzionalizza l'avvicinamento a certa canzone d'autore anni settanta ruvida e graffiante - pur in chiave punk-folk - e al tempo stesso fortifica il valore del testo in italiano esaltandone la forza critica, le potenzialità semantiche ma anche la musicalità. Coerentemente con lo stile del gruppo, al solito irriverente, senza mezze misure e deciso a non rinunciare a prese di posizione nette nei confronti di un modello sociale per lo meno discutibile. E allora Gente di Merda (“e tutti importanti / e tutti son qualcuno / un miliardo di artisti e in fabbrica nessuno / pensieri prepotenti / morali latitanti / è il genere di bestia che la odian tutti quanti”) e Vecchi senza esperienza (“Sembra che oramai vada di moda quello che / prendevo solo a schiaffi a farlo nel '93 / i pantaloni stretti eran da froci e non da fighi / le Converse da pezzenti / computer da perdenti”), la fine delle illusioni giovanili di Amico mio (“un mutuo su una casa in periferia / una bambina nata tre anni fa / sua moglie si è scopata mezza città / mentre lui va a calcetto con la sua Smart”) e il quadretto familiare allucinante di Canzone di Natale (“Sei un uomo ormai / ma come sei sciupato / non sei neanche pettinato / penso sfido io / da quanto mi son fatto / ho venduto pure / il mio motorino nuovo”), la nuova gioventù trendy di Andate tutti affanculo (“a chi è andato a vivere a Londra / a Berlino, a Parigi, Milano o Bologna / male e paure non han fissa dimora / le vostre svolte son sogni di gloria”) e la religione di We Just wanna live (“Vivere male, vivere tutti / per nostro Signore dei compromessi / nel Vangelo di Giuda è scritto così / che tu sia maledetto, tu che regnerai”). Si parla di maturità raggiunta, di incontro con la tradizione musicale più nobile del Belpaese, di personalità ed esperienza acquisite per superare lo scoglio del primo disco scritto completamente in italiano. Una tappa che, a sentire i Nostri, ricopre meno importanza di quel che potrebbe sembrare a prima vista: “Ci sono gruppi che comunicano e altri gruppi che non comunicano niente a prescindere dalla lingua che usano per mettere parole sopra la loro musica. Ho molti amici di valore che partono per queste crociate proitaliano che fondamentalmente servono solo a difendere un tipo di lazyness (pigrizia) tipicamente italiota”. Discorso ragionevole e dalle implicazioni sociologiche condivisibili, ma che può essere affrontato anche da altri punti di vista. Osservando, ad esempio, come strutture linguistiche profondamente diverse dall'inglese necessitino oggettivamente di un adattamento supplementare della musica, perché si arrivi non ad una semplice traduzione bensì a un'interpreta- zione di nuovi significati e forme. Del resto ci sarà un motivo se il Teatro degli Orrori stupisce con un Dell'impero delle tenebre praticamente perfetto e cantato in italiano (diversamente da quanto avveniva in passato con One Dimensional Man); se gli stessi Zen Circus trovano identità, una larga diffusione e un plauso di critica soprattutto con gli ultimi due dischi; se una Beatrice Antolini intervistata qualche tempo fa rivelava: “Nutro un forte rispetto verso chi scrive bene brani in italiano, proprio perché ho delle difficoltà in questo senso. Per me le parole sono più assonanze, suoni o magari veri e propri strumenti”. E il motivo è che se da un lato la comunanza di idioma tra pubblico e artista favorisce certo una ricettività maggiore, dall'altro il mettersi in discussione dovendo adattarsi al nuovo modello linguistico porta spesso a generare soluzioni musicali originali e meno in linea con l'ortodossia di genere. Al di là delle riflessioni estemporanee da critico bacchettone, resta comunque un'opera capace di confermare le aspettative di chi vedeva già gli Zen Circus come un piccolo tesoro nazionale – tra i tanti, anche gli Afterhours della compilation Il paese è reale - o di sorprendere chi nel gruppo non aveva riposto grosse speranze. In attesa di un futuro dalle mire ragionevoli ma già ricco di soddisfazioni: “ Qual'è il destino di una band come la nostra in un Paese come l'Italia? Ah, diccelo tu! Paradossalmente, dopo 10 anni di delirio ed in piena crisi economica e del disco, stiamo vivendo da due anni a questa parte i momenti più belli della nostra carriera (in piccolo sicuramente). Siamo arrivati dove volevamo, ovvero a pagarci l'affitto e il cibo con i concerti. Per il resto vedremo. Ogni giorno che passiamo così è un giorno perfetto. Speriamo solo che duri il più possibile, in modo da poter avere sempre uno sguardo lucido, obliquo ed adeguatamente rabbioso nei confronti delle sanguisughe e dei narcolessici che ammorbano questo meraviglioso paese e la sua gente”. TUNE IN 17 18 DROP OUT - Edoardo Bridda,Teresa Greco, Stefano, Solventi, Gaspare Caliri, Stefano Pifferi, Antonello Comunale L o scorso 9 settembre 2009, complice il solito diabolico gioco di numeri che da sempre accompagna la cabala beatlesiana, la EMI ha licenziato il catalogo dei Fab Four in una nuova e già collaudatissima versione, il remaster. La gran parte di voi magari s’accontenterà dei compact disc acquistati nel lontano 1987, ma quegli stessi album, comprensivi dei Past Masters (contenenti tutti gli editi inediti agli album ufficiali), sono nuovamente disponibili in formati si spera definitivi. A dir il vero, ci potrebbe stare una versione blue ray tra un lustro o due, eppure quel che abbiamo sugli scaffali dei negozi di dischi (o meglio dei supermercati) è un doppio formato: Stereo e Boxset, quest'ultimo anche nella versione The Beatles In Mono, per sentirli come allora. Inoltre, per chi non fosse già soddisfatto del librone uscito qualche Natale fa, i booklet sono stati tutti addizionati di foto anche inedite e, librettini a parte, come già ampiamente sbandierato, la pulizia del suono, per opera di Allan Rouse e Guy Massey, ha richiesto un lavoro minuzioso durato quattro anni. Tanto tempo si giustifica e no per gli esperti del settore, soltanto cinque i minuti che hanno necessitato di cure particolari, ma il vero salto di qualità è legato alla dinamica. Pure i Beatles, travasati su CD agli albori del supporto digitale, erano stati vittime delle tipiche piattezze del suono "eterno" ma, per l'appunto non c’è alcun miracolo rispetto a chi disponeva di un buono stereo e dei vinili ben conservati. Piuttosto che fare gli Indiana Jones, eroe peraltro un po’ imbolsito, ci troviamo perciò a parlare dei Beatles per motivi tangenti e fendenti, sempre sul bordo o anche al di fuori del detto e stradetto verbo sonoro del Fab Four. Del resto con loro è sempre stato così. Un periodo ad ascoltarli (da giovani) e tutta la vita a discuterli, a difenderli alla morte o a condannarli alle pene dell’inferno. Una cosa è sicura: chi li ha voluti conoscere sa tantissimo, anzi tutto. Raccontargli qualcosa di nuovo è impresa forse più noiosa della telecronaca dell’allunaggio. Più intelligente – dacché intelligenza è relazione e adattamento – concentrarci sulle relazioni tra i contenitori, quello musicale e sociale anche se fa un po’ vecchi social studies, o quello puramente prospettico, economico critico (con tutte le divaga- zioni che gli conseguono e competono ovviamente). Crediamo sia il modo migliore senza dubbio, perché i Beatles sono sempre stati un portale; e nell’acqua in verticale dello Stargate ci siamo sempre specchiati, amandoci e odiandoci, ritrovandoci i nostri tempi d’oro e quelli dei nostri genitori, la via spontanea e quella dell’intelletto, rimettendo continuamente in discussione i valori da associare alla prima e alla seconda. E così via, di giustapposizioni, di rimandi, in sistemi sempre più grossi, massimi. C arnival of C apitals Il Capitale di Marx? Facciamo il dio denaro. Lui, Belzebù, ci interessa per primo. Dall’ovvio si parte, perché l’ovvio proprio ovvio non è quando si parla dell’altrimenti del denaro. Money che i Beatles in vita hanno sempre macinato come vacche obese e cash che i Beatles del dopo, e dei Beatles in quanto prodotto tra i prodotti, hanno finito per far fare a chi, darwinianamente, li ha comparati. Ed eccoci anche noi a parlare di Michael Jackson finalmente, personaggio abusatore e abusato, zombie per scherzo e poi per davvero. Era il 1985, l’allora negretto cerbiatto compra all’asta il catalogo più danaroso del pianeta e - grazie ai consueti giostrai senza scrupoli - lo spremerà negli anni successivi come il più scafato degli investitori. Quei 200 brani, assieme ad altri di altri più o meno grandi, girarono tante volte il pomello dell’interesse di capitale. E così il loro valore aumentò ancora: più i Beatles si dileguavano nella virtualità della borsa, dei passaggi di mano anch’essi virtuali, e più erano qualcosa di ben più liquido della loro materializzazione in spot di pannoloni per Procter & Gamble o jingle radiofonici. Muovevano mercati muti ma sonanti. Di reale, c’erano gli allora milioni di fan e gli oggi milioni di milioni di fan. Gente che sarebbe stata dalla parte di Paul se solo i media avessero avuto interesse a sparare su Michael facendogli perdere un Fort Knox di lingotti. Niente da fare, la mungitura dei diritti non ha mai fatto troppa notizia. Far soldi non fa certo scandalo, sopratuttto se non ci metti il sesso accanto e non badi neanche a quella dichiarazione di comodo rilasciata, lo scorso giugno, firmata dal suo ex dipendente (ora sotto Sony). Per tanti anni, anzi che dico, per sempre dopo il fattaccio, il vissero felici e DROP OUT 19 all'ed sullivan show contenti a base di Say Say Say (prodotta da George Martin per il mediocre Pipes of Peace) e la disneyiana The Girl Is Mine, ovvero le due collaborazioni tra i più ricchi e famosi cantanti pop del pianeta, era rotto per sempre. Macca e Michael avevano chiuso e l’ironia fa parte naturalmente della storia. Fu il baronetto medesimo a raccontare al giovane guantato quanto fosse diabolicamente esaltante il montante delle royalties. “Vedi caro, queste sono le canzoni di cui io detengo i diritti. Ogni volta che qualcuno le usa, vengo pagato. Ogni volta che passano alla radio o dal vivo, vengo pagato”. Jacko lo deve aver guardato con quegli occhi da cerbiatto che faceva nei video di Off The Wall; ed era il periodo delle session di Say Say Say, Macca lo stava ospitando a casa sua e di Linda. I tre cenavano sempre assieme, erano diventati amici... Bastano tre anni e Bang! Squalo Michael, più grande dei Beatles, più famoso di Lennon e di Dio messi assieme, se li mangia, i 20 DROP OUT Four. Precisamente si mangia il catalogo Northern Songs, dell’omonima società per azioni, che prima dimenticavamo di chiamare per nome. A dir il vero, McCartney non era stato chiaro. S’era scordato di aggiungere che per una super cazzata che fece tanto tempo prima, proprio lui, assieme a Lennon (che ne fece altre di concomitanti), avevano perso la quota azionaria nella società. L’avevano venduta altroché, e per svincolarsi da un accordo allora inaccettabile ai massimi livelli. Prevedeva che i due avrebbero dovuto scrivere canzoni fino al 1973, dando ovviamente piena libertà alla società di disporne. Ridicolo, ma ancor più dal momento che, salvo tenersi una quota di rendita (royalties), Paul vendette con la consapevolezza di dover accettare quel perfido gioco: avrebbe dovuto, da lì in poi, pagare i diritti ogni qualvolta avesse suonato canzoni dei Beatles. Quelle che in un paio d'album live con i suoi Wings intestò P. McCartney – J. Lennon, a nomi invertiti, perché, con grossa indignazione della vedova Yoko, ci teneva che quel che era di Cesare spettasse a Cesare o meglio al King del pop. Ma il Re degli Ottanta era un altro: Michael. Il suo Thriller aveva venduto un botto e venderà 30 milioni di copie soltanto in America battendo nel globo tutto e tutti, persino Sgt. Pepper's. Aspetto clou della faccenda: il mix di soul, disco e r’n’b, complice il nuovo George Martin della situazione, Quincy Jones, era destinato a influenzare le future star più di quanto lo avesse fatto il pop dei Beatles. Almeno in America era già così e per il futuro chissà… Sicuramente tra i balletti dei concorsi canori televisivi e non, da Britney Spears all’ex amichetto Justine, e il gotha hip hop più allargato, il lascito del decolorato è notevole. Eppure, quel catalogo e quelle canzoni, quando Michael finì di torchiarli, valevano il doppio (o quasi) di quando lo aveva soffiato al beatle. Per la cronaca il re del moonwalk fu poi costretto a cedere metà della sua quota azionaria con la fusione Sony / ATV. Il motivo erano i perenni debiti che lo affliggeranno fino al crepacuore. Eppure, quella quota strategica se la tenne stretta, fino alla morte. Anzi, soltanto l’averla promessa in vendita a qualcuno (la Sony), e avrebbe goduto di tassi agevolati. E fu proprio così che andarono le cose. Era il 2006. Quest’anno, nel luglio 2009, smentite le romantiche voci che volevano un Jacko mortificato e pieno di sensi di colpa lasciare in eredità a zio Paul la quota Northern, è tempo di una nuova operazione commerciale. Questa volta però decisiva. In palio, la supremazia di quel che rimane della gloria (economica) del pop. Se ne è fatta carico la EMI, perché il mercato dei supporti musicali, vacca non più grassissima, stagionata a dovere rende ancora. E allora via con i numeri, perché i Beatles sono da sempre la album-band più venduta al mondo e non vogliono perdere il guinness. Facciamo due conti: il pacchetto remaster sta vendendo più di 2 milioni di copie in rapida crescita nelle nazioni che possono fare numero. Nella sola Inghilterra, in undici giorni, sono state smerciate 354,000 copie che gli esperti fanno salire a 6,755,000 considerando il totale delle vendite di album dal 2000 (considerando anche vinili, Love, Let It Be Naked e prime versioni cd). Negli USA va ancora meglio: Billboard parla di un milione di remaster venduti in cinque giorni. E dovete sapere che, sia per Beatles che per Jacko, gli statistici considerano uno zoccolo duro di fan che compra tutte le versioni presenti sul mercato. Operazioni come queste fanno strabuzzare gli occhi agli investitori e poi ci sono i calcoli com- binatori: il nuovo record, l’ennesimo del Fab Four, sarebbe quello del numero maggiore di album presenti contemporaneamente nelle charts del Regno Unito. A metà settembre, gli scarafaggi totalizzano quattro album nella top 10, sette nella top 40 e 16 nella top 75. Negli USA di Beyoncé, Jay-Z, Mariah Carey, Shakira e compagnia nuove indie soul, ancora meglio, con cinque dischi in top 10 e nove in top 20, mentre il Giappone talloneggia con quattordici titoli, più i due box set, in top 25, per un totale di 840,000 album venduti in pochissimi giorni. Gli osservatori, proprio vedendo tali successi, e dopo aver guardato con interesse la crescita del mercato (di nicchia) dei vinili, ci raccontano che i consumatori sono ancora interessati al supporto fisico, a patto che sia ben fatto, ricco di gadget e, ancor meglio, se è collezionabile. Ricordiamo che proprio il nove settembre scorso tutto il masterizzato circolava in rete per i consueti blog del pianeta, senza fermare le vendite. E poi c’è il videogioco. I Beatles, virtuali, lo sono sempre stati, ma sicuramente vettoriali no, e se avevano bisogno del game, il mercato che attualmente smuovono le Playstation e gli Xbox è più grande di quello musicale. In pratica, sposta i capitali che il music-business spostava negli Ottanta. I Beatles sfornano The Beatles: Rockband. E il Capitale economico Fab Four ha un nuovo mercato. La logica del denaro è un po’ quella del pop, si insedia, allaga, spazza via. All’epoca di Thriller, i Capitali musicali si erano massicciamente allargati al video con i clips. Cortometraggi particolari che proprio i Beatles avevano sperimentato per primi. Il risultato fu virtuoso, meglio, fece fare un nuovo giro attorno al pomello del muzik biz, che s’ingrossò come una balena. Gli occhi di Bowie in quegli anni sono il miglior esempio di come la lampadina catodica aveva acceso letteralmente un mondo nuovo, ma è ancora Jacko, e la sua VHS sul making di Thriller, il barometro dei bigliettoni verdi. Da solo era riuscito a riportare l’introito del mercato musicale ai fasti del 1978, anno della disco music per eccellenza. Ora, i remaster dei Beatles arrivano in una grande secca: il mercato, nei soli anni zero, segna un 25/30% negativo, mentre un nuovo messia del Pop, non solo non arriva, ma può darsi pure che parli un'altra lingua. Di nuovo, inoltre, c’è l’assimilazione culturale del videoclip come parte della stessa moneta, e un modello di musicista che ha prepotentemente assorbito la performance più che l’autorialità, l’interpretazione più che l’espressione. Jacko – assieme alla coetanea Madonna – ha DROP OUT 21 sostituito il portale ed è questo il modello con il quale le nuove generazioni fanno i conti. Una relazione che se ne porta dietro un’altra: se McCartney non è altri che l’avv. Agnelli del Pop, allora Jacko ne è stato il Murdoch o, se preferite, il Berlusconi. Da un punto di vista prettamente imprenditoriale, il primo ha rappresentato, e rappresenta, la vecchia scuola, fatta di un misto di ego, intelligenza e artigianato (quella che "certe cose che non hanno stile non si fanno"); il secondo, la controparte più liquida e mutaforme, l’intuito e la velocità senza più nessuna remora. La spremuta Northern Song. La gara che portò Michael a vincere per colpa di Yoko (che negò l’appoggio finanziario a Paul) potrebbe avere così un altro scenario. Non è chiaro fino in fondo quel che successe quel giorno e preferisco credere all’ingenuità di Macca e Yoko, al loro disegno secondo il quale Jacko li avrebbe fatti vincere, proprio per una questione di stile. Una tipica mossa cavalleresca da signori ricchi di una volta. C'era un precedente: i Beatles avevano fondato la Apple (anche un brand preso da un quadro di Magritte), oltre che per sfuggire alle tasse, investire e controllare direttamente i propri guadagni, anche perché erano seriamente animati da quel mecenatismo ingenuo che li portò, nel 1967, a dichiarare di "averne fatti abbastanza di soldi", e se questa era una contraddizione, dati gli ambiti in cui la società era invischiata, voler aiutare altri artisti era una missione concreta. Chiaro, il magna magna all’italiana che si scatenò nei successivi due anni portò l’azienda a diventare sempre di più tale e non ci stupisce ritrovarcela a litigare con Steve Jobs, proprietario di un'altra mela, l’Apple – iPhones e iPod – Computers per i diritti sul nome e, ancora, le canzoni dei Beatles, questa volta su iTunes. D’accordo, anche Mr. Mookwalk aiutò, senza ironie, milioni di bambini con beneficenze e presenza stile principesco Lady Diana, ma, appunto, l’ingombro di voler aiutare altri artisti, l’espressione e l’arte non era contemplato, così come il gesto cavalleresco mancato sopra. Michael morirà d’infarto. Macca, forse, nel 2018, complice una Copyright Act, tornerà in possesso degli amati diritti, sempre se non ce la faccia prima la Ono, dato che con la morte dell’autore i diritti si giocano diversamente nel tempo. Long live the King. E ricordate che per lui, vecchia scuola, 1 dollaro per 1 download dei Beatles è ridicolo. E c’è già qualcuno che sta dicendo alla Apple che ogni giorno senza iTunes e sono miliardi che volano. In fin dei conti, la mossa dei remaster è nostalgica an- 22 DROP OUT che soltanto per un motivo Capitalistico, con iTunes o in proprio i Beatles approderanno ufficialmente anche in mp3. E un nuovo mercato sarà pronto a sverginarsi per loro. Io nel frattempo metto all’asta su EBay quelle plasticacce che comprai nell’Ottantasette. (EB) L a neve, la bestia l ' antimateria e L'11 febbraio del 1964 non fu un giovedì come gli altri. Due giorni dopo l'esibizione all'Ed Sullivan Show che incollò allo schermo 73 milioni di telespettatori, i Beatles raggiunsero Washington. Quella sera stessa al Coliseum avrebbero sostenuto la prima tappa del tour nella terra dello Zio Sam, ponendo basi concrete a quella conquista vissuta fino ad allora sulla scorta di una potente infatuazione mediatica. La prima picconata vera che avrebbe aperto la breccia. L'invasione stava per avere inizio. Ad attenderli, oltre ad un plotone di giornalisti, c'era una fitta nevicata. Un giornalista non si fece sfuggire l'occasione per apparire particolarmente arguto e domandò: "Oggi voi e la neve siete arrivati a Washington insieme. Quale delle due cose pensate che avrà l'effetto maggiore?" John Lennon rispose sciorinando il più tipico understatement del suo repertorio: "Probabilmente la neve durerà di più". Lo sketch fu estemporaneo e si risolse con qualche risatina a denti stretti. Ma battute del genere punteggiavano con regolarità le interviste dei quattro. Quei ragazzi poco più che ventenni, già balzati in vetta alle classifiche inglesi e in procinto di conquistare il mondo (più o meno), coi loro "mop-top" e le urla incessanti degli eserciti di fan, all'epoca non perdevano occasione per ribadire la propria consapevolezza anzi la ferrea convinzione che nel giro di un paio d'anni tutto sarebbe finito. Evaporato. E forse dimenticato. Si muovevano con la garrula impertinenza di chi vuole godersela finché dura. E non facevano nulla per nasconderlo. Due anni e qualche mese più tardi, i Beatles cambiarono per sempre la storia del pop. Uscito nell'agosto del 1966, Revolver è il disco che porta a compimento le avvisaglie di espansione già palpabili in Rubber Soul (dicembre 1965) e persino - anche se molto più embrionali - in Help! (dell'agosto 1965). I primi cinque secondi della traccia di apertura bastarono ad infrangere l'illusione/tabù della musica registrata, rivelando il chiacchiericcio dei musicisti prima che attaccassero Taxman. Oggi non ci fai neanche caso. Magari anche allora non furono in molti a realizzare la gravità dell'accaduto: palesandosi per la prima volta il lavoro del musicista, la sua presenza come facitore di musica, d'un tratto l'ascoltatore prese coscienza dello studio d'incisione. Fu come abbattere le quinte e far entrare fra i solchi l'aria impollinata di intuizioni, espedienti, magia, fatica, eccitazione degli Abbey Road Studios. Fu come aggiungere una dimensione all'avvolgente bidimensionalità del vinile. Una sensazione simile a quella provata dai lettori dei Fantastici Quattro (anch'essi Fab Four, no?), che nel numero 51 del giugno '66 - appena due mesi prima - assistettero alla scoperta del Portale sulla Zona Negativa da parte del geniale Mister Fantastic (per la cronaca, i Beatles e Fantastici Quattro si erano già incontrati in occasione di un'altra pubblicazione Marvel, per la precisione sul numero di marzo del 1964 di Strange Tales). L'antimateria fumettistica da una parte e il "golfo mistico" dello studio d'incisione dall'altra: zone franche della fantasia, luoghi dove l'immaginazione si espande svincolata dalle limitazioni del codice reale (realistico). Nel caso specifico di Revolver, lo squarcio è aperto da (e si apre su) Tomorrow Never Knows: malgrado sia posta a fine scaletta, fu il primo pezzo inciso per il disco. Uno stordente vortice percussivo monoarmonico, come un mantra meccanico sulla china elettrificata del progresso. Ispirandosi al Libro Tibetano dei Morti, John Lennon avrebbe voluto per la linea vocale un vero coro di monaci buddisti, ma George Martin non volle saperne di accontentarlo. Provate ad immaginare cosa sarebbe stato. Su, sforzatevi. Fatto? Bene, probabilmente converrete che Martin tutti i torti non li avesse. Quindi, reso omaggio al prode George - non a caso "quinto Beatles" ad honorem - ci attende un altro sforzo d'immaginazione: cosa sarebbe accaduto se i Beatles avessero fatto un album intero sulla falsariga di Tomorrow Never Knows? La domanda è, oltre che oziosa, a trabocchetto. Di più: è illecita. Non avrebbero potuto, sarebbe stato come piovere all'insù o credere all'esistenza di Pepperland e dei Biechi Blu (ehm...). Perché l'esistenza di Revolver - e dei Beatles stessi - implicava necessariamente l'immersione nel crogiolo del pop, da cui i Fab Four ed il pop sarebbero usciti definitivamente cambiati. Quel pop che per i Beatles, vissuti per anni in equilibrio sul suo filo caduco, non era più, non doveva essere l'aggiornamento e la capitalizzazione dei suoni più cool che giravano attorno. Una pratica che, ad esser proprio bravi, avrebbe consentito di sfornare la hit del momento, garantendogli però un conseguente rapido oblio. No, grazie. Avevano già dato. Avevano già recitato la parte degli zazzeruti cazzoni in sella al proprio quarto d'ora di celebrità. Il fatto che si trovassero ancora lì, presenti e vivi, doveva significare qualcosa. Forse non stavano cavalcando la spuma di un'onda, ma la Bestia vera e propria. E, cazzo, magari la stavano pure domando. Porco cane, John, Paul, George, Ringo! Non è dato sapere quando se ne siano resi conto. La fama sovrumana che li travolse sembrò scuoterli, ovviamente, ma loro si rifiutarono di realizzare. Almeno pubblicamente. Col senno di poi, possiamo DROP OUT 23 intravedere qualche sintomo anche precoce, come quando il 16 gennaio del 1964 furono informati dal loro manager che I Want to Hold Your Hand aveva raggiunto la vetta della hit-parade statunitense: i quattro rimasero storditi, senza parole, seduti sul pavimento della stanza d'albergo dell'Hotel George V a Parigi. Scossi dall'assedio della consapevolezza. Eppure continuarono a rifiutare la realtà delle cose. Malgrado migliaia di fan gliela gridassero ossessivamente ad ogni concerto. Malgrado i 73 milioni di spettatori dell'Ed Sullivan Show (più altri 70 milioni nella puntata del 16 febbraio, una settimana dopo). Alla fine, ovviamente, ne furono investiti. Come la classica rana che bolle, se ne accorsero a cose fatte. Metteteci pure l'influenza di Dylan, il fattaccio del "più famosi di Gesù" (una semplice constatazione), la confidenza con le droghe e la conseguente espansione psichica (e viceversa). Fatto sta che, proprio in quell'agosto del 1966, il 29 per la precisione, con Revolver ad impazzare tra i timpani e le sinapsi del pianeta rock, andò in scena a San Francisco la loro ultima esibizione dal vivo, il ritiro dai palcoscenici (che perdurerà fino al commiato definitivo del 30 gennaio 1969, il giorno del celebre Rooftop Con24 DROP OUT cert). Ufficialmente la scelta fu giustificata dalle insostenibili condizioni ambientali, con le urla dei fans a sovrastare l'amplificazione non trascendentale dell'epoca (al punto che essi stessi non riuscivano a sentirsi suonare), così come la pressione nevrastenica dei tour, giunta oramai a livelli parossistici (che toccarono l'apice coi tragicomici eventi filippini).Tutto ciò è assodato, confermato, Storia. è altresì vero però che i Beatles si svincolarono dalla realtà. Ne rifiutarono l'attrito urlante. La zavorra. L'ostacolo. Ora, mi sembra che non esista una situazione musicale - gruppo, artista, scena - più conosciuta dei Beatles. Dei quali, almeno dopo le Anthology, sembra proprio non ci sia null'altro da sapere. Dopodiché il copiaincolla di George Martin con Love e la pseudo filologia di Let It Be Naked ci hanno insegnato quanto la manipolazione possa cambiare tutto senza cambiare nulla, perché l'immaginario lo plasmi ma non lo sposti, si rimette in piedi come l'omino del subbuteo dopo ogni spinta o giravolta. Tutto nei Beatles e dei Beatles è chiaro, esplorato, indagato, ipotizzato. Giorno dopo giorno, ogni giorno della vita. Nessuna concessione alla normalità anzi la normalità promossa ad evento straordinario. Sappiamo tutto, di tutto. Anche quello che non è mai accaduto. Anche quello che forse, chissà, è accaduto. L'unico modo sensato per esplorarli ancora è l'ipotesi pura. Quindi, è giusto, ragionevole, auspicabile forzare la mano a questa cosa. D'altronde, non è già abbastanza incredibile di per sé passare in dodici mesi dalla deliziosa Ticket To Ride all'imponente delirio di Tomorrow Never Knows? Poniamo quindi che Revolver sia stato progettato per rappresentare l'idea stessa del pop beatlesiano: un ribollire superficiale perché la sotto c'è un mostro che brancola nel mistero. L'inaudito come pratica di interpretazione e decodifica della quotidianità sommersa, reso potabile e quindi collettivo, perciò indissolubilmente agganciato alla Storia. Tomorrow Never Knows è il mo- stro che fa capolino, il capogiro che ti prende constatando la realtà del mito (avvisti un UFO, scorgi il capoccione di Nessie spuntare dal lago, incontri Elvis ancora vivo...). Una volta definito questo perno poetico, fu spostato in coda alla scaletta per mimetizzarlo da stordente bizzarria. Quindi, venne il resto: l'effervescenza aspra e vivida di I Want To Tell You e And Your Bird Can Sing, l'esotismo patologico di Love You To, il torpore radiante di I'm Only Sleeping, gli spurghi soul di Got to Get You into My Life, la patafisica fumettistica di Yellow Submarine, l'estro sfrigolante di She Said She Said, il melò barocco di Eleanor Rigby, il delicato struggimento di Here,There and Everywhere... Un plotoncino di potenziali singoli da cui paradossalmente fu estratto il solo Yellow Submarine con Eleanor Rigby quale lussuosissima B-side (il pezzo "fanciullesco" da una parte, il più "adulto" del loro repertorio dall'altra...). Numero uno per oltre un mese. Revolver, dal canto suo, da buon fenomeno pop stazionò in vetta alle chart per sette settimane in UK e per sei negli States. Preparando il terreno al mostruoso impatto del Sergente Pepe. Un altro capitolo della stessa storia. (SS) Al cinema "Bene. Grazie a tutti da parte mia e del gruppo, e speriamo proprio di aver superato questo provino!". L’accostamento Beatles e cinema ha costituito un connubio perfetto per diversi motivi. I cinque film di cui furono protagonisti, soprattutto i primi due, contribuirono da un lato a ratificare la Beatlemania, dall’altro si pongono a tutt’oggi come contributi artistici originali nel contesto della nascente pop culture. Da quando all’inizio degli anni ‘50 i giovani erano diventati - prima in America e poi in Inghilterra ed Europa, di pari passo al miglioramento delle condizioni economiche del ceto medio-basso - una vera e propria categoria socio-culturale (con lo sviluppo di gusti estetici, modelli di comportamento e di conseguenza la nascita di mitologia e linguaggi propri), l'unione tra musica e cinema era diventata inevitabile. L’immaginario della nuova cultura rock finiva così per riversarsi sul grande schermo, attirando il pubblico giovane, aumentando il numero di spettatori e, naturalmente, promuovendo i musicisti. I film con Elvis Presley ne sono certo un esempio folgorante, oggi forse il più immediato; ma in realtà il rock’n’roll aveva iniziato sin dalla nascita a popolare alcune pellicole, sancendo la propria legittimità ed affermazione: la prima canzone ad essere sentita in un film è stata significativamente Rock Around the Clock di Bill Haley (ne Il seme della violenza di Richard Brooks, 1955), laddove nella ormai leggendaria commedia del ’56 The Girl Can’t Help It di Frank Tashlin facevano la loro prima apparizione di fronte al grande pubblico Little Richard, Fats Domino, Platters, Gene Vincent e Eddie Cochran; in questo contesto non va dimenticato, ovviamente, il ruolo dell’icona giovane James Dean, lanciata in contemporanea dal Gioventù bruciata di Nicholas Ray. Negli anni ’60, quando il quartetto di Liverpool si cimenta con il grande schermo, il connubio musica-cinema aveva già cominciato a definirsi, in parallelo con lo sviluppo del movimento giovanile, con caratteristiche abbastanza precise (il cosiddetto “film musicale”, da noi musicarello), sia come oggetto di consumo, sia come prodotto originale di affermazione della nascente cultura rock. È in quest’ultima direzione che si innesta decisamente l’attività cinematografica dei Beatles. Nei cinque film (1964-1970) al loro attivo, i quattro musicisti allora compartecipano attivamente alla costruzione di un’estetica propria, proponendosi al loro pubblico in modo più diretto ed esplicito, attraverso l’unione di diversi media (televisione, arti visive, pubblicità) che rivelano una consapevolezza dei mezzi usati da non sottovalutare. Film che, d’altro canto, serviranno poi da modello per il successivo cinema rock. Le prime due esperienze, A Hard Day's Night (Tutti per uno, 1964) e Help! (Aiuto!, 1965) avvengono sotto la regia di Richard Lester, esordiente americano trapiantato in Inghilterra che fino ad allora si era occupato in prevalenza di pubblicità; scelto da John Lennon dopo aver visto un suo corto realizzato insieme a Peter Sellers (di cui i Fab erano fan dai tempi del seminale Goons Show, pietra fondante della comicità british), Lester rivela tutte le sue influenze di free cinema inglese (il realismo di ambienti e storie) mescolando il semidocumentario al musical in A Hard Day's Night, insieme all’idea del viaggio (come si sa, trattasi di un avventuroso passaggio in treno da Liverpool a Londra dove i quattro devono registrare un concerto in uno studio tv, mentre sono braccati dai fan). è il ’64 e il film ripropone, in versione casalinga, lo straordinario successo americano riscosso a inizio anno all’Ed Sullivan Show e la loro affermazione planetaria, a cui A Hard Day's Night contribuirà largamente. Mescolamento di linguaggi (teatro, danza, fumetto), DROP OUT 25 Yellow submarine riflessione sui meccanismi di costruzione della celebrità, surrealtà, impertinenza, racconto delle caratteristiche dei quattro musicisti: il film da un lato rivela tutto il suo debito nei confronti dei fratelli Marx e dei citati Goons, dall’altro si pone come precursore della sbeffeggiante e oltraggiosa estetica dei Monty Python. Nel successivo Help! Lester ritorna ancora sulla celebrità, attraverso vicende surreali ambientate in India e varie location, in un film che è un tripudio di espressività pop e una parodia della spy story alla James Bond. C’è l’antimilitarismo - nel 1965 siamo già in pieno Vietnam - bandiera di Lennon (che nel ’67 reciterà in How I Won The War / Come ho vinto la guerra dello stesso regista), c’è l’invenzione di proto videoclip con largo anticipo e una libertà che si riflette nelle associazioni anarchiche piuttosto che nella narrazione. Come detto, questi primi due film contribuiscono a cementare la 26 DROP OUT Beatlemania nel mondo. Dal canto suo, Magical Mystery Tour (1967) fa storia a sé. è stato l’unico caso di pellicola girata in piena autonomia (con Brian Epstein scomparso da alcuni mesi, il gruppo aveva in realtà perso la guida e il motore), accreditato ai quattro ma in realtà da attribuirsi quasi per intero al solo Macca. Ed è stato l’unico insuccesso commerciale. Realizzato su proposta della BBC come film di Natale, fu trasmesso in TV nel periodo natalizio: la struttura prettamente surreale spiazzò, c’era da aspettarselo, il pubblico televisivo e la ricezione in b/n (nella maggior parte delle case degli inglesi non c’era ancora il colore, nonostante il pionierismo in technicolor dei Fab) fece il resto. Ispirato da un viaggio di McCartney negli Stati Uniti e privo di una vera e propria trama, Magical Mystery Tour raccoglie confusamente una serie di episodi spalmati nel corso di un tragitto in un bus nell’Inghilterra meridionale. Essenzialmente un prodotto psichedelico ricolmo di LSD, non ha più, venuto a mancare l’apporto registico di Lester e quello morale di Epstein, un equilibrio fondante. È frammentario al massimo, con l’unico motivo ricorrente del viaggio. Film non riuscito, che ha però il merito di esprimere un’estetica; altro punto a suo favore, a parte la novità nel vedere dei musicisti (un musicista!) alla regia, quello di essere precursore dei videoclip (già in parte realizzati con i film di Lester); per ogni canzone c’è infatti una sequenza musicale staccata dal contesto narrativo. E poi sono presenti una miriade di segni e di influenze disparate, dalla lisergicità e dai colori della controcultura, all’oniricità delle sequenze, alle citazioni di spettacoli popolari come le fiere e il circo, anche nelle stranezze fisiche presentate (riferimenti a Freaks di Todd Browning), le citazioni da Alice di Lewis Carroll (la testa d’uovo, I am the egg man) e al Mago di Oz. Tanto, troppo per una visione televisiva casalinga! L’attenzione e il successo verranno ristabiliti dal successivo Yellow Submarine (1968), coloratissimo lungometraggio animato di George Dunning e Dennis Abey dove i quattro compaiono in carne ed ossa solo in un breve cameo finale. Protagonisti sono i loro corrispettivi animati, in un’atmosfera sospesa e anche qui psichedelica (segno che le idee seminate sin qui sono state raccolte in lungo e in largo), da cultura hippy (il regno dell’amore di Pepperlandia), tra percezioni alterate, mondi paralleli e riferimenti alla Pop Art. La partecipazione fattiva del gruppo è per la prima volta minima, già immersi in atmosfere da pre-disgregazione al punto di non prendersi neanche il disturbo del doppiaggio. Intanto per il pubblico ci sono i loro alias in cartoon, che li sostituiscono perfettamente e rispondono ai bisogni di iconizzazione. E si arriva così all’epilogo: il documentario Let it Be, diretto nel 1969 da Michael Lindsay-Hogg – lo stesso di The Rolling Stones Rock’n’Roll Circus - e uscito nel 1970, a scioglimento ormai avvenuto. Funestato dalle stesse peripezie artistiche e produttive dell’omonimo album (in origine destinato alla TV con il titolo primigenio di Get Back, doveva riprendere la gestazione dei nuovi brani in vista di un clamoroso ritorno dal vivo), è testimonianza realistica quanto amara dell’ultimo periodo di attività in studio; un climax di scazzi, frustrazioni e faide interne che miracolosamente culmina nel rooftop concert del 30 gennaio ’69, qui proposto quasi integralmente come agrodolce finale (del film, e di un’epopea intera). Come per tutto il resto della cinematografia beatlesiana, è quindi un’occasione per mostrare un ulteriore tassello di un’evoluzione artistica e soprattutto personale. Un tassello definitivo stavolta, doloroso al punto da non essere ancora edito in DVD. Curiosamente, Let It Be si è aggiudicato un Oscar nel 1970 per la colonna sonora. Aggiungiamo infine che, singolarmente, i quattro sono sempre stati calati nel pieno della vita artistica e culturale della loro epoca. Nello specifico, è noto che Lennon seguisse il mondo dell’arte; meno noto forse che fosse un appassionato di cinema (da ricordare il sodalizio con il cileno Alejandro Jodorowsky, al quale finanziò film e happening a partire dal 1971, quando persuase il suo manager Allen Klein a comprare i diritti di El Topo e a finanziare al regista il successivo La montagna sacra, 1973), nondimeno titolare di una produzione filmografica indipendente in tandem con Yoko Ono (Smile, Two Virgins, Self Portrait, Fly, Imagine…); anche Paul McCartney si interessava di avanguardie, si veda il suo trasferimento a Londra nel ’67 in piena era “swingin” (interessi che cercò di riportare nell’anarchico Magical Mystery Tour). Oltre che in quelli di attore (citiamo su tutti The Magic Christian del 1969 - al fianco di Sellers - e il delirante 200 Motels di Frank Zappa, 1971), Ringo Starr è da ricordare anche come regista del rockumentary dedicato all’amico Marc Bolan (Born To Boogie, 1973); non bisogna poi dimenticarsi del George Harrison produttore: tra i finanziatori di Life Of Brian degli amici Monty Python nel 1978, avviò in seguito la Dark Horse Production, che proseguì la sua attività fino a metà degli Ottanta occupandosi prevalentemente di film low-budget. (TG) D ark side Possono i quattro baronetti, i Fab Four dai caschetti innocenti, avere una controparte al nero? Si può concepire gli autori di inni zuccherosi e inoffensivi come Can’t Buy Me Love e She Loves You, fungere da pietra angolare e/o influenza più o meno dichiarata per musiche heavy & hard? O ancora, è possibile immaginare quelli che nella prima metà dei 60s furono protagonisti di scene di isteria collettiva nonché fidanzatini ideali per la gioventù pre-68 impelagati in storie di esoterismo di matrice satanica, omicidi efferati, deliri d’onnipotenza, ecc? La risposta è sì. Come ogni yin ha il suo yang anche i quattro di Liverpool hanno aspetti a dir poco inquietanti. Saltando a piè pari la famigerata, shockante “butcher DROP OUT 27 Butcher's attitude cover” censurata di Yesterday And Today (1966), è la fase che prende il via dalla pubblicazione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, soprattutto. Prendete pezzi come Lucy In The Sky With Diamonds e Strawberry Fields Forever, o Revolution 9 e Happiness Is A Warm Gun, con quest’ultima addirittura bandita dalla programmazione BBC per i riferimenti sessuali e alle droghe. C’è poco da fare o da star lì a discutere: musicalmente, ma soprattutto a livello di atmosfere e rimandi testuali, questa è roba che ha ben poco a che spartire coi Beatles prima maniera, usi a solleticare gli aspetti più pruriginosi dell' adolescenza piuttosto che addentrarsi dentro le più recondite spire della psiche umana. Questi sono pezzi, insomma, in cui si palesa il flirt non tanto con la concomitante summer of love quanto coi suoi aspetti più psicotropici, deviati, perversi e malati. Sarà forse un caso che questo lieve scarto avvenga dopo il famoso viaggio in India? No, così come non è un caso che proprio nel primo album successivo all’esperienza presso il Maharishi Mahesh Yogi i riferimenti a qualcosa di socialmente poco accettabile si palesino fin da ciò che è (era) il primo impatto col pubblico: la cover. Sì, avete indovinato. È proprio 28 DROP OUT nella copertina di Sgt. Pepper’s che si trova l’ormai risaputissimo omaggio al padre del satanismo moderno, sir Aleister Crowley. Bello pacioso, lì in mezzo alle persone che ci piacciono – esattamente tra Mae West e il guru indiano Sri Kteswar Giri – l’occultista più famoso e più citato del pianeta fa indubbiamente la sua sporca figura contribuendo, seppur post-mortem, a fomentare le voci sulla svolta esoterica del quartetto. Insomma, quando l’ora del tramonto allunga la sua ombra sulla summer of love, sui caschetti neri dei fab four si vanno addensando ben altre ombre; inquietanti e malefiche, cominciano a svelare al mondo la dark side del quartetto di Liverpool. È però soprattutto grazie a (o a causa di) un pezzo che l’aspetto diabolico, l’altra faccia del bel sorriso inoffensivo e pop-oriented dei quattro prende forma mostruosa e aberrante. Non per colpa loro in verità, o per lo meno non direttamente, quanto di chi interpretò quel messaggio alterandolo in base alle proprie manie e applicandolo al proprio, devastante e malefico ego: Charles Milles Manson, per gli amici semplicemente Charlie. È lui, il pazzo psicopatico from Cincinnati, colui che scoperchia il vaso di pandora sui Beatles al negativo, che li marchia definitivamente e li trascina – almeno nell’immaginario collettivo – verso l’inferno e verso il male, esaltandone il lato oscuro quando guida (spiritualmente, ovvio) quell’accolita di pazzi della Family nella villa di Roman Polanski per ucciderne la moglie incinta Sharon Tate e un paio di ospiti. È il 9 agosto del 1969: la summer of love è finita da un pezzo e a quell’altezza anche i Beatles non se la passano proprio bene, tra contrasti intestini e inarrestabili spinte isolazioniste (il matrimonio Lennon-Ono, vera e propria ufficializzazione della frattura è, guarda caso, di qualche mese precedente). La genesi della Family e la follia del suo indiscusso leader sono state trattate in lungo e in largo negli ultimi 40 anni (cfr. il libro del pm del processo Vincent Bugliosi, Helter Skelter, Mondadori 2006), così come le gesta che insanguinarono quell’estate da fine della verginità, inanellando una serie di omicidi gratuiti quanto efferati. Riti satanici, depravazione sessuale, istinti omicidi, follia generalizzata mascherata per metà da richiami esoterici, per metà da ribellismo anarco-paranoide. Tutto e il contrario di tutto si addensava nella mente di un non più giovane Manson e di rimbalzo, grazie al suo magnetico carisma – chiedere a Dennis Wilson, la pecora nera dei Beach Boys, ma soprattutto al suo conto in banca, per conferme – nelle menti di quei derelitti fuori di testa che formavano la Family. Ad ammassarsi nella mente del leader era però Helter Skelter. Il pezzo consegnato al White Album si trasformava nella mente contorta e sfregiata di Manson in ossessioni da ottovolanti apocalittici e satanici richiami alle armi; i quattro autori, invece, nei cavalieri della sua deviata e personale apocalisse. La guerra, altrettanto personale, che Manson col suo sgangherato eserciti di drop-out borderline e troiette strafatte si apprestava a vivere in quella torrida estate, non poteva che chiamarsi Helter Skelter. Stop. Fast Forward. Anni ’90. 1993, ad esser precisi. Morte ai porci, scrivevano, esaltati da un altro pezzo del White Album, Piggies, gli invasati della Family su uno specchio di casa Polanski col sangue di una Sharon Tate incinta e ferocemente uccisa; e morte ai porci rimbalza nella litania che gli Starfuckers regalano alla compilation Comin’ Down Fast. Sottotitolo, A gathering of garbage, lies and reflections on Charles Manson. Pausa. Cosa c’entrano i Beatles con una oscura compilation in vinile 10” pubblicata in edizione numerata e limitata da una minuscola etichetta italiana? C’entrano, c’entrano. charles manson Per almeno un paio di buoni motivi. Il primo, banale. L’etichetta in questione – all’epoca anche distributore, e tra i più importanti – aveva sede a Roma e prendeva il nome proprio dal pezzo-ossessione di Manson, Helter Skelter. Secondo, molto più sottile. Quanti gruppi dell’underground più vario, dal punk all’industrial passando per l’avanguardia e il noise (da Skullflower ai Motorpsycho), si sarebbero cimentati nel tributo al limite dell’agiografico di un personaggio come Manson se fosse stato "solo" uno dei tanti santoni assassini provenienti dalla terra di tutti e di nessuno? Se, insomma, non fossero stati i Beatles, e quel pezzo dei Beatles, a innescare la miccia di una latente bomba paranoide? Oppure, rovesciando la prospettiva, quanto fascino avrebbero esercitato nei subdoli e putridi sotterranei della musica underground – da Siouxsie agli Skinny Puppy, per capirsi – i Beatles senza l’influsso negativo del magnetico Manson, la follia iconoclasta (insieme politica e satanica, ma in percentuali variabili) DROP OUT 29 della Family e il sangue fresco e giovane della bianca e ricca Hollywood? Quanto appeal avrebbe avuto il portato, indubbiamente epocale, del quartetto inglese in band distanti anni luce se non fosse esistito quel tramite maleodorante e nauseabondo che fu Manson e la sua Family? Ovvero, i Sonic Youth avrebbero inciso quel delirante capolavoro che è Death Valley ’69 se non fosse successo quello che è successo in quella valle nell’estate del 69? O ancora, Trent Reznor a.k.a. mr. Nine Inch Nails, si sarebbe spinto all’estrema azione di affittare la villa dell’eccidio per trasformarla in studio di registrazione per il suo The Downward Spiral? Insomma, quello tra i quattro di Liverpool e il pazzo Charlie è un legame indissolubile, per forza di cose bidirezionale, troppo ampio per essere trattato in questa sede ma indubbiamente in grado di fare la fortuna l’uno degli altri. O viceversa. Dopotutto, ci si ritrova sempre tutti a bordo di quell’helter skelter, no? (SP) U no contro tutti Anonimo fan dei Beatles: Soltanto un incompetente puo` negare che i Beatles abbiano fatto la storia del rock. Piero Scaruffi: Spero che su almeno una cosa siamo tutti d'accordo: meno uno s'intende di musica rock, più è convinto che i Beatles abbiano fatto la storia del rock.... Come erigere la propria attendibilità demolendo il senso comune, il valore dato per assodato e fatto proprio dalla collettività? La chiave per interpretare un personaggio come Piero Scaruffi, che di base è un critico musicale e/o cinematografico e/o d’arte, ma anche storico, matematico, poeta, ingegnere, teorico politico, esperto di viaggi, filosofo, scienziato... e molto altro ancora, sta tutta nell’iconoclastia come modus operandi e cartina al tornasole del proprio successo. Come dire: molti nemici, molto onore. Piero Scaruffi ha costruito tutto il suo successo sulla capacità retorica e argomentativa con cui ha saputo rovesciare miti dell’epoca dei consumi, mettendo in piedi contemporaneamente tutto un altro mondo, ai più sconosciuto, di cui si è fatto il portavoce. Da qui poi anche un modo molto tagliente e categorico di produrre giudizi senza colpo ferire e una retorica abilissima nel testimoniare quello che altrimenti non potrebbe essere: un'opinione diversa da quella di cui si è profeti. è l’identikit perfetto di quello che finisce per risultare poco simpatico. Non che ci si voglia allineare alla folla di detrattori, per lo più colleghi di mestiere o fan inviperiti, che lo vedono 30 DROP OUT come un pagliaccio autocostruito sul nulla che non capisce alcunché e spara sentenze un tanto al chilo, ma che il personaggio sia di quelli difficili da gestire lo si comprende subito. Poi per carità… di meriti indiscussi il suo curriculum è pieno, a partire dal suo sito web, primo esempio di comunicazione rock online in Italia, con la maggioranza delle sue schede, prima pubblicate nella sua Storia del Rock in più volumi, disponibili gratuitamente e a portata di click (anche qui i detrattori però sostengono che Scaruffi non sia stato proprio il primo. Forse IAMR c’era già prima. Forse c’era già un primordiale database in un’epoca pre-Amiga 500… ma anche questo fa parte del nostro discorso…). Ed è qui che si innesca il ring. Internet accorcia le distanze, Piero nonostante i suoi innumerevoli viaggi in tutti i posti del mondo è costretto a fare i conti con la folla inferocita del villaggio globale, che con due mail ti viene dentro a casa a sbatterti sul muso la propria disapprovazione per i tuoi giudizi. Il fanatismo degli utenti rock si scontra con il monolitico e irraggiungibile profilo del critico super partes. Da qui nascono pagine indimenticabili e irripetibili che fanno testo a parte nella nostra micro cosmogonia storiografica di scrittori rock italiani online anni 2000… I botta e risposta tra Piero e i fan indispettiti per le sue schede. In un paio di casi si raggiungono vertici assoluti: David Bowie e i Beatles. Pochi altri artisti nella storia del rock hanno avuto una tale massa adorante. In entrambi i casi lo scaruffismo si abbatte come la mannaia del boia. Cosa aspettarsi da uno che inizia la scheda di Bowie in questo modo: "David Bowie fece del marketing l'essenza della sua arte.Tutti i grandi fenomeni della musica popolare, da Elvis Presley ai Beatles, erano stati innanzitutto fenomeni marketing (come la Coca Cola e i Blue Jeans prima di loro), ma Bowie ne fece un'arte". Con Bowie tutto sommato siamo ancora nell’ambito della discussione tra diverse opinioni. I fan sostengono questo, Piero sostiene quello e lo spiega non senza la classica chiosa di chi si rompe anche le scatole di stare li a spiegare l’ovvio, cioè la verità della propria opinione: "Bowie è un ottimo esempio di come uno finisca per scrivere una scheda molto lunga e dettagliata su un argomento che gli interessa molto poco. Mentre gran parte delle 5.000 schede di questo website non vengono analizzate da quasi nessun lettore, quella di Bowie viene analizzata da centinaia di lettori". Con i Beatles però si raggiunge il top. Arrivati a questo punto bisogna per forza di cose fare gli ipertestuali e mettere il link ad una pagina a suo modo piero scaruffi mitica: http://www.scaruffi.com/vol1/beatles.html. L’attacco fa subito impressione, con tutta quella serie di 3 e 4 dati ai primi album fino a Revolver. Abituati a sentirci dire che Sgt. Pepper e il White Album sono patrimoni dell’umanità, che andrebbero messi sul Voyager come testimonianza artistica per gli alieni, si rimane basiti da smilzi ed emaciati 7 e 6. Ma le argomentazioni sono ancora più pirotecniche. Si inizia caldi e decisi: "I Beatles appartengono certamente alla storia del costume degli anni '60, ma i loro meriti musicali sono quantomeno dubbi". Si prosegue demolendo il mito, non basandosi sulla capacità tecnica e musicale dei Fab Four, quanto proprio sul contesto social/musicale dell’epoca, tagliando subito le gambe alle pretese rivoluzionare della loro musica, che lui pone automaticamente come reazione normalizzate e pop al rock’n’roll selvaggio degli anni ‘50: "L'arrivo dei Beatles rappresentò il salvagente per la middle-class bianca, terrorizzata all'idea che il rock and roll rappresentasse una vera rivoluzione di costume. I Beatles tranquillizzarono quella vasta fascia di pubblico e conquistarono i cuori di tutti coloro (soprattutto al femminile) che volevano essere ribelli ma senza violare i codici imperanti. [...] I Beatles sostituirono le immagini di quei giovani arrabbiati col pugno chiuso con i loro visi simpatici e le loro dichiarazioni amabili. I Beatles sostituirono le parole d'accusa di quei musicisti militanti con filastrocche corrive". E da un punto di vista strettamente musicale? Un disastro! "Per il resto della loro carriera i Beatles furono quattro musicisti mediocri che cantavano ancora canzoni melodiche di tre minuti (le stesse che si facevano da decenni) in un'era in cui la musica rock tentava di spingersi al di là di quel formato (un formato originariamente dovuto alle limitazioni tecniche del 78 giri). I Beatles furono la quintessenza del "mainstream", assimilando nel formato della canzone melodica le innovazioni che venivano man mano proposte dalla musica rock". Le più grandi colpe o, per meglio dire, le macchie che coprono la capacità artistica dei Beatles per Scaruffi stanno soprattutto nell'aver copiato pedissequamente i Beach Boys e affidato tutto a George Martin, che in veste di produttore è il vero deus ex-machina degli arrangiamenti che fecero il loro successo. Come pensate che i fan dei Fab Four possano reagire leggendo simili cose? Pensate forse che il ridurre l’importanza dei Beatles al rango di fenomeno di costume possa avere in qualche modo attenuato il colpo al cuore di parole tanto dure? Manco per idea. Le lettere partono e arrivano. Probabilmente Piero è costretto ad inserire una regola in Outlook (ma lui da scienziato dell’ICT forse usa Eudora o Thunderbird…) che letta la voce Beatles nell’oggetto del messaggio indirizza automaticamente nel cestino. Non di meno ci prova a rispondere, e l’ego del personaggio si abbevera ad una fonte che non va mai in siccità. "La benché minima "critica" (ovvero analisi approfondita) ai Beatles viene interpretata dai fans dei Beatles come "odio": lascio agli psicologi spiegare questo fenomeno". Qualcuno prova a sbattergli in faccia decenni di storia popolare: "La storia del rock e` scritta anche da milioni di dischi venduti, concerti esaltanti, mode lanciate", ma la risposta è saccente e implacabile come compete al personaggio: "Chiunque compia una ricerca sociale degli anni '60, deve parlare di Beatles, Monroe, le minigonne, Pelè e (in Italia) Carosello". è ovvio, a questo punto, che le due fazioni non si possano mai incontrare a metà strada. DROP OUT 31 Del resto, è indubbio che il taglio delle melodie e la progressione degli accordi era già all’epoca abbondantemente sopra le righe. Come dire che di suonare rock’n’roll ai Beatles importava fino ad un certo punto… ma a conti fatti sono questioni di lana caprina. Il fan dei Beatles ha gioco facile nello sbattere in faccia a Scaruffi il falso storico secondo cui la leggendaria capigliatura a caschetto sia invenzione del produttore Epstein, quando invece sembra che sia merito del gusto estetico della ragazza del primo bassista del gruppo, Stu Sutcliffe… Come ci si rende conto dopo un po’… il confine tra critica ragionata e questione di principio diventa un nebulosa linea di confine, ma va bene così. Il mondo non è bello perché è vario, ma perché c’è gente che si accapiglia per il taglio di capelli di Ringo Starr. (AC) C ommunication breakdown Facce pulite e rassicuranti, sia che facciano canzonette rock, sia che tornino dall’India con un souvenir psichedelico ad uso e consumo delle giovani generazioni (ma niente a che vedere con quanto pre-scriveva in quegli anni Raoul Vaneigem nel suo Trattato di saper vivere). Ma non è solo qui che ci porta l’argomentazione scaruffiana. L’impressione, 32 DROP OUT per chiudere questo elenco di porte che abbiamo cercato di aprire, è che probabilmente attorno ai Beatles si sia creata l’espressione massima del riduzionismo in musica. Spieghiamoci meglio. I Beatles hanno fatto sicuramente della musica un mestiere, e hanno trovato l’apparato giusto dove inserirlo. L’ipotesi è che non si tratti fino in fondo di questioni di intenzioni autoriali. E che alla fine il tutto si risolva in un pro e contro ingigantito. Certo l’opzione di Scaruffi ci è utile, oltre che come lettura di un fenomeno – propagato ormai da più di un decennio tramite flame e contro-flame dei forum musicali della rete – come lettura di un pubblico. E da qui vogliamo ripartire per mettere dei puntini di sospensione finali… Erano gli anni Cinquanta quando Roland Barthes parlava di Miti d’oggi, esponendo alcuni casi celebri di nuove icone culturali - si direbbe oggi - create tramite una sottile (perché meno evidentemente oppressiva) forma di ideologia dominante: il consumismo occidentale. Il suo lavoro era di decostruzione, di demistificazione, di guerriglia semiologica.Va da sé che un’operazione simile si potrebbe provare coi Beatles, specie nel momento in cui 09/09/09 esce con un tempismo eccezionale per stabilire il prima- to di vendite anche nei Duemila (battendo così presumibilmente Eminem, che al momento attuale si attesta sui 32 milioni di dischi venduti, quattro in più di Macca e soci). Il mito – fatto di caratteristiche iconiche e in qualche modo inarrivabili, se non sfuggenti – è pieno e sfaccettato insieme; è solido ma al suo interno ha piccole storie, che hanno la funzione di rinnovarne la presenza sulle bocche di tutti; esemplare il caso della bufala (vera o falsa, poco importa) creatasi attorno alla presunta esistenza di un sosia di Mc Cartney, che si sarebbe insediato dopo la morte del vero Paul, dal quale può essere distinto solo per la cartilagine dell’orecchio e per l’ampiezza dell’arcata dentale. Per costruire un mito è necessario lavorare moltissimo su tutto l’impianto che può e deve promuoverne l’aura. Abbiamo parlato non a caso del rapporto tra cinema e Fab Four. È un capitolo che in un discorso come questo ci interessa quasi quanto l’analisi di un’uscita discografica. Sì, perché i Beatles sono stati anzitutto espressione di una capacità mediatica. Sembra l’ennesima banalità detta a proposito della musica pop, ma, forse, bisogna terminare l’analisi – anzi, la scomposizione della questione Beatles in tanti rami di discussione – provando a sfogliare i livelli di quello che su di loro è stato detto di più ovvio. Non è certo una novità che una band abbia un apparato promozionale studiato sinergicamente attorno a tutte le possibilità offerte dai mezzi di comunicazione di massa. Eppure, ciò che forse non ebbe pari fu la disinvoltura e la leggerezza con cui i quattro – ancora una volta, Paul in primis, e Magical Mystery Tour ne è testimonianza – affrontarono le possibilità che ebbero di fronte; il modo in cui si buttarono a pesce sui mondi che quei tempi vedevano nascere (ancora la psichedelia, come esempio magistrale). Un esercizio di essenza naive che non è così distante dall’impegno assunto da Lennon con la fluxiana Yoko. La tesi neanche troppo originale che vorremmo proporre è che il riduzionismo nero/bianco pro/ contro è funzione dell’ideologia del mito. E quello che ci ha interessato è dare elementi per complessificare la relazione. E su questo: se vi diciamo cultura giovanile? Espressione che, fra l’altro, fece la sua comparsa ad opera di nugolo di avanguardisti rivoluzionari sempre provenienti dagli anni Cinquanta, i lettristi di Isidore Isou, che inventarono di fatto i "giovani" come "classe" sociale, prima assente da discorsi politici e di conseguenza anche di pubblico, da allora in poi centrale per ogni progetto sovversi- vo. Fatto, questo, non così astruso dal contesto musicale e dallo show-biz inglese; vi ricordate un certo Malcolm McLaren? Colui che partì dai Pistols per arrivare a coniare la musica per pre-adolescenti, come nuovo pubblico a cui dare la caccia? Proprio Malcolm non ha mai fatto mistero delle proprie letture lettriste e situazioniste, quasi sbeffeggiandosene; altro grande banalizzatore di un potenziale di ribellione sociale. A prima vista non sembrerebbero esserci dubbi riguardo all’impatto dei Beatles sulla cultura giovanile. Ma si potrebbe altrettanto dire che eppure oggi non sono solo i giovani il pubblico dei Beatles. O almeno che quei giovani ormai sono cresciuti. E che, se anche i Beatles hanno reso innocuo il riot adolescenziale, la loro caratteristica di oggi – il loro apporto alla questione della ricezione musicale nei nostri anni - è la trasversalità trans-generazionale. Altra banalità apparente. Il suono dei Beatles nei CD 2.0 (o 3.0) può forse essere un piano di traduzione tra gli ascoltatori dei Beatles di allora e, da una parte, i giovani del mainstream odierno (abituati ormai a un’idea di hi-fi che è tecnologico e ha come primo obiettivo la separazione dei suoni, più che l’impasto complessivo), dall’altra, gli ex-giovani che ora si godono le possibilità della tecnica e riscoprono il loro amore originario con le orecchie di oggi. La conclusione potrebbe essere che i Beatles hanno inventato la trans-generazionalità. È però anche questo un atteggiamento partorito dal riduzionismo. Nessuno ha inventato niente. Una cosa su cui chi ha promosso promuove e promuoverà i Fab sa riflettere è il vecchio dubbio amletico sulle comunicazioni di massa: funzionano da uno a uno o da uno a molti? I Beatles puntano sulle masse, ma ognuno, direttamente e in un rapporto uno a uno, si sente offeso da Scaruffi. Cosa interessante e permessa dal personalismo del web, in qualche misura. Il critico ha capito che se ha davanti un organo fatto di milioni di corpi, ognuno di questi corpi, preso singolarmente, rivela i propri dubbi. Vogliamo concludere mettendo l’ultimo pezzo di carne sul fuoco. L’enorme dispositivo strategico che attorno alle canzoni beatlesiane ha costruito una vera e propria cultura ha anzitutto puntato sulle necessità di "movimento". Questo è il punto con cui vorremmo chiudere. Il fatto che quella cultura ha bisogno di un continuo aggiustamento. E si muove lentamente come la società. Che in realtà non cambia così in fretta… (GC) DROP OUT 33 Jim O’Rourke Le dimensioni di un fenomeno sotterraneo Dai monasteri dell'indie-rock alla tentatrice industria hollywoodiana, parabola di un uomo che mai ha messo da parte la sua variegata ispirazione. Attentando spesso ai sacri luoghi del rock. - Luca Collepiccolo 34 DROP OUT A volte è sufficiente un pretesto. Qualora il pretesto si manifestasse nella forma di un vero e proprio disco, quale occasione migliore per tornare su uno degli alchimisti del pop contemporaneo? D'accordo, il termine pop potrebbe - nel nostro caso – essere poco confortante, dato che Jim O' Rourke i generi musicali li ha attraversati in lungo e largo, eccellendo peraltro in ogni singola categoria. E questo è un giudizio di carattere oggettivo, che vuole tagliare fuori coloro che pensano – volutamente – male. Gli estremi si toccano nella carriera di Jimbo che a soli 40 anni ha messo da parte un'invidiabile discografia, sfiorando ipotesi e realizzando teoremi. Romanticismo, astrazione, ma anche una superficie dura da scalfire. Alle volte. Perchè gli accenti posti da O' Rourke sulla sua musica non si sono mai rivelati necessariamente gentili. Lo si può dedurre da un attento studio degli articoli in campo, qualora si passasse da una bucolica aria in odor Burt Bacharach ad un riottoso incedere chitarristico assieme al samurai levantino KK Null. Un corto circuito nervoso o un semplice desiderio di docile ritiro debbono aver accompagnato il musicista in alcune delle sue più recenti scelte artistiche. Che ovviamente collimano con rigorose scelte di vita. è facile realizzare come un uomo completamente assorbito dal suo lavoro, quasi offuscato da una viscerale passione, spesso dimentichi tutto e tutti. è tempo di meditare ora, di concedersi altre gioie, ecco perchè il Jim O' Rourke di The Visitor, album con cui sancisce il ritorno alla confraternita Drag City, appare sostanzialmente più sereno, intento a godersi un lungo – e meritato – momento di riposo.Le sue dichiarazioni possono oggi assumere un tono sprezzante, all'apparenza, ma sono dettate dall'esigenza di evadere. Per troppi anni immerso nel rutilante mondo della musica indipendente, O' Rourke è oggi molto restio ad esprimersi in merito, evitando a tutti i costi quel ruolo di termometro artistico che per circa 10 anni ne ha caratterizzato l'esistenza. Non facciamo dunque fatica ad immaginarlo immobile, a contemplare il silenzio, dopo che la sua musica lo ha in qualche modo investito o rivelato attraverso altri costumi. Se nel 2000 la sua firma sembrava essere ovunque, oggi gli scenari sono drasticamente mutati, anche perchè all'orizzonte altre attività hanno cooptato l'interesse del nostro, in maniera quasi prepotente. Se la musica ambient ha in qualche misura caratterizzato i suoi esordi artistici, anche con il combo Illusion Of Safety sotto la guida del leader Dan Burke, è con il rock più trasversale che Jim raccoglierà le prime – grandi – soddisfazioni, scegliendo Chicago come centro nevralgico delle sue operazioni, lasciando che le collaborazioni fioccassero quasi senza soluzione di continuità. Un atteggiamento quasi assoluto, che parimenti a quello di 'biografo' ed avido consumatore di musica, lo ha spesso relegato ai margini della produzione artistica. Raccogliendo in quest' ambito risultati poco meno che eccelsi. L a Joint - venture D avid G rubbs Non chiedete nè a lui, nè tanto meno a David Grubbs cosa ha portato alla deflagrazione dei Gastr Del Sol, uno dei più sfuggenti esempi di un'estetica retro-rock che combinava avangurdia ed istanze pop da salotto colto. Ovvio che l'intervento di O'Rourke abbia letteralmente sconvolto i piani di Grubbs, reduce dalle martellanti progressioni dei Bastro e ancor prima dall'ipercinetico hardcore dei giovani Squirrel Bait. I Gastr Del Sol di Serpentine Similar (con il contributo alla batteria del futuro Tortoise John McEntire) sommariamente potrebbero essere indicati come un gruppo rock che guarda ai visionari di casa Vanguard. Era solo il '92 ed ulteriori – capitali – avvenimenti avrebbero per sempre ridefinito l'estetica del dopopunk. Un disco che contribuirà in maniera clamorosa ad una rivoluzione estetica è Crookt, Crakt, Or Fly, che come il precedente uscirà per Drag City. Nel 1993 i Gastr Del Sol sono essenzialmente una creatura dalle quattro braccia con O' Rourke che raggiunge Grubbs e precipita sulla scena una serie di elementi atipici, quasi stranianti, che molto debbono alla dinamica passione per certo minimalismo e musica contemporanea. Ovvio che la scuola isolazionista, con la relativa ricerca di microsuoni, informano le scelte stilistiche di O'Rourke che pone in essere una serie di sviluppi inediti per il suono dei Gastr Del Sol. Ora prepotentemente coi piedi nel mondo delle musiche eterodosse. A suggello di questa avvenuta profezia un brano come Work From Smoke, in cui presenzia il magistrale clarinetto basso di Gene Coleman. Uno sviluppo essenzialmente pirotecnico che porta dal virtuosismo sulla sei corde – John Fahey, ma anche Sandy Bull – a ipotesi di musica concreta, con cartoline distinte provenienti dall'Italia del Gruppo Di Improvvisazione Nuova Consonanza. con DROP OUT 35 Gastr del sol Continuo a preferire quest'album per la sua varietà tematica al pur epocale Upgrade & Afterlife – di mezzo c'è anche il bellissimo Ep Mirror Repair, che riportava in auge la loro versione del Canterbury sound – che in qualche misura sposterà il baricentro dei Gastr Del Sol verso un'intima ricerca, fatta di sottrazioni e lunari digressioni verso la musica dei primi del '900 (pur con la partecipazione di un brutista come Kevin Drumm, un maestro come Tony Conrad ed un selvaggio jazzista come Mats Gustaffson). Certo è che la rilettura di Dry Bones In The Valley del buon John Fahey chiudeva in maniera commosa non solo lo stesso Upgrade & Afterlife, ma anche la joint-venture tra Grubbs e O'Rourke, che mai torneranno ad incrociare i loro flussi artistici. M oikai e l ’ impro - jazz Dissidi evidentemente insanabili, come è lecito speculare, consci dei loro ingombranti ego. Val la pena ricordare come la stessa Drag City offrì ai due musicisti lo spunto per mettere in cassaforte alcuni dei propri dischi preferiti, attraverso ristampe o pubblicazioni ex-novo. Due sotto etichette di cui Grubbs e O' Rourke sono anche direttori artistici, il primo lancia Dexter's Cigar il secondo la Moikai. E – a dirla tutta - sulla distanza è proprio Jimbo a farla franca, ripescando 36 DROP OUT almeno due capolavori. Il primo è il doppio cd Live At The I.C.A./Retrospective del gigante della sei corde inglese Ray Russell, uno dei reali innovatori del jazz-rock d'oltremanica. Coadiuvato da mostri sacri come Elton Dean ed Harry Beckett si prodigava tra libera improvvisazione e jazz elettrico, come un autentico funambolo. L'altra perla è Plux Quba del portoghese Nuno Canavarro, disco originariamente pubblicato in tiratura irisoria (1988) e capace di influenzare prepotentemente le stelle del glitch, Matmos in primis. Non deve sorprendere del resto lo sconfinamento di O' Rourke verso le camere assai riservate dell'avant-jazz. In carriera il nostro ha infatti avuto modo di confrontarsi con Derek Bailey – anche in una seduta della Company - i due AMM Eddie Prevost e Keith Rowe e con figure di più muscoloso impianto come Mats Gustaffson (segnaliamo a proposito il gioco a incastri di Parrot Fish Eye per la Okka Disc di Chicago con lo stesso sassofonista svedese, la vecchia conoscenza Gene Coleman ed uno dei migliori percussionisti del nostro tempo, Michael Zerang). Q uei doverosi recuperi Riuscite a cogliere l'implacabile senso di onnipotenza dell'apparentemente timido musicista? Sul finire dei '90 è l'uomo ovunque, disposto peraltro a riesumare i miti della sua 'elevata' post-adolescenza. Conscio dei meccanismi che animano il mercato discografico, all'alba del downloading, realizza come gli eroi del passato necessitino ora di una nuova opportunità. Jim recupera così dall'oblio John Fahey, o quanto meno ne rilancia la stella producendo nel 1997 per Table Of The Elements Womblife, uno dei dischi più sperimentali del chitarrista. Operazione analoga – sempre su marchio TOTE – era toccata ai redivivi Faust, che con soli due elementi della formazione originale tornavano in studio per licenziare Rien, disco in qualche maniera spartiacque, che documentava il rinnovato interesse per il rumore e le rinnovate tecniche di registrazione. I mprendibile Chi è allora O' Rourke? Un inguaribile esteta? La tentazione è forte, sarebbe del resto un'affermazione più che plausibile. Nulla è lasciato al caso nella sua tentacolare carriera artistica, anche se questo non sottintende ad una scalata verso le zone alte delle classifiche indipendenti. C'è semmai un forte senso di auto affermazione, che implica una sorta di redenzione nei confronti del passato. I miti non sono intoccabili e spesso rientrano nel processo produttivo. è così nel superguppo Brise Glace, una delle tante joint-venture fiore all'occhiello della stagione d'oro di Skin Graft, in piena esuberanza now wave. Ancora Chicago, una forte appartenenza, il proscenio per quel When In Vanitas del 1994, tra soluzioni massimaliste e la malsana idea di scompigliare in definitiva le austere vie del rock progressivo. C'è ancora Grubbs – prima dello split in seno ai Gastr Del Sol – ma l'altra testa pensante è Darin Gray, ex-bassista di Dazzling Killmen. Al disco – prodotto da Steve Albini – partecipa un pezzo grosso dell'avanguardia americana dei primi '80 Henry Kaiser, altro chitarrista con cui O' Rourke ebbe più di un incontro rivelatorio.Parallelamente ai pachidermici solchi dei Brise Glace vive un'anima più sprezzante, virtualmente noise rock. Sono gli Yona Kit, il cui omonimo disco del 1995 è davvero una delle maggiori uscite in casa Skin Graft. O'Rourke, Gray ed il batterista dei Cheer Accident Thymme Jones fanno quadrato attorno al chitarrista cantante KK Null, giapponese gelido noto in occidente soprattutto per le malefatte con Zeni Geva. Sempre del '95 è l'uscita in solo di Terminal Pharmacy per la Tzadik di John Zorn, episodio che va ben oltre l'attestato di stima. Segno di estrema poliedricità il disco ricalca la passione per la musica elettro-acustica andando a sondare – solo virtualmente – le zone d'interesse di uno dei suoi primigeni lavori in solo, quel Disengage del '92, doppio disco licenziato dall'olandese Stalplaat, successivamente alla sentita esperienza con Illusion Of Safety. Q uell ’ essenza pop Quando nel 1997 torna ad affacciarsi su Drag City con Bad Timing, coglie ancora tutti di sorpresa, realizzando un album in realtà molto disteso, preso dal rispetto profondo per il maestro Fahey e le prime 'innate' tentazioni verso l'alternative-country. C'è il solo John McEntire a spalleggiarlo alle percusisoni, del resto non occorrono fragorosi accenti a questi diversi esercizi in stile fingerpicking. L'album è delizioso, ma nulla poteva preparare il terreno alla grandeur di Eureka che nel febbraio del 1999 segnerà l'ingresso prepotente di O'Rourke nell'universo del pop. Dalla porta principale. Il brutto anatroccolo s'è fatto cigno. Jimbo arrangia e canta, stupendo più di un detrattore col suo fare placido e la sua verve cristallina, quella di un veterano a ben vedere. Gli arrangiamenti fiatistici sono di due pezzi grossi della nuova Chicago jazz, il trombettista Rob Mazurek ed il trombonista Jep Bishop, cresciuto alla corte di Ken Vandermark. Eureka è a posteriori uno dei più imprevedibili sigilli sulla musica pop indipendente di fine secolo, tanto che a distanza di 10 anni le sue fluttuanti e lussuriose melodie sembrano primeggiare nell'Olimpo dei grandi produttori/interpreti anglo americani: da Joe Meek a Van Dyke Parks, passando per Scott DROP OUT 37 Walker. A conferma di tutto ciò anche la bella rendition di Something Big, brano autografo di Burt Bacharach. Che questo sia un punto d'arrivo nella folta discografia dell'uomo è anche certificato dalle discrete vendite ottenute, oltre che dalla visibilità di un progetto che mette d'accordo i meno ortodossi seguaci dell'avanguardia con i più discreti fautori della musica melodica. Jim non è mai stato estraneo nemmeno al mondo della più risaputa pop music, già dai tempi del trio elettronico Fenn O'Berg – con gli austriaci Fennesz e Peter Rehberg aka Pita – mise in scena una sconvolgente rilettura di un medley live delle Spice Girls. Darà poi seguito all'iniziativa firmando una commovente Viva Forever – sempre delle signorine inglesi - per la raccolta Guilty By Association, come si evince dal titolo un tributo alquanto trasversale ai miti delle charts internazionali presenti e passate. Un uomo instancabile Potrebbero spalancarsi nuovi mondi ora, ma proprio 38 DROP OUT quando la strada si mostra in discesa continuano a fioccare le collaborazioni, battendo - parallelamente alla strada maestra - il viale dell'avventura in suono. Un viaggiatore dunque, che volentieri si ricongiunge al vecchio amico Mats Gustafsson per Xylophonen Virtuosen, disco di improvvisazione rilasciato dalla Incus di Derek Bailey. Per un ritorno più consono alla forma canzone bisogna attendere il novembre del 2001 con l'uscita di Isnignificance ancora per l'etichetta-madre Drag City. Un disco più smaccatamente rock, che concorrerà a dividere la critica, pur mostrando una serie di numeri efficaci. Sotto il suo tetto ancora l'intellighenzia di Chicago, per arrangiamenti che addirittura sembrano scomodare il southern rock, pur non abbandonando del tutto le scintillanti vie del pop di Eureka. Un altro passaggio cruciale della sue vita artistica è I'm Happy, I'm Singing And A 1,2,3,4 melanconico capolavoro elettronico, che fa un solo boccone della cosiddetta IDM, sferrando un deciso attacco alle istituzioni del minimalismo. Tre lunghi episodi che spostano nuovamente l'orologio biologico di O' Rourke, in un continuo raccordo con il passato e le sue eredità artistiche. Che a livello di compositori contemporanei rispondono ai nomi di John Oswald, Bernard Günter, Gerhard Schtebler, Helmut Lachemann e Salvatore Sciarrino. A lla corte W ilco di S onic Youth e Inizia da qui una fase di progressivo abbandono del proprio io solista, nel frattempo si solidificano importanti joint-venture, che più che distrarre il nostro aprono nuove porte nell'asfittico mondo del mainstream-rock. è infatti l'incontro coi Sonic Youth ad inaugurare un altro capitolo importante nell'esistenza di O' Rourke; partito in sordina con le collaborazioni nella serie prospettive musicali (per la stessa Sonic Youth recordings) il discorso si amplia sempre più con l'investitura nel ruolo di produttore per NYC Ghost & Flowers del 2000. Il nostro finisce anche col ricoprire il ruolo di bassista – e dal vivo e da studio – permettendo a Kim Gordon di tornare al suo vecchio amore per la sei corde. Per Murray Street e Sonic Nurse O' Rourke sarà il quinto membro della storica band newyorkese. Solo nel 2004 Jim deciderà di abbandonare la nave con l'enigmatica collaborazione Hydros 3 per la norvegese Smalltown Supersound, con ancora in bella vista il contributo di Gustaffson (sempre per la label nordeuropea vale la pena di ricordare anche il supergruppo Original Silence, cui i due partecipano assieme allo stesso Thurston Moore, Massimo Zu, Terie Ex e Paal Nilssen-Love) Nel frattempo Jim guadagna ulteriore credito nelle vesti di produttore e musicista da studio. Consente ai Wilco di Jeff Tweedy di spiccare letteralmente il volo nel 2002 con Yankee Foxtrot Hotel, illuminando l'originario alternative-country del gruppo nel susseguente A Ghost Is Born (2004), in cui si carica anche la piccola incombenza di sessionmen, facendo sì che la verve sperimentale – oltre a certe mutazioni kraute - prendano addirittura il sopravvento in fase di songwriting. Una collaborazione che va aldilà delle pubblicazioni Nonesuch, grazie al triumvirato formato con lo stesso Tweedy ed il percussionista Glenn Kotche a nome Loose Fur. Due album deliziosi pubblicati dalla solerte Drag City, con una netta preferenza per il secondo – Born Again In The Usa – che vuole rivedere con una ricerca mai estrema le istanze del rock americano. L’ alternativa Per allontanare Jimbo dal mondo della musica ci vuole dunque un ingaggio irrinunciabile, una prospettiva professionale che gli consenta di allentare la presa rispetto ai numerosi impegni discografici. Il mondo della celluloide, attraverso una chiamata davvero inedita, regala un altro tipo di notorietà al nostro, del resto mai avulso al cinema d'avanguardia ed alla sonorizzazione di performance tout court (si pensi al lavoro svolto al fianco del compositore Takehisa Kosugi per la compagnia di danza di Merce Cunningham). Si diverte un mondo in School Of Rock – basta vedere i bonus dell'omonimo dvd, in cui spende parole di elogio per i giovani virgulti da lui stesso 'addestrati' – con uno scoppiettante Jack Black protagonista. O' Rourke inizia così una parallela carriera di consulente per il grande cinema, che solo momentaneamente lo allontana dai circuiti musicali. Dopo il trasferimento a New York – assisterà anche lui in diretta al famoso attacco alle torri gemelle – Jimbo stabilirà il proprio domicilio a Tokyo, Giappone, una terra da lui sempre profondamente amata e rispettata. Dell’ultimo – enigmatico - The Visitor riferiamo in altra parte del giornale, puntando magari il dito su un lavoro all’apparenza incostante, nell’atipica forma di suite modern-pop. Ancora un disco strumentale che agita spettri e avanza incerto il baricentro dell’autore, che – onestamente – non ha più nulla da dimostrare alla sostenuta intellighenzia del vecchio e nuovo continente. DROP OUT 39 Il Teatro degli Orrori Aspettando la "seconda"... Giulio Ragno Favero a rapporto per ripercorrere traiettorie e dimensioni di due progetti che in italia pesano come macigni. E nel frattempo l'atteso comeback del Teatro è realtà. - Stefano Pifferi 40 DROP OUT C i si ritorna a distanza di un paio d’anni, con quel giusto distacco che ogni manuale di critica consiglia. Ci si ritorna perché in tempi di parossistiche accelerazioni di mercato, Dell’Impero Delle Tenebre è un disco che cresce ad ogni ascolto, tanto da meritarselo tutto lo status di classico del rock italiano e in italiano. E ci si ritrova su quel playground delittuoso, dopo averne colto le sfumature e contemplato l’insieme, pronti ad accogliere una nuova, cruciale prova, dal titolo capotiano: A Sangue Freddo. Disco che - ci scommettiamo - rappresenterà una piccola svolta. Ci troveremo più Inghilterra in produzione e più compattezza nel suono. Ma ancora non è dato saperne di più e perciò eccoci a mettere legna al vecchio camino. Quel Dell’Impero Delle Tenebre (La Tempesta, 2007) che è l'incipit ideale di questa storia di bordoni a volumi elevatissimi e parole pe(n)santi come macigni legati al collo. Era un disco diretto quello, lanciato a mille, con le sue parole a presa rapida, anteprima a reti unificate di una medaglia a due facce: fitti rimandi alla letteratura e alla tradizione del cantautorato colto italiano e, insieme, suono potente, stordente, mirato. Un esordio che ha lavorato sottopelle e a distanza, che si è solidificato nei concerti, innestato nelle menti, pure dei distratti; un album che col tempo si è fatto classico. Che è un classico. E che è anche il risultato della scalata di un gruppo precedente, di un percorso che ha aperto esperienze e disordini. Amplificato suoni e smanettato chitarre. In principio era il noise a una dimensione … Ascolti stratificati di musiche cresciute all’ombra delle (ex) torri gemelle, nauseabonde come i budelli stretti del Lower East Side o maleodoranti come i cessi del (fu) CBGB’s. Questo è ciò che ci si aspetta essere il background del Teatro. Non è difficile immaginarseli – Pierpaolo Capovilla (voce e basso), Massimo Sartor (chitarra) e Dario Perissutti (batteria) – cresciuti a pane e punk newyorchese, imberbi adolescenti del nord-est italiano in fissa con Ramones e Television, Patti Smith e Swans a tal punto da rimanere sempre ai margini della vita di paese. Drop-out li definirebbero negli States; drogati li definirebbero le anime fintocandide di ogni paesello italiano, così abili e meschine nel ridurre fenomeni frastagliati o animi sensibili a becera paccottiglia ben identificabile. Quale che sia la reale genesi di One Dimen- sional Man, ci piace immaginarceli reagire a quel falso perbenismo paesano con una volontaria reclusione in una casetta di campagna, magari di quelle silenti e desolate in cui, approfittando della notte, ci si può lasciare andare a distruggere amplificatori e percuotere pelli, tra uno spinello e una birra. Puro punk della provincia. Ci piace anche immaginare che dopo poco più di un anno di inarrestabili prove, da quel casolare immerso nelle nebbiose lande dell’entroterra veneto sia uscito l’omonimo esordio (Wide 1997). Un album che all’epoca si proponeva se non innovativo, per lo meno degno antagonista dei suoni che giungevano dall’altra parte del cielo rumoroso. La registrazione in (quasi) presa diretta contribuiva in maniera decisiva a fare di quel disco qualcosa che ancora oggi sarebbe competitivo: noise-rock brutale, mid-tempo assassini, voce malsanamente newyorchese. Insomma, un debutto di culto. Per pochi, ovviamente, ma anche per sempre. Alla faccia del marcusiano uomo unidimensionale, quel disco offre tante sfaccettature quante sono le note triturate nei suoi 10 pezzi. … poi venne l ’ era del blues … L’etichetta noise-rock, vago ed immenso calderone in cui inserire musiche poco definibili e molto diverse, va però subito stretta. Già nell’immediatezza dell’esordio i 3 parlavano di guitar sound, dividevano il palco con deformi mostri blues-punk rumorosissimi e devastati (gli immensi Cows, tanto per fare un nome) e si avvicinavano forse inconsapevolmente ad una forma “tradizionale” di musica. L’entrata in gioco del jolly Giulio “Ragno” Favero (chitarra, ma anche molte produzioni attuali portano il suo segno), avvenuta nella torrida estate del 1998, sposta il baricentro del suono verso altri, infuocati lidi. E quale delle musiche tradizionali migliore di quella del diavolo? Quello triturata dalla nuova formazione è un blues malato, dissonante e a tutto volume che si rifà a quello di gruppi come Birthday Party o Scratch Acid. Di nuovo e ancora: non musica per educande, ma per gente devota al culto del rumore. 1000 Doses Of Love (Wide, 2000) non soffre di “sindromi da secondo disco” e vira verso un loud-rock deturpato secondo la legge non scritta della rielaborazione (ovviamente in chiave noise) della tradizione rock e blues (Jinx e Tupelo, per fare due nomi italiani, giravano intorno alla stessa idea di fondo). I volumi in saturazione sembrano calare, le atmosfere ferine placarsi. Ma è un bluff, DROP OUT 41 one dimensional man anzi una impressione superficiale derivante dal fatto che per la prima volta ODM usano uno studio vero. La musica continua a sputare fulmini e saette dopo aver bevuto veleno (come suggerisce Drink The Poison), anche quando si cerca di realizzare un concept sulla “storia di un amore che muore”. La title track è uno stop’n’go tagliente, Tom svisa quasi di funk elettrico, My Ship è uno scivolare di slide continuo in omaggio ai padrini Jesus Lizard, Annalisa! e Louis sono possedute dagli stessi demoni che devastavano il giovane Nick Cave quando si dilettava coi Birthday Party. Insomma, più che una catastrofe amorosa esce fuori una catastrofica rendition blues-core annegata in ironia e sputi punk. Condizione che si ripete, giungendo alla definitiva maturazione, in You Kill Me (Gammapop, 2001). Il trio è ormai rodato da una attività live incessante, borderline e punk al midollo. L’interplay ormai, non è un segreto, funziona a meraviglia e i 14 pezzi dell’album scivolano sul crinale di un noise’n’roll blueseggiante. Capovilla è ormai un frontman carismatico e un cantante maturo, tanto (ehm) semi-lucido su disco quanto ferino e fuoriditesta sul palco. Teatralità è il termine col quale si è tentati di definire la maturità espressiva del trio e che, guarda caso, tornerà in tempi futuri: Saint Roy è uno scioglilingua da ottovolante, I Can’t Find Anymore guarda 42 DROP OUT all’Inghilterra degli XTC, This Man In Me è seduta psicanalitica pubblica, Sad Song uno psicotico boogie’n’roll alla Jon Spencer dei tempi Cryptici, la title track rievoca l’accoppiata Brecht-Weill. Take Me Away (Ghost Records/Midfinger Records, 2004) giunge dopo un paio d’anni ed è, a tutt’oggi, l’ultima manifestazione conosciuta del trio. La chiusa della parabola, non necessariamente discendente. Quelle dell’album sono infatti canzoni, a pieno titolo, melodiche, pop in modalità power- e/o noise-, cacciate fuori dal solito armadio ma rivestite di una sensibilità nuova. Metà esperienza, metà freschezza. Un bel respiro, una bella soffiata e via, tutto il catrame-core che ha per anni ricoperto le melodie se ne va, lasciando il posto a semplicità e linearità. Manca ancora un qualcosa però. Un piccolo scarto. Quella barriera sempre più sottile che ci divide dal “rock”: la lingua. Piccola postilla alla fase ODM. Prima della messa in pausa del progetto fa la sua comparsa un giovane batterista, Francesco Valente, in luogo del dimissionario Dario Perissutti. Un pischello sbarbato che sarà elemento cardine di ciò che è lì lì per venire. Come un gesù lucertola che si redime ogni volta mutando la propria pelle, è infatti tempo ormai di affrontare l’ultima, decisiva trasformazione. …e infine , quella del cantautorato rumoroso … Per comprendere appieno la “svolta cantautorale” degli ormai ex One Dimensional Man – sebbene sia più corretto parlare di evoluzione che di svolta – bisogna risalire sull’ottovolante e ritornare ancora più indietro, a una decina d’anni fa. “Io credo che il r’n’r non sia il regno dell’originalità, ma della tradizione”, affermava Pierpaolo Capovilla in una vecchia intervista, dichiarazione che ora, col Teatro Degli Orrori sul ciglio del secondo disco, acquista un senso ulteriore. Aiuta cioè a rielaborare l’idea critica su un disco e una band che condensa alla perfezione tradizione musical-letteraria (in una parola, cantautorale) italiana e crudezza di suoni pur sempre riconducibili ad una tradizionale idea di rock che dal blues arriva alle sue più cacofoniche deformazioni. Il cerchio è chiuso, insomma. Nulla si crea nel mondo del rock, ma tutto si trasforma. E se dal punto di vista strumentale questo assioma è facilmente rintracciabile in una mistura potente e letale che abbonda in ricercate citazioni e prestiti dalla tradizione noise-blues-rock, è nelle liriche che la “tradizione” tanto agognata si manifesta. E in Italia, per certe musiche di denuncia o impegnate, la tradizione è quella che cova nel retroterra cantautorale più off e engagé, e che si manifesta sotto forma di una ricerca letteraria profonda. Roba che, però, i quattro applicano ad un suono furibondo e devastante figlio di tradizioni d’oltreoceano, che scuote l’ascoltatore ad ogni parola pronunciata e/o urlata con la consueta teatralità da Pierpaolo Capovilla. Chiamata alle armi (Carrarmatorock), rifiuto della guerra (Compagna Teresa), elogio della memoria (L’Impero Delle Tenebre) che sia, la certezza è una sola. Il Teatro – e il suo paroliere, come definirlo altrimenti? – gestisce ormai alla grande il background letterario che da sempre (Celine e Borroughs citava Capovilla come ispirazioni all’altezza di You Kill Me) ne contraddistingue il portato extramusicale: dall’Artaud che è fonte di ispirazione per il nome al Truman Capote che segna il comeback con la sua opera più forte e compromettente, passando per il lirismo contro di De Andrè (troppo sputtanato ultimamente, ma non è questo ovviamente il caso…), sempre punto di riferimento ideale nella galassia delle influenze di Capovilla. Altri nomi tutelari emergono di prepotenza accanto al poeta ligure: Carmelo Bene, innanzitutto, per quella carica anarcoide e sovversiva che il frontman ha ben adattato all’iconografia classica del reietto-rock che un David Yow a caso ben rappresenta. Oppure quel Gaber metà attore, metà cantante (e nell’interezza, grillo parlante per una società apatica e finto-perbenista) nell’avanguardistico teatro-canzone rintracciabile un po’ ovunque nella forma mentis del Teatro. Il muoversi sul terreno della lingua italiana presuppone perciò in seno alla traiettoria ODM/Teatro una maggiore e più diretta comunicatività; o viceversa, la necessità di “impegno civile”, di “resistenza attiva” del nuovo progetto ha bisogno di un qualcosa che limi la distanza con la lingua rock per antonomasia, che superi gli ostacoli che per forza di cose vi si frappongono, plasmando quel messaggio su un terreno loud-rock derivativo ma mai banale. Uno scarto fondamentale, che fa di quel disco, e di conseguenza anche di tutto il progetto, un qualcosa di estremamente politico. La musica come arma di risveglio di massa. Lo stridore del rock come sirena d’allarme sulle coscienze assopite. Le parole come fermacarte sull’oblio della memoria. Ora, a distanza di due anni certamente non inoperosi (live praticamente senza soste, l’inedito Refusenil nel manifesto post-Sanremo accroccato dagli Afterhours, Il Paese È Reale, l’ottimo 10” split coi romani Zu) è in dirittura d’arrivo un nuovo album, l’ennesimo passo in avanti che i quattro ci hanno riservato. Magari più apparentemente accessibile, ma non per questo meno criptico e denso. O forse, altrettanto incompromissorio e feroce, ma sempre inserito in quell’humus cantautorale che ne impregnava l’esordio. Abbiamo perciò deciso di fare due chiacchiere con Giulio Ragno Favero, bassista e produttore del quartetto veneto. DROP OUT 43 Che cosa avete fatto in questi due anni? Di tutto un po’, 130 date più meno in tutta Italia, scritto brani nuovi, lavorato ad altri progetti (Zu, Super Elastic Bubble Plastic) e lavorato al disco nuovo. Più o meno le stesse cose che fanno tutti i gruppi, con l’aggravante che comunque dobbiamo come tutti pagare le bollette, per cui ci siamo fatti un bel mazzo tra suonare e lavorare…insomma, le cosiddette “solite cose”… Due anni, in tempi di accelerazione discografica come gli attuali, possono sembrare una eternità…cos’è, ansia da comeback? La tua o la nostra? Nel senso sono passati due anni in cui abbiamo fatto il possibile. La promozione del vecchio disco, un bel po’ di concerti, abbiamo scritto il disco nuovo, non credo si riescano a fare troppe cose contemporaneamente. E non vivendo di sola musica, il tempo che rimane è quel che è…e poi francamente a noi, dell’accelerazione discografica, non ce ne frega molto…cioè ci siamo presi il tempo 44 DROP OUT necessario per fare bene le cose, e per quanto mi riguarda, non è nemmeno stato abbastanza. Del nuovo si sa poco: il titolo innanzitutto A Sangue Freddo, poi gli ospiti (Giovanni Ferliga, Nicola Manzan, Jacopo Battaglia), alcune caratteristiche tecniche (dove e come è stato registrato e mixato) e poco altro… ci vuoi suggerire qualcosa? Abbiamo registrato alle Officine Meccaniche di Milano, nella sala A, che è una delle sale di registrazione più belle d’Italia, che da la possibilità di fare delle riprese in diretta di ottima qualità. Volevamo registrare tutto in analogico, con solo qualche add in digitale, poi le cose però non sono andate così lisce come speravamo, e quindi abbiamo optato per un ibrido: le batterie e il basso sono su nastro e tutto il resto in digitale: i due sistemi sono linkati assieme, permettendo così di mantenere le ritmiche “vive” su nastro, e avere un editing più preciso su voce e chitarre. Per quanto riguarda gli ospiti, abbiamo chiamato i nostri amici di sempre, a fare qualche apparizione qua e là: c’è un pezzo in cui Jacopo degli Zu suona la batteria assieme a Franz, in cui i fratelli Tiso suonano cristallofono e basso, il primo pezzo del disco, Io ti aspetto, vede la collaborazione in fase di scrittura di Paola Segnana, che suona il piano Abbiamo cercato di fare un disco più poliedrico dell’altro, con più soluzioni, dall’elettronica alla classica, al rumore. Quello che suoniamo è quello che vogliamo suonare: per dirtene una, un pezzo che non ci piaceva com’era venuto, l’abbiamo fatto remixare a Bob Rifo, mente e mannaia dei Bloody Beetroots oltre che amico di vecchia data, che ha dato al pezzo una vena quasi dance-electro, mantenendo comunque l’idea di fondo. Il pezzo si allontana moltissimo dall’idea che la gente ha di noi, e questo ci piace perché non crediamo molto nei generi ma nelle persone, il resto è fuffa, o come mi suggeriscono, noia! Comunque quello che vi dovete aspettare, è un disco nuovo del Teatro Degli Orrori. Di sicuro è meno graffiante dal punto di vista sonoro: ha meno impatto e come dire, ci sono meno pezzi “cattivi”. Questo forse farà storcere il naso ai nostri fan più metallari e incazzosi, ma fondamentalmente io e Paolo siamo un arrivati a un punto di svolta: chi vede il teatro solo come una italiana copia di Jesus Lizard o Melvins, si dovrà ricredere perché noi ascoltiamo moltissima altra musica. Io e Pierpaolo di dischi noise che aprono culi e orecchie ne abbiamo fatti almeno 5 per cui, se il tiro cambia un po’, siamo solo che contenti. Con questo non voglio dire che abbiamo fatto un disco pop, ma sicuramente è accessibile a un pubblico più ampio. Poi per carità chi ha voglia di farsi del male alle orecchie venga a vederci dal vivo, di sicuro troverà quello che cerca. Dell’Impero Delle Tenebre colpiva per il potenziale strumentale ma soprattutto per i rimandi letterari. A Sangue Freddo, sin dal titolo, non sembra essere da meno. Cosa ci ha riservato Pierpaolo e le sue liriche? È sempre lui a occuparsi dell’aspetto letterario del Teatro? La voce del gruppo è sicuramente sempre lui. Direi che in questo disco le tematiche affrontate si sono ampliate: è un disco molto più diretto e politico del precedente, con nomi e cognomi, e indici puntati verso persone e situazioni che rendono questo mondo uno dei mondi peggiori di sempre, in cui razzismo, ignoranza, disonestà intellettuale e una quantomeno sbalorditiva apatia nei confronti dei soprusi ricevuti super el astic bubble pl astic e inflitti, regnano sovrane. Si parla di immigrazione, speculazione ecologica ai danni di comunità inermi, di degrado culturale, di uxoricidio. Insomma, come dicono a Milano, “è bello spèsso”. Altra cosa che abbiamo deciso di fare è che oltre a parlare di determinati argomenti, abbiamo deciso di “fare” qualcosa, supportando “A_SUD”, un’associazione indipendente nata per affiancare i movimenti sociali e indigeni del Sud del mondo attraverso la costruzione di ponti di comprensione, reciproco sostegno e solidarietà: metà dei proventi della vendita del singolo di A Sangue Freddo su iTunes, andranno a questa associazione. Non si può rimanere inermi a guardare il mondo che va allo sfascio, senza nemmeno tentare di rendere le cose un po’ più facili a chi soffre sul serio, non perché è stato lasciato dalla ragazza o ha perso il cellulare, o perché non l’hanno accettato al “grande fratello”. Nel disco si parla anche di amore, come mezzo narrativo per raccontare altre storie: alla base della vita di ogni persona o quasi c’è la convivenza diretta con persone che si amano e che sono molto spesso quelle che vengono meno considerate: l’amore non è fatto solo di baci e carezze o liti e divorzi, ma anche di situazioni di stallo in cui, per mille motivi, si convive senza più parlarsi, capirsi e osservarsi, come in un limbo di desolazione. DROP OUT 45 © MarkusSottoCorona Vuoi presentarci la tracklist del nuovo album? Non so, qualche aneddoto, qualche curiosità... Per quanto riguarda aneddoti e curiosità non saprei bene cosa raccontarti…non è successo granché se non che abbiamo lavorato incessantemente per più di trenta giorni, almeno 10 ore al giorno, e ancora ce ne sarebbero volute. Ne è uscito un disco diverso dal precedente, più intenso e musicato e sicuramente più profondo e meno derivativo. E poi scusa, ma dove lo trovate un gruppo che mette in musica “il padre nostro”??? Mi sembra una ragione sufficiente, visto che non siamo un gruppo “White rock” e nemmeno il Gen Rosso… Il Teatro è un punto di riferimento ormai consolidato, come dimostrano le date sold out a distanza di 2 anni dall’uscita del disco. Come vivete questo ruolo di trait d’union tra un passato carbonaro e appassionato (pensiamo a ODM) e questo doveroso riconoscimento (anche) del pubblico? L'aspetto più bello dell'affluenza di massa ai nostri concerti, è l'amore per quello che facciamo. Difficilmente qualcuno se ne va insoddisfatto e anche perché sa esattamente cosa troverà: quattro matti 46 DROP OUT che ci danno a più non posso, al 101%. E questo facendo un gran baccano, non certo finta di essere qualcun’altro o accontentando i rilevatori di decibels. C’è di bello che il pubblico partecipa in prima persona, cantando i pezzi e ballando. Diamo quel “nonsoche” che si è perso negl’ultimi anni, suonando rock, come lo abbiamo visto fare ai nostri eroi, e cioè non sculettando e ammiccando, ma mettendoci anima, ossa, sangue e sudore. La gente lo adora, perché ormai è praticamente subissata da playbacks e falsi artisti. Poi l’italiano conta. Chi ti sta guardando negl’occhi durante il concerto capisce che quello che stai dicendo, lo stai pensando, e non recitando. Paolo parla dritto al cuore e senza fronzoli. La gente apprezza la “veridicità”: si vede che siamo gente comune, che lavora 40 ore a settimana, da anni e che suona per passione, e urgenza emotiva. Sulle tue capacità in cabina di regia non ci sono dubbi, e non a caso sei tu il produttore di A Sangue Freddo. Si parla di scelta analogica, vintage alla moda o ricerca di un suono più caldo, umano, passionale e appassionato? L’analogico suona meglio. Fine. Suona retorico e non ho voglia di spiegare perché. Ognuno dovrebbe fare un percorso e uno studio. Certo, il digitale aiuta, è © Daniele Bianchi comodo ed economico ma non ha nulla a che vedere con l’espressività e la qualità.A tutt’ora il formato digitale migliore al mondo, ancora non utilizzato in modo “popolare”, è il DSD o SuperAudioCD, superiore in qualità e profondità al cd, non è nemmeno paragonabile col suo fratello analogico, ovvero il nastro stereo da mezzo pollice. Il nastro Suona. Il DSD si sente bene. Al contrario del digitale l’analogico invita all’ascolto, il digitale stanca per mancanza di espressione. Sono solo numeri non onde. E tra le onde e i numeri c’è una bella differenza… Di Dell’Impero Delle Tenebre mi colpì ovviamente l’eccellente perizia strumentale e la forza trainante delle liriche. Ma c’era a segnare quel disco anche lo spessore dei suoni, una grana americana... Di certo quella produzione risente dei nostri gusti. Dell’Impero Delle Tenebre suona più come un disco di One Dimensional Man che come un disco del Teatro degli Orrori, per il semplice fatto che da qualcosa bisogna pur partire. Abbiamo messo su disco quello che siamo dal vivo, ruvidi e granitici. L'americanità deriva dalla mia vicinanza a band che cercavano quel tipo di suoni che, per dirla breve, sono anche quelli che di solito escono dagl’amplificatori, se uno usasse un po’ le orecchie. La produzione di A Sangue Freddo è sicuramente più omogenea. La grana americana poi non mi interessa più, preferisco gli inglesi. L’esperienza ODM è stata fondamentale per il Teatro, mi sembra di notare una sottile linea rossa, un percorso giunto a compimento. è un'evoluzione possibile, non l’unica, anche perché gli ODM non sono ancora sciolti. Possibile che in futuro avremo un nuovo One Dimensional Man che suona come quello del Teatro. Anche se per il futuro speriamo di fare cose diverse, tipo un disco in inglese. Oppure da camera. Mi piace pensare che quello che facciamo sia quello che siamo e - grazie a dio, o al demonio - non siamo a una dimensione. La specializzazione è una cosa da insetti: un uomo dovrebbe essere in grado di fare qualsiasi cosa, diceva un tizio… DROP OUT 47 Recensioni::::ottobre:: ►►►► 7 Worlds Collide - The Sun Come Out (Columbia Records, Settembre 2009) G enere : pop rock 7 Worlds Collide atto secondo. A distanza di otto anni dal precedente che era un live, la compagnia messa in piedi da Neil Finn ritorna con un doppio album in studio, che accanto ai nomi già presenti allora (Johnny Marr, Ed O’Brien, Phil Selway, Lisa Germano…) presenta una serie di new entry, che vanno dai Wilco a KT Tunstall e Liam Finn. Il cuore del gruppo è sempre il neozelandese Finn, artefice anche in proprio, oltre che con gli storici Crowded House di un artigianato pop di alto livello. Qui coordina e compartecipa, riuscendo a mantenere uno standard di qualità e un amalgama anche con i nuovi entrati. Una messe di pezzi, che vedono tra gli altri Jeff Tweedy e Johnny Marr in mood beatlesiano, anzi harrisoniano (You Never Know, Run In The Dust), Finn tra R.E.M. e jingle jangle (All Comedians) e pop d’autore mostrando nel complesso una buona tenuta a fronte di una certa lunghezza. Con l’unica eccezione di Lisa Germano, che rispolvera la sua Reptile svogliatamente e senza mordente. Proventi in beneficenza.(7/10) Teresa Greco ?Alos - ricamatrici (Bar La Muerte, Ottobre 2009) G enere : A vant -R ock Dopo la parentesi culinaria di Ricordi indelebili, sfociata nelle numerose performance che hanno visto protagonista (ai fornelli) Stefania Pedretti sui palchi di mezza penisola, ?ALOS, alterego psicotico della enigmatica artista lombarda, imbastisce una sorta di concept-album sul taglio e cucito. Attività ordinaria che si trasfigura, come sempre da queste 48 recensioni parti, in esperienza surreale e, esercizio di socialità i cui gesti e comportamenti altamente standardizzati si trasformano negli elementi primari di un universo autarchico e inclusivo fruibile solo da pochi (selezionati) intimi. Ci si ritrova così catapultati in situazioni e ambienti da teatro dell'assurdo, tra autistiche nenie alla Diamanda Galás (Ricami, Punto Lacrima), deliziosi stacchetti da pianobar oltretombale (Un Giorno), ritratti sonori a pennellate ampie di scenari post-atomici (Tulle) o, viceversa, di luoghi confortevoli e familiari che tutto hanno perso in fatto di affabilità e calore umano. Gli oggetti ordinari, le cui familiari movenze appaiono decontestualizzate nei deliziosi quadretti sonori che si alternano agli episodi più lunghi, finiscono così per essere i veri protagonisti di un disco - di una carriera artistica - che è un inno (stonato) alla bellezza nascosta delle piccole cose.(6.3/10) Vincenzo Santarcangelo A.A. Bondy - When the devil's loose (Fat Possum, Ottobre 2009) G enere : (M is sis sipi ) F olk -R ock August Arthur Bondy, insieme a talaltri quali Justin Townes Earle, J. Tillman, Sam Amidon, Phosporescent, Little Wings, appartiene a quella generazione di musicisti che sono comparsi quando Will Oldham era già Bonnie “Prince” Billy. Esordiva con American hearts, dopo lo scioglimento dei suoi Verbena (Dave Grohl produsse il loro debutto nel 1999) facendosi portavoce di un revival dylaniano della desolazione e ora tasferitosi nel Mississipi, dopo una parentesi a New York, tenta nuovamente la ricostruzione di un gruppo. Registrato nella Water Valley, con l'intenzione di documentare il Sud, e richiamandosi al Mississipi come vocazione, Bondy riprende il crooning dal fronte senza manco sfiorare il South di Carson McCullers o Flannery O'Connor, quello di Richard Buckner di The Hill. La sua Water Valley, a confronto con questi luoghi spettrali somiglia a Miami! Per uno strano scherzo del caso la sua voce ha qualcosa di Will Oldham, ma il songwriting è piatto highlight AA. VV. - Hyperdub 5: Five Years Of Hyperdub (Hyperdub Records, Ottobre 2009) G enere : compil ation dubstep ambientronica wonky Sarà anche spocchioso con il suo nascondersi alla stampa, ma Kode 9 è indiscutibilmente un talent scout e un produttore di valore. La sua Hyperdub è una delle etichette che ha contribuito a diffondere il verbo dubstep e la sua mutazione wonky. E son già 5 anni che il nostro buon vecchio DJ cavalca l'onda. In questo doppio discone c'è un riassunto di tutto quello che è successo: dalle paludi nere del dubstep (Burial e lo stesso Kode 9 con il suo inno 9 Samurai) alle sale giochi del wonky-techno (Megadrive Generation di Martyn) o 8 bit (l'ormai imprescindibile Zomby o la nuova leva Joker) che dir si voglia, dal ragga di The Bug (bello il feat. di Warrior Queen su Money Honey) agli innesti post-tutto di Flying Lotus (Disco Balls). E poi ancora l'ambient di King Midas Sound, il post-banghra di Rustie nell'ormai classico Spliff Dub per Zomby e le visioni acide di Quarta 330. Riassumere in 30 tracce la scossa che stiamo ancora subendo non è facile. In poco più di due ore ci si può fare un'idea di cosa si balla a East London ai party più nerd del pianeta. Che sia poi una subcultura underground, chissenefrega. A noi piace così e anche se non siamo lì fisicamente, grazie a questi documenti possiamo fare il punto della situazione e seguire l'onda. Keep on running, Hyperdub!(7.5/10) Marco Braggion e univoco e l'insieme del disco passatista e privo di spunti interessanti.(5/10) Salvatore Borrelli AA. VV. - Rocksteady: The Roots Of Reggae (Moll-Selekta, Settembre 2009) G enere : rocksteady Una storia un poco alla Buena Vista Social Club, quella dietro il presente disco: Stascha Bader è un regista svizzero laureatosi in musica giamaicana che in testa s’è messo l’idea meravigliosa di girare una pellicola sulla stagione fondamentale di passaggio tra ska e reggae. Ovvero quel rocksteady che, complice un’estate più torrida dell’usuale, finiva per rallentare la frenetica battuta in levare mantenendo salde le radici e l’influenza del rhythm & blues, nel frattempo allargando le tematiche dei testi al commento sociale.Il peggiorare delle condizioni economiche sull’isola e la coeva visita di Haile Selassie avrebbero poco dopo aumentato la coscienza in chiave “roots” e condotto - tramite un secondo, più drastico rallentamento ritmico - al reggae. Correva la seconda metà degli anni ’60, e la cosiddetta “class of 66-68” si è ritrovata quasi al completo nell’aprile del 2008 in uno studio di Kingston a rileggere classici conclamati del genere intanto che la cinepresa immortalava l’avvenimento. In attesa di poter un domani gustare le immagini, vede la luce la relativa colonna sonora con i brani regirecensioni 49 strati sotto la supervisione di Ernest Ranglin e gli arrangiamenti curati da Lynn Taitt. Quindici canzoni che è scontato definire “storiche” e un’ora di festa, da U-Roy che va di scioglilingua su Stop That Train alle arcinote e giammai usurate You Don't Love Me (No, No, No) e Rivers Of Babylon (rispettivamente: Dawn Penn e, per l’occasione, Hopeton Lewis). Marcia Griffiths si riappropria di quella Tide Is High che i più ricorderanno successone dei Blondie e ancora Lewis ci ricorda che è una questione di Sounds & Pressure. Un piacere, poi, ritrovare Ken Boothe in ottima forma su Freedom Street e Shanty Town (007) e lo stesso valga per Leroy Sibbles, alle prese con la programmatica People Rocksteady e l’impegnata Equal Rights. Roba che rende la più grigia delle giornate un rutilante caleidoscopio fin dai tempi in cui apparve per la prima volta, figuriamoci oggi. Che, nello specifico dell’operazione, lascia ammirati e commossi.(7.2/10) Giancarlo Turra AA. VV. - I/D/V 01-I/D/V 02 (Unframed, Maggio 2009) G enere : drones Due volumi, per la precisione due 7”, particolarmente curati per formato ed in edizione limitata. A I/D/V 01 le sequenze più droniche, i microtoni e i rumorismi, mentre a I/D/V 02 i barlumi d’elettroacustica. Il tutto dato in pasto a dodici artisti, tre tracce per ognuno e un paio di giradischi o una chitarra (dodici corde, acusita o elettrica) come unici strumenti permessi. Annette Krebs, DIEB13, Giuseppe Ielasi, e Koen Holtkamp i nomi più noti tra quelli coninvolti e agli ultimi due sicuramente il meriti maggiori. La soluzione all'estremità la trova Koen Holtkamp nella selezione di corde o Giuseppe Ielasi nella sua dialettica di precisione tra nuance elettroniche e pizzicato. Tutto sta nel controllo, nel'approccio e nella conoscenza dello strumento ma nonostante queste poche astute prove d'elettroacustica il limite dell'operazione c'è e viene da sé: nel solo minuto concesso a ogni traccia (e due di silenzio) e nel risultato che 50 recensioni non può che soffire di una certa disorganicità e peggio casualità. D'accordo il concetto, ma ci vuole anche un po' di sostanza.(5.5/10) Sara Bracco AA. VV. - Warp 20 (Chosen) (Warp Records, Ottobre 2009) G enere : compil ation W arp Per celebrare l'anniversario della label di Sheffield, i capocchia hanno fatto le cose in grande. Nuovo sito, nuovo negozio, nuova compilation. Ma cosa metterci dentro? Invece d'optare per una compilazione dall'alto, si lascia decidere al popolo dei fan tramite il sito: venticinque tracce per descrivere vent'anni d'attività. Nella scatola i nomi classici a farla da padrone. La trasfigurazione pop-soul (in chip e cuts) che da solo potrebbe descrivere tutta l'attività Warp è Windowlicker di Aphex Twin; poi c'è la mitologia evil UFO dei Boards Of Canada (Roygbiv), l'incursione nel math-rock dei recenti Battles (Atlas), il bbreaking del primo Squarepusher (My Red Hot Car), la bleep and bass degli LFO (nell'omonimo e per chi scrive storico Leeds Warehouse Mix), il melo dei Plaid (Eyen), lo houmor kitch Kraftwerk virato aceeed della I Love Acid di Luke Vibert, lo sfoggio hypertechno dei sempre affascinanti snob Autechre (Gantz Graf), le bombe contro il rock dei !!! (Me And Giuliani Down By The School Yard) e tanto altro. Non sarà completa, magari a qualcuno non va giù la scaletta, ma su un catalogo sterminato, bisognava pur tagliare. E a noi sembra che l'idea di far scegliere ai fan abbia premiato. Ah, non avevamo detto che di compilation ce n'è pure un'altra, Warp 20 (Recreated)(7.5/10) Marco Braggion AA. VV. - Warp 20 (Recreated) (Warp Records, Ottobre 2009) G enere : compil ation remix W arp Se con la scelta dei fan - nella compilation parallela Warp 20 (Chosen) - i guru della Warp non si erano più di tanto sbizzarriti, con quest'altra doppia provano a fare il botto. Chiamano una rappresentanza più o meno giovane dal roaster e raccolgono dei remix di pezzi del canone del suono electro inglese. Operazione riuscita? Solo in parte, anche se l'idea non è poi così peregrina. In fondo, ricostruire tutte le facce del suono Warp è impresa ostica e perfettibile ad libitum. Il limite è quindi insito nella compila, che va dal jazzfunk di Jimi Tenor al rock dei Maxïmo Park, dal bel wonky di Rustie al bbreaking di Luke Vibert (che rifà in slo-mo l'inno LFO e con semplicità ci apre una porta sull'origine della techno inglese), dal d'n'b tiratissimo di Clark all'ambient di Mark Pritchard, dal post dei Seefeel al folk di Bibio. E altri ancora... Per i novizi un onore, per i vecchietti un riconoscimento. Per i fan uno sfizio, per tutti gli altri una curiosità.(6.5/10) Marco Braggion AA.VV. - Eric Clapton Salute: I Feel Free (BHP Music, Giugno 2009) G enere : bogus rock Su Eric Clapton andrebbe infine fatta chiarezza: eterno santino per legioni di chitarristi della domenica e improvvisati rokkettari provinciali, “manolenta” ha dato il meglio con i Bluesbreakers, gli Yardbirds e Derek & The Dominoes. Già i Cream ponevano problemi: bravini quando si davano alle canzoni stringate sbiancando il blues, restavano al palo con le loro interminabili tirate strumentali che annunciavano il prog. Volergli male fino in fondo dunque non si può, ma il loro ruolo nelle enciclopedie del rock è da ridimensionare. Degli inverecondi Blind Faith meglio non parlare, e quanto al Clapton dei ’70, al pari di altri figure coeve incarna per chi scrive quell’autocompiaciuto, retrivo soft rock che il punk avrebbe giustamente massacrato. Eppure, a fronte di un triste bagaglio di sventure umane, finisce che dare addosso a costui è come parlar male di Madre Teresa. Quando però il business lo introduce tre volte nella “Rock And Roll Hall Of Fame”, qualcosa di storto deve esserci; idem se “Rolling Stone“ lo piazza quarto dei “100 Migliori Chitarristi Di Sempre” e qualcuno gli tributa omaggi come questo. Che secondo logica è una prevedibile parata di virtuosi hi-fi tutti tecnica e zero comunicativa. Salvi giusto un BB King del ’63 alle prese con How Blue Can You Get, bonus track inserita per mostrare una delle radici del suono claptoniano. Il resto sono immonde seghe di gentaglia da mettere al muro per l’idea di musica che porta avanti. Che vita di m***a. (2/10) Giancarlo Turra Air - Love 2 (EMI, Ottobre 2009) G enere : electro pop Quinto album per la (giustamente) premiata ditta Godin & Dunckel, a quasi tre lustri da quegli esordi poi raccolti nel mai abbastanza celebrato Premiers Symptômes. Raccolta che vale la pena di citare quale pietra di paragone con questo Love 2, perché se gli elementi in gioco e la calligrafia denunciano una sostanziale continuità (al netto degli inevitabili assestamenti e sviluppi), è il mood, il respiro, l'effetto che segna la differenza sostanziale. Se nei primi lavori targati Air letteralmente ti perdevi, finivi assorbito nel loro ventre amniotico fatto di nostalgie valvolari e vibrazioni terra-aria, in quel gioco di memorie suadenti che stemperavano i limiti scodellandoti possibilità cosmiche tra le danze soffuse, l'ultima fatica sembra invece una stanza dei giochi anzi un "tappeto attività" come quello per i pargoli, coi campanellini, gli anelli, gli ssqueak, gli specchietti, le superfici ruvide e quelle soffici... Ti ritrovi insomma in una zona franca ben delimitata, nella quale non avviene mai quella "sospensione della finitezza" che invece per incanto pervadeva i primi sintomi e gran parte del Moon Safari. E dunque? Il buon artigianato con tanto di marchio di fabbrica quale decorso ineluttabile dell'arte, che nel tempo e col tempo esaurisce le scorte di poesia? Sì, forse. In fin dei conti, ci può stare. Ci si può stare. I qui presenti undici pezzi compongono difatti e comunque un buon passatempo per superfanciulli evoluti, a partire dal singolo Sing Sang Sung che lalleggia docile come dei Beatles neutralizzati da raggi gamma Lio, proseguendo poi tra languori esotici e febbrili, tra mischie capricciose dove indovini i profili di Moroder e Gainsbourg (Heaven's Light), per poi bazzicare certi tribal funk che recuperano didascalizzandola la lezione dei Talking Heads altezza Fear Of Music (Night Hunter) e quindi rendere omaggio alla vis cinematica del Jarre di Blade Runner (Tropical Disease, You Can Tell It To Everybody). A rendere prezioso il manufatto contribuisce la versatilità della scaletta, nelle cui svolte conserva lucidità e arguzia, vedi con quale brillantezza passa dal surf trasfigurato space-glam di Be A Bee (figuratevi dei Daft Punk materializzati sul set di Tarantino in una nebbiolina Visage) al passo funk vischioso, recensioni 51 robotico e volatile di Missing The Light Of The Day (che ci annusi evidenti influssi Japan), per poi svoltare dalle parti di un soul torrido e svampito tutto synth e wah wah, essenziale sì ma deliziosamente appiccicoso (So Light Is Her Footfall). Così, evitando programmaticamente di cimentarsi in un disco epocale - eventualità sempre meno attuale, preso atto della progressiva obsolescenza del concetto stesso di album - gli Air ci consegnano un disco adattissimo alla nostra epoca di adulti giocherelloni. Disperatamente votati ad ingannare il tempo e se stessi. Anche questa è (può essere) arte. No?(6.4/10) Stefano Solventi Albanopower - Maria's Day (42, Maggio 2009) G enere : indie psych - pop Li abbiamo visti dal vivo a Ypsigrock 2009 e, vista la performance, non ci poteva essere presentazione migliore. Con consapevole colpevole ritardo andiamo adesso a recuperare il loro esordio su LP. Gli Albanopower sono siciliani, di Siracusa, e fanno praticamente pop psichedelico. Per declinare questo 'psichedelico' ci mettono dentro intrecci chitarristici tra il ricordo folk e il post, certa new wave (nel senso degli accordini funky) e certi modi propriamente indie di trattare la forma canzone (c'è forse qualcosina degli Yuppie Flu). Il tutto su una solida base pop, con tutto quello che questo termine si porta dietro quando si tratta di roba buona: solidità strutturale e cura dell'arrangiamento. La loro vena melodica è sorprendentemente fresca (e Old Tv per un nanosecondo ricorda Basket Case), forte di influssi addirittura fifties (e vedii i fischiettii e i battimani). Vena vivace ma non allegra a tutti i costi, impregnata anzi di una melanconia che loro definiscono natalizia (e vedi la sinistra Santa's Elves), ma che noi troviamo perfetta come settembrina: estate che finisce e tramonti color miele e arancio. Goiellino assoluto Merry Christmas Darling, un singolo come ne vorremmo sentire più spesso, con quell'apertura dell'inciso da lacrime & sorrisi. Un paio di riempitivi, quindi, glieli si perdonano alla grande. Uno degli esordi italiani del 2009.(7.2/10) Gabriele Marino Alice In Chains - Black Gives Way to Blue (Virgin, Ottobre 2009) G enere : P ost -G runge Bastano le prime strofe di All Secrets Known per saggiare il polso del ritorno dei Chains (Hope, / A new 52 recensioni beginning / Time, / Time to start living / Like just before we died), gruppo con gli “attributi” e branco di dive riluttanti (o paranoiche) allora come oggi. E ci vuole fegato per tornare dopo quattordici anni senza Layne Staley. Black gives way to blue segna un come back monolitico, che concede alla melodia la solita distanza e che non ha nessuna intenzione di suonare grunge. E tanta sicumera funziona, anche per un William Duvall chiamato a sostituire il compianto frontman e messo a proprio agio da Jerry Cantrell che intrecciando le voci ha così amalgamato un sound credibile. E dietro il lungo silenzio si è anche mosso qualcosa: A Looking In View è un mastondote di oltre sette minuti farcito di un rifferama claustrofobico e inseguimenti vocali. Un album per fan, ma anche una tracklist rock fatta come si deve.(7.3/10) Nicolas Campagnari Amanda Blank - I Love You (Downtown, Ottobre 2009) G enere : H ip H op - E lectrocl ash Messasi in luce rappando ospite nei dischi del giro di Spank Rock e dintorni e finita persino in un remix di Britney Spears, la rapper di Philadelphia giunge all'esordio solista chiamando dietro la consolle gli amici Diplo & Switch, Dave Sitek dei TV On The Radio e XXXchange dei suddetti Spank. Come prevedibile abbiamo un hip hop virato Peaches, una via di mezzo tra (o una somma di) un gangsta e la più sfacciata delle elettroclashers (vedi ad es. Gimme What You Got e Someting Bigger, Something Better con tanto di urletti alla Jacko) e una romanticona (nella title-track). Tra i pezzi in cui canta tout court (la visita agli anni '80 della blondiana DJ o l'eterea Leaving You Behind) e quelli in cui sciorina fluida le rime (in particolare in Make It Take It, con bpm rock'n'roll più che hip hop) Amanda segna i suoi punti, ma ancora siamo lontani da una via S.U.A....(6.6/10) Giulio Pasquali Amari - Poweri (Riot Maker, Ottobre 2009) G enere : amazing disco funk Passata la vena intimista delle Scimmie d'amore (disco insuperabile) gli Amari raccontano la generazione X dall'angolazione più cazzona dell'electrofunk che ha sulle spalle gli occhialoni da sole di Giorgetto Moroder, un senso pop trash da sempre marchio dell'estetica di casa Riotmaker e il tocco hip-hop dell'ingombrante e pervasivo Dargen D'Amico. Quello che viene fuori da questo Poweri è la voglia di essere gruppo. Una cosa che ultimamente si è persa nella fighetteria next big thing indie e che gli Amari hanno saputo far crescere spaccandosi il culo con il live. E quindi anche se c'è una leggerezza pop che aleggia e in qualche punto incombe, i ragazzi sono ancora lì che sanno quello che fanno. Stavolta si divertono. Sempre con lo stile che li contraddistingue: bbreak punk citazionista (Girls On Vodka), poppettino con synth 80 (Preservativi Ovunque, Acqua di Joe) e white funk in levare (Gli anni dei monitor accesi). In più la documentazione straniata del quotidiano (Dovresti dormire, Un altro giro attorno a casa, il ricordo del manager nella nebbia in Cronaca Vera), le spolveratine emo (Tiger) e gli sconfinamenti nell'uptempo funk (bello il crescendo prog di Your Kisses). Non c'è da strapparsi i capelli, non c'è il pezzone che sbanca, ma probabilmente la ricetta per uscire dal tunnel degli anni 00 è questa: un'amalgama che come nel miglior Beck/Bugo ti lascia lì a goderti la musica. E basta. (6.5/10) Marco Braggion Andrew Morgan - Please Kid, Remember (Broken Horse Records, Ottobre 2009) G enere : C hamber pop Please Kid, Remember è il ritorno del misconosciuto Andrew Morgan, songwriter e arrangiatore chamber pop che i più attenti avranno conosciuto con Misadventures in Radiology, pubblicato sei anni orsono (e ristampato dall'etichetta di Sonic Boom nel 2005). E se sono passati anni da un esordio noto soprattutto per il contorno di tragedie che si portò appresso (la morte del sostenitore Elliott Smith che gli prestò il suo studio - il New Monkey a Los Angeles - e un tornado che quasi si portò via lui e l’udito), le vicessitudini che caratterizzano il sophomore di cui vi parleremo non sono certo state lusinghiere. Altri brutti fattacci hanno costellato la già triste biografia del cantante: un’allergia che gli paralizza per tre mesi le corde vocali (!), povertà, debiti, pene d’amore che neppure li consideriamo problemi in confronto ad altre morti che gli accadono (un amico si suicida) e alla pazzia che nel frattempo gli cresce come l'acqua sotto i piedi (un altro viene sbattuto in un istituto stile Hugo di Lost). Morgan rischia seriamente di non farcela. Le registrazioni dell'album, tra Chicago e Kansas, subiscono ritardi e fermi interminabili e una prima versione delle tracks viene gettata alle ortiche. Troppi fantasmi nella testa e troppa l’ansia di non essere all’altezza del secondo capitolo di un opera sulla pazzia che ad ogni modo vede la luce ora cogliendo tutti di sorpresa. Date le premesse, l'attesa per un nuovo Nick Drake, Tim Buckley e soprattutto Elliott Smith è sicuramente alta e il packaging che spinge al massimo l'effetto reliquario va sicuramente a fomentare un supposto capolavoro quale Please Kid non è e non sarà. Avere sfiga non significa partorire pietre miliari perché se ogni capolavoro sulla pazzia è fatto soprattutto di difetti, imperfezioni, discontinuità e sfaccettature anche infinitesimali (Daniel Johnston ti amiamo per quello),Andrew di scoperchiare i propri demoni proprio non ne vuol sentir parlare, anzi, imbottito di chissà quante pillole, canta ogni canzone allo stesso modo, producendo in chi ascolta un’assuefazione tremenda. Immaginatevi un maelstrom di chitarre 12 corde, bassi di diversa accordatura, piano, harpsichord, archi e arpe, corni vari, timpani, glockenspiel, harmonium e ancora, chitarre elettriche, shackers, battiti di mani, un coro femminile, tamburelli e chi ne ha più ne metta, rovinati da una produzione tremendamente ovattata e cristallizzante, da una parte, e un cantare serafico, egocentrico, dandy e nichilista che ti conduce ogni melodia con il medesimo fare sussurrante e serafico dall'altra. Presumibilmente convinto che il passato gli dia delle licenze (impossibili), l'aspetto più irritante delle brevi composizioni è la pretesa di trasformare in oro una medesima strategia canora/arrangiativa che da sola già non si tiene e - peggio - non comunica arte ma compiacimento. E pare che il Nostro abbia già in mente il prossimo disco. Si chiamerà Grey Light of the Season. Se una lucidità maggiore e un produttore di peso gli porteranno consiglio, potremmo forse sperare in recensioni 53 un disco di canzoni e non in un fantasmino di Elliott Smith sotto formalina.(4.5/10) Edoardo Bridda Andrew WK - 55 Cadillac (Skyscraper Music Maker, Settembre 2009) G enere : weird man cl as sical piano Anni fa, su una rivista di musica per i giovani, avevamo beccato un servizione con foto splash-page di pogo mitologici (legnate a mai finire ma tutti col sorriso stampato in faccia) e intervista a questa specie di guru del casinarismo che dichiarava cose come: «Non importa se è sangue, sudore, piscio o sperma: basta che alla fine della festa tu sia bagnato fradicio!». Era Andrew WK, nella sua epifania più classica di (finto) autolesionista hard-poppettaro ottusissimo (musicalmente parlando). Era il 2001, e lui presentava il suo debutto I Get Wet, due tonnellate di riff di chitarra, un po' di tastiera e melodie tipo Aqua, un disco tanto brutto da essere un vero spasso (e un culto): il fascino dell'orrido. Che se ci fosse (più?) ironia sarebbe un gioiello del demenziale. Ci è, ci fa? Andrew, negli anni, si è poi dimostrato tutto tranne che ottuso, e guru lo è diventato sul serio: personaggio mediatico USA a 360 gradi e "motivatore" new age, di quelli che fanno le serate nei teatri e ti dicono «Tu ce la puoi fare!». Arriva adesso al quinto album (ma di dischi ne ha fatti molti di più, ad esempio due di sole cover di pezzi giapponesi) e inaugura una label tutta sua. Su vinile il disco glielo stampa nientemeno che Thurston Moore, con la sua Ecstatic Peace, e allora viene il dubbio. Saranno le solite robe? Andrew, che ha studiato il piano fin da piccolissimo, ha fatto un disco piano solo. Composizioni estemporanee catturate in una session di due ore, ipnotizzato, dice lui, dalla somiglianza tra lo Steinway che aveva sotto le dita e la Cadillac parcheggiata lì fuori, sorta di totem notturno che lo ha ispirato, pezzo di modernariato appartenuto, dice sempre lui, ad uno degli "architetti" della Guerra Fredda. Espressione perplessa. Ma rientra nel personaggio. Sono pezzi per piano solo, introdotti da cicaleggi (che fanno tanto notte nella suburbia) e rumori di auto, e variano dall'iniziale sfogo in ondose iterazioni figlie del minimalismo (versante Charlemagne Palestine), a incursioni nel rag, ballad-jazzie, pop dei tempi che furono, notturni, ricordi di colonne sonore e della classica che ha studiato, qualche toc54 recensioni co free-casinista. Non si smentisce Andrew nel finale, non si trattiene, e ci appiccica sopra schitarrate ed effettacci vari, chiudendo tutto con una specie di "Cadillac-Om". Anche se non è impeccabile, Andrew sa suonare, e ci sono momenti compiuti (altri invece sono proprio incompiuti, troppo "di palo in frasca"), altri ancora sono divertenti, altri semplicemente piacevoli come sottofondo. Ma è proprio il senso della cosa, almeno fuori dalla sua filosofia dello sfogo a tutto i costi, soltanto declinata in maniera diversa dal solito, che sfugge al non iniziato. Bravo per l'effetto sorpresa.(5.8/10) Gabriele Marino Antlers (The) - Hospice (Frenchkiss Records, Settembre 2009) G enere : indierock Dietro gli Antlers e Hospice c'è una storia sofferta e strappalacrime, c'è il passaparola e soprattutto c'è l'eco di Pitchfork. La cronaca è simile a quella di Bon Iver: il giovane newyorkese Peter Silberman entra in crisi isolandosi dal mondo per poi riemergere dalle tenebre con una manciata di canzoni catartiche. E con l'aiuto in fase di registrazione di due fidi musicisti, prende così vita il debutto discografico degli Antlers. Un concept album sui "dolori del giovane Silberman", che va a toccare temi difficili come la fragilità della vita e la malattia terminale. Il paragone più vicino è quello con Funeral degli Arcade Fire, e quando i volumi si alzano è ancora la band canadese ad essere evocata anche musicalmente. Perché la maggior parte di queste dieci tracce si muove invece sommessa e dilatata su riverberi shoegaze e ambient, in cui la voce plana eterea alla stregua di un Antony spettrale e nervoso. Dietro ogni singolo episodio c'è sempre una tensione rumorosamente trattenuta a far da filigrana, che viene però fatta rilucere dalle immancabili aperture pop vocali, messe qua e là. Questo è proprio il merito di Hospice: risultare simultaneamente ostico e accessibile, sofferto e conciliante. Non un disco perfetto, ma estremamente coraggioso che, a parte gli incensamenti eccessivi, non si dimenticherà facilmente.(7.2/10) Andrea Provinciali highlight Gianluca Petrella/Cosmic Band - Coming Tomorrow - Part One (Egea, Ottobre 2009) G enere : jazz cros sover Non saranno dei mostri, non avranno il sacro fuoco, la radice black ereditata nella culla, però spesso i jazzisti italiani possiedono quella certa irriverenza scentrata, entusiasta e avventata che rende effervescente la loro proposta, qualità che spesso fa difetto a molti "mostri" nonché "sacri" d'oltreoceano. Fabio Morgera, Giovanni Falzone e Luca Aquino, ad esempio, fanno della tromba uno speculum per sbirciare negli anfratti, per risalire all'origine senza mai staccare il jack dal juke box della contemporaneità. Sul versante così lontano così vicino del trombone, Gianluca Petrella fa lo stesso. Anzi, di più. Classe '75 da Bari, già pupillo di Enrico Rava e Franco D'Andrea, ha lavorato praticamente con tutta la scena jazzistica nazionale e con una fetta considerevole di quella internazionale (solo per fare qualche nome: Lester Bowie, Pat Metheny, Hamid Drake, Carla Bley, Greg Osby...). Tra i suoi vari progetti, quello con gli Indigo ha sbrigliato in due fortunati album (Indigo 4 e Kaleido) tutta l'impudenza progressiva del Nostro, quel suo incontenibile e febbrile istinto, come dire?, crossover. Nel caso del qui presente Coming Tomorrow - Part One, Petrella si fa accompagnare dalla Cosmic Band, un nonetto esuberante e versatile che dirige sulle tracce dell'immaginifico vate Sun Ra. Quel che ne esce è una traiettoria onirica e ruspante, visionaria e turgida, sincopata e distesa. Il Sun Ra di Petrella e compagni carbura sulle vampe di Ellington e col mantice Mingus, strappa squarci di tradizione e le incastona tra ibridi afrofuturisti, accelera in punta di frenesia e rallenta il battito fino a livelli di melmoso languore, ruggisce e squilla e spaccia cortine fumogene per proiezioni folli in cui c'è sempre parecchia ragione (e viceversa). Sono quattro le tracce estratte dal repertorio dell'uomo che venne da Saturno: il funk aereo e mercuriale di Space Is The Place trova contraltare nella suadente circospezione di Saturn, mentre alla grazia arguta di Bassism fa eco la tarantella gospel-psych di We Travel The Spaceways, dove impazza la chitarra invereconda di Gabrio Baldacci. I titoli appena citati coinciderebbero coi momenti migliori della scaletta, non fosse per quella Three Undisciplined Satellites capace d'incendiare hard-bop di frenesia drum'n'bass che è una scossa e un piacere. In attesa della Part Two, godiamo di questa clamorosa dichiarazione di maturità anzi di pienezza creativa di Petrella, il cui linguaggio jazz non conosce banalità né pigrizia. (7.8/10) Stefano Solventi At Swim Two Birds - Before You Left (Vespertine & Son, Settembre 2009) G enere : songwriting Mai stato uno troppo solare Roger Quigley. Fin dalle prima pubblicazioni a suo nome il cantautore di Manchester ha preferito indagare i luoghi più oscuri e dolorosi dell'esistenza umana lasciando ad altri il compito di dare luce a ciò che nella vita d'ognuno - per merito o fortuna, a seconda dei punti di vista - lucente lo è già di suo. Così, dicevamo, per i dischi autografi (due ep e un lp nella seconda metà degli anni '90) e così per l'indie-pop sognante dei Montgolfier Brothers, progetto condiviso con Mark Tranmer che dal 1999 ad oggi ha partorito tre dischi (l'ultimo nel 2005), e di cui At Swim Two Birds è la deviazione ancor più malinconica e prostrante con Quigley di nuovo in solitaria. recensioni 55 Before You Left, ci pare di capire, nasce da un fatto biografico della vita dello stesso artista o di qualcuno vicino a lui: la morte di una persona amata e il relativo, inevitabile resoconto di ciò che è stato e non potrà più essere. Dieci le canzoni, essenziali quando non ridotte all'osso (come nell'Intro iniziale, con la voce a sussurrare solitaria nel vento «Before you left/ I told myself it is a good thing...»), formate da poche note spesso reiterate di chitarra e dal cello di Sophia Lockwood a sottolineare i momenti più sofferti (I must be losing you). Altrove invece appaiono in secondo piano batteria, tastiere e qualche luccichio elettronico (Let her go, con Martin Rebeski dei Doves), ma la sostanza rimane quella: un songwriting dalle tonalità e dalle forme dimesse, fortemente influenzato dalle vicende occorse, in positivo quando coglie nel segno (No fear) meno quando costruisce strutture che richiederebbero trattamenti ben più sfarzosi - come nell'austera The march of the Kings, lunga narrazione su un'andatura quasi da bolero di una deprimente vicenda d'alcoolismo. E anche i riferimenti - due su tutti: Nick Drake e il David Sylvian di Blemish - sembrano piegarsi a ciò che sta dietro le canzoni. Se di carattere involuto dobbiamo dunque parlare, lo facciamo tenendo presente il fine ultimo di questo lavoro, che nella sua odierna laconicità cerca un futuro liberato dalla pena.(6.3/10) Luca Barachetti Atlas Sound - Logos (4AD, Ottobre 2009) G enere : P sych nuggets Dopo la famosa svista che lo portò a diffondere erroneamente una prima versione dell'album tramite mediafire, Bradford l'anoressico aveva dichiarato di aver perso ogni volontà di completare il lavoro. In verità, calato il sipario, ci aveva rimesso le zampe subito dopo continuando a lavorarci per tutto il tour dei Deerhunter con lo spirito che inizialmente lo aveva animato. Spontaneità e concept d'insieme pensato a tavolino erano, e sono rimaste, le parole chiave di una raccolta di polaroid per una personale nuggets-delia, magra e impalpabile come lui ma nondimeno raffinatissima 56 recensioni e intrigante, post shoegaze (lo scorso anno si diceva ambient pop) e retrò. Contrariamente alle vie solitarie dell'esordio, questa volta a svoltare positivamente il risultato troviamo ispiranti e ispirate amicizie. Cox se le è coltivate con sapienza succhiando spirito e sapori: la deliziosa vintage-delia di Walkabout è più farina Panda Bear / Animal Collective che sua (dell'amico anche l'idea del sample utilizzato, quello dei misconosciuti Dovers), nondimeno il brano è riconoscibilmente bradfordiano. Idem per Quick Canal che ospita Laetitia Sadier. Marca Stereolab le liriche e dell'ospite il dubbing vocale ma il gusto shoegazy sempre dalla parte di Cox. Prezioso pure il violino di Sasha Vine dei Sian Alice Group in Attic Lights, altro brano significativo di un album che differentemente dall'esordio lavora sulla propria stessa inconsistenza per un pop subliminato e incavato nella memoria.(7.1/10) Edoardo Bridda Bad Lieutenant - Never Cry Another Tear (V2 Music, Ottobre 2009) G enere : pop wave L'eredità dei New Order passa anche per questo progetto parallelo del cantante e chitarrista del glorioso gruppo 80, Bernard Sumner. Le carte che gioca son sempre là a cavallo tra quella wave anni 80, quei synth e quella voce così pulita, il rimescolamento dei Suede che passa ancora per Verve, Oasis e Ian Brown. Il riproporre ancora una volta un'idea musicale di pop ormai più che digerita va bene solo per i nostalgici di quegli anni strafatti a tinte pastello? Il segreto è il non porsi questa domanda e ascoltare tutto come se non ci fossero rimandi(/plagi?) infiniti, lasciarsi attraversare dal brivido del riff e non criticare. Ma visto che di critica cerchiamo di occuparci, anche tralasciando il background non si può che esprimere un giudizio. Il disco va? Con una produzione che non insiste sulle tastiere e si concentra sulla voce e sulle chitarre (Dynamo), con degli arrangiamenti che puntano alla pulizia (Running Out Of Luck), e con altri trucchetti si poteva confezionare un buon dischetto pop da top ten, invece questo Never Cry Another Tear dopo un passaggio è già nel dimenticatoio. Commerciali lo sono sempre stati i New Order, e va bene, solo che questa volta gli uberammiccamenti non reggono. Solo per completisti. Chissà cosa direbbe Curtis...(5/10) Marco Braggion Bad Love Experience - Rainy Days (Inconsapevole, Ottobre 2009) G enere : P ower pop Dopo l'ottimo esordio omonimo di tre anni fa la band livornese si conferma, migliorandosi, con Rainy Days. Le differenze: l'aggiunta di un quarto elemento (Claudio Laucci: piano, organo e cori) al trio di base e una maggiore e spiccata propensione verso lidi sonori decisamente british. Ciò che viene perso per strada è quel venticinque percento punk che caratterizzava il debutto. Nelle dieci tracce fresche e scattanti si respirano tanti Beatles, ma anche Who e Jam fino a Last Shadow Puppets e Arctic Monkeys. Un poco più di personalità e i Bad Love Experience potrebbero veramente ambire al titolo di "band italiana più inglese" in circolazione. Da non perdere il loro cameo nel nuovo film di Paolo Virzì, La prima cosa bella, nei panni del gruppo rock beat Le Nuove Dimensioni.(6.8/10) Andrea Provinciali Basement Jaxx - Scars (XL Recordings, Settembre 2009) G enere : post - disco Credere nella disco è un rischio e chi se ne fa carico di solito sa quello che fa. E come negare che il verbo è duro da professare in un periodo in cui i generi si disgregano ed entrare in una nicchia è più cool (e protettivo). Per chi produce musica è molto meno rischioso giocarsela al campetto piuttosto che allo stadio e se i sottogeneri sono facilmente malleabili è vero pure che la massa pop fa paura a troppi. Del resto, cosa ti resta se hai un progetto che va avanti da più di 10 anni? Sei obbligato a mostrarti. Il suono Jaxx è ormai coniato, la loro è la postdisco 00 che guarda in giro e si mescola con i campioni del ritmo, siano essi provenienti dal pop-soul (Kelis), dal mesh-up (Santogold), dalla house più tamarra (Sam Sparro) o dalla storia (Yoko Ono nella marcetta da urlo Day Of The Sunflowers). Il gioco si fa interessante quando ai featuring aggiungi una produzione che rasenta la perfezione e delle bombe che fanno muovere qualsiasi braga: il camp stellare à la Empire Of The Sun del singolone Raindrops, il dancehall tirato di Saga con la Santogold più in forma che mai, il baile pompato e ciccione di Twerk (con il vocoderaggio delle Yo! Majesty). Non è poi tutto oro: ci son pure i lenti riempidisco, ma alla fine Scars si lascia ascoltare. Basement Jaxx marchio di fiducia.(6.9/10) Marco Braggion Bassekou Kouyate - I Speak Fula (Outhere, Settembre 2009) G enere : world Si è preso il tempo necessario, il buon Bassekou, per dare un seguito al già eccelso Segu Blue. Dopo aver incassato la dovizia di un paio di premi di categoria della lungimirante BBC, il virtuoso del ngoni si conferma astro lucente del panorama world. Lo fa annodando con sicurezza il filo che lega la tradizione (il suo strumento è fondamento della cultura griot) alla modernità (i suoni, splendidamente nitidi e la produzione puntuale). In tal modo predispone un prodigio in grado di convogliare l’ipnotica potenza delle esibizioni dal vivo, coronando un percorso scintillante benché appannaggio degli specialisti in materia. La dice lunga la gavetta di Kouyate, allontanatosi dal villaggio natale sulle rive del Niger per incrociare gli strumenti con calibri come Youssou N’Dour, Ali Farka Touré e Oumou Sangare. Da tali esperienze - e senza dimenticare la presenza giovanile nella leggendaria Rail Band di Bamako - e dall’incessante vocazione a sperimentare (lui il primo - negli anni ‘80 - a suonare lo ngoni stando in piedi con fare “rockista”…) germoglia l’attualità degli Ngoni Ba, gruppo a tutti gli effetti qui impreziosito dagli interventi di Toumani Diabate e di un Vieux Farka Touré che maneggia l’elettrica appartenuta al padre. Naturale dunque auspicare che questi cinquantasei dorati minuti spediscano l’uomo ancor più in alto, sulle ali di una solidità strumentale e stilistica invidiabili (Torin Torin, Tineni) e di un preblues tanto asciutto quanto visionario (Falani, il sublime “traditional” Bambugu Blues); di una cantabilità atavica che trattiene un senso di mistero (Jamana Be Dia, Moustapha) e di cristalline, frenetiche cavalcate acide da far cascare la mascella per lo stupore (Musow, Saro). Ponete I Speak Fula accanto ai Tinariwen: monopolizzerà lo stereo in men che non si dica, mettendo per qualche ora da parte tutta la vacuità con cui facciamo quotidianamente i conti. (7.7/10) Giancarlo Turra recensioni 57 Beck - Record Club #1: The Velvet Underground & Nico (Beck's Record Club, Settembre 2009) G enere : beck to the cl as sic s Andate su beck.com.Video e dischi in streaming (per adesso l'ultimo Modern Guilt e il classico Mellow Gold), la playlist con gli ascolti della settimana (esce il nuovo degli Antipop Consortium? Lui tira fuori Ping Pong da Arrythmia), weird dischi trovati (il primo è di Uri Geller), interviste (la prima a Tom Waits, purtroppo solo in formato testo). Ma soprattutto, e arriviamo a noi, Record Club. Beck sceglie un disco e, with a little help from his friends, lo coverizza per intero (come facevano dal vivo i Phish, cento anni fa), in una sola tirata, senza troppe prove, buona la prima o quasi. Il tutto viene registrato e messo in streaming sul sito, sotto forma di video b/n finto lo-fi ultrapixelato, un brano alla settimana. A inaugurare la serie, il più classico dei classici, la banana che tutti abbiamo sbucciato. Ci sono, si scambiano gli strumenti (e cazzeggiano): Nigel Godrich (che fa casino e canticchia), Joey Waronker, Brian Lebarton e Bram Inscore (della crew beckiana), Giovanni Ribisi (l'attore), Chris Holmes (il chitarrista degli W.A.S.P.), Thorunn Antonia Magnusdottir (cantante Islandese, la Nico del caso) e un non meglio identificato Yo (lo si intravede a un certo punto sbadigliare). Beck precisa subito: «Non vogliamo aggiungere qualcosa agli originali né cercare di ricrearne la forza. Vogliamo solo suonare e documentare quello che succede». Insomma, clima casereccio, siamo tra amici, tanto artigianato, voglia di divertirsi. Risultato? Nessun capolavoro, nessuna epifania beckiana, nessuna nuova vita velvetiana, come pure nessun intento filologico (e neanche nessuna clonazione, che pure da lui ci si poteva aspettare, alla Faithful di Todd Rundgren), nessuna ostinata esplorazione stilistica (alla Nouvelle Vague), neppure nessuna iconoclastia. è quello che è, un piccolo estemporaneo omaggio alle canzoni affezionate. Affiora il Beck-spirito più acustico e garagistico (nel senso della sala prove). La parte musicale è strapazzata, ma non troppo e non sempre, diciamo un aggiornamento dello strapazzamento che già era degli originali (Waiting For The Man scordata; Venus In Furs 58 recensioni folk-ambient-noise; Heroin straparossistica, digrignata da Waronker). Poi, Run Run Run con tastierine electro, There She Goes (che in origine strapazzata non era) schiaffeggiata stra-stonata, quasi primissimi Mothers Of Invention (ma anche qui, a occhio e croce, nessuna iconoclastia, giusto il gusto della trovataccia), Black Angel's Death Song per sola voce e chitarra (quasi venisse dai demo dei Velvet), Europeran Son rallentata, e come sospesa, senza il famoso deragliamento finale. Chissà se a rifare i Velvet Underground fosse stato qualcun altro, magari uno sconosciuto, chissà se avessimo dovuto pagare... Qui e ora, TUTTO considerato, otto all'idea (e applauso alla parola gratis) e sei, pieno, alla musica. Il remake a matita della famosa copertina è opera dello stesso Beck. Il 4 settembre è stato messo online il primo pezzo della nuova prova del Record Club: Suzanne, da Songs Of Leonard Cohen, ospiti Devendra Banhart e componenti sparsi di MGMT, Wolfmother e Little Joy. Terzo arriverà, e non vediamo l'ora, saremo già a novembre, un disco degli Ace of Base.(7/10) Gabriele Marino Big Pink (The) - A Brief History Of Love (4AD, Settembre 2009) G enere : T ech - pop Is The Big Pink the Next Big Thing? La risposta è no. Però è abbastanza interessante il modo in cui Milo Cordell e Robbie Furze, ovvero The Big Pink, ci provino. La prima mossa è mettere in chiaro tutte le carte: la produzione innanzitutto, che fa sfoggio di sé con risultati apprezzabili, vedi soprattutto Too Young To Love. Lì dietro si nasconde l’insidia, quando la gran quantità di escamotage di raffinamento produttivo/ arrangiativo non riesce a dissimulare la scarsità di alcune melodie, che del resto sono le vere protagoniste dell’album, una su tutte quella di Dominos. In generale A Brief History Of Love è un album di pop tecnologico tirato a lucido, dove si possono isolare tecniche Interpol-iane (del basso soprattutto), suoni non distanti da Trent Reznor, un’atmosfera cyber abbastanza diffusa (i due si sono conosciuti a un rave e hanno fatto da opener per Alec Empire) e un piglio da Black Rebel. Il mix crea manciate di secondi esaltanti (Frisk), e si capisce che l’obiettivo immanente dei brani è fare dell’oscurità e della decadenza uomo-macchinica non un esercizio fine a se stesso ma un punto di highlight Helado Negro - Awe Owe (Asthmatic Kitty Records, Agosto 2009) G enere : tropic - avant - indie Vecchia come il mondo dell’indie e del rock (o quasi) è la commistione con tropicalismi e felici o Tristi Tropici. Nessuna novità apparente allora nell’approcciare Awe Owe di Roberto Carlos Lange, figlio di migranti ecuadoregni, in arrivo dalla Florida con il suo nuovo moniker Helado Negro. Lingua madre spagnolo, salsa, quel caldo e meditato infantilismo dei ritmi da Sud- e Centro-America, piglio indie e pure tronico, costruzione avant, per Roberto Carlos - che conosciamo già per il progetto Savath & Savalas dell’amico Guillermo Scott Herren. Come fosse un Animal Collective più docile (da ballata in Espuma Negra, in acustico con fiati in Time Aparts), il super-combo del gelato nero (che comprende personaggi di provenienza Yeasayer, Guy Fantastico, ecc.) tocca quelle lande già approcciate anche da personaggi del jazz misto-Brasile quali Nanà Vasconcelos (Dos Suenos), oppure, ancora una volta, dai soliti nomi: Arthur Russell, Arto Lindsay (Santero), nonché Tom Zè e Os Mutantes. Eppure, in tutto questo alto suonar di nomi, Lange riesce a trovare un piccolo spazio; è trasognato e squisitamente arrangiativo in Dahum, sorta di mantra chill-out con pre-coda efficace di fiati e conclusione vera in acrilica sfumatura; è pressoché perfetto nel ripetere l’estetica della ripetizione (il bisticcio di parole è voluto) di un tema su tessuto poliritmico in Awe, probabile perno del disco. Le cose migliori nascono quando i synth incrociano quelle melodie cubane o brasiliane andandole a raffreddare o a condire di quel tocco che Helado Negro fa suo, riuscendo a farli passare dallo sfondo alla figura (I Wish). In definitiva il punto è che anche i padri putativi vanno dietro le quinte, specie quando il lato B matura i solchi oltre la metà; fatto che di per sé dà una cifra diversa dal solito per chi è cresciuto nell’indie avant degli ultimi dieci anni.(7.2/10) Gaspare Caliri partenza per la costruzione melodica. E, ancora una volta, eccolo il vero problema. Ciò che dovrebbe reggere il passaggio finisce quasi sempre per rovinare con scimmiottamenti da fine Ottanta quello che la costruzione musicale e l’innesto della produzione hanno messo in scena per ogni brano (Golden Pendulum). Se la storia si facesse coi se e coi ma, avremmo preferito un gioco di contrasti più accentuati. Una voce che davvero si ergesse con personalità e senza ovvietà sul resto. Un contrasto tra idillio e condanna. Anche senza se e senza ma, è la finale Countbackwards From Ten, e ancora prima la title-track, che ci suggeriscono questa riflessione; specie quest’ultima, con una voce femminile che affiora ad accompagnare quella maschile, un’incrinatura che però si basa su un andamento da ballata pop standard. Con un ma senza se, constatiamo che sono episodi isolati. Peccato.(6/10) Gaspare Caliri Black Crowes - Before The Frost... Until The Freeze (Silver Arrow, Settembre 2009) G enere : blues rock I cari Black Crowes. Quasi non ci credi che stanno per spengere le venti candeline di ruspante attività. I problemi, il girare a vuoto, la fiacca dell'ispirazione, ci sono stati e hanno lasciato il segno. Ed è un bene. Perché tutto ciò li ha obbligati a prendere atto, a riflettere. Ad accettarsi. è stato allora che sono ripartiti. Fisicamente e logisticamente dallo studio di Levon Helm a Woodstock, dove hanno inspirato spore di magia rock, hanno composto, provato, suorecensioni 59 nato e ancora suonato. Infine, durante cinque sabato sera consecutivi, hanno inciso dal vivo venti nuove canzoni di fronte ad un raccolto pubblico di soli fan. Risultato: un disco caldo, turgido e disinvolto. E pure doppio, acquistabile in vinile oppure in cd singolo contenente il codice per scaricare il secondo volume direttamente dal loro sito. Un pezzo via l'altro i fratelli Robinson e compagnia bella ci dicono che non sono loro ad essersi spostati ma è il mondo che non si è fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno e cosa vogliamo farci? Nulla, se non suonare col solito piglio tra il torrido e lo strascicato, se possibile ancora più strascicato, cavando calore e ruvidezza da petto, stomaco e cuore, ciondolando tra black e southern come se tra le strade percorribili fosse davvero la più accogliente, non la più breve né la più veloce. Detto questo, i Crowes tentano pure l'azzardo, ma lo fanno divertendosi: con una I Ain’t Hiding che sculetta sulla cassa in quattro, basso pulsante e wah wah come una nipotina screanzata del Rod Stewart danzereccio e dei Rolling Stones di Emotional Rescue. Quindi si concedono digressioni ispirate, come una What Is Home profumata CSN, come l'impasto tra bretagna e oriente di Aimless Peacock, come i Beatles versante McCartney di And The Band Played On. Il tutto con la flemmatica irriverenza di chi non ha più nulla da perdere, né da dimostrare. (7/10) Stefano Solventi Black Heart Procession - Six (Temporary Residence, Ottobre 2009) G enere : rock noir C’è poco da fare. Ogni disco della combriccola dal cuore nero è un tuffo al cuore. Dopo due estemporanee escursioni in titoli letterari si ritorna alla numerazione progressiva che caratterizzava la prima tripletta di dischi e, sia chiaro da subito, l’album numero 6 non sposta di molto la sostanza di una musica appassionata e malinconica, oscura e tesa, irrimediabilmente riconoscibile all’istante. La cifra stilistica del quintetto capitanato dagli ex Three Mile Pilot (curiosamente in uscita a breve anch’essi per Temporary Residence) Pall Jenkins e Tobias Nathaniel è sempre sul crinale di un rock 60 recensioni molto virato al nero, dal mood claudicante e darkish, poetico e sognante. Six però si spinge un po’ più in là, accentuando una delle peculiarità del combo, quella emozionale, senza però perdere in vibrante tensione. Punta al cuore, Six, e colpisce il bersaglio. Con languide ballate a tinte noir alternate a pop-songs da vaudeville, sghembe e al limite dell’ubriachezza, tanto che quando suonano pezzi come Forget My Heart viene in mente una versione dark e rattrappita degli Arcade Fire. Il paragone è gratuito, ovviamente, perché l’universo BHP è molto più vasto e non è difficile scorgere dietro le strutture da cabaret esistenzialista rimandi neanche troppo sfocati, ora ad un’idea di folk orchestrato piuttosto doom (Liars Ink), ora ad una forma di slowcore dark (Last Dance), ora ad un catacombale indie-rock (Heaven And Hell). Il tutto sempre impreziosito da un lirismo di livello superiore, comme d’habitude, tanto che un capitolo a parte lo meriterebbe quel catalizzatore dell’attenzione che è Jenkins. Insomma, passa il tempo, ma non sembra affatto scalfire i BHP, entrati ormai di diritto nell’olimpo dei classici.(7.5/10) Stefano Pifferi Breakestra - Dusk Till Dawn (Strut Records, Ottobre 2009) G enere : sunny funk "Questo disco suona come se venisse fuori direttamente dal 1972" - Ahmir "Questlove" Thompson. Così lo sticker sulla copertina di Hit The Floor (Ubiquity, 2005), primo vero album della Breakestra. Ma l'ad firmato dal cuore pulsante dei Roots era solo parzialmente vero. Se la devozione per il funk e la passione per la musica suonata sono infatti innegabili, il collettivo guidato da Miles Tackett sembra invece peccare, ieri come oggi, di eccessiva pulizia ed eccessiva compostezza per sembrare davvero figlio degli "anni marroni". La Break non si decide a fare quel jump in the mud cui pure allude in una canzone di questa seconda prova, e che in un certo senso le gioverebbe: niente grassume funk insomma, ma un funk asciutto, placido, solare. Registriamo le novità di alcuni interventi di una voce femminile e di un violino. Per il resto si tratta della solita (piacevolissima, sia chiaro) festa funk, guidata dall'alternanza di una voce bianca (lo stesso Tackett) e di una nera (Mixmaster Wolf; che mima spesso esplicitamente James Brown). Ieri come oggi, preferiamo gli strumentali alle song, per- ché più cesellati, più ricchi, più avvincenti. Rispetto all'esordio, che poteva contare oltre che sul famoso effetto sorpresa anche su una manciata di pezzi indovinatissimi come la lunga psichedelica How Do You Really Feel? (esordio quindi una spanna sopra questo Dusk, ci teniamo a esplicitare), prevale qui lo stiracchiamento della formula. Simile in questo ai Fat Freddy's Drop, la Break può dare molto ma molto di più.(6.3/10) Gabriele Marino Califone - All My Friends Are Funeral Singers (Dead Oceans, Ottobre 2009) G enere : post blues Da intimo conoscitore dei misteri del blues, Tim Rutili sa lasciarsi trasportare. Conosce bene il modo per far sì che, talvolta, sia il caso a determinare le scelte. Nello specifico, il nuovo disco dei Califone - che vede la luce tre anni e un cambio di etichetta dopo l’ottimo Roots And Crowns - contiene musica destinata ad accompagnare un omonimo film scritto e diretto dal Nostro, che verrà presentato nei festival del cinema il prossimo anno. A prescindere dall’avventura dietro la cinepresa (sperando che se la cavi meglio di Neil Young…), rileviamo quanto le tredici composizioni di All My Friends Are My Funeral Singers si reggano in piedi da sole pur percorrendo sentieri già noti. Sai dunque cosa aspettarti da questa banda di spostati romantici: i Rolling Stones che impastavano zolfo e country all’altezza di Beggar’s Banquet (Buñuel, Salt) e i Beatles dell’Album Bianco (spruzzati d’umori Byrds in Polish Girls); l’ondeggiare imbottito di codeina da prime ore del mattino (1928, la scheggia westcoastiana Evidence) e le melodie malinconiche ma finemente epiche (Krill, Ape-like). Persino la sorpresa di un trip-hop splendidamente zoppo ed eseguito con piglio rock come Giving Away The Bride, piazzato in apertura a confondere le idee e qualche episodio eccessivamente simile a cose già proposte in passato. Ritrovi comunque la cura per il dettaglio (i tappeti percussivi fitti, tribali; le chitarre memorizzate dai migliori Franklin Delano) e il pennino intinto in folk e dodici battute allo scopo di trasfigurare entrambe. Che poi è, in definitiva, ciò che accade dai tempi di John Mayall e degli Animals: bianchi proletari che rileggono - appropriandosene - le radici nere e vi trovano l’origine della sofferenza umana, giustappunto quel blues che ci segue dalla nascita. L’ennesimo mattone posato con stile oramai classico su una via infinita.(7.2/10) Giancarlo Turra Cave Singers (The) - Welcome Joy (Matador, Agosto 2009) G enere : new A mericana Singolare come, per ogni gruppo d’oltreoceano, scocchi presto o tardi l’ora di fare i conti con la ricca tradizione sonora del proprio paese. Non che sia una regola fissa ma, insomma, pochissimo ci manca: alla chilometrica lista che prese le mosse con la svolta country rock dei Grateful Dead - ed è giunta ai giorni nostri tra celebrità e mezze calzette - si aggiunge, da un paio di anni in qua, l’ennesimo nome. Derek Fudesco, che dei Cave Singers è fondatore, militava infatti nei trascurabili e disciolti indie-wavers Pretty Girls Make Graves: in compagnia dei carneadi Pete Quirk e Marty Lund, lo adesso trovi alle prese con strumentazioni acustiche e atmosfere rurali. Ne usciva un’opera prima, Invitation Songs, che si abbeverava copiosamente alla fonte folk/blues dei Bob Dylan e Woody Guthrie presentando in cabina di regia Colin Stewart, già coi Black Mountain. Confermato anche a questo giro, costui si porta dietro Amber e Ashley Webber dai Lightning Dust a dar ulteriore sostegno. Poco o nulla però cambia nel suono che elettrifica le radici con sicurezza e semplicità compositiva, rilassatezza d’atmosfere ed esecuzione adeguata. Bella forza: trattasi di gente che, a prescindere dal percorso artistico intrapreso, vive e respira questa musica sin dalla culla o quasi. Che tra le canoniche - ma non per questo mediocri, anzi… - I Don’t Mind, VV e Leap si facciano largo un poco di distorsione modernista (At the Cut) o momenti più cupi (Shrine), fa parte della maturazione di ognuno e, di nuovo, gli esempi si contano a centinaia. Senza sconvolgimenti, Welcome Joy è un dignitoso passo in avanti compiuto guardandosi indietro.(6.7/10) Giancarlo Turra recensioni 61 highlight Hidden Cameras - Origin:Orphan (Arts & Crafts, Settembre 2009) G enere : pop rock Col quarto album vero e proprio, Joel Gibb e gli allegri compagni della "gay church folk music" conducono la consueta calligrafia pastorale fino alle estreme conseguenze, ma allo stesso tempo perseguono altre cause convergenti e parallele: da una parte certa wave-pop ora frizzante e ora tenebrosa, dall'altra drammoni cameristici ad alto tasso emotivo. Senza mai farsi mancare quel gusto per l'artefatto prezioso, per l'eccesso stilisticamente corretto e giammai barocco perché figlio d'un citazionismo per nulla supino, anzi corroborato da indomito entusiasmo, contagioso oggi come ai tempi di Ecce Homo. Puoi quindi cogliere in Do I Belong? un passo algido alla Level 42 e l'animo in subbuglio d'un Jackson Browne, sospetti che Underage sia un plausibile ibrido tra Housemartins e Limahl, intuisci nell'impeto guizzante e stralunato di In The NA giochetti Xtc e tremori Magnetic Fields, scorgi in Kingdom Come le trepidazioni così lontane così vicine di Morrissey e Michael Stype, infine lasci che Silence Can Be A Headline sbrigli ingenui struggimenti sixties e vaghe inquietudini contemporanee, diciamo tra Simon & Garfunkel e Black Heart Procession via Jason Molina. Però poi a sconcertarti davvero sono le ambizioni per nulla velleitarie calate sul piatto con Walk On e Ratify The New, la fiera apprensione del canto, il mantice orchestrale e gli esotismi aciduli, il brulicare elettrico ed elettronico, i cupi tremori e l'energica dolcezza del climax. Due passi rischiosi perché lunghi ma - questo è l'importante - non più della gamba, cosicché il capitombolo è rimandato e semmai sfiorato in occasione della title track, nella quale l'austerità Ultravox altezza Lament va ad immischiarsi con una vibrante generosità Brian Wilson, riuscendo a salvarsi in corner perché quando i momenti sono propizi non c'è nulla che possa andare davvero storto. Intenso e catchy, festoso e malinconico, arrembante e dolciastro, è uno dei capolavori pop dell'anno. Ed è forse IL capoalvoro degli Hidden Cameras. (7.7/10) Stefano Solventi Chris Garneau - El Radio (Fargo, Agosto 2009) G enere : C hamber pop Se il precedente Music For Tourists si chiudeva con una cover di Eliott Smith, El Radio, il nuovo lavoro di Chris Garneau, inizia con qualcosa che difficilmente può essere incasellato alla voce “mestizia”. Subito il giudizio: Chris è più bravo non quando rappresenta la depressione (che gli è estranea), ma quando fa provare a se stesso e a chi lo ascolta i piaceri di incastro ed equilibrio del chamber pop (come negli archi finali di Pirates Reprise). E poi, altro confronto, Chris perde un po’ di credibilità quando si destreggia con l’America (o l’Australia) delle ballate arrangiate (Raw And Awake, Hometown Girls) piuttosto che con l’Europa (Things She Said). 62 recensioni È insomma nella giocosità compositiva (ben visibile in Fireflies, scherzetto post-vaudeville) che Garneau eccelle, e che El Radio acquista valore. In questo contenitore senza tempo tutto è felicemente costruito e bilanciato. Dodici tracce, le prime tre dedicate alla - o fatte fiorire dalla - primavera, poi tre all’estate e così via fino alle winter songs. Il simulacro di un anno che alterna alti e bassi come davvero accade, fuori dalle facili assimilazioni sole-felicità / freddo-tristezza (un esempio su tutti The Cats & Kids, serenamente tardo-autunnale); ma anche una via di fuga realista dalla simulazione, se pensiamo che davvero questo disco è stato pensato e iniziato a scrivere da Garneau e dai suoi amici in giro per il New Hampshire, con gli strumenti nel van, nell’estate e autunno 2008, vivendo e suonando il passaggio delle stagioni. Altra chiave per leggere questi soffi di composizione: un avvicinamento e un allontanamento dalla vita privata di Chris, le cui canzoni non si ispirano più alle vicende personali ma prendono la forma di personaggi inventati (ancora una frizione America-Europa); e che nonostante questo risentono positivamente del sofisticato vissuto del viaggio. La sicurezza da cantautore e da arrangiatore fa bella mostra di sé; ma si percepisce, in queste coppie di quasi-opposti, un’instabilità. Non è chiaro il concept. E se, a questo proposito, il futuro di Chris Garneau fosse un vero concept-album cantautoriale?(7.1/10) Gaspare Caliri Chromeo - DJ Kicks (!K7, Settembre 2009) G enere : compil ation dance 80 Nell'intervista/promo per questa compila i due DJ canadesi (P-Thugg e Dave 1) dicono che è stato difficile trovare i detentori di copyright di alcune tracce contenute nel mix. E ci crediamo pure noi ascoltando questo memorabilia 80 pieno di funky e di stile. Nomi sconosciuti ma proprio per questo cool. In sostanza un breviario di synth retrofili, tante paillettes e spalline filtrate da vocoder, orchestrine di fiati, chitarre in uptempo funk e il crate digging che oggi non è più (purtroppo) di moda. L'ennesima uscita per la fortunata serie targata !K7 ci sta di brutto con lo zeitgeist del dancefloor di questo 09 danzereccio e noi ci divertiamo ad ascoltare e a ballare questa tracklist che ci riporta indietro di secoli. Le atmosfere à la Gazebo di Lovelock (Maybe Tonight), la progressività d'obbligo di Moroder innestata con i robot kraftwerkiani nei pezzi di Chateau Marmont e Lifelike (Sequencer da panico ifeelloviano), la I Can't Tell You Why degli Eagles remixata in esclusiva per il disco e per finire la botta di Alan Parsons Project (Pipeline). Un disco imprescindibile per gli amanti del sound di quegli anni di plastica e anche per chi crede che Lindstrøm e Sebastien Tellier dicano qualcosa di nuovo. Sciccosissimi Chromeo.(7.3/10) Marco Braggion Circulatory System (The) - Signal Morning (Cloud, Settembre 2009) G enere : P sych wave Dopo sette anni, William Cullen Hart dissotterra il gemello oscuro dell'esperienza psych Olivia Tremor Control e lo fa rinnovandone la formula dall'interno, incattivendola e marcendola come si confà a certi venti underground attuali. In pratica Signal Morning sta all'omonimo che Pitchfork osannò nel 2001 come i Beatles stanno ai Residents. E attenzione ai paragoni: dove il precedente era psych lo fi umorale (ma pur sempre bucolico), la nuova corrente si porta dietro i Pink Floyd degli Abbey Studios con giovamento della formula complessiva garantito. Sin dall'iniziale industrial garage di Woodpecker Greeting Worker Ant la sensazione è che la missiva sia rivolta agli shit gazers in circolazione. Il messaggio arriva potente: i Circulatory System sembrano al distratto una prolifica ganga di promettenti esordienti e non la solita gongrega di navigati. Sempre prodotto in libertà per la sua Cloud, disabilitante come un Brian Jones pre-piscina (This Morning We Remembered Everything) o un Syd Barrett in combutta Gong (Particle Parades), il nuovo sforzo di Hart è bello come i dischi indie di culto che si rispettano: un disco che odia gli allori dove ogni brano è un collage diverso dal precedente e nel quale tutto torna sotto l'ombrello di una psychedelia malata e putrida, salvo poi svelarti qualche funghetto dalle spore deliziose come Round Again, hard glam distortissima e indie tuned come dio comanda.(7/10) Edoardo Bridda Clientele (The) - Bonfires On The Heat (Merge, Ottobre 2009) G enere : psych pop I londinesi Clientele approdano al quinto album. Se devo essere sincero, non mi aspettavo tanta longevità. Certo, con Suburban Light nel 2000 mi stregarono letteralmente, tuttavia era chiaro quanto quell'ineffabile debutto su lunga distanza - in realtà una raccolta di singoli ed ep - poggiasse più su un'intuizione sonico-ambientale che non su acclarate capacità di composizione, esecuzione ed interpretazione. C'era quella caligine spersa e sparsa, un senso di sonnacchiosa psichedelia come retaggio di sogni rannicchiati, tutta una scenografia teneramente nouvelle vague, misteriosamente pop, in ostinata controtendenza rispetto all'integrazione electrorock, obliquo controcanto al NAM e alle nostalgie erudite dei Belle and Sebastian. recensioni 63 Insomma, Alasdair MacLean e soci si costruirono il loro piccolo regno tra le nebbie spazio-temporali dove piroettavano struggimenti asprigni e bucoliche palpitazioni che avresti detto tanto Left Banke quanto Galaxie 500, tanto Zombies quanto Bee Gees. Negli anni sono stati bravi, più bravi di quanto avrei mai potuto immaginare, a capitalizzare quell'intuizione. I successivi lavori hanno saputo evitare d'incagliarsi grazie ad accorti, impercettibili spostamenti. Anche questo Bonfires On The Heat ci riesce. Si sposta di poco, ma si sposta. Grazie ad una febbricola bossa/soul che condisce certe situazioni (la disinvolta I Wonder Who We Are, la brividosa Never Saw Them Before, la funkeggiante Share The Night) e ad una più marcata attitudine psych (gli esotismi sciropposi di Harvest Time e Graven Wood, il turgore errebì di Sketch). Per il resto sono più o meno i soliti tremori pop in differita da un Eden indolenzito, come Never Anyone But You, la dolciastra Walking In The Park e la title track. Un bel po' di quella meravigliosa caligine si è dissolta, ma la musica dei Clientele riesce ancora a sembrare un luogo a se stante. (6.6/10) Stefano Solventi Cornershop - Judy Sucks A Lemon For Breakfast (Ample Play, Luglio 2009) G enere : H indu meta - pop Ad eccezione di un singolo - Wop the Groove - pubblicato in sordina nel 2006, era da ben sette anni che dei Cornershop non si avevano più notizie di rilievo. Vittime forse dell’inevitabile turnover di inizio millennio, volto inesorabilmente a spazzare via ogni residuo ’90s? Piuttosto, di una politica discografica e manageriale che, in seguito al successo planetario di Brimful Of Asha (croce e delizia per qualsiasi band, una bomba pop di quella caratura lì) li avrebbe irrimediabilmente danneggiati, tanto che oggi questo Judy Sucks A Lemon For Breakfast preferiscono pubblicarselo da soli tramite il loro sito web, con l’appoggio del distributore internazionale Cargo nonché dei soliti amici del negozio Rough Trade di Notting Hill. Segno dei tempi, diremmo, laddove al contrario la musica è rimasta sostanzialmente la stessa - ed è una benedizione, perché la formu64 recensioni la anglo-indiana di Tjinder Singh e i suoi continua a suonare originale e frizzante esattamente come dodici anni fa: soundtrack di una cultura favolosamente underground che miscela T. Rex, Kinks e Stones con Bollywood (Who Fingered Rock’n Roll, la title track, The Roll-Off Characteristics), in grado di trattare un classico di Dylan (The Mighty Quinn) con la stessa naturalezza del folk Punjabi (Free Love, impiastricciata di lounge) o del gospel (The Turned On Truth), indugiando oggi come allora in tentazioni club forse adesso un po’ datate (ma è solo questione di tempo, e torneranno di moda anch’esse, vedrete); insomma, l’usuale e adorabile frullatore meta-pop alla Super Furry Animals, peraltro anch’essi redivivi e anzi attivi più che mai. (7/10) Antonio Puglia Cosmetic - Non siamo di qui (La Tempesta Records, Ottobre 2009) G enere : shoegaze Ammettiamolo: dichiararsi nelle note stampa estimatori e potenziali prosecutori della parabola artistica di formazioni come My Bloody Valentine e Sonic Youth è un po' tirarsi la zappa sui piedi. Anche perché si parla di esempi fulgidi di creatività sopra le righe ed essere all'altezza delle aspettative generate da accostamenti del genere potrebbe seriamente diventare un'arma a doppio taglio. A meno che, naturalmente, non abbiate la personalità di un Thurston Moore o il genio musicale di un Kevin Shields, ma non è il caso dei Cosmetic. In Non siamo di qui i Nostri fanno il loro dovere credendoci fino in fondo, collezionano qualche momento particolarmente riuscito - sopra a tutti Bolgia celeste ma anche il punk-gaze di Via Maj -, lavorano di buona lena su suoni espansi in bilico tra chitarre rumorose e pop, psichedelia e melodie eteree. Eppure la sensazione è che manchi la zampata finale, quel quid in più capace di farci pensare soltanto alla band romagnola quando ascoltiamo un pezzo come Sangue + sole e non a miriadi di formazioni meno elettriche ma orecchiabili allo stesso modo. Alla fine i pregi e i difetti di Non siamo di qui sono più o meno gli stessi del disco d'esordio Sursum Corda, ma da quel disco sono passati due anni e la produzione, questa volta, sembra essere di quelle serie. Il che ci fa pensare che in futuro, da queste parti, grossi stravolgimenti non si vedranno.(6.6/10) Fabrizio Zampighi Cribs (The) - Ignore The Ignorant (Wichita Recordings, Ottobre 2009) G enere : I ndie - angul ar Doppio poker per la band di Wakefield: quarto album e organico esteso a quattro grazie all'acquisto di sua maestà Johnny Marr, in pausa (?) dai Modest Mouse. L'arrivo dell'ex-Smiths però non basta a smuovere la formula del gruppo dalle secche pop-punk à la Clash con ansia vocale Strokes / Bloc Party se non in qualche dettaglio di arrangiamento, una morbidezza maggiore, qualche arpeggio e poco altro. Le cose migliori, oltre ai testi e Victims of Mass Production, risultano quelle più Lloyd Cole, vedi Save Your Secrets o l'alternanza morbidezze-esplosioni di City Of Bugs, mentre la conclusiva Stick To Yr Guns dovrebbe indicare strade future indirizzate alla jam (ma solo nelle dichiarazioni del cantante).(6.2/10) Giulio Pasquali Crown City Rockers - The Day After Forever (Gold Dust, Settembre 2009) G enere : hip - hop Terzo album per il gruppo di Oakland, a cinque anni dall'ultimo. Approccio strumentale alla Roots, ma solarità alla De La Soul, e modo di porgere la traccia alla A Tribe Called Quest.Tutte influenze queste peraltro dichiarate. Hip hop con basi nella funkerie, spesso molto piacevole, con inevitabili deviazioni rnb-soul-jazzy, all'insegna di una contaminazione che fa molto crossover Novanta. La voce, aperta e non particolarissima nel timbro, appare spesso un po' troppo caricata nella sua convenzionalità rap, quando invece in certi momenti un ammorbidimento avrebbe giovato. Scanzonato, da marciapiede a ridosso della spiaggia, d'intrattenimento, senza picchi particolarmente notevoli, anche se Soul, nell'inciso al limite del Ninja Rap dei Vanilla Ice, e il discofunky di Kiss, già nell'EP che anticipava, sono assai efficaci e assai ci piacciono.(6.4/10) Gabriele Marino Dam-Funk - Toeachizown Vol. 3: Life (Stones Throw, Settembre 2009) G enere : space - synth bl ack Seguiamo Dam nella sua pentalogia. Siamo sui livelli di Fly, ma con un (inevitabile?) serpeggiante sentore di auto-riciclo. Abbagliati dal primo capitolo, LAtrik, eccezionale, ci aspettiamo qualcosa di più. Stavolta la voce è spalmata su tutti i pezzi, per metà dissolta dal vocoder.Tre pezzi ottimi, da soli valgono il digital EP (6 dollari, 4 euro), e due trascurabili. La batteria alla Neffa, tipo Il mondo nuovo, e i soliti giochini di synth, gestiti benissimo, della lunga Could I Be Losing Another Love?; il soul e poi il rappato rilassatissimo di One Less Day; l'r'n'b di I Wanna Thank U, canzone semplice e diretta, senza trick, di cui Dam si dichiara soddisfattissimo. E Dam, quando ci si mette, ha un tocco, un gusto, un'atmosfera unici.(6.9/10) Gabriele Marino David Bazan - Curse Your Branches (Barsuk, Settembre 2009) G enere : F olk Pedro, il nostro leone preferito, torna a ruggire malinconico. Erano altri tempi, infatti, quando David Bazan dava alla luce album memorabili sotto la sigla Pedro The Lion. Dismessa quella nel 2004, si è occupato di altri progetti a tempo perso, per poi firmare a proprio nome Fewer Moving Parts, ep edito dalla Barsuk. Stessa etichetta per la quale esce ora il suo primo album vero e proprio. Amore e fede cristiana sono sempre stati i due temi base delle sue liriche, e non fanno eccezione le dieci canzoni contenute in Curse Your Branches. Ciò che invece sembra variare, come già avvertimmo due anni fa sull'ep, è l'approccio musicale: il suo folk si discosta lievemente dall'indolenza slowcore per abbracciare in alcuni episodi una solarità pop prima inaccessibili (Please, Baby, Plese e When We Fell). Ma, nonostante questa apertura, i migliori momenti dell'album sono comunque quelli in cui i ritmi rallentano e la voce ritrova quella calda e profonda cupezza dei bei tempi in grado di straziare ed emozionare all'ascolto, come avviene nella title track, nella bellissima Lost My Shape e in In Stitches posta in chiusura. Un album nostalgico, che non riesce ad equiparare i livelli raggiunti con il leone, ma che comunque riscalda come una comoda felpa in autunno, solo un poco più più colorata.(6.9/10) Andrea Provinciali Deradoorian - Mind Raft (Lovepump Records, Luglio 2009) G enere : heavenly voices Verrebbe da pensare che la curiosa storia della nascita di Angel Deradoorian riportata nella pressrecensioni 65 sheet - semi-strozzata dal cordone ombelicale e salvata solo dal padre musicista che così le avrebbe trasmesso l’amore per la stessa - sia stata inventata per mettere un po’ di sale su questo esordio. Il fatto è però che la 22enne americana non ne ha proprio bisogno di storielle, né questo mini album d’esordio necessita di aggiunte di sale visto che saporito lo è già di suo. Una voce celestiale quella di Angel, già collaboratrice di Dirty Projectors. Una di quelle che, se non ci fosse nessun altro strumento a circondarla, avrebbe ragione d’esistere lo stesso. E infatti di strumenti ce ne sono pochi - uno spruzzo di elettronica, qualche passaggio acustico di chitarra, qualche battere di percussioni - perché il fulcro di tutto è la voce di Angel. Qualcosa che tratteggia paesaggi a metà tra sognanti panorami 4AD e minimalismo Heavenly Voices struggente e accorato, dimensione panica e folk da immaginario fantasy, con una particolare inclinazione per malinconia e crepuscolari tensioni. Il tutto si manifesta al suo meglio nel capolavoro finale Moon, vera e propria escursione cosmica dal sapore mediorientale. Ottimo esordio, peccato solo per la brevità.(7/10) Stefano Pifferi Devilrock Four (The) - First In Line (Unconform, Ottobre 2009) G enere : R ock Olè! Siamo di nuovo negli anni '70, e chi vi scrive (per l'occasione solamente) s'è infilato un bel paio di calzoni e zampa di elefante e s'è fatto crescere un due bei baffoni a manubrio. Dirty Little Secret, prima di affondare nelle nebbie di un generic hard rock molto radiofonico, parte con un tappeto di chitarre molto primi Black Oak Arkansas. Poi, però, finisce lì. E i Devilrock Four nonostante il pedigree temibilissimo (provengono dall'Australia) non graffiano come i Radio Birdman farebbero, né fanno fuoco e fiamme come i fu Lime Spiders. Né tantomeno stanno idealmente al passo con molti degli eroi ferocissimi che fecero grandi le musiche da quelle parti. No, qui il piglio punky melodico e aggressivo ci sarebbe anche, ma questi 'quattro del rock del diavolo' si smosciano appena partiti, e si sgonfiano in ritornelli melodici senza nerbo che ne66 recensioni anche la peggior band Epitaph post-1996 oserebbe far propri. Che dire infine degli splendidi intermezzi elettrici Deniz Tek-style, che però si smosciano improvvisamente come soufflè bucati: proprio sul più bello e lasciandoti l'acquolina in bocca(5.5/10) Massimo Padalino Did - Kumar Solarium (Foolica, Ottobre 2009) G enere : post - punk Post punk urbano affilato, elettronica, ritmiche da dancefloor. Come dire Torino - città di provenienza del gruppo - con i suoi sussulti sintetici da club culture che incontra i Liars e in mente ha i Gang Of Four. Dove sta' la novità? Nel sorriso mutante che questi Did mostrano alle telecamere quando sovrappongono distorsioni rovinose à la Sister Ray a un battere immobile (Sex, Sometimes); nel fascino discreto di un tropicalismo laptop da dejavù (Time For Shopping); in una new wave quadrata ma anche irrimediabilmente pop (Solarium). Questione di pesi specifici e di particolari, insomma, di equilibri sottili e di buona tecnica. Perché non ci vuol niente ad annoiare quando fai proclami in un idioma così inflazionato com'è oggi il post-punk; perché per suonare pretenzioso e indisponente basta poco, se traffichi con materiale proto-modaiolo come potrebbe essere quello contenuto in Kumar Solarium. Eppure i Did ci catturano con il loro mix attento - e furbo - di cool e buone intenzioni. Arrivando a farci muovere a tempo senza badare al nostro senso del ridicolo ma soprattutto riuscendo a tenerci appiccicati al lettore per tutti i 40 minuti di programma. (7.1/10) Fabrizio Zampighi Drums (The) - Summertime EP / The Drums EP (Moshi Moshi, Settembre 2009) G enere : S miths pop Con un bootleg divino come The Drums EP già da un paio di mesi in giro per la rete, l'attesa per il vero debutto della band si è fatta spasmodica. Summertime! il nuovo eppì è uscito negli USA per la Twenty Seven il 15 settembre, mentre la release europea (sotto Moshi Moshi) è prevista per ottobre. Nel frattempo, il 28 esce il superbo singolo Let's Go Surfing contenuto in entrambe le uscite, nonché manifesto per eccellenza dei ragazzi. Il sound è tra i più ovvi, cesellato nel più istantaneo dei modi pop ma in highlight Lightning Bolt - Earthly Delights (Load Records, Ottobre 2009) G enere : avant noise L’attacco è devastante. Il basso ultradistorto svisa di effettistica varia e la batteria martella a più non posso. Ma è lo stacco che precede le urla belluine che segna da subito, dopo nemmeno un minuto, l’atteso comeback dei Lightning Bolt. È pura incitazione all’headbanging e, insieme, al trattenere il fiato prima di gettarsi da un ponte attaccati ad un bungee-jumpy con l’elastico rotto. Sangue e materia, sudore e devasto. Come al solito. Tanto che, arrivati alla fine dell’opener Sound Guardians - guarda caso che titolo eh? - si è stremati, sconvolti, totalmente in balia dei due Brian ma non per questo appagati. La selvaggia liason col metallo pesante continua pure nella seguente Nation Of Boar: furibonde scale ascendenti di basso in overdrive e mid-tempo hard-rock cafonissimo eppure fatale, al punto che quando arriva la pseudo stasi di Colossus - abisso noise-dub come degli Om messi in centrifuga - si accoglie come una liberazione. Oasi di pace effimera, in verità, perché appena giunta al termine dei suoi 7, interminabili minuti The Sublime Freak riprende l’orgiastico sabba tribal-rumoristico. Spettacolo al quale assistiamo senza noie né cedimenti di ispirazione da un decennio buono e una cinquina scarsa di dischi/dvd. Insomma, le delizie terrestri che i due imbandiscono sono come un concerto hardcore old school suonato da 10 gruppi di noisers sotto speed in uno scenario da ecatombe PaperRadiana. Coloratissimo e ferocissimo. Materico allo sfinimento. Come al solito, direte voi. Ma la coppia Gibson-Chippendale non mostra la corda, affatto. E anzi usa linguaggi forse inusuali o meno classici, mantenendo intatto il furore primitivo e iconoclasta. La filastrocca pre-bomba H di Funny Farm ne è esempio, così come le frantumazioni (ehm) melodiche sospirate in Rain On Lake I’m Swimming In - acquosa e diluita come da titolo - o nel conclusivo tour de force post-kraut Transmissionary che abbrutisce gli Oneida più incompromissori e psichedelici regalandoci l’ennesima gemma di un rosario del rumore. Che il god of thunder garantisca lunga vita ai Lightning Bolt.(8/10) Stefano Pifferi 49 minuti complessivi ti polverizza il catalogo Labrador recente. Per una volta NME e compagnia brit assortita c'hanno visto giusto: il coraggio di crederci in un sound abusatissimo ha ripagato: post punk milkshake Sarah Recs e la Factory sintetica più leggera. Tutto esaltante perché se proprio la Factory si fece sfuggire quella volta gli Smiths, da loro e dall'ugola del Moz (e certi Cure infantili virati surf) che si aggira il fenomeno post-eighties del 2009. E c'è un neo in tutta questa celebrazione ed è il pasticcio Summertime!, un punto inferiore al bootleg perché se nel dischetto non manca la giocosità sixties di Submarine, lo spy-surf singolone Let's Go Surfing e il lentone Down By The Water all'appello non ci ritroviamo la Strokes-iana Me And The Moon, l'irresistibile otto bit di I'll Never Drop My Sword e soprattutto lei, la super smithsiana I Felt Stupid che è roba per la quale i fan di Pete & The Pirates potrebbero vendere la madre. Ok, c'è Saddest Summer, Robert Smith in spiaggia a Malibù sotto anfetamina, ma non è la stessa cosa. Per comodità e, in attesa del debutto lungo, daremo un voto complessivo al materiale a disposizione svelandovi pure che, nonostante l'ostentazione albionica, le due penne The Drums sono americane e tutto il materiale è nato in Florida sfondando poi nel giro di New York. Eppure questi ragazzi sono nati a Manchester. Proprio non li distingui dai classici inglesi tristi che sognano di surfare nell'oceano con sottobraccio le chitarre, la disperata allegria, il cuore pieno di nostalgia. Ancora una gemma dell'eppì unrealised Best recensioni 67 Friend, 4 secondi di twee e il resto in giostra pop. Strike totale.(7.5/10) Edoardo Bridda Eagle Twin - The Unkindness of Crows (Southern Lord, Agosto 2009) G enere : D oom /P ost - core Gentry Densley non ha mai fatto dischi facili. Non lo erano quelli degli Iceburn Collective e non lo era neppure l’ominimo degli Ascend (con Greg Anderson). The Unkindness of Crows, della sua nuova creatura Eagle Twin, sembra navigare in territori da principio conosciuti e consueti per chi bazzica Southern Lord e dintorni: voce cavernosa, ritmi al ralenti, chitarra poterosa e lungi drones. Eppure è soltanto un miraggio di un album invero disorientante. Il doom metal di marca Cathedral si trasforma in divagazioni post core di stampo Neurosis, qua e là spuntano fantasmi Earth (Pentastar e Thones and Dominions). Da tempo non ci capitava un disco metal/post-core così “progressivo”, con continui cambi di tempo e riff, cementato da una pensatezza e un’oscurità che lo tiene saldamente aggangiato al presente. Non sbaglia chi lo definirà un superamento del canone neurosiano, il disco gli Om non sono ancora riusciti a fare, o ancora, quello che avrebbero potuto fare i citati Earth se solo avessero resistito alle tentazioni post-country/rock. E ci piace che sia uno come Gentry a sfornarlo, uno che tanto aveva dato nei anni '90 e poco ci ha regalato in questi '00. (7.5/10) Nicolas Campagnari Editors (The) - In This Light and On This Evening (Kitchenware Records, Ottobre 2009) G enere : electro - pop riciclo Inutile accanirsi troppo. Il problema degli Editors non è che rifanno (siamo nel 2009!), ma che rifanno male. E che sono autocompiaciuti e - incredibilmente - prolissi.Voce baritonale un po' Morrissey, ma addolcita, e riciclo electro-pop ad oltranza. Musicalmente, si salva pochissimo, sempre e comunque in un regime romantic new new wave stanchissimo. I 68 recensioni testi invece è proprio meglio lasciarli stare. E poi, l'inciso di tastiera di Bricks and Mortar è una specie di plagio camuffato di quello di Hey Ya! degli Outkast. (5/10) Gabriele Marino Ethernet - 144 Pulsations Of Light (Kranky, Ottobre 2009) G enere : ambient Classico prodotto di scaffale per Kranky. Ethernet è il nome d’arte di Tim Gray, un altro (probabilmente l’ennesimo) drone master che approda sull’etichetta di Chicago. In un anno in cui il massimo nel genere probabilmente è stato dato dalla coppia Darwinsbitch - Gregg Kowalsky, con una coppia di lavori tanto all’avanguardia quanto difficile da decifrare, un disco come questo, con le sue pulsazioni Seefeel che sanno di vecchio quanto un vecchio nastro sony dimenticato in soffitta rischia di non lasciare null’altro che un’oretta scarsa di comoda ambient d’arredo di stampo elettro. Il massimo dell’attualità che possiamo riscontrare sta semmai nella gelida tachicardia elettronica virata Roland Tr-808 che mima confusamente sia i boschi di GAS che i gelidi panorami antartici Deepchord. Poca cosa per uno che in fase di press release si produce in siffatta mission: “L’intento dell’album è di produrre un viaggio interiore che vada di pari passo con la propria presa di coscienza, viaggiando verso nuovi stati di consapevolezza”. Messo come disco di sottofondo va anche benissimo, ma un disco del genere non ha comunque molto senso arrivati alla chiusura di un decennio che ha prodotto vagonate intere di dischi analoghi anche più riusciti e interessanti. Qualsiasi riferimento a Pan American o Stars Of The Lid è voluto.(5/10) Antonello Comunale Evangelista - Prince Of Truth (Constellation Records, Ottobre 2009) G enere : apocalypse now Di nuovo sul proscenio con il consueto carico di livore, Carla Bozulich produce il suo terzo lavoro in quel di Montreal. Un disco che ruota intorno all’ormai canonico standard a base di romanze blues fatte d’archi e d’apocalisse funzionando un po’ come sintesi perfetta tra tutti i suoi lavori prodotti fin’ora. La vera verità di Evangelista parte III è la discesa inarrestabile negli inferi, sia pure con una smaliziato sfoggio di maniera. In questo senso Prince Of Truth ti da esattamente quello che ti aspetti, ma quello che perde in sorpresa, lo acquista in disegno di insieme e in compiutezza. Dopo pochi ascolti, il sospetto che questo possa essere preso come il lavoro definitivo della Bozulich in versione Evangelista non smette di tormentarci, più o meno nella stessa maniera con cui la plumbea nuvola d’archi d’umor di tenebra introduce il disco al suono di The Slayer. Sulla produzione del disco, quello che è dato di sapere è che Carla per colpa di un’infezione alla gola presto tramutatasi in polmonite, è costretta ad abbandonare le primissime sessions all’Hotel2Tango con il resto della band impegnata a terminare da sola le parti strumentali. Solo in un secondo momento arriva il suo intervento, con un abile metodo di taglia e cuci messo in atto grazie al supporto della fidata Tara Burnes. Si spiega cosi forse l’intervento vocale quasi estraneo o meglio quel taglio salmodiante di chi ragiona su un mondo che non gli appartiene più. Stavolta il recitato di Carla sa di radiodramma, di registrazioni sopravvissute a chissà quale catastrofe. Nelle sue parole c’è una freddezza terribile che stride con il furore tragico dei passati dischi. La tempera in cui sono intinti i brani è comunque la più nera che è data di ascoltare di questi tempi. Gli umori thriller di The Slayer si stemperano nell’arietta post orchestrale di Tremble Dragonfly per poi diventare il fantasma di un country ormai diventato un ricordo preistorico in I Lay There in Front Of Me Covered in Ice. Fin’anche le cadenze jazz nella terra di mezzo composta da Iris Did’nt Spell e Crack Teeth non riscaldano, semmai gettano un’ombra di fatalismo ulteriore prima della apocalisse finale di On The Captain’s Side. La quint’essenza della Bozulich. Più nero di così c’è solo la morte.(7.3/10) Antonello Comunale Factorymen - Shitman (Richie Records, Ottobre 2009) G enere : weird synth È curioso vedere come due esperienze partite da posizioni affini si siano sviluppate nel tempo in maniera assai diverse. Era l'inizio del 2008 quando la My Mind's Eye pubblicava il primo, omonimo Ep dei FactoryMen, side project di Steve Peffer degli Homostupids, e Mr. Mike Sniper (dei DC Snipers) aveva anch'egli da poco intrapreso il suo progetto - ora celeberrimo - Blank Dogs. I due muovevano dall'attitudine garage-punk dei rispettivi gruppi di provenienza e ciò si sentiva nella scarnezza ed immediatezza delle composizioni di entrambi. Blank Dogs poi è stato preso sotto l'ala della Sacred Bones ed è diventato l'inarrestabile sfornatore di dischi in vari formati e durate che conosciamo bene. Ecco, FactoryMen avrebbe potuto sostanzialmente fare lo stesso ed invece no; al posto di muovere verso un labor limae in chiave pop dei propri pezzi, Steve Peffer è stato fermo dov'era, prendendosi il suo tempo per ''scrivere'' i nuovi brani per quest'album. Così si continua sulle stesse coordinate del primo Ep: synth funerei (Bark Like A Dog) e truci filastrocche rigonfie di malsana demenza elettronica (Alleyman) che ricordano al pari Dark Day, Nervous Gender e Residents. Sul lato B si spinge ancor di più il pedale della malattia mentale, con pezzi totalmente deliranti come Treblinka e Blank Dream. Talvolta la dose di molesta stupidaggine impiegata può sembrare eccessiva e leziosa, ma questo e soprattutto questo è FactoryMen.(6.9/10) Andrea Napoli Fat Freddy's Drop - Dr Boondigga & The Big BW (The Drop, Giugno 2009) G enere : reggae - dub - soul Serata in un lounge-bar con un amico metallaro, a un certo punto cominciamo a seguire la musica di sottofondo. Andiamo a chiedere al barista di cosa si tratta. Ci porge un digipack con una copertina a cartoon, un'enorme piovra che attacca una scialuppa. I Fat Freddy di Based On A True Story. Un morbido cocktail, jazzato non shakerato, a base di rilassato reggae-dub e vocalità dalla pastosità soul, molto curato nei suoni e negli arrangiamenti di fiati, sicuramente ruffiano, ma perfetto come sottofondo notturno. Questo secondo long dei neozelandesi (delle star in patria) resta fedele alla morbida formula, il cui cuore è quella soul-inflection della voce (ribadita da riprese live di un classico assoluto come la Dock Of Bay di Otis Redding), vedi tutta una serie di pezzi vellutatissimi a seguire l'iniziale, bellissima, Big BW. Se dal vivo il gruppo si trasforma praticamente in una jamband, il disco resta perfetto come sottofondo notturno, non nel senso della tappezzeria, ma di una musica per un club dove non si balla ma ci si recensioni 69 highlight Luciano - Tribute To The Sun (Cadenza Records, Ottobre 2009) G enere : etno - minimal L'evoluzione dei mostri sacri della minimal. Da un lato Ricardo Villalobos sempre più eterogeneo e non catalogabile, dall'altro Bruno Pronsato che si cristallizza. L'altro vertice è Lucien Nicolet. La sua sensibilità si sposta a sud. E il suo nuovo album è il manifesto di un ritrovato sapore etnico che ha nelle vene il balearico tramonto ibizenco (e i natali cileni dell'uomo). Un disco difficilmente catalogabile. La minimal viene frullata in un composto di marimbe e balafon ancestrali (Hang For Bruno), l'Africa compare in una danza tribale con dei clap assassini e dei cori che ti si stampano in testa e che non ti mollano più (Africa Sweat appunto), e per finire una fetta di Sudamerica che riporta Luciano a casa (Los Niños De Fuera è l'incipit da panico). Non solo viaggi comunque. La certezza del club è sempre lì in agguato e allora in conclusione l'uomo ci regala due pezzi lunghissimi: Metodisma è un'incubo deep senza mezzi termini e Oenologue la classe targata Cadenza che ti si attorciglia sulla spina dorsale e ti costringe a muovere il culo. Il secondo disco (dopo 9 anni dal primo) di un boss che spazia e che nelle tasche ha solo assi. Ne sentiremo sicuramente riparlare. Per chi scrive disco minimal dell'anno. Hands up for Luciano!(7.7/10) Marco Braggion muove sinuosi. E loro restano bravi nel riempire i piccoli spazi di variazione che la formula riserva. Ma potrebbero dare molto di più.(6.6/10) Gabriele Marino Filthy Dukes - Fabriclive 48 (Fabric, Ottobre 2009) G enere : compil ation electro fidget disco Nella compilation dal vivo dei Filthy Dukes incontriamo il gotha now del dancefloor à la page. I nomi ci sono tutti: si va dalla progressività retro di Phenomenal Handclap Band e di Who Made Who al tiraggio fidget di Mr. Oizo e di Tiga. In più gli immancabili classici targati Daft Punk (in remix per Soulwax) e Aphex Twin. Un set che parla di divertimento puro e che con gli inserti degli stessi DJ londinesi (famosi per le notti del Kill Em All a Camden) non stanca, anzi fa il punto della situazione in modo più che egregio. Se volete aggiornarvi o semplicemente non avere pensieri alla consolle, schiacciate il tasto play e ballate. (6.5/10) Marco Braggion 70 recensioni Fink - Sort Of Revolution (Ninja Tune, Maggio 2009) G enere : I ndie folk Il terzo disco post-svolta di Fink porta la quasi rivoluzione del titolo, che consiste in realtà in una messa a punto, una focalizzazione verso uno stile che accentua il minimalismo e i toni sommessi, al punto che le nuove canzoni riecheggiano lo Smog meno rock, sia come timbro vocale che come mood generale. Ma non si tratta di passo indietro verso quel tipo di canzoni presenti in Biscuits For Breakfast e quasi del tutto abbandonate in Distance and Time a favore di un folk-rock a modo suo classico, quanto invece di un consolidamento della propria voce e della coerenza stilistica. Gli altri strumenti, ancor più che nei due precedenti capitoli, si limitano ad intervenire qua e là per accentuare o sottolineare (fanno eccezione Maker e il piano di John Legend in Move On Me), lasciando al centro la chitarra acustica e la batteria, le quali ora assecondano le ballad ora ci giocano di contrasto movimentandole ed evitando di finire in una versione slacker del lato B di Berlin: la prima con pennate da Kaukonen solista (la title-track, Nothing Is Ever Finished), la seconda suonando i sedicesimi come se fossero quarti, con ritmi che mostrano qua e là il dj che Fink fu. Un gioco condotto sul filo del dettaglio e del particolare, con gusto e delicatezza di tocco che dà brio anche al gospel senza fretta di Q & A e che fa sparire la sutura tra le canzoni scritte e il modo di presentarle.(7.1/10) Giulio Pasquali Firekites - The Bowery (Own Records, Settembre 2009) G enere : folk post Gioca a passare inosservato, questo The Bowery, esordio per il combo australiano Firekites, un trio espanso, per così dire, tanto che alla fine per contare i musicisti coinvolti ci vogliono le dita di due mani. Così come dieci canzoni sono le canzoni in scaletta, imperniate sull'arpeggio fervido e frugale di chitarre acustiche, sviluppandosi alla bisogna tra morbide emulsioni di moog e l'accorta pressione del basso. Gli archi che pettinano un malanimo che diresti mitteleuropeo e ricami sintetici mai troppo invasivi completano il panorama strumentale, mentre la scrittura ciondola tra inquietudini folktroniche, estasi post e digressioni latin-tinge. Potrebbero sembrare i Kings Of Convenience che suonano un repertorio Notwist con la produzione di Jim O'Rourke, oppure un morbido ibrido tra The Sea And Cake e American Analogue Set, però quando alla voce c'è Jane Tyrrell - interessante ugola da Melbourne - tempo un attimo e ti ritrovi in mezzo a paturnie sintetiche come una Feist in fregola Laika. La mancanza di intuizioni forti, di espedienti ad effetto, rende la musica dei Firekites un ottimo lenitivo per le nostre teste piene di troppe cose. Ed è anche quello che rischia di farla passare inosservata. (7.1/10) Stefano Solventi Flaming Lips - Embryonic (Warner Music Group, Ottobre 2009) G enere : prove tecniche di jam psych Zaireeka (con polarità invertita) + (strascichi di) Christmas On Mars + (i quasi cinquantanni di) Wayne Coyne. Una possibile equazione per spiegare questo attesissimo Embryonic. Zaireeka era il "disco Ikea" da ricostruirsi come possibile ognuno a casa propria, un gioco all'alea aperta pensato per l'ascoltatore. Mentre qui sono i Lips a divertirsi, più del solito, jammando chiusi in studio, scambiandosi gli strumenti, abbondando in effettistica. Del film, manifesto filosofico dei nostri in chiave enigma b-scifi, restano le suggestioni in tutti i sensi nebulose (e gli abusatissimi dream chimes della OST), calate in un contesto più tradizionalmente psichedelico, come piace ai nostri: tra canzoni poprock-psych (quelle dell'EP che anticipava e giusto un paio d'altre) e brandelli ora garagistici (più un paio di puntate nell'hard) ora dilatatissimi a creare una sorta di spacey-lounge al rallentatore. Molto autoriciclo anche, sia filo (dal loro passato) che ontogenetico (il disco si autocita). Come suona la cosa? Come dei Red Krayola passati prima nella candeggina e poi nel latte? Wayne Coyne è un believer, si capisce dai testi (misticismo naturalisco, estasi e dolore risolti in due frasi e anche meno) e dalle dichiarazioni nel presentare il concept (Il portiere di notte della Cavani, autosuggestioni astrologiche) del disco. Che è sicuramente divertito (vedi Coyne che ride nella - pare - improvvisata I Can Be A Frog, con Karen O degli Yeah Yeah Yeahs al telefono), ma alla lunga stancante, perché stiracchiato, autoindulgente, come un passatempo da ricconi. I pezzi buoni e i momenti carini ci sono perché sono i Flaming Lips, ma manca la scrittura, e questo va bene viste le premesse, ma manca pure la visionarietà che ci si aspetta da un progetto del genere: se questa è la loro idea di jam psych-impro, la delusione monta ancora di più. Settanta minuti spalmati a tutti i costi su due compact, insomma giusto per il gusto del doppio. Edizione limitata con copertina pelosa e litografia autografata. Accolto finora esageratamente bene dai critici USA, che però hanno anche cannato tirando fuori parole come "prog".(6.4/10) Gabriele Marino Fuck Buttons - Tarot Sport (ATP Recordings, Ottobre 2009) G enere : electro - noise Un’immagine mi rimarrà in mente pensando ai Fuck Buttons di Street Horrrrsing, al di là de fatto che tra dieci anni li riascolterò o meno. È recensioni 71 l’empatia e il trasporto del tutto psichedelico che il loro concerto rumorista provocò negli sguardi e negli animi delle persone presenti. Una chiave sottovalutata forse all’inizio dell’anno scorso, quando uscì l’LP di debutto del duo, fu proprio l’immobilismo. Quello dell’ascoltatore di fronte alla capacità dei Buttons di fare quella musica rispettando i tempi e le aspettative di ogni crescendo, di ogni sviluppo sintetico. La domanda è allora: ma se Tarot Sport non fosse più un disco che lascia immobili a fruire dell’esperienza Fuck Buttons? Il primo disco era così d’impatto perché dopo tanto cervello nell’elettronica, tornava a fare le cose più semplici e meno intellettualmente stimolanti. Qui c’è solo un capitolo che riprende la gloriosa ondata cervellotica degli ultimi quindici anni: Phantom Limb (di cui peraltro c’erano avvisaglie anche in Ribs Out). Ma è ancora ammirabile il modo in cui i Fuck Buttons riportino il tutto, sul finale del brano, alle loro atmosfere emotivamente rilevanti, basate su reiterazioni continue di arpeggi azzeccati. L’elemento minimo della loro strategia, e il più vincente. Del resto l’elemento ritmico, la cassa dritta o altri prestiti della techno, sono l’unico segnale di spostamento del suono da Street… Un pallido segnale, che si unisce all’unico altro cambiamento che è la sparizione della voce catartica e rumorista che punteggiava i picchi dei crescendo dell’album precedente. E quindi è anche per fare di necessità virtù che ci siamo focalizzati su questo per recensire il seguito di quel primo capitolo. Insomma, quasi tutto secondo copione. È sempre la cosa più prevedibile un secondo disco che segna, con le conseguenti discese (più o meno ripide) di entusiasmo, una continuità rispetto al primo. La conclusione è però un’altra. Quando si inizia ad ascoltare Tarot Sport si cercano le differenze dal convincente esordio del duo. Ma poi si capisce, che è un proseguimento del primo. Non sposta nulla perché forse i due sono fissi sulla formula come il pubblico che li osserva; e non hanno bisogno di cambiarla. (6.6/10) Gaspare Caliri Gong - 2032 (G-Wave, Settembre 2009) G enere : P rog opera Mamma mia che ritorno in pompa magna. Per celebrare il loro quartantesimo - nel frattempo diventato quarantunesimo - compleanno, Daevid Allen, Steve Hillage i redivivi freakdelici Gilli 72 recensioni Smyth e Didier Malherbe onorano la mitica ragione sociale che generò la trilogia della teiera aggiungendole un nuovo capitolo. La saga di Zero The Hero - e del fanstastico pianeta alieno - continua e attaccando con un ispirato We come from an Alien Nation to the city of self fascination quei vecchiacci ci racconteranno persino dell'incontro tra il pianeta Gong e noi terrestri. Testardi hippy. Non c'è di meglio per descrivere la produzione ordinata e la buona approssimazione rock del nuovo sforzo. 2032 non cerca di sfidare la creatività e l'irriverenza degli album giovanili, senz'altro più rustici e imprevedibili, piuttosto distilla l'originale concept in un prodotto per adulti bambini e bambini tout court. Pur nelle immancabili autocitazioni (The Year 2032) e nella compiaciuta cosmologia freak, il canovaccio è fatto bene, sprizza energia e voglia di suonare, humour e rap. Sì, del rapping prima maniera e una serie di espedienti che ricordano più i Roxy Music (Digital Girl) addomesticati che il viatico Gong ci convincono che i quattro hanno la zampata che serve. Approvato il rock come linguaggio per la vita, How To Stay Alive porta a segno il gioco di rime nerdnegroidi. E ti rendi conto che anche l'ugola felpata di Allen-nonno-mago è una bella sorpresa. Quando il rap nacque, la leggenda narra che il nostro era tassista nella grande mela e se ci senti la Sugar Hill Gang in Dance With The Pixies non è una sorpresa. E Hillage? Vecchiaggio da sballo pure lui: liberatorio sentirlo ingranre la marcia sull'autobahn in Escape Control Delete, omaggio a Neu! incluso nel prezzo - e occhio alle citazioni Alan Parsons Project (non adatte ai più freak). Smith agli aggeggi spaziali non manca di sollevare gli animi ma è per il sax soprano, il duduk e il flauto del divino Malherbe che il tempo sembra essersi fermato. 2032 è uno spasso, una bella fiaba ma quando t'accorgi che non sembra avere fine non ti resta che maledirli quei quattro, che non hanno perso il vizio di suonartela fino alla morte (vero Mariposa live?). Ad ogni buon conto chi non vorrebbe Daevid in famiglia se lo senta in versione punk in Wacky Baccy Banker. Sapevate che tirando per i capelli il glam vengono fuori i Sex Pistols? Chiedeteglielo a all'australiano classe '38, avrà una storia anche per quello...(7/10) Edoardo Bridda Grand Archives - Keep in Mind Frankenstein (Sub Pop, Settembre 2009) G enere : I ndie P op Gli ingredienti ci sono tutti, esposti con mestiere e molto garbo: le melodie stropicciate e leggiadre, le immancabili nostalgie sixties (ovvero la stucchevolezza Beach Boys e il country aromatizzato Crosby, Still & Nash), quell’immaginario periferico e gentilmente tardoadolescenziale che li accomuna ai molti colleghi di casa Sub Pop (The Shins, Postal Service, Fruit Bats). Il problema è che poi - a metterli insieme - può capitarti fra le mani un dischetto come questo Keep in Mind Frankenstein, secondo capitolo della formazione capitanata dall’ex Band of Horses Mat Brooke: gradevole, certo, epperò vagamente anonimo, con quel retrogusto di già sentito - si, ma dove? - che non sai se affibbiare alla mancanza di ispirazione o al citazionismo più o meno deliberato cui si abbevera la scrittura del nostro. In ogni caso, le belle canzoni - come pure le good vibrations - non mancano: Silver Among The Gold, con il suo incedere lieve fra praterie assolate e brezzoline Grandaddy, la mestizia in salsa agrodolce di Oslo Novelist, o il lievitante impasto di trepidazione e spensieratezza di Dig That Crazy Grave, sono ottimi esercizi country-indie-pop alla maniera di Wilco e Iron & Wine che carezzano l’orecchio e promettono di rendere meno gravoso il rientro in città. (6.5/10) Nunzio Tomasello Health - Get Color (City Slang, Ottobre 2009) G enere : tribal - noise I losangelini Health aumentano ancor di più, se possibile, lo spessore di suono e ritmo in occasione dell’atteso comeback. E se il flirt col secondo si era palesato nell’esordio omonimo per essere poi corroborato dal trip dancefloor-oriented del progetto laterale HEALTH // DISCO (con vari remix di Crystal Castles, Pictureplane et similia), è l’attenzione sui suoni a segnare lo scarto in questo nuovo album. Non che all'epoca mancasse qualcosa, solo che adesso i quattro spingono di brutto sulla stratificazione per confezionare un album forse meno intransigente ma sicuramente più focalizzato. Nessun timore, però; la direttrice percussiva che tanto ce li aveva fatti amare resta sempre la linea portante del suono: ossessiva, reiterata, grassa è la vera spina dorsale, l’asse su cui si inseriscono le varie infiorettature con cui il quartetto stratifica un suono eccitante ed eccitato. Sono però proprio i suoni a subire uno scarto significativo, una sorta di mybloodyvalentinizzazione che ispessisce la grana dell’art-rock (che questo è, in definitiva) e ne aumenta a dismisura potenzialità e resa. Severin, Eat Flesh, il singolo Die Slow, Death+ sono tutte prove magistrali di questo procedere, tanto che le coordinate degli Health che conoscevamo mutano verso una sorta di techno-rock deforme, innervato sì, di nevrosi post-punk e tribalismo muscolare e in perenne tensione, ma anche e soprattutto di instancabile e onnivora fagocitazione dell’esistito (dalla no-wave più ritmata all’industrial più devastato) e dell’esistente (la scena coagulatasi intorno allo Smell di cui sono splendidi protagonisti).(7.5/10) Stefano Pifferi Helena Espvall/Masaki Batoh - Overloaded Ark (Drag City, Settembre 2009) G enere : minimal folk Attonito. Di fronte alla bellezza del secondo album realizzato da Helena Espvall e Masaki Batoh ancora per Drag City. La prima oltre ad un'eclettica carriera in solo può vantare una solida partnership con i grandissimi Espers di Philadelphia, mentre il secondo è stato il luminare dei Ghost, oltre che una delle eminenze grige dello psych-rock nipponico. Coadiuvati questa volta in studio da Haruo Kondo (cornamusa, hurdy gurdy), Junzo Tateiwa (darbuka, frame drums e percussioni) e Kazuo Ogino (registratore, piano) licenziano un album che fonde istanze minimaliste con uno spurio approccio alla world music, per nulla ingentilito dai crismi della moderna produzione o dalle cartoline preconfezionate dalla grande industria del disco. A differenza del debutto ci sono anche una manciata di brani autografi, come il mantra percussivo di Overloaded Ark - che rilascia addirittura un sibilo sinistro al secondo minuto - che muove tra chincaglierie recensioni 73 acustiche e valzer da Est Europa. O la lunghissima Until Tomorrow che sbaraglia con fare solenne tutta la concorrenza freak folk, avallando un certo esotismo figlio delle congetture minimaliste di Terry Riley. In sostanza siamo di fronte ad un lavoro che potrebbe rapire i seguaci di Ben Chasny / Six Organs Of Admittance, come i cultori della psichedelia turca e gli aficionados dei suoni sponsorizzati da una label come Sublime Frequencies. Un ponte tra modernità e tradizione, nella delicatezza di arrangiamenti soffici, in una prospettiva quasi lisergica. Ma c'è dell'altro: lo chansonnier ante-litteram Pierre Attaingnant rivisitato in Tourdion (materia che risale addirittura al 16° secolo) , la musica classica di Pro Peccatis Sua Gentis/Nun Fanget An ed una commovente Sueno Con Serpientes del cubano Silvio Rodriguez (del collettivo musical/attivista Nueva Trova Cubana). Nove tappe per un percorso sostanzialmente svincolato dalle rigide tematiche del debutto, un affascinante sussidiario stilistico che già ora si candida tra le pubblicazioni più genuine di questo 2009. (7.8/10) Luca Collepiccolo Hercules And Love Affair Sidetracked (Renaissance, Settembre 2009) G enere : disco house Prima, quando volevi sapere le influenze o le guide spirituali di un artista, andavi a leggerti le interviste, oppure, nel caso si possedeva il disco, gli special thanks a piè Packaging. Oggi, con l’avvento delle compilation volte a svelare il background artistico del solista o gruppo che sia, si è perso in poetica guadagnandone in voyeurismo. Però, diciamocelo, hanno il loro fascino, anche perché a compilarle sono gli artisti stessi. Cambiano i tempi, si adeguano le manie. Riposta la romanzina di cui sopra, affrontiamo Sidetracked, nuova ed ennesima serie sul tema - che si stia speculando sul fenomeno, tuttavia, non è un mistero - inaugurata dal vissuto di Andy Butler, ovvero Sig Hercules & Love Affair. Butler, da buon dj - perché ricordiamoci che il Nostro, prima di dedicarsi alle questioni amorose di Ercole, è e rimane tale - seleziona e missa, nel primo dei due cd in 74 recensioni questione, classici che lo hanno forgiato quali Todd Terry (presente sia nelle vesti di Sax per No Pares, Don't Stop che in Project con Class Action), Gino Soccio (Dream On, al solito trascinante), Dr. Buzzard's Original Savannah Band (I'll Play The Fool), Daniel Wang (Zola Has Landed) e In Flagranti (I Hadn't Screwed Around Before) tra i tanti. Nel secondo cd buona parte delle tracce le si trovano nella veste originale e rimasterizzate per l’occasione. Da segnalare un inedito di Hercules & Love Affair, I Can't Wait (dal taglio ipnotico molto ’90), e la mancanza di Situation dei Yazoo, l’episodio che trasformò il piccolo Andy da provetto pianista a futuro agitatore sonico.(6.7/10) Gianni Avella Hope Sandoval & The Warm Inventions - Through The Devil Softly (Nettwerk Music Group, Settembre 2009) G enere : dream country rock Capisci che ci sta di nuovo provando già leggendo il titolo del disco… per non parlare poi dalla copertina. A ragion veduta si può anche convenire che forse non è necessariamente lei che ci sta provando ma tutti quelle che le gravitano intorno, a partire da Colm O'Ciosoig che messi da parte i My Bloody Valentine rispolvera per la seconda volta dall’oblio la sensualità fatata e svenevole di Hope Sandoval. Il precedente album, pubblicato ormai ben otto anni fa, era evidentemente una serie di estratti possibili di un mancato disco dei Mazzy Star. Bavarian Fruit Bread proseguiva il discorso interrotto con la band madre e sembrava che nulla fosse cambiato, salvo forse avvertire - ma neanche tanto - la mancanza della chitarra di David Roback. Ora assistiamo al ritorno dell’assassino sul luogo del delitto e il giochino ammiccante si fa davvero troppo scoperto per anni iper smaliziati come questi. La presenza scenica è sempre la stessa, un mondo ombroso e vellutato quello di Hope che ha fatto a suo modo epoca, salvo poi difficilmente spostarsi dal modello costruito da Roback nel post Opal con la classicissima Fade Into You. Quindi è sempre, anche qui, il suono di un country rock notturno e atmosferico che discende tanto dalle Trinity Sessions dei Cowboy Junkies quanto dagli esperimenti di Kendra Smith risalenti già all’epoca dei Dream Syndicate. Il copione quindi è già noto e il disco si fa ascoltare con facilità, proprio perché è come un film di cui si highlight Mountain Goats - The Life Of The World To Come (4AD, Ottobre 2009) G enere : indie rock La capacità di John Darnielle alias la mente pensante dei Mountain Goats, di ricavare canzoni brucianti dai più vari input ci ha sempre sorpreso. Uno dei più fervidi scrittori di liriche oggi in circolazione, con alle spalle una carriera iniziata nei ‘90 come outsider lo-fi e poi proseguita in modo più o meno normalizzato in seno alla 4AD, ha non a caso nel curriculum una serie di concept tra il nonsense e il surreale, sempre sorretti da una vena musicale variamente ispirata. Non fa eccezione quest’ultimo, che arriva a un anno e mezzo di distanza dal febbrile Heretic Pride. Ora il pretesto narrativo è costituito dalla poetica e dalle immagini bibliche. Pretesto perché è strumentalmente un filo conduttore che permette all’autore di spaziare in lungo e in largo nella psiche sua e collettiva, come da consuetudine, alla ricerca di virtù e debolezze, con l’ attitudine che gli riconosciamo tra il mesto e lo psicotico, una strana miscela davvero. Musicalmente il tutto viene scarnificato, rispetto al precedente, lasciando più o meno l’essenziale; vale a dire ballad in acustico, uso di uptempo, una vena rock e indie pop che fa incontrare Robyn Hitchcock e i R.E.M. con gli archi, ma in parsimonia (arrangia Owen Pallet alias Final Fantasy), una buona dose di psych pop virato freak che ci ha ricordato il buon Daniel Johnston in più di un’occasione, e in generale una semplicità e un’asciuttezza che in genere è il risultato di anni di lavoro. Che hanno pagato evidentemente.(7.3/10) Teresa Greco conosce già la storia. Blanchard, il primo estratto dal disco, è una tipica ballad country rock che gioca lo stesso ruolo che nel precedente album era di Suzanne; Wild Roses si appoggia ad un arpeggio flebile ed evocativo e For The Rest Of Your Life si alimenta ad una calda psichedelia californiana tutta riverberi ed echi. Tutto il resto del lavoro non si sposta di una virgola da questa triade iniziale e il risultato a lungo andare nuoce gravemente all’interesse nell’ascolto. Dopo un ritorno del genere è abbastanza chiaro che Hope Sandoval si pone come classico da antologia. Di quelli che il pubblico cerca proprio per il suo essere sempre uguali a se stessi.(6/10) Antonello Comunale Hudson Mohawke - Butter (Warp Records, Ottobre 2009) G enere : ritmi / wonky hop - tronica Hudson Mohawke (Hud Mo per gli amici del collettivo di Glasgow LuckyMe, Ross Birchard per la mamma), classe 87, è uno dei buzz più attesi al varco tra elettronica, produzioni e ritmi. La Warp l'ha accalappiato quando ancora non aveva prodotto niente di ufficiale e gli ha licenziato l'ottimo Polyfolk Dance EP. Qui Hud esplicita ancora di più la sua passione hiphop, che nutre questo disco allo stesso modo in cui nutre un Harmonic 313. Per dire, due pezzi sono con Oliver Daysoul, e siamo tra Outkast e SaRa, e due sono con (mirabile dictu!) Dam-Funk, e si sente (All Hot è anche uno dei pezzi migliori). Necessariamente meno compatto del cesellatissimo EP, questo long mostra una grande tecnica e una grande facilità di produzione (leggi anche 'eclettismo'), tanto che un paragone con Mochipet, pur con le dovute differenze, non appare campato in aria. Hud è più psichedelico, più visionario e più elegante, meno pasticcione e meno nerd a-tutti-i-costi (sempre di nerd si tratta però), anche lui giocoso ma non così deformante (Velvet Peel, nota già dall'EP; il finale di Black'n'Red). E anche in lui, sopra una base consapevolmente wonky (3.30), non immune da farecensioni 75 scinazioni J Dilla, troviamo videogiochini e breakbit, a cui si aggiungono post-post-rave, post-Aphex Twin e tastierine coriandolose. Niente di nuovissimo, ma è tutto cucinato bene e porto frescamente, con un tocco già riconoscibile (vedi soprattutto il trattamento e le dinamiche della batteria, Trykk). Chissà se Hud deciderà di specializzarsi, e su cosa. I pezzi cantati, che non ci aspettavamo, sono forse ancora poco personali, ma non sono affatto male. Per la serie strano ma vero: le tastiere di Gluetooth sembrano le chitarre-synth di Allan Holdsworth; le prima note di Fruit Touch citano forse la Sagra della Primavera di Stravinsky. (7.1/10) Gabriele Marino Io Monade Stanca - The Impossible Story Of Bubu (Africantape, Ottobre 2009) G enere : math - noise C’è un’altra fetta d’Italia, periferica anch’essa, che brucia di sommovimenti intestini come le Marche indagate tempo addietro. Gli scossoni che giungono dal basso Piemonte però - questo il luogo d’origine geografica dei tre Io Monade Stanca - sono decisamente più tellurici e pesanti: coagulata intorno alla Canalese Noise, piccola etichetta amante del rumore e delle pratiche diy, sta crescendo infatti una scena intera di grezzo post-hc mutante, urlato e difforme. Come ogni regola ha la sua eccezione ecco i qui presenti Io Monade Stanca: geneticamente inclini alla variazione math e prevalentemente strumentali (la voce c’è ma è come uno strumento, a volte) sembrano la controparte cerebrale alle sfuriate dei compagni di merende (Ruggine su tutti). Il trio, però, sopperisce alle dubbiose questioni tipiche di questo genere (concettismo strumentale o fredda perizia senz'anima) con grandi dosi di follia e autoironia. Così si spiega il minuto iniziale dell’opener Abete 43211234, tributo al panzer-rock melvinsiano che si sfibra subito in un arpeggio post-rock made in Chicago, per continuare poi a rifrangersi in mille direzioni nei 4 minuti del suo sviluppo. Proprio alla windy city guardano i tre, ma se ne fottono altamente di reiterare le gesta ormai fattesi storia di quella città 76 recensioni e quei suoni. E così si buttano a narrare - a colpi di frasi musicali nervose, epilettiche e fuori sincrono - le patafisiche storie di bubu, che immaginiamo essere il fratello schizoide, senza freni inibitori, scalcinato e umorale dell’Ubu di Jarry. Ne riparleremo a breve, sicuro.(7/10) Stefano Pifferi Islands - Vapours (ANTI-, Settembre 2009) G enere : pop Vapours, terzo album della formazione di Montreal, vede il ritorno del cofondatore batterista Jamie Thompson, che aveva lasciato la band dopo l’esordio Return To The Sea (2006). Gli Islands si erano allora rifondati attorno a Nick Diamonds, producendo l’anno scorso il pop stratificato ricolmo d’archi di Arm’s Way. Ora si ritorna agli equilibri precedenti e si sente. La parola d’ordine per Vapours è innanzitutto un certo minimalismo che non passa inosservato, se paragonato al barocco del precedente: via allora le orchestrazioni massive e largo alle ritmiche, caratteristica del passato. Allora il (guitar) pop prettamente melodico viene accompagnato questa volta da synth, drum machine, sequencers e quant’altro serva a dare anche smalto dance alla produzione. Si mantengono, è da dire, salde tutte le caratteristiche della band, melodia innanzitutto, slanci alla Arcade Fire e Stars, cambi alla TV On The Radio, e tutto l’ampio repertorio che abbiamo imparato ad associare in questi anni al cosiddetto “Montreal Pop”. Nell’album convivono allora le due anime del gruppo, in pezzi come On Foreigner, Switched On, la title track, dove l’ampiezza della melodia si sposa perfettamente alla ritmica, e momenti prettamente elettronici (il singolo synthato No You Don’t di forte sapore Ottanta così come il funk di Devout, e gli esempi potrebbero continuare). In sostanza con Vapours si riesce a raggiungere un equilibrio apprezzabile tra le diverse componenti musicali, segnando, se questa formazione dovesse stabilizzarsi a questa maniera, una svolta significativa e un arricchimento del sound Islands.(7.2/10) Teresa Greco Jim O’Rourke - The Visitor (Drag City, Settembre 2009) G enere : A vant pop Chissà quale giubilo nell'incontrare un proprio idolo come Van Dyke Parks in occasione del- le session che hanno portato al concepimento di Ys, il disco-gioiello di Joanna Newsom dato alla luce per Drag City nel 2006. Mai troppo riservato nel riconoscere i propri modelli, e sempre equidistante dalla mera esaltazione come dalla più bieca abnegazione, O' Rourke da avido e scientifico consumatore di musica che è, ha fatto sempre in modo di filtrare le sue più radicate passioni attraverso la logica dell'esperienza. The Visitor è l'album in studio che pone fine ad un silenzio quasi quinquennale, se vogliamo mettere da parte il discreto numero di ristampe - di materiale prettamente ambient e le effimere collaborazioni con artisti off (si pensi alla sortita con Carlos Giffoni e Merzbow per etichetta No Fun a titolo Electric Dress) che hanno interessato il nostro. è un disco - The Visitor che si inserisce nel solco di Bad Timing, non portando in dote le magniloquenti aperure pop di Eureka, nè tanto meno le risacche più palesemente elettriche di Insignificance. è un album a tutti gli effetti solista, registrato in quel di Tokyo, sua attuale dimora. Un lavoro che semmai amplifica l'idea di one-man big band, tanta è la carne messa al fuoco da Jim, che in una singola traccia di appena 38 minuti, costruisce e smonta con fare stralunato castelli, o meglio ipotesi musicali. Che fioriscono genuinamente per poi appassire in pochi avventurosi passaggi, quasi che il nostro voglia offrire un bignami del suo arco produttivo. Pastorali distese alternative-country che sfumano in supposte visioni minimaliste, pianismo neo-classico che spesso elude i giochi acustici della sei corde, il tutto in un'atmosfera rigidamente soffusa, come se i preludi strumentali volessero far presagire a qualcosa di più compiuto. Si rimane invece alla dimensione bozzetto, con decine di idee sublimi che per volontà dello stesso artista non possono sfociare nella compiuta forma canzone. è una visione più ampia, una camera più accogliente quella in cui alloggiare The Visitor, un disco non certo barocco, ma spesso indeciso nel delineare i suoi logici confini. è un O' Rourke austero, ma allo stesso tempo volitivo, come al lavoro su di un libretto classico, eppure ancora offuscato dalle visioni di una wild america come dalla risaputa ricerca sui temi contemporanei. Non un disco di transizione, nemmeno la rigida introduzione ad un avvincente modus operandi, unicamente la testimonianza di un musicista che certo non sente più il peso del disco in quanto oggetto da commercializzare. Probabilmente inizieremo ad apprezzarlo un domani remoto. (6.5/10) Luca Collepiccolo Jimi Tenor/Tony Allen Inspiration/Information (Strut Records, Ottobre 2009) G enere : futuristic afro - funk Nessuna sorpresa, il nuovo volume nella serie Inspiration Information è una collaborazione quasi annunciata. Sulla carta non poteva accadere diversamente. Dimenticate le origini finniche di Jimi Tenor e la sua elettronica retro-futurista per Warp, da qualche anno a questa parte il biondo poli-strumentista batte la strada di una rivisitazione afro nueva, in combutta con la band multirazziale - di stanza in quel di Germania - Kabu Kabu. Che Strut agevolasse l'incontro con Tony Allen, motore degli Africa '70, era ipotesi più che plausibile, considerato che l'uomo ha battuto di frequente le strade del crossover stilistico nell'ultimo decennio. Ascoltate il bell'esempio di Africa modernista in Black Voices, l'intrigo pop terzomondista di The Good The Bad And The Queen con Damon Albarn dei Blur e Paul Simenon dei Clash o le recenti sortite per Honest Jon's e World Circuit, che comunque comportano un perenne aggiornamento dei temi afro-funk. Assecondato da Jimi Tenor, l'uomo distende il suo incedere, al sincopato beat afro spesso si sostituiscono morbide interpretazioni jazz e accenni ai ritmi in levare del dub. Esplicative in questo senso Path To Wisdom - modernissimo rare groove con tanto di spoken word che avrebbe affatto sfigurato in un album di remix della Flying Dutchman - e Darker Side Of Night che oltre a presentare quella coralità ibrida da sempre apprezzata nei lavori di Tenor, in alcuni suoi tratti cede ai giochi di specchi della coscienza dub. C'è poi anche un flauto che s'impenna discretamente, ricordandoci che il jazz secondo Tenor è anche figlio dell'opera di un misconosciuto alchimista nordico come il batterista Matti Oiling. I break fiatistici di Against The Wall e Got My Egusi, tradiscono più di un legame con il jazz spirituale dei seventies (diciamo anche Archie Shepp?) mentre nella chiave percussiva di Cella's Walk oltre ad imporsi un flavor etnico è l'onda lunga della Blue Note - come le spirali egizie di Sun recensioni 77 highlight Om - God Is Good (Drag City, Ottobre 2009) G enere : psichedelia minimale Sono sempre stati in fissa con la spiritualità, gli Om, sin da quando, mille anni fa o giù di lì, si chiamavano Sleep, inneggiavano alla ganja, rivitalizzavano generi dati per morti e, così facendo, ricercavano la via della trascendenza dope-induced. Quando poi, più o meno un lustro fa, si ripresentarono al pubblico come duo basso/batteria ripulito dagli eccessi e con un nomen omen, a pervadere le loro produzioni è stata dapprima una spiritualità di matrice pagana (Variations On A Theme) o al limite panica (Conference Of The Birds), che poi, col passar del tempo, si è dimostrata essere pregna di religiosità fino al midollo. Prima col poco messo a fuoco Pilgrimage - percorso nel sacro verso la redenzione, la cui unica pecca era l’indulgere troppo in soluzioni già note - e ora con l’ottimo God Is Good. Gli angeli posti in cover, dopotutto, lasciano poco spazio ai dubbi. Un pezzo monstre come Thebes, 20 minuti in modalità minimal-psichedelica, nemmeno. Il salmodiare lieve di Al Cisneros, sorta di bisbiglio dell’anima di un santone solitario e schivo, si spinge a sorvolare antichi e nuovi testamenti, da Damasco a Tebe, mentre le sue dita scivolano ed impastano il solito, lento, essiccato e orientaleggiante delirio mantrico. La batteria del compare Emil Amos, regge vibrante il confronto senza risultare invadente; gioca di piatti e spazzole, rispettoso della cerimonia pre-cristiana in atto e testimone silenzioso dell’ascesa. C’è odore di trascendenza in God Is Good, si sarà capito. E il mezzo per arrivarvi è un concentrico scavare, anzi innalzarsi, lungo il crinale di 30 e passa anni di psichedelia.(7.5/10) Stefano Pifferi Ra - a farsi strada in maniera discreta. C'è molta profondità nel disco aldilà dello spirito da open-jam e - come sottotitolato dalla collana stessa - una serie incredibile di informazioni. Non ci avviciniamo agli apici dei moderni depositari del più mutante spirito afro-funk - Budos Band, Nomo ed Antibalas per rimanere nelle zone alte della classifica - ma siamo certi di godere di questo matrimonio anche nei mesi a venire, sotto la buona stella dell'inglese Strut, procacciatrice di talenti e vecchi marpioni.(6.9/10) Luca Collepiccolo Joe Pernice - It Feels So Good When I Stop (One Little Indian, Ottobre 2009) G enere : indie pop rock , cover Novel soundtrack, questa la definizione dell’album, che è la colonna sonora del libro omonimo di debutto - uscito lo scorso agosto - di Joe Pernice dei Pernice Brothers. Pernice Brothers vale a 78 recensioni dire Joe insieme al fratello Bob, Beatles-iani fino al midollo, anzi per meglio dire Paul McCartneyiani. Non fa eccezione musicalmente questo It Feels So Good When I Stop, che vede non a caso la partecipazione di Bob. Ma non sono pezzi originali, come ci si potrebbe aspettare, bensì cover; l’autore spiega che, pur non essendo un libro sulla musica, dal momento che sono citate alcune canzoni, le ha coverizzate come commento al volume. Inframmezzato da brevissimi reading relativi al libro ma anche alle song, le cover tutte subiscono il trattamento Pernice, vale a dire melodizzazione e suono alla Macca, ma anche gli inevitabili Beach Boys, accenni folk Belle & Sebastian, jingle jangle R.E.M. e co. (la Tell Me When I’t’s Over di Steve Wynn - Dream Syndicate), XTC (citato e coverizzato non a caso Todd Rundgren che li aveva prodotti) northern soul e in generale un pop rock di derivazione sixties, se vediamo alcuni pezzi (Del Shannon), ma anche i più contemporanei Se- badoh (Soul And Fire) e Plush (Found A Little Baby). Essenzialmente un omaggio ad alcune canzoni, It Feels So Good When I Stop va visto allora più che altro come compendio al libro vero e proprio, così trova un senso compiuto.(6.7/10) Teresa Greco Joujoux D'Antan - Mi voglio bene come un figlio (Kandinsky, Settembre 2009) G enere : indie Una voce che è una via di mezzo tra Thom Yorke e Kazu Makino dei Blonde Redhead - ma e di un uomo, Marco Tonincelli - e una musica che dai Blonde Redhead riprende le derive più malinconiche estremizzandole in passaggi onirici arrangiati, grotteschi, talvolta inquietanti. Loro sono i Joujoux D'Antan, in origine duo - al già citato Tonicelli si aggiunge Pietro Leali -, ora formazione allargata (violoncello, contrabbasso, batteria, chitarra, pianoforte, synth, trombone) più qualche ospite illustre. Nello specifico Yuka Honda e Sean Lennon. Non una presenza occasionale quella dell' ex Cibo Matto e del figliol prodigo del compianto John, visto l'evidente trait d'union che lega la musica dei Nostri a quella scena underground newyorkese di fine anni novanta in cui le due personalità sono cresciute artisticamente. Una parentela fatta di chiaroscuri obliqui, arrangiamenti sul filo, melodie minimali su orchestrazioni classiche e in generale caratterizzata da un'evidente necessità di uscire dai canoni tradizionali del rock. A dimostrazione una Crono sospesa tra lirismo barocco e incedere bandistici quasi beatlesiani, una Nel mio armadio vissuta tra sillabare di chitarre acustiche e ruvidezze elettriche, una Yom Kippur dai toni angoscianti, una Plenilunio crepuscolare. Evocativo più che descrittivo, dalla complessità grammaticale insolita ma immediato nel mood generale, Mi voglio bene come un figlio è il tipico disco fuori dagli schemi e dal respiro fortemente internazionale. Oltre che l'ottimo esordio di una formazione da tenere sotto stretta osservazione.(7.2/10) Fabrizio Zampigh Keelhaul - Triumphant Return To Obscurity (Hydra Head, Agosto 2009) G enere : math core sludge I Keelhaul di Cleveland sono una di quelle band che assorbono tutto e lo restituiscono in pieno volto. Macinano riff con la facilità con cui si sforna il pane, sparati uno di seguito all'altro: carrarmati sludge, progressioni matematiche alla Don Caballero fino a slayeriani temi trash. Come una sorta di circolo vizioso: via uno, dentro un altro, senza mai ripetersi. E quando si crede di aver beccato un ritmo stabile, improvvisi cambi di velocità e controtempi rendono inappropriato l'headbanging precedente. Principalmente strumentali, la voce del bassista Aaron Dallison viene fuori puntuale solo quando il momento lo richiede, alla maniera dei compagni d'etichetta Knut. Triumphant Return To Obscurity è un nuovo contributo di Keelhaul alla musica pesante. Una band che registra solo quando ne sente la necessità (del 2003 il precedente terzo album Subject To Change Without Notice). E che come al solito non delude. Non sarà la musica più nuova del mondo, ma di sicuro sono onesti. (7/10) Leonardo Amico Kings Of Convenience Declaration Of Dependence (EMI, Ottobre 2009) G enere : folk Cinque anni son trascorsi dal sophomore Riot On An Empty Street, una camera di decompressione - o decantazione, fate voi - più che ragguardevole, durante la quale il buon Erlend Øye si è dilettato coi suoi Whitest Boy Alive, dimostrando così tanta convinzione che i Kings Of Convenience sembravano oramai estinti assieme allo stemperarsi ineluttabile del NAM. Invece, rieccoli. Più soffici e "quieti" che mai nel qui presente Declaration Of Dependence (dipendenza l'uno dall'altro? I KoC come patologia artistica?), mossi da un estro bossa cartilaginoso (e in che altro modo te l'aspetti la bossa in mano a dei norvegesi?) scosso al più da un sobrio sussulto swing (come nel grazioso singolo Boat Behind). Quanto al resto, li ritrovi più che altro dediti alla messinscena da nipotini minimali di Simon & Garfunkel (Second To Numb è da flagranza di reato). Dominano - ça va sans dire - le chitarre acustiche, poi c'è il piano che ribatte quando occorre, un violino a scompigliare la bonaccia ritmico/armonica, recensioni 79 ovviamente le due voci e: nient'altro. Un'essenzialità che possiede un suo speso specifico. Che tenta di importi il proprio codice, t'invita a trascorrere tre quarti d'ora a pane ed acqua ché non è il caso scordarsi il sapore né dell'uno né dell'altra. è una questione di particelle elementari. Di riappropriarsi del cuore delle cose. Rallentare, quindi. Smorzare i volumi.Togliersi l'armatura, il casco, il visore virtuale. C'è la possibilità di un'isola, nel cul de sac emotivo di questi anni sovraccarichi di tutto. Proprio per questo senso di frattura e distacco dal frastuono generale, per l'ostinazione con cui tentano di definire i contorni di una "nicchia mainstream" (in ossequio alla loro ben nota predilezione per gli ossimori), e per come sembrano spogliarsi dal desiderio di prima linea annidato nei precedenti lavori, Declaration Of Dependence potrebbe essere il loro disco più rappresentativo. Peccato che non azzecchino troppe belle canzoni: quattro sono sopra la media (Rule My World, Me In You, 24-25, Riot On An Empty Street) e poi tanta aura mediocritas. (6.4/10) Stefano Solventi Kode 9 - Black Sun / 2 Far Gone (Hyperdub Records, Maggio 2009) G enere : dubstep Due tracce per riportare l'attenzione sul dubstep di classe, quello puro, senza troppe contaminazioni, dosato e interessante. Kode 9 è la voce del padrone di casa Hyperdub, il luogo mentale dove Burial ha sfondato e dove i dj vanno a pescare le chicche per le serate al sapore di grime. Lui sforna questo vinile, ristampato oggi dopo essere andato subito in sold out, e le antenne di chi è ormai drogato di dubstep non possono che drizzarsi. Le tracce sono pulite, quasi calde, ormai senza accenni paranoici. 2 Far Gone è il glitch che si impossessa dello step e plana dolcemente sul dancefloor, Black Sun è la frustata nei denti dei teen post-E con i riempitivi intelligent. La direzione va quindi verso l'essenza, il minimalismo già professato da Benga nei suoi ultimi 12''. Come a dire lasciamo perdere gli innamoramenti passeggeri di troppi nerd e ributtiamoci a bomba sul nostro suono, su quello che siamo. Steve Goodman getta il macigno nello stagno. Lasciamoci attraversare dalle sue onde sonore.(7/10) Marco Braggion 80 recensioni Koonda Holaa - 10 Acres Of The Finest Sand (Bar La Muerte, Settembre 2009) G enere : psych blues A leggere le note biografiche di un personaggio così sembra di avere di nuovo di fronte Michael Gira quando parla dei suoi anni giovani, perso tra droghe, arresti e viaggi in mezzo mondo. Il personaggio in questione è Koonda Holaa ovvero Kamil Krůta che come si capisce dal vero nome è di evidenti origini boeme. A metà anni ’80 fa il punk nella Cecoslovacchia d’epoca con gli F.P.B. (Fourth Price Band). Nell’89 viene arrestato e condannato a due anni per atti di vandalismo con conseguente distruzione della statua del primo leader comunista del paese. In seguito si muove in Germania, dove fonda l’Illegal Immigration, una non meglio precisata comune musicale che si evolve poi negli Pseudo Pseudo. Nel 1992 è invece in California dove collabora con gentaccia come Linsa Sibio, Jim Cent, Exene Cervenka, Mike Watt e Lydia Lunch. Nel 1995 si unisce ai Residents con il Freak Show Live di Praga. E ancora eccolo negli Už Jsme Doma con 80 concerti sul groppone prima di tornare negli USA dove fonda Koonda Holaa And The Beetchees ritiratosi a vivere in chissà quali circostanze nel deserto del Mojave. Bar La Muerte si innamora di siffatto personaggio e si incarica a questo punto di distribuire il nuovo disco con un mini tour italiano programmato in questi giorni. Con una simile biografia è normale allora che il taglio musicale sia quanto meno cosmopolita e apolide. La musica di Koonda Holaa è fondamentalmente blues alticcio e cabarettistico con evidenti influenze lisergiche. Si possono fare una pletora di nomi che vengono alla mente dopo i soli primi tre brani: Tom Waits, Moondog, Residents, Flaming Lips, Captain Beefheart, Swans… anche qualcosa di simile a Hexlove. La matrice è sempre più o meno la stessa, una frase minimale di chitarra elettrica a fare da architrave per una voce che mima un cabaret scarnificato al sole del deserto. Non c’è niente di particolarmente originale in tutto questo, ma l’effetto è assicurato.(6.5/10) Antonello Comunale Kurt Vile - Childish Prodigy (Matador, Ottobre 2009) G enere : indie - folk Dopo essere stato consacrato dalla ristampa su Woodsist del suo primo disco, il ragazzo prodigio di Philadelphia approda nel roster della Matador con quello che è, in ordine cronologico, il suo terzo album. La sorpresa per l'effettiva qualità di Costant Hitmaker era stata così grande che, al confronto, il successivo God Is Saying This To You... e l'Ep con i Violators The Hunchback erano apparsi sfocati e privi di mordente. In questo senso, quindi, con questa nuova uscita Vile si gioca il tutto per tutto; e va detto che, benché forse non si raggiungano gli apici toccati con le precedenti Freeway e Don't Get Cute, le nuove tracce risultano essere quanto di meglio questo ragazzo ha saputo comporre ad oggi, esclusione fatta per quelle, appunto, del primo disco. Parte di quella magia che per prima ci aveva incantato la ritroviamo qui in brani come Overnite Religion, Blackberry Song e in una Freak Train che ricorda le evoluzione ritmiche dei Feelies di Crazy Rhythms; la nuova versione, più dura, di The Hunchback poi, qui posta come opener, fuga i dubbi che ci avevano assalito all'ascolto della precedente sull'omonimo Ep. Se dunque non si ripete, com'era d'altronde ipotizzabile, il piccolo miracolo dello scorso anno, va comunque riconosciuto a Kurt Vile il merito di aver dato alle stampe un solido, degno, nuovo lavoro.(7.1/10) Andrea Napoli Lake - Let’s Build A Roof (K Records, Ottobre 2009) G enere : lo fi pop Il collettivo Lake, composto da singoli songwriter ed artisti gravitanti in area K Records, riflette anche nell’ultimo album il nomadismo musicale e culturale che li caratterizza, accomunati in questo al produttore del disco nonché loro amico Karl Blau. Un compendio di pop sbilenco e non solo, è Let’s Build A Roof, che va dagli influssi caraibici alla canzone a bassa fedeltà, al dub, alla world, al dream pop, alla chamber music con appena accenni di stratificazione. L’influsso delle melodie Beach Boys è evidente, via Flaming Lips, così come una certa derivazione d’impianto psych sixties e pop (Fletwood Mac), il tutto associato ad arrangiamenti snelli ed armonie leggere e mai sovrabbondanti. Non dimenticando un preciso senso ritmico insito nella band. Il valore aggiunto dei Lake è comunque una certa leggerezza e leggiadria, sia nell’impianto vocale che nella loro alternanza maschile/femminile, insieme al mix composito di cui sopra che si tiene bene. Solari.(7.1/10) Teresa Greco Legends (The) - Over and Over (Labrador, Settembre 2009) G enere : shoegaze Dici Labrador e sai già cosa aspettarti: il solito (l’ennesimo) dischetto infarcito di melodie adolescenziali, psichedelia da cameretta e badilate di feedback che farà la gioia degli indie rocker più nostalgici e assorti. Segno di una cifra estetica prima ancora che artistica oramai ampiamente canonizzata (a mò di ripasso, andatevi a ripescare il monumentale cofanetto confezionato dalla label svedese a compendio dei primi dieci anni di attività), con tutti i pro e i contro del caso, laddove - e capita spesso - si ha l’impressione che il consueto dispiegamento di mezzi si esaurisca in un grazioso giochino di citazionismi e rimandi. Non fa eccezione questo nuovo capitolo - il quarto a nome The Legends, truppone - nove elementi in tutto, impegnati a destreggiarsi fra organo, percussioni, tamburi, chitarre furenti e svolazzi vocali - messo su dal patron di casa Johan Angergård (non bastassero Club 8, The Pallers, Acid House Kings e qualcos’altro). Dodici brani in scaletta, equamente ripartiti fra soavi reminescenze Sarah Records (la new wave a tinte pastello di Something Strange Will Happen, il bel bozzetto acustico di Jump o il saltellare twee di Monday To Saturday) e le immancabili nostalgie shoegaze, e del resto non è mai stata un mistero l’ossessione del Nostro (vedi il baccanale Loveless inscenato da una costipatissima Dancefloor, o il turbinio di watt e riverberi che strapazza la melodia smaccatamente pop di Always The Same). A fare la differenza, semmai, è l’efficacia di un songwriting che, per quanto derivativo, riesce a reggere egregiamente il confronto con gli illustri maestri. In attesa che quelli tornino in cattedra, ma tanto ormai chi ci crede più.(6.7/10) Nunzio Tomasello recensioni 81 highlight Paul White - The Strange Dreams of Paul White (One-Handed Music, Agosto 2009) G enere : lounge - hop Ce lo immaginiamo Paul White, mentre si gira e rigira nel letto, incapace di un sogno tranquillamente percorso dall’inizio alla fine? L’ascolto di The Strange Dreams Of Paul White ce lo fa immaginare, ma ci mostra anche il sorriso del Paul che non dà pace al suo Inconscio. Non di certo l’inquietudine. Dietro a Paul c’è tutta la cultura del frammento del solito Madlib, e con Madlib Paul condivide al qualità elevata del prodotto e la capacità di insinuare tra le note altrui (o di tutti) il proprio tocco, la propria firma; il miscelatore tocca inincondizionatamente il passaggio tra l’underground postpunk/post-no-wave/mutant della New York di fine Settanta e la nascita del rap/break beat/nuovi impulsi black dell’inizio Ottanta. Pure momenti Wu Tang Clan, ovviamente. Ma in tutto questo il tratto distintivo (il gusto) di Paul ricorda il lounge-soul raffinato e caldo di Flying Lotus (una su tutti: Let Your Imagination Go), specie nell’estetica dei risultati dell’operazione di cut-up. Piena California dunque (nonostante White sia londinese). Ma in un senso molto più stratificato di quello che si pensa. Che dire per esempio di quando ci fa sobbalzare dalla sedia mentre riconosciamo all’istante la voce di Captain Beefheart mentre patafisicamente pronuncia “Fast & Bulbous” (Alien Nature)? Il mondo dei sogni di Paul White va molto più indietro nel tempo, recupera pezzi di cultura musicale che semplicemente non ci si aspetta, quasi fossero fuori contesto. Paul lancia una sfida continua all’ascoltatore, costruisce una lotta di indizi, che depone come tracce (in senso investigativo) nelle tracce (nel senso di pezzi musicali). La voce di Byrne quasi subito, la lente up-tempo su 21st Century Schizoid Man dei King Crimson in The Uprising Of The Insane, e subito dopo i Kraftwerk in Time Wars… In Waiting For Time c’è persino Terry Riley. Come Madlib c’è il frammento di una cultura intera, diversamente da Madlib quella cultura non è affatto black-centrica. E la cosa davvero interessante è che in questo far baluginare in continuazione la propria enciclopedia musicale (e la discografia),White riconsegna sempre una comunanza di mood. Il mondo dei sogni è esteso, ma Paul lo riconduce (ci riconduce) a sé.(7.3/10) Gaspare Caliri Leisure Society (The) - The Sleeper (Wilkommen, Settembre 2009) G enere : alt folk pop Da Burton-upon-Trent, contea dello Staffordshire, giunge questo combo allestito da Nick Hemming e Christian Hardy, per entrambi già diverse esperienze in altre band della zona, da cui hanno pescato il plotoncino di musicisti che figurano tra i credits di questo eccellente The Sleeper. Undici tracce che abbozzano una versione fervida del Jim O'Rourke più frugale (altezza Halfway To A Threeway) con suggestioni alt-folk tra il bucolico ed il nostalgico che chiamano altresì in causa il caro M. Ward (come in Save It For Someone Who Cares) e certi rapimenti 82 recensioni Andrew Bird (We Were Wasted, peraltro intrisa di solennità Tim Buckley), quando non una chimica dolciastra Belle And Sebastian (Come To Your Senses). Gli arrangiamenti imbastiscono un intreccio complesso ma immediato, sono preziosi ma strettamente funzionali. Svariate le chitarre che rispondono all'appello (banjo, ukulele, melodica, mandolino, acustiche e pedal steel...), e anche le tastiere non scherzano (pianoforti, organi, synth, rhodes...), col sovrappiù di contrabbasso, violino, flauto, glockenspiel, clarinetto, harmonium ed il non piccolo contributo di cori e battimani. Il risultato è una sagra assieme intima, palpitante e festosa, punteggiata da vivide malinconie (la stupenda The Last Of The Melting Snow), letargici incanti folk-pop (una A Matter Of Time come potrebbero i Polyphonic Spree in fregola La's) e agresti mestizie (quella A Short Weekend Begins With Longing che stempera il pungolo onirico Roy Orbison tra minimi termini Eels). Un piccolo miracolo di equilibrio e intensità. (7.3/10) Stefano Solventi Lisa Germano - Magic Neighbor (Young God, Settembre 2009) G enere : pop rock Michael Gira stava già cominciando a disperarsi per la mancanza di notizie da parte di Lisa, quand’ecco un disco nuovo di zecca a fare capolinea tra i suoi scaffali. Tempi di produzione e distribuzione e anche a noi è dato di ascoltare il nuovo lavoro della nostra amata lady Germano, ahimè invero assai deludente. Magic Neigbor va preso un po’ come la terza parte di una ideale trilogia post 4AD iniziata con …Liquid Pig e proseguita con In The Maybe World. La chiave di tutti e tre i lavori è il taglio melanconico del piano come architrave principale su cui poggiare le composizioni, nella maggioranza dei casi virate in minore nel classico modus dell’artista. Magic Neighbor ha il pregio di tentare di uscire dallo standard della Germano e quindi di provare chiavi e accordi aperti, ma i tentativi rimangono a metà strada, inconcludenti. Stavolta Lisa apre le tende e fa entrare il sole, ma i brani davvero non sono granché, sospesi come a mezz’aria incerti se prendere una direzione piuttosto che un’altra. Quello che si ottiene così è un lavoro che sa di incompiuto come lasciato andare via prima di essere finito. Lisa si lascia irretire come mai fino ad ora dalla struttura dei brani, incapace di uscirne vittoriosa. Si avverte lontano un miglio che cerca di trovare l’aria ficcante e melodiosa che spesso ha fatto la differenza, ma non ci riesce se non costringendosi ad un uso eccessivo e a tratti iper barocco (anche se sempre di pregio) degli arrangiamenti. Si vedano i casi migliori come i vaneggiamenti ai “beautiful days” di To The Mighty One o la romanza americana di The Prince Of Plati. Tutto sommato esperimenti abbastanza in linea con il passato. Tutto nella norma, ancorché sciatto come non mai. Del tutto insulsi invece frammenti esenti da una sia pur minima struttura verse chorus verse come Simple o A Million Times. Detto che nemmeno stavolta si lasciano perdere i gatti, che aprono e chiudono il disco con Marypen e Cocoon, l’entusiasmo trova davvero poco ossigeno per svilupparsi e la noia si impadronisce dell’ascolto, scossa solo qua e la, da dettagli anche minimi che portano a galla il ricordo dei capolavori che furono: l’andamento classico e barocco di Kitty Train, il refrain malinconico di piano della title track, il crescendo sfarzoso di Snow che d’un passo si tramuta in un valzerino da sogno. Tracce di un passato indelebile che sembra andato via per sempre. Lisa è invecchiata e come una donna che ha ormai dato tutto quello che aveva da dare si è chiusa in se stessa a mimare un teatrino di fantasmi e possibilità sfiorite. Siamo ormai arrivati all’album delle foto ingiallite degli anni giovanili. Mettiamo il plaid sulle coperte sperando di riscaldarci in qualche modo da questa vecchiaia incipiente.(5.5/10) Antonello Comunale Lord Newborn & The Magic Skulls - Lord Newborn & The Magic Skulls (Ubiquity, Settembre 2009) G enere : meticciato / funk - psych - lounge Tre professionisti dell'artiginato musicale americano, Money Mark ("il tastierista dei Beastie Boys", mille collaborazioni di livello), Shawn Lee (dischi a nome proprio e come Ping Pong Orchestra, musiche per film, anche una collaborazione con l'inafferrabile Clutchy Hopkins) e Tommy Guerrero (carriera solista, musiche per videogiochi, musiche per film) si chiudono per due settimane nello studio del primo e jammano. Viene fuori questo disco. In una parola: meticciato. Quasi interamente strumentale, la voce come condimento o sporcatura, fortemente percussivo (legnoso e polveroso), sotto l'ombrellone del grassume funk, la sensazione di una world music americocentrica. Nel doppio senso. Miscela riuscita. Funk che si insinua in: un pezzo cheap-disco, tocchi di elettronicherie vintage, esotismi-terzomondismi in dosi omeopatiche, frammenti più jazzati, puntate più soulful, hip-hop, momenti tra colonna sonora e lounge, pezzi minacciosi, altri molto solari. Deserto fuzz-psichedelia Santana (il primo pezzo), muddy-Mexico New Orleans-voodoo soundtrack (il serecensioni 83 condo), giù giù fino a western space hard (l'ultimo). Il disco si perde un po' in rilassatezza (e piacevole automatismo) a metà tracklist, ma ha numeri centratissimi e grippantissimi, da incorniciare.(7.1/10) Gabriele Marino Lou Barlow - Goodnight Unknown (Merge, Ottobre 2009) G enere : indie low fi Ci risiamo: hai tra le mani un disco solista - il secondo, per di più - di uno che nelle band in cui ha militato aveva un ruolo predominante o s’è rivelato più di un gregario. Uno che, anche se negli anni Novanta era un “indie nerd” per eccellenza, a un certo momento (a una certa età?) capisce che è il caso di smetterla coi paraventi. Che realizza come metterci il nome, oltre alla faccia, non sia così brutto. E al gesto importante si accompagnano allora una serie di decisioni, prima fra tutte fare i conti col proprio passato, ed ecco Barlow affermare che questo lavoro somiglia a un incrocio tra Folk Implosion e Sebadoh. Può darsi, nel senso che dei primi c’è una certa pulizia sonora in più e dei secondi lo spigolare distratto fra generi ed epoche. C’entra inoltre poco e anzi nulla il fatto che, nei quattro anni trascorsi da Emoh, Lou sia tornato a far comunella con J. Mascis; più significativo, per la ragione di cui sopra, aver curato le ristampe di tre dischi dei Sebadoh. Ne deriva un gomitolo che entra in testa alla distanza ed è piacevole sbrogliare: se volete dell’energico “college rock” ecco l’apertura Sharing; se inseguite ballate acustiche, Faith In Your Heartbeat, Too Much Freedom e Take Advantage mostreranno uno speranzoso Elliot Smith. Qualora vi interessasse il folk-rock quietamente visionario di scuola Flying Nun, ci sono la title-track e The Right a spargere crema di Clean e Chills; a tenere alta la bandiera del folk senza aditivi basta The One I Call, mentre la neo-psichedelia sotto sedativo si sfoga in Gravitate e Don’t Apologize. La splendida melodia di I’m Thinking… e una vibrante One Note Tone faranno il resto, tranquilli. L’etichetta informa di un LP inciso in fretta con ospiti Dale Crover e Lisa Germano e prendiamo nota. Tuttavia, il punto non è chi ma cosa riempie questi trentasette minuti. è una solidità che provie84 recensioni ne dall’epoca in cui “indie rock” non era sinonimo di faciloneria e presunzione.(7.1/10) Giancarlo Turra Lusine - A Certain Distance (Ghostly International, Settembre 2009) G enere : E lettronica , easy listening Non mi stupirebbe ascoltare gli intrecci voce/beats di Two Dots in uno spot pubblicitario di un brand alla moda: messe da parte le velleità sperimentali che avevano caratterizzato le ambientazioni di Language Barrier (Hymen, 2007) e le selezioni indovinate della compilation Podgelism (Ghostly International, 2007), Jeff McIlwain abbraccia in pieno con A Certain Distance l'idea di un'elettronica easy-listening dall'inflessione downtempo che in più occasioni finisce per strizzare l'occhio al pop (nei brani cantati: Twilight sfiora la ruffianeria di una hit da classifica) e, soprattutto, a certe rilassatezze da cocktail-bar che, a scapito dell'inventiva del sound-designer (dopotutto il buon McIlwain vanta studi di sound design presso la California Institute of Arts), faranno la fortuna del dj.(5.5/10) Vincenzo Santarcangelo Mantels (The) - Self Titled (Siltbreeze Records, Settembre 2009) G enere : garage folk Uscita insolita per la cosa di Tom Lax, da ben due lustri dedita alla pubblicazione delle più truci e crude proposte musicali del panorama più underground internazionale; per una volta, infatti, la label di Philadelphia non ci consegna un ulteriore, oscuro gruppo latino (cosa che comunque continua a fare in contemporanea), bensì una piccola gemma di garage melodico e vagamente melanconico. Forse non la più originale delle ricette, ma, come in tutte le cose, c'è modo e modo di fare e i Mantels hanno il loro know-how; episodi più energici ed accattivanti come What We Do Matters e James fanno da contorno alle più frequenti ballate (Look Away, Samantha, Don't Lie) che, con le loro melodie sixties, stanno in perfetto equilibrio tra beat, folk e pop, il tutto amalgamato nella giusta salsa garage made in the Usa. Non una release imprescindibile, dunque, né innovatrice, ma un buon disco di stampo classico; e tra le tante cose deludenti che spesso si vedono in giro è sempre una buona notizia.(7/10) Andrea Napoli Margaret/DK - Cromoliquido (Venus, Ottobre 2009) G enere : rock Line up rinnovata, idee riassestate, i Margaret concedono un seguito al buon esordio Tra una pallida calma del 2005. Se quello era prodotto da Amaury Cambuzat, che mise lo zampino nella dominante scura del sound, qui i ragazzi si autoproducono perseguendo un impeto più energico, vitale, liberatorio se vogliamo, anche se non propriamente "positivo". In un certo senso sembrano rappresentare l'anello di congiunzione tra il "marlenekunzismo" che ha segnato un'intera generazione di indie band e l'attuale fregola emo che ribolle dai margini al centro. Il loro merito principale sta nel curare arrangiamenti anche preziosi (agli incroci delle chitarre si aggiungono all'occorrenza piano, Rhodes e archi) ma sempre al limite dell'incandescenza, resi febbrili dalla spinta agile della sezione ritmica e tenuti sulla corda dalla carica introspettiva dei testi. Cavalcate soniche quindi (Frammenti di vetro, Nuova abitudine), alternate a ballads nel cui caracollare inquieto affiora quanto mai palpabile l'influenza Godano (Alba, Commuove gli angeli, Finale). Capita anche una Complice la notte benedetta dal tocco liquido del chitarrista Giuseppe Scarpato che sposta il baricentro su una ruspante ancorché godibile china hard-psych, ed è forse il momento più interessante di un disco che si difende bene pur sfidando costantemente l'assedio del già udito.(6.7/10) Mary Anne Hobbs - Wild Angels (Mu Ziq, Settembre 2009) G enere : compil ation wonky - step La regina del dubstep è tornata su disco. E viste le conoscenze derivate dal suo programmone su radio BBC1 non può che trattarsi bene: prende il gotha del bbreaking-step-wonky e ce lo (ri)propone in gran spolvero. Basta guardare i nomi: Mark Pritchard, Hudson Mohawke, Rustie, Applebim e altri valvassini in ascesa. La direzione del suono wonky l'abbiamo però ormai digerita: tastierine a 8 bit nerdy (Spotted), voci in elio (Knock Knock), ritmiche derivate dal d'n'b (Lhc), dal ragga (Discipline) o dalle sperimentazioni di casa Warp (Red And Yellow Toys) e altri trucchetti targati UK. Peccato perché sposando l'eterodossia e tentando di descrivere le infinite sfaccettature del now sound, la Hobbs inforca la strada di una disomogeneità congenita. Niente di nuovo per chi sguazza nelle acque nere del post-step e un tentativo (ovviamente?) riuscito a metà per tutti gli altri (PS: Mary, potevi almeno mixarceli i brani)(5.9/10) Stefano Solventi Marco Braggion Marigold (The) - Tajga (Acid Cobra, Settembre 2009) G enere : post - rock / shoegaze / wave è l'osservazione la chiave di lettura per questo terzo disco dei Marigold. Quel liquefarsi tra un postrock dagli accenti dark (Exemple De Violence) e certo shoegaze didascalico (Swallow); quel misurare la temperatura dell'attenzione tra tribalismi invernali ai confini con l'industrial (Eleven Years) e una wave narcotica (Sin); quel farsi cullare da pianoforti sognanti (Degrees) e spaccati strumentali psichedelici (Novole). Chi suona è preparato e sa esattamente quali tasti premere per risvegliare certi microclimi emozionali, tanto da chiamare Amaury Cambuzat (Ulan Bator) a ricoprire il ruolo di produttore. E il risultato è tutto nei nove spaccati in bianco e nero che vanno a comporre il disco. Gli amanti dei toni riflessivi troveranno in Tajga un buon companatico per passare un altro inverno cul- Massimo Volume - Bologna Nov. 2008 (Mescal, Settembre 2009) G enere : post - rock narrativo Che la tensione - artistica, emozionale - accumulata l'anno scorso durante il tour di reunion dei Massimo Volume dovesse sfociare in qualche progetto tangibile, non v'era dubbio alcuno. Quello su cui ci si interrogava era quale forma avrebbe preso nell'immediato tale progetto, se quella di un intero disco di inediti o qualcosa di diverso. Detto, fatto, visto che abbiamo tra le mani il primo disco dal vivo della storia della formazione di Emidio Clementi, Vittoria Burattini, Egle Sommacal e Stefano Pilia. Un esperimento che se da un lato celebra un ritor- lati dalla sempiterna malinconia; chi del senso pratico ha fatto una ragione di vita, invece, abbandonerà il disco dopo i primi cinque minuti di programma. Anche se in generale c'è di che gioire, dal momento che suoni di una tale ricercatezza non si sentono tutti i giorni.(6.9/10) Fabrizio Zampighi recensioni 85 no in pompa magna ricco di aspettative, dall'altro saggia il terreno - di vendita - per una nuova uscita già nell'aria da qualche tempo e a questo punto rimandata solo di qualche mese. Oltre a capitalizzare un momento davvero positivo per la formazione bolognese, capace di risvegliare le nostalgie di buona parte dei vecchi estimatori come di creare una nuova base di pubblico tra i giovanissimi. Undici i brani registrati in presa diretta il 07 novembre 2008 all'Estragon di Bologna, dieci proveniente dalla discografia ufficiale del gruppo - tra i tanti, Atto definitivo, Il primo Dio, Qualcosa sulla vita, Altri nomi, La notte dell'11 ottobre - e un inedito: quell' Esercito di santi risalente ai tempi di Da Qui ma mai pubblicato fino ad ora. Per un disco che evita con grazia le usuali secche imposte dal formato - ansia compilativa da best of e qualità dei suoni da demo tape proponendo invece una tracklist sensata e una cura formale che poco ha a che vedere con i CD live comunemente intesi.(7/10) Fabrizio Zampighi Massive Attack - Splitting The Atom e.p. (Virgin, Ottobre 2009) G enere : dopo trip - hop La notizia è di quelle buone assai: dai primi di ottobre è in circolazione un nuovo e.p. dei Massive Attack, benché solo in formato digitale. Ascolto preceduto da certa trepidazione, giacché la versione “uomo solo al timone” dei bristoliani aveva convinto soltanto a sprazzi; troppo gelida e autoriferita, la musica del solo Robert Del Naja per non far rimpiangere la geniale mistura di un tempo. Non che le perplessità manchino anche qui, considerando che il brano guida Splitting The Atom - ospite l’inossidabile Horace Andy - risale torpido e notturno sino a Protection con fare da discreta retroguardia. Cosa che per fortuna non è l’ottima Pray For Rain con Tunde Adebimpe di TV On The Radio, marcetta di krauta solennità e venature jazz come un Robert Wyatt moderno alle prese con She Brings The Rain dei Can. Colpi al cerchio e alla botte pure dalle ancelle, remix di tracce destinate a comparire sul disco “lungo”: poiché nulla ancora sappiamo degli originali, arduo capire quanto incidano Van Rivers & The Subliminal Kid su Psyche (alla voce la rediviva Martina Topley-Bird) e Christoff Berg su Bulletproof Love; qui restituiscono bella malinconia pop l’una e accozzare di dancefloor intelligente fine ’90, annoiato crooning e bizzarri squarci fiatistici l’altra. Segnali di vita confusi mentre invochiamo chiarezza dall’al86 recensioni bum, in uscita il prossimo febbraio.(7/10) Giancarlo Turra Mem1 - 1 (Interval Recordings, Aprile 2009) G enere : elettroacustica / glitch Due le anime dietro al progetto dei Mem1, Laura e Mark Cetilia e una miscela tutt'altro che accademica di manipolazine digitali e d'improvvisazione intelligente. La loro è un'elettroacustica sinfonica e introversa per laptop e violoncello, quella raccontata già ai tempi di Alexipharmaca (Interval,2007) ed ora pronta a rimettersi in gioco per questa seconda occasione con l'Interval Recordings. Un cast d'eccezzione per 1, nove luminari nell'ambito dei microsuoni chiamati dai Mem1 a contribuire alle loro fonti e ad esplorare le inflessioni più austere dello strumento. Nessuna rigida impostazione di stile ma semplici intuizioni, capaci prima di captare e di identificarsi nei differenti stimoli creativi, contribuendo poi al suono con mutevoli dialettiche in riverberi, campionamenti, loop e droni. Il benvenuto quindi: all'ambient plumbea per abrasioni ed occasionali field recordings di Jan Jelinek, alle architetture liquide per Ido Govrin od abissali per RS-232, al culto dub di Frank Bretschneid, all'elettronica fluttuante e di segnale di Kadet Kuhne ed infine alle frenetiche dinamiche di collage del maestro Steve Roden. Ne rimarrete stregati e coinvolti da capo a coda, per il numero infinto di forme che ogni traccia assume, per la malleabilità ed infine per il continuo. (7.4/10) Sara Bracco Meth Teeth - Everything Went Wrong (Woodsist, Settembre 2009) G enere : country - gaze Dopo il primo singolo del 2008 su Sweet Rot, arriva al debutto anche questo altro gruppo di Portland, Oregon, e lo fa per l'etichetta più chiaccherata di questi ultimi mesi; ma se a qualcuno viene già da storcere il naso, sappiate subito che questo non è l'ennesimo gruppettino che piace ai newyorchesi per qualche settimana e poi cade prontamente nel dimenticatoio. Ancora una volta infatti la denomina- zione d'origine vuol dire qualcosa, come già nel caso dei concittadini Eat Skull e tanti altri. Venendo alla musica, che è quello che poi ci interessa, i Meth Teeth mischiano un pizzico del piglio folknaif proprio del recente giro UnderWater People (Real Estate & co.) con la ben più austera e duratura lezione dei Country Teasers di Ben Wallers. Proprio questi ultimi vengono spesso in mente mentre si scorrono le tracce di questo primo album: country drogato e dissonante che seppellisce le pur piacevoli melodie sotto la giusta coltre di rumore e sporcizia, in modo tale da valorizzare il ruolo di entrambi. E se il gruppo di Portland non può vantare la voce afona ed inconfondibile di Wallers, esso si distingue comunque nel marasma sempre più denso, e talvolta asfittico, delle band che un anno fa avremmo chiamato ''shit-gaze'' e che oggi non sappiamo più come definire, data la scarsa longevità che tale termine ha dimostrato di avere.(7.1/10) Andrea Napoli Micah P. Hinson - All Dressed Up & Smelling Of Strangers (Full Time Hobby, Settembre 2009) G enere : americana Dura affrontare i maestri senza soccombere. Porsi davanti a icone incontestabili dicendo la tua senza uscirne con le costole fracassate. Se scampi e a testa alta, è perché della stessa pasta: quella del Bob Dylan di cui rileggi vibrante The Times They Are AChangin’, del George Harrison personalizzato in psico-blues al caramello di While My Guitar Gently Weeps, del Leonard Cohen che regala una Suzanne mesta e bella. Luci sfavillanti accanto a qualche ombra, ovvero una My Way a tratti pressappochista, un discreto John Denver (This Old Guitar) e la Sleepwalk che soltanto sottolinea la passione per gli anni ’50 evidente già in And The Red Empire Orchestra. Ruolo che con ben altra verve incarnano Running Scared (Roy Orbison: ligia), Stop The World (Patsy Cline: vigorosa) e Are You Lonesome Tonight? (Elvis Presley: lynchiana). Quando poi scegli cantautori di una generazione che ha preceduto la tua e amava mascherarsi come Not Forever Now di Centromatic e Slow And Steady Wins The Race a firma Pedro The Lion, fai sì che non sfigurino e ogni cosa è ancor più illuminata. Nel senso che la chiave sta nell’appropriarsi dell’altrui calligrafia; nel trasfondervi la tua sensibilità partendo da altrui mondi, così che non si rimpiange Kurt Cobain per In The Pines, sepolta dalla medesima colata di fragori chitarristici del sensazionale Buddy Holly di Listen To Me. Mossa che persuade più che confondere, All Dressed Up And Smelling Of Strangers. Impegnativa, anche, però felicemente risolta in due cd che mostrano la maturità dell’Artista piuttosto che fotografarlo (a proposito: un caso che somigli sempre più a un giovane Elvis Costello d’oltreoceano?) mentre guadagna tempo progettando il domani. Che non ha più niente da dimostrare, eccetto la classe e l’intensità che camminano al suo fianco sin dai primi giorni. E pazienza se non abbiamo tra le mani un nuovo Kicking Against The Pricks: altri tempi, quelli. A pensarci bene, nemmeno troppo distanti da questo presente raro e prezioso.(7.4/10) Giancarlo Turra Mika Vainio - Black Telephone Of Matter (Touch Music UK, Settembre 2009) G enere : E lettroacustica Ora che i Pan Sonic si sono sciolti, il più claustrofobico, intransigente e autenticamente complessato dei due si firmerà nome e cognome quando vorrà esprimere il lato più severo e antisociale del proprio approccio. E nulla cambia. Famoso per la propria stoicità, l'estetica elettroacustica da padri fondatori e l'assenza di beat totale (o quasi),Vainio non si muove che di pochi millimetri che solo lui conosce. Forse qualche field recording potrà apportare qualche piccola novità ai più attenti ma ai tanti cinici (ai quali ci affianchiamo) il telefono nero non sarà altro che il solito playground after death fatto di micro suoni Bernhard Gunter e silenzi, valanghe di neve noise e ancora silenzi, modulazioni di test tones da attacco di panico (care sin dall’infanzia dello zero barrato) e vuoti cosmici, short waves John Duncan e il nulla universale e così via. Più interessante, a questo punto della sua carriera, domandarci se questi dischi abbiano veramente un pubblico (o un futuro) oltre al gioco di penne che provebialmente li ascolta e promuove. Mika - figuriamoci - attualmente pare non essere interessato né a installazioni né a traiettorie particolari. Finché glielo permetteranno continuerà. E se con Oleva abbiamo visto quanto sappia anche vendersi, che tu recensioni 87 sia intellettuale, concettuale o romantico, negli album nei quali s'è espresso al maiuscolo non è mai successo un granché di esaltante o significativo per il mondo elettronico. Benineteso, non sono ingenui, zeppi di torture acustiche e pasticci sonici quello sì, e smessa la favola dei ghiacci e dell’artista incancrenito sulle proprie posizioni analogiche non c'è nulla di veramente affascinate. Niente a che fare con uno, di tutt'altra levatura, come John Duncan.(5/10) Edoardo Bridda Molotovs (The) - And The Heads Did Roll (Fierce Panda UK, Settembre 2009) G enere : pop - wave Un disco breve per una band che non ha niente di nuovo da dire ma alcune qualità da mostrare. L’ambientazione è tutta inglese, anzi, figlia del retaggio wave-pop brit a cui da anni siamo abituati e, va detto, senza troppi entusiasmi. La produzione occhieggia gli Interpol più solari (City’s Guest) piuttosto che la bagarre post-Strokes, del resto c’è un’altisonante primo piano della vocalità che a volte - e specie nella finale One Up On Me, peraltro diretta a passo d’Irlanda - richiama la personalità di Zach Pennington dei Parenthetical Girls. Nessuna pretesa. Probabile facilità di trovare un pubblico abbastanza vasto e poca risonanza critica. And The Heads Did Roll dei londinesi Molotovs non veleggia certo per conquistare nuove isole. Aspira a una crociera rassicurante.(6/10) Gaspare Caliri Monsters Of Folk - Monsters Of Folk (Rough Trade, Settembre 2009) G enere : rock , folk , A mericana I “mostri del folk” sono Conor Oberst e Mike Mogis (Bright Eyes), Jim James (My Morning Jacket) e M.Ward, insieme in questa formazione atipica sin dal 2004, quando si erano trovati per alcuni live. Qualcuno della crew li aveva ribattezzati a questo modo e il nome è così rimasto. Esordiscono ora con l’omonimo album, nel quale tutti hanno suonato tutto come da ragione sociale “supergruppo”. Definizione che in realtà sta stretta al quartetto: si potrebbe invece parlare di quattro individualità che si incontrano e si interscambiano variamente la musica. Si va allora dal soul profondo nell’iniziale Dear God (Sincerely M.O.F.) di Jim James alle melodie beatlesiane del power pop della corale Say Please (tra 88 recensioni C.S.N. & Young, Beatles e ELO), dalle armonizzazioni Simon & Garfunkel di Baby Boomer, al puro Conor Oberst - Johhny Cash - The Band di Man Named True e al suo Messico (Temazcal) e al tenue The Sandman, The Brakeman And Me di M.Ward. I picchi si raggiungono con gli accorati pezzi di James e di M.Ward, mentre Oberst risulta piuttosto altalenante. è nei brani corali comunque che si nota veramente il gruppo e il loro amalgama. Per cui belle le armonie insieme, che danno il senso dell’operazione. La coralità viene fuori meglio in alcuni casi rispetto ad altri, ma nel complesso giustifica l’esistenza di questa formazione.(7/10) Teresa Greco Muse - The Resistance (Warner Music Group, Settembre 2009) G enere : R ock operetta Il solito buon vecchio gigantismo applicato alle altrettanto quotidiane apocalissi e redenzioni, intimismi lacerati, ecatombi e fede mai doma nelle ability umane? Perché no, e questa volta il premio "sbroccati" glielo puntiamo al petto per quell'omaggio ai Queen mamma-mia-let-me-go con la coda di Chopin. E se la storia è severa con chi esagera dipende a chi ti rivolgi. Con un target di mercato sotto i diciotto e, di volta in volta, una generazione di maschietti pronta per loro, i Muse dispensano da sempre album verbosi con buona dose di impegno e dispendio di mezzi. Ed è un peccato che i ragazzi non siano dei cinici, che il loro continuo gioco al rialzo sia diventato una questione di sopravvivenza artistica e non prettamente di ego. Più in là della classica o delle saghe stellari difficilmente si andrà e cambiando la prosettiva, con Mark “Spike” Stent in regia, e fatti i dovuti distinguo, i Muse saranno per i 2000 ciò che gli Iron Maiden furono negli Ottanta, e magari i Queen nei Settanta. Fermandoci ai primi, aggiornate Powerslave al cyber punk passando per Ok Computer, e magari costringete Thom Yorke a guardarsi con gli stecchini tutta la filmografia di Brian Ferry (o se preferite Gary Glitter). è probabile che The Resistance e altri dieci centomila album uguali a questo saltino fuori. highlight Shafiq Hussein - En’ A-Free-Ka (Rapster, Settembre 2009) G enere : new hip - soul Meglio mettere subito le mani avanti: lo Shafiq all’esordio solista è un terzo dei Sa-Ra. La qual cosa già basterebbe a solleticare un interesse non di circostanza, mentre critico e appassionato vanno chiedendosi se costoro non vogliano seguire le orme del Wu-Tang Clan inondandoci di opere soliste. Così fosse, non ci sarebbe nulla da lamentarsi, poiché si continua a respirare il senso di sperimentazione e conoscenza della tradizione che ne fa l’ottima cosa che sono. Da qui conviene partire, tenuto conto che a-free-ka è un antico termine egizio - ma non sarà l’ennesima trovata cosmogonica in stile Sun Ra/George Clinton? - che significa “spirito”. E che contiene un gioco di parole tra “Africa” e “free”, ovvero libero come il Nostro è artisticamente. Può del resto permetterselo, data l’esperienza accumulata nel tempo e, soprattutto, alla luce dell’ultimo Capolavoro di Erykah Badu nel quale ha giocato un ruolo importante e si sente forte e chiaro. Medesimo infatti l’impianto di un hip-hop gocciolante di soul, ricercatissimo negli arrangiamenti - da manuale, batteria e percussioni - senza rimetterci forza comunicativa. Che si dimostra abile a metter in crisi familiarità e attese allestendo panorami poco frequentati. Traiettorie impazzite ovunque, allora, che siano i fiati jazz e le camere d’eco di Nirvana e lo Sly Stone che rincorre gli Outkast dei bei tempi in Changes; una The U.N. Plan che sposta l’asse ritmico verso l’afrobeat infine sfondando muraglie electro e Major Heavy, omaggio - testimoni gli Xtc in abiti da Duchi Stratosferici - dei Beatles più estatici. Da non credersi, ma la bocca vieppiù si spalanca allorché camminiamo tra le lande ondulate e gassose dei kraut-funk Evil Man e The Odd Is C, realizzando quanto sia magistrale la black meditativa però complessa - che un tempo collocavi sullo scaffale bristoliano - allestita in Lil’ Girl, Lost & Found e Dust & Kisses. En’ A-free-ka punta allo stesso oltre il concetto di genere, e se non ci allarghiamo con la valutazione è solo perché, in confidenza, siamo certi che quest’uomo possa fare ancor meglio mentre allestisce possibili futuri riassemblando passato e presente.(7.5/10) Giancarlo Turra Il problema non è il cattivo gusto di cui il rock si nutre da sempre (e con successo), piuttosto è la Resistance a se stessi che proprio non s'affronta. Con Bruce Dickinson e Mick Jagger ci si potrà sempre fare una risata, con Bellamy ti viene il magone. (5/10) Edoardo Bridda My Awesome Mixtape - How Could A Village Turn Into A Town (42, Ottobre 2009) G enere : indierock for teens Indie pop ed elettronica funky-hop-dancefloor (sempre&comunque filtrata indie): questi i MAM alla seconda prova, ovattati nella culla bolognese del giro Settlefish, stra-hype-atissimi per l'esordio del 2007 (gente che si strappa i capelli e così via), cantatissimi ai concerti, insomma la nuova musica italiana. Melodie a presa rapida sporcate di teenage melancholy, ricordi di certe atmosfere Subsonica. Cantato scandito e uso della ritmica che li avvicinano invece agli Amari (gli attacchi di Bad Marks e Inner City). Un insertino jazzy, un pezzo reggaeggiante, uno dove emerge, negli archi e nei fiati, un certo gusto per la melodia italiana anni Sessanta (Teenage Parties). L'indizio più importante, però, è l'emo-tività da vena ingrossata sul collo del ritornello di My Moon: siamo a due passi anzi uno dai Linkin Park. Il target teenager, del resto, è dichiarato, comunque innegabile. I motivetti sono efficaci, e sono arrangiati e prorecensioni 89 dotti con cura (vedi il finale della traccia conclusiva, come uno Sting di Englishman In New York ripassato dal Ghost-Simon Williamson di From The Beginning). Occhei: ma mancano i pezzi che scavalchino l'efficacia ruffiana dell'inciso che entra subito in testa e altrettanto velocemente passa. Serpeggia troppo questo spirito indie-coolness a tutti i costi, pompatissimo, dove per una volta "indie", etichetta per definizione musicalmente vuota, non è termine passepartout ma fotografa anzi perfettamente la cosa: più forma che sostanza, più contesto che testo. Vedi soprattutto il trattamento a bocca di pesce dell'inglese, che per molti (e noi siamo lì sul filo) può risultare fastidioso. Sintesi: un prodotto fatto bene e bene indirizzato. Che non ci piace.(6.4/10) Gabriele Marino Nancy Elizabeth - Wrought Iron (Leaf, Ottobre 2009) G enere : english folk Per la seconda prova Nancy Elizabeth deve aver pensato che less is more: si è liberata dello squadrone di musicisti che reggevano le trame di Battle and Victory e ha trovato rifugio in una casetta sperduta nel Nord-Est della Spagna. Isolata dal mondo e senza corrente elettrica ha raccolto le idee componendo undici tracce più solitarie che mai, dalla scrittura toccante e raffinata. Ad aiutarla un pianoforte che ha una storia di duecento anni, rinvenuto in una ex scuola che è stata demolita poco tempo dopo. Stavolta Miss. Cunliffe si è lasciata sedurre dal minimalismo di Arvo Part, dai cori di Steve Reich (The Act e il singolo Feet of Courage) e da certe soluzioni armoniche care al maestro (le eleganti trombe di Divining). D'altronde il retroterra d'origine è ancora presente, quel cantautorato folk di tradizione inglese delle già citate Vashti Bunyan e Judee Sill dell'album precedente, ma soprattutto di Anne Briggs, quasi un'ugola gemella di Nancy. La sorellanza con le coeve Sharron Kraus o Fern Knight è invece ribadita in Canopy, le cui linee vocali regalano brividi psichedelici che salgono su su. Lasciando da parte le indiscusse filiazioni, Wrought Iron è un'opera che brilla di luce propria, dove il perfetto equilibrio delle parti (tradizione, coscienza del presente e capacità di coinvolgere l'ascoltatore 90 recensioni a più livelli) suscita un senso di intima condivisione. Il piccolo swarovski di Winter, Baby, in chiusura, è esemplare: un carillon ovattato che scivola morbido negli angoli remoti dello spirito. Disco pieno e lunare, Wrought Iron conferma Nancy Elizabeth tra le migliori interpreti del cantautorato folk anni '00. (7.3/10) Francesca Marongiu Nathan Mayer - Why Won't You Let Me Be Black? (Alive Naturalsound Records, Agosto 2009) G enere : raw rhythm & blues Nome a lungo per intenditori e che pare destinato a restare tale, quello di Nathaniel “Nay Dog” Meyer: anche dopo un ritorno sulle scene in ambito “garage” all’inizio del corrente decennio e la dipartita a causa di un infarto, passata inosservata o quasi, avvenuta il 1 novembre 2008. Da sempre avvezzo a un approccio ruvido, che seguisse le orme di Sam Cooke, di James Brown o del suono Stax, era fin troppo naturale che il nostro finisse per far comunella con quei bei tipi della Fat Possum, si facesse rileggere da Detroit Cobras, Holly Golightly e Gibson Brothers e, infine, ponesse mano a un disco in compagnia di Dan Auerbach e membri dei favolosi Dirtbombs. Affinità elettive, diceva qualcuno secoli or sono e, scuotendo la testa in segno di assenso, sottoscriviamo appieno. è pertanto dalle stesse sessioni che diedero vita all’ottimo Why Don't You Give It To Me? che riparte questo album, recuperando materiale rimasto nel cassetto e aggiungendo un paio di unplugged radiofonici. Operazione condotta col cuore, lontanissima da intenti speculativi - ché si tratta pur sempre di un artista di culto… - e stilisticamente giocata tra torride, chilometriche incursioni hendrixiane (Mr. Tax Man), blues affatto canonici (She’s Bad) e vibranti cartoline dai tardi ’50 (You Are The One, If You Would Be My Guide) che sarebbe stato un crimine non pubblicare. Faceva onore alla Detroit che ne vide i natali anche in tarda età, Mayer, dandosi a dell’incisivo “black rock” con un falsetto da Curtis Mayfield (The Girl Next Door, Dreams Come True) arrochito dalla durezza della vita al punto di raccontarsi prossimo a Howlin’ Wolf; cavalcando le sbavature e mandando a quel paese le belle maniere, con un atteggiamento assolutamente in linea col proprio passato. Al di là di ogni dissertazione, comunque, queste restano le ultime parole di un uomo e, in quanto tali, sono da custodire con la massima cura. Perché lì dentro ci trovi nientemeno che la sua anima. (7/10) Giancarlo Turra Navvy - Idyll Intangible (Angular Recordings, Ottobre 2009) G enere : art - punk Già vi immagino strapparvi le proverbiali vesta solo allo scorgere nel titolo una nuova puntata del giochetto “raddoppia la v nel nome della tua band”. E invece vi sbagliate, perché il doppio misto Navvy da Sheffield (letteralmente parlando, i “manovali” o qualcosa del genere...) non hanno bisogno di puerili stratagemmi per attirare l’attenzione. Per quella basterebbe il marchio sul retro del cd (Angular, garanzia di qualità) e l’estroso art-punk citazionista e spastico che Claire (synth, percussioni, voce, urla), Matt (chitarra), Marie (batteria e urla) e Keith (basso, voce). I Fall meno riottosi cresciuti a pane e wave a colazione e synth-pop contorto a merenda. I Fire Engines virati pseudosexy-techno-shit alla Klaxons ma con strafottenza e piglio punkish. Un triangolare estivo a 45’ tra XTC, Devo e Buzzcocks sul terreno del disco-punk tipicamente britannico. Quale che sia l’immagine che ognuna delle 13 potenziali hit-singles di Idyll Intangible evochi nella vostra mente non potrete negare il fascino che certe nuove leve dell’underground inglese sanno trasmettere. Insomma, risentiti e masticati già a fondo da chi abbia alle spalle un minimo di cultura musicale, ma molto, molto più energici e attraenti di qualsiasi altra paccottiglia finto-wavey targata UK.(6.9/10) Stefano Pifferi Neo - Water Resistance (Megasound, Luglio 2009) G enere : jazz - core È la stagione della rinascita del jazz-core romano, senza dubbio. Il ritorno in trio degli Zu col devastante e materico Carboniferous, prima; il comeback muscolare e corposo degli Squartet, poi; infine, col nuovo disco dei Neo, che proprio con gli Squartet condividono il chitarrista e fino a poco tempo fa pure l’etichetta, non può che confermare l’ottimo stato di forma della scena romana e/o limitrofa. Del trittico in questione, i Neo sono quelli più schizzati e più filologicamente jazz-core. Inclini alla frammentazione strutturale e alla schizofrenia freejazzistica alla maniera di un John Zorn altezza Naked City ma meno parossisticamente onnivoro, hanno un ottimo tiro, capacità strumentali fuori dal normale, visione d’insieme e attitudine demistificatoria. Roba che si traduce in pezzi elaborati e cervellotici, potentemente ritmati (ottimo il lavoro del batterista Antonio Zitarelli) ma suonati sempre con la clava del suffisso -core e con l’autoironia folle e devastante di un Frank Zappa: un pezzo come The Proliferator è perfetto esempio di questa insana passione per la frattura, tanto quanto Opus Reticolorum lo è dell’ottovolante sonico messo in scena dal trio laziale. Ottimo il booklet con le illustrazioni protagoniste della mostra che da il titolo all’album e opera di molti tra i migliori illustratori indipendenti italici (Ratigher, Maicol & Mirco, Karin Andersen…). (7/10) Stefano Pifferi Nick Cave/Warren Ellis - White Lunar (EMI, Settembre 2009) G enere : soundtrack Nick Cave, Warren Ellis, il cinema: quanto fertile fosse questa triangolazione lo avevamo intuito. Questo doppio White Lunar arriva in un certo senso a consolidare la sensazione, fornendole una concretezza cui d'ora in avanti sarà difficile prescindere parlando della carriera dei due, pur importante quella di Ellis, pur imponente quella di Cave. Il noir e il western. L'asciuttezza carnefice di Cormac McCarthy. L'epos magniloquente di Leone. L'insidia invitante e angosciosa di David Lynch. L'impronta della vita sulla morte (e viceversa). Il romanticismo pernicioso, distorto, smisurato, annichilito. Quello che i Bad Seeds e i Dirty Three si raccontano rimboccandosi le coperte la sera. Usando pochissime parole, il meno possibile, il necessario (quelle sparute e impiastricciate di The Gun Thing, quelle accorate ma stoppose di The Rider Song...). Ma le dimensioni consuete di Warren e Nick perdono consistenza, rimangono dietro lo schermo dove vengono proiettati The Assassination of Jesse James, The Proposition, The Girls Of Phnom Penh e The English Surgeon, pellicole diverse, lontane per modi e contenuti, tuttavia ben più che semplici pretesti. Il coinvolgimento dei musicisti è palpabile, come la recensioni 91 loro brama di metterci l'impronta, con pietosa insolenza. Spingendosi alla bisogna oltre i propri limiti estetici: il piano ed il violino sono affiancati da droni, brume e scalpiccii sintetici, configurando un "ambient-ghotic" saturo di concitata stasi emotiva, come qualcosa sul punto di. è un gioco che accetta di mostrare la corda, che talora soffre la mancanza del supporto visivo (da buona soundtrack). Ma che non manca mai di forza, di convinzione. (7/10) Stefano Solventi Oh No - Dr. No's Ethiopium (Stones Throw, Novembre 2009) G enere : basi hip - hop Dr. No's Oxperiment e The Beat Konducta vol.3-4: In India, luglio e agosto 2007, erano stati lo sfogo delle passioni terzo-quartomondiste dei due fratelli Jackson. Il disco di Oh No era un discone (cosa che invece non si può dire dell'India di Madlib) e quindi l'attesa per questo seguito monotematico, solo dischi 60-70 di musica etiope (dalla collezione di Egon), era grande. Grande delusione. Le tracce sono troppo scarne, e non così particolari nel loro pauperismo, per funzionare. Prevale, sulle piccole idee annidate in ogni pezzo, l'impressione dell'intermezzo. Michael si è forse immerso così tanto nei materiali da perdere di vista l'orecchio dell'ascoltatore. Precisazione: abbiamo ascoltato la versione light del tutto, diciotto mp3 tagliati di netto a due minuti; il disco su supporto uscirà solo a novembre, in contemporanea con quella del caffè prodotto dalla Stones Throw e opportunamente chiamato proprio Ethiopium. Se il rimpolpamento previsto per le tracce dovesse spostare qualcosa, ci torneremo su. Curiosità: se Timbaland era riuscito a fare dire a Lucio Dalla "Indian Carpet", in un suo vecchio pezzo, qui Oh No mette in bocca ad un vecchietto lamentoso addirittura "Pussy".(6.2/10) Gabriele Marino Omar Rodriguez Lopez - El Grupo Nuevo de - Cryptomnesia (Konkurrent NL, Settembre 2009) G enere : progres sive Qualcuno dovrebbe fermare Omar Rodriguez Lopez. Non si sa più cosa dire: fa cadere le braccia, basisce, innervosisce. Ora è il momento de El Grupo Nuevo, ennesima emanazione di un ego in crescita preoccupante. In pratica, una combine tra Mars Volta (oltre a 92 recensioni Lopez, anche Cedric Bixler-Zavala) ed Hella (Zach Hill alla batteria, Jonathan Hischke ai synth). Non crediamo che ripetervi delle ennesime piroette balistiche, delle urla e degli incastri ritmici del chinano e compari possano alimentare in voi chissà quale libidine uditiva. A noi, in tutta sincerità, ha compromesso pure il sonno. Basta.(4.4/10) Gianni Avella OMO - The White Album (LoAF, Ottobre 2009) G enere : E lectro pop Esordio lungo per il duo mezzo Londra mezzo Berlino composto dagli ex Karamasov David Muth e Berit Immig (quest'ultima anche in The Chap). Che, tastiere casio e strumenti acustici alla mano, si fanno autori di un glitch-pop iper-frammentato e ad alta densità concettuale stile The Books. Ma qui, a differenza che in de Jong/Zammuto, il frammento è estrapolato da un corpo organico coeso piuttosto che da una Babele di fonti eterogenee. Quel corpo organico è il punto di convergenza spaziotemporale tra post-punk di basso profilo (minimale alla Young Marble Giants) e synth-pop puro: un crocevia all'appuntamento con il quale Muth e Imming si fanno trovare vestiti a festa o, piuttosto, come dovessero presenziare a un vernissage. Un atteggiamento arty, il loro, visibilissimo nell'utilizzo delle voci (gli sfasamenti di Oversized, i fischi di The Break) e nei testi da poetica dell'ordinario di un Charles Simic recitati (soprattutto dalla Imming) con fare tutt'altro che declamatorio (ROV, in effetti, mi fa tornare alla mente la meteora Meanwhile, Back in Communist Russia). Ed è così che un suono scambiabile dai più distratti per un omaggio ai Lali Puna che furono (Her Body) si trasforma in realtà in un oggetto dai confini sfocati, a conti fatti ingestibile e da approcciare almeno con la stessa quantità di joie de vivre che il duo impiega, mattone per mattone, a edificarlo.(7.3/10) Vincenzo Santarcangelo Pan Sonic/Keiji Haino - Shall I Download A Blackhole And Offer It To You (Blast First Petite, Settembre 2009) G enere : industrial noise è il 15 novembre 2007, allo Volksbühne vanno in scena Mika Vainio, Ilpo Väisänen e Haino Keiji, per la tappa berlinese di quello che a tutta l’aria di essere un tour quanto meno unico e irripetibile. Personalità forti e scostanti con più di qualche similitudine nel modo distorto di concepire la musica e la vita. I Pan Sonic erano da un lustro che manifestavano a più riprese l’ammirazione per il maestro giapponese. Il tour che li vede protagonisti insieme diventa più che altro un’occasione per concepire gli arredi giusti entro cui far vivere la maligna creatività dell’artista nipponico. Quest’ultimo dal canto suo ripaga con la medicina che gli è più consona: un se stesso scarnificato fino all’ossesso, un dio carnivoro che mangia se stesso come atto di penitenza per una umanità condannata a chissà quale inferno. Questo live berlinese si incarica quindi di trasmettere ai posteri la quintessenza di un tour senza eguali, come un documento storico destinato agli anni a venire. Se da un lato i Pan Sonic allestiscono una scenografia come sempre densa e magnetica è il canto disumano di Haino a scoperchiare il vero vaso di pandora. Capace come pochi altri di passare in un attimo dall’anelito metafisico e trascendente della prima traccia, all’orribile mimesi mostruosa della seconda. Come se si passasse in un attimo da un film di Ozu ad uno di Tsukamoto. Con una musica del genere c’è poco da immedesimarsi. è un impasto avant di matrice industrial-noise, a suo modo anche scostante, come il teatrino no su partitura folk zen, che nelle tracce 7 e 9, mima un’estetica da sol levante quanto meno sulle righe e degradata. I Pan Sonic dal canto loro tentano di supportare il taglio noise della chitarra di Haino, simulando brutali corridoi disumani alla Suicide, che non possono che deflagrare nel caos primordiale della traccia conclusiva. Stephen O’ Malley impacchetta in lussuoso packaging un live che è già fondamentale per le discografie di entrambi i nomi sulla copertina.(7.5/10) Antonello Comunale Paolo Spaccamonti - Undici Pezzi Facili (Bosco Rec, Luglio 2009) G enere : cantautorato strumentale Paolo Spaccamonti spacca molto più di ciò che indica il suo cognome. La routine dell’ascoltatore “per professione” innanzitutto; o anche la quieta e monocorde solitudine di uno strano finale d’estate. Sia come sia, l’esordiente torinese (per lo meno in solo, visto il passato coi Cletus) imbastisce uno di quei dischi inevitabilmente destinati all’attenzione carbonara, ma che come spesso accade si rivela essere invece una piccola gemma. Cantautore anomalo, privo di parole e armato solo di chitarra (o poco più), Spaccamonti è artista dalla profonda sensibilità, capace di dispensare ganci memorabili: folktronica evocativa in Camicia Gialla, Cravatta Nera, sgranato rumorismo chitarristico in Drones, slow-core emozionale in Fine Della Fiera, astrattismi di solo-guitar + corde in Tex. Tutto sempre dotato di taglio personale e suonato col piglio giusto. Riecheggia spesso Torino nelle note di Undici Pezzi Facili, e forse si rischia la banalità nell’affermarlo. Eppure è così; rivive nelle musiche di Spaccamonti quell’aroma particolare, in chiaroscuro, agrodolce e quieto, della motor-city italiana. Quel vago senso di perenne incompiutezza che lascia spesso spazio alla malinconia e che Spaccamonti ha sapientemente reso su pentagramma.(7/10) Stefano Pifferi Pearl Jam - Backspacer (Universal, Settembre 2009) G enere : rock folk Per il nono album di inediti in diciotto anni, i Pearl Jam recuperano l'antico compagno d'avventure Brendan O'Brien - con cui collaborarono l'ultima volta ai tempi di Yield (1998) - affidandogli la produzione di quello che, fin dal titolo, vorrebbe essere un lavoro che torna sui passi compiuti. In effetti, si respira un'aria diversa da quella invero pesantuccia degli ultimi tre dischi. Backspacer è sbrigliato e conciso, mediamente più ottimista del solito, un album di rock'n'roll energico e appassionato di stampo abbastanza tradizionale per non dire generico, non troppo preoccupato di tutelare il Pearl Jam-sound (vedi anche come si ricorre spesso al pianoforte, suonato dallo stesso O'Brien). Sono talmente navigati e coesi questi cinque ex-esponenti di punta della scena di Seattle, che sembrano in grado di poterti scrivere recensioni 93 la ricetta, il perfetto dosaggio tra assalti up-tempo e trepide ballate (forse le ballate sono un po' troppe, ma tant'è...) per sfornare la scaletta perfetta. Veniamo agli ingredienti: le scorribande sono tese, però inevitabilmente (?) infarcite di già sentito. Ad esempio, Gonna See My Friend apre con lo stesso impeto scomposto di Brain Of J (che a sua volta inaugurava - guarda un po' - il programma di Yield), mentre Supersonic potrebbe essere Mankind - parimenti composta da Gossard - rifatta col piglio garrulo e garbato di un Huey Lewis (gosh!). Se l'obiettivo era farti sbattere un po', tutto bene. Non stiamo certo qui ad accampare pretese. Però che peccato quei bridge senza nerbo né ragione, tristi come esercizi obbligatori. Lo stesso sentore di prevedibilità, di binario percorso un milione di volte staziona nelle ballatone come Speed Of Sound e Amongst The Waves, mentre nelle più folk-oriented Just Breathe e The End spunta il Vedder versione bardo epico/bucolico di Into The Wild, armato di chitarra acustica e spalleggiato dall'orchestra. Tutto sommato, questi ultimi sono forse i pezzi migliori del lotto. E quindi, e infine, cosa dovrei concludere, io che ho amato le palpitazioni anarchiche, i misteri pulviscolari, la densità proteiforme di No Code, la bieca ebbrezza di Vitalogy e di Vs. l'incandescente rappresaglia? Ben poco, in verità. In calce a quella ricettina di cui sopra Vedder e compagni dovrebbero aggiungere qualche notarella riguardo al nerbo, all'urgenza, all'additivo che rende un disco - per come può - inevitabile. Per qualche motivo troppo lungo da spiegare, un disco targato Pearl Jam che sia soltanto divertente, non riesco a farmelo bastare. (5.5/10) Stefano Solventi Pete Molinari - Today, Tomorrow And Forever (Damaged Goods, Agosto 2009) G enere : country / bluegras s Sarà forse l'anno della riscoperta del country. O Forse è solo una coincidenza. Fatto sta che dopo i Phosphorescent impegnati a “coverizzare” Willie Nelson nel notevole To Willie, anche il buon Pete Molinari - neanche a dirlo, nostalgico d.o.c. - decide 94 recensioni che è arrivato il momento di cimentarsi in qualche rilettura sul genere. Il tempo di raccogliere armi e bagagli, lasciare il Greenwich Village dei primi Sixties e partire: destinazione Nashville 1950. Compagni di viaggio quei Jordanaires già nel libro paga di Elvis Preslely e di Patsy Cline, chiamati in questo caso a dare profondità e autorevolezza ai quattro standards in scaletta (Today, Tomorrow And Forever, Satisfied Man, Guilty e Tennessee Waltz). Tra steel guitars, cori gospel sullo sfondo e batterie spazzolate di rigore ci si gode il Molinari crooner, arrivando a fine programma in un batter d'occhio e pure con una certa soddisfazione. Appagati ma anche consci del fatto di trovarsi di fronte a un divertissement in piena regola che ha il solo scopo di rinfrescare la memoria agli ascoltatori distratti, in attesa che arrivi il successore di A Virtual Landslide. Per Today,Tomorrow And Forever è prevista una doppia uscita: un vinile che raccoglie le quattro cover e un CD con lo stesso programma e in più tre b-sides degli ultimi singoli pubblicati dal musicista.(6.8/10) Fabrizio Zampighi Peter Kruder - Private Collection Vol. 1 (G-stoned, Settembre 2009) G enere : compil ation downtempo lounge Il downtempo Peter Kruder lo incarna da anni. Prima con l'amico Richard Dorfmeister (su quello storico DJ Kicks), poi con la G-Stone e con molti altri progetti paralleli. Tra alti e bassi la sua Vienna è così diventata simbolo di lounge di classe. E oggi il nostro ci riprova. Si ritira nel suo salotto e se ne esce con delle tracce impolverate da vinili nascosti sotto la pila. Ce lo immaginiamo davanti al fuoco, pochi amici, un po' di fumo e una bottiglia di vodka davanti al camino. Lui che propone quelle tracce stupende ma dimenticate, sommerse dal nuovo che incombe e che dice troppo poco. La visione distensiva la trovi nei Talk Talk da brivido (l'opener The Rainbow in space western stellare), nelle chitarre e marimbe dei Tortoise (On The Chin), nello smooth soul di Milt Jackson (Enchanted Lady), nei solchi vocali di Tom Waits (Clap Hands) e di David Sylvian (Ghosts). O se non sei contento e vuoi un po' di elettronica allora ti puoi sparare l'autocelebrazione prog con la Peace Orchestra (Consequences) e anche qualche accenno di world (Rokia Traoré in estasi con Mariama). Scegliere la sequenza perfetta è un'arte e Kruder se si impegna lo fa da dio. Senza spocchia stavolta ha fatto il botto. Piccolo grande culto in loop dal primo ascolto.(7.1/10) Marco Braggion Phish - Joy (Jemp, Settembre 2009) G enere : psych pop Li credevamo dissolti, spazzati via dalle ramazzate della storia, invece tornano vivi come e più di prima e sarebbe il caso di meditarci sopra. Ma anche no, se preferite. In fondo questo Joy, quattordicesimo titolo per la band di Trey Anastasio, prodotto dal figliol prodigo Steve Lillywhite, non chiede altro che di farsi suonare senza troppi orpelli teorici o retropensieri. Fila liscio e guizzante con quelle melodie levigate, tra l'impeto del pianoforte e gli assolo affilati, porgendo risposte chiare ed effervescenti ai bisognosi di viaggi musicali, che siano gli orfani della psych andata o i giovinastri in cerca di distrazioni più coinvolgenti del solito indie rock. Lampanti i riferimenti ai Grateful Dead del periodo Arista, quell'aria da jam istituzionalizzata o se preferite da jazz-prog addomesticato (Stealing Time from the Faulty Plan) che non disdegna altresì digressioni reggae (Sugar Shack non è la nipotina garrula di Estimated Prophet?) o cavalcate turgide di stampo The Who (la suite Time Turns Elastic). Il gioco si svolge a carte scoperte, scopertissime. Basta con le complicazioni. C'è bisogno di ripartire da basi solide e chiare. Ad esempio dall'entusiasmo dolceamaro di Backwards Down the Number Line, dall'enfasi pettoruta di Twenty Years Later o dall'accorato sentimentalismo della title track. Che poi tutto tornerà buono per sgranare la solita vecchia collana di concerti interminabili. Se poi volete escogitare parallelismi col più ampio sentimento di ripartenza che sembra animare la societa statunitense, anch'essa pervasa di energie positive che sembrano riedizioni di vecchi cliché, pantomime sì benintenzionate ma con uno strisciante sottofondo di disperazione, beh, fate pure. (6.2/10) Stefano Solventi Piano Magic - Ovations (Make Mine Music, Ottobre 2009) G enere : M inimal wave I Piano Magic sono diventati dei classici. Il respiro delle loro composizioni - riuscite o meno che siano - è come cristallizzato sui gusti del proprio deus ex machina: il chitarrista Glen Johnson. Una mistura di Joy Division, primi New Order, Chamaleons, The Cure, Dead Can Dance, e poi spezie mediorientali, dall'Europa dell'est, dalla Penisola Iberica: dulcimer, synth analogici, violoncelli, viole e quant'altro. Detto questo, quanto resiste al confronto dei precedenti loro dischi (nonché del Johnson solista) questo 10imo album in carriera? Molto o molto poco, dipende dai punti di vista: è come dibattere sul bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, a dire il vero, senza accorgersi, in questo caso, che comunque la bevanda di quel benedetto bicchiere (mezzo così o mezzo colì che sia) ci sta dissetando mica male. Questo accade con una canzone come The Faint Horizon, con la sua coda strumentale in crescendo. Irresistibile, sebbene poi, a ben pensarci su, è il solito divino esercizio di stile dei nostri. Che come i Chamaleons dei bei e medi Ottanta suonano davvero; basti dare un ascolto a The Blue Hour, perfettamente in equilibrio fra i migliori Joy Division 'atmosferici' ed un melodismo decadente che come muove e commuove. Il disco è prodotto da Gareth Parton (The GoTeam, The Breeders, Pete & The Pirates), e se la classe non è acqua, il mestiere nemmeno (qui c'è e si sente). Disco risaputo, alla fin fine, quello del gruppo anglo-francese? Risaputissimo! Eppure ancora amabile appieno...(6/10) Massimo Padalino Pictureplane - Dark Rift (Lovepump Records, Agosto 2009) G enere : 8 bit fidget discopop 90 L'eredità dei Crystal Castles con quel trash pompato è ancora fra noi. Oggi, ripulito dal noise e filtrato dopo le bordate wonky, si ripresenta ai teen che non rinunciano al vodka redbull. E allora il mondo di Travis Egedy (direttamente da Denver pure lui è un teen sbarbato) è sempre spiattellato là nelle sale giochi al neon, nei sogni del dopo trance truzzo (Trance Doll appunto), nel bbreaking un po' sbavato dal fidget (Gang Signs, Goth Star) e nel dancey pop motorico in sintonia con La Roux (Cyclical Cyclical). Il tutto condito con quel sapore un po' melo che fa wave, grazie anche a delle vocals bianche che già la gattina Miss Kittin aveva sfruttato nel minimalismo con il buon vecchio The Hacker. recensioni 95 highlight Tune-Yards - BiRd-BrAiNs (Marriage, Ottobre 2009) G enere : etno avant folk Fine Duemila. Tutti che fanno il giro del mondo nella propria cameretta, pochi che fanno tesoro e aprono le sinapsi. Pochissimi che dentro al melting pot ritrovano nient’altro che se stessi, che, detto musicalmente parlando, vuol dire la propria penna. Merrill Garbus le ha spalancate, le sinapsi. E sono sinapsi solide, che non si lasciano dominare da un melange senza un centro, centripeto o centrifugo che sia. Ha linee che l’attraversano ma anche nodi veri e solidamente allacciati. Chiamarsi tUnE YArdS è già di per sé una dichiarazione di intenti e indipendenza lo-fi. Ma in BiRd-BrAiNs si riconosce anche la -tronica folk e indie, roba elettro cut up stile Solex e pure quel tocco hip hop che mai come in questi anni abbraccia la musica tutta, uscendo dall’autoreferenzialità. In tutto questo Merrill sembra godere di una libertà assoluta. Un ukulele in braccio (come i vari Patrick Wolf, Jens Lekman) e le consuete tecnologie povere a contorno e il risultato è qualcosa di totalmente suo. Si poggia un bel po’ su quel fare tropicale che va di moda ora, ma anche su un’Africa assolutamente odierna (Hatari, una specie di strano break-beat fatto con il “chitarrino”). Prendete pezzi come Sunlight e Lions. Sono cantautoriali, pop, ma soprattutto spiazzanti, per la capacità di rifuggire la banalità e di sprigionare immediata affezione nell’ascoltatore. Lions si prende dei rischi di melodia vocale che raramente si ha la statura e l’incoscienza cosciente e leggera di affrontare. Lo stesso accade con quella sorta di yodel che le sue corde vocali spesso corteggiano. Insolito, bizzarro, ma assolutamente personale. C’è insomma di base una capacità di mettere insieme delle perturbazioni armoniche che lascia a bocca spalancata, come in quel piccolo capolavoro di salto di ottave (e falsetti quasi Police-iani) che è News, con uno stile che tanto ricorda i Ruby Suns, progetto per nulla lontano da tUnE YArdS. E se di fine Duemila ora parliamo, sono dischi come BiRd-BrAiNs che ritroveremo nelle classifiche quando guarderemo indietro. Sempre che ci sia bisogno di rinfrescare la memoria.(7.5/10) Gaspare Caliri Cose già masticate e sperimentate che hanno però nelle vene quella positività '90 (New Mind) da lacrimuccia per gli over 30. Un esordio che non sconvolge ma che verrà buono per futuri remix riempipista. (6.2/10) Marco Braggion Poison Arrows - First Class, And Forever (File 13, Ottobre 2009) G enere : spacey math - rock Parte male questo First Class, And Forever. Anzi ad esser precisi più che male parte banale come può esserlo un disco di post-rock strumentale giunto fuori tempo massimo. L’opener Future Wine suona infatti come un qualsiasi pezzo prove96 recensioni niente dalla Chicago di un decennio abbondante fa e le cose non potrebbero andare diversamente visto che nel terzetto a nome Poison Arrows, insieme al batterista Adam Reach, ci sono ex di Atombombpocketknife (il cantante e chitarrista Justin Sinkovich) e di Don Caballero (il bassista Patrick Morris). Quando la catalogazione nel settore “antichità” sta per scattare ecco che le cose si complicano; la linea compositiva del trio chicagoano - sulle prime piatta e inoffensivamente post-rock - cambia registro e si inerpica in sentieri tortuosi e fuori mano. Le strutture dei pezzi si sciolgono, i suoni si liquefanno, le suggestioni di dilatano fino a tratteggiare una sorta di spacey math-rock; così First Class, And Fo- rever acquista spessore, dimostrandosi non solo in grado di mantenere un forte sapore chitarristico o giocare con gli incastri strumentali cari alla migliore tradizione math, quanto anche di rivestire di un alone di alterità le proprie sonorità. Come a dire, un piede nel (proprio) passato e lo sguardo sempre ben disposto vero il futuro. Il fatto che il trio si sia rinchiuso negli Electrical Audio Studios di sua maestà Steve Albini per registrare non è che un ulteriore punto a proprio vantaggio.(6.8/10) Stefano Pifferi Port O’Brien - Threadbare (ATO, Ottobre 2009) G enere : I ndie R ock -F olk Le vicende di Port O'Brien partono da Cambria Goodwin, residente in una piccola località turistica sulla costa Pacifica che porta il suo stesso nome; e da Oakland, sede dell'altro membro del gruppo Van Pierszalowski. I due però hanno il cuore in Alaska, dove Van lavora come pescatore sulla costa dell'isola di Kodiak. Il gruppo si è mosso spesso in questi anni. Modest Mouse, Bright Eyes, Herman Dune sono stati i compagni di viaggio e M Ward un loro grande estimatore. Dopo un primo disco per la misconosciuta American Dust nel 2007, e uno su City Slang, Threadbare dovrebbe essere il terreno ideale per definire l'evoluzione del gruppo e saggiarne la sua importanza. Il lavoro, segnato dalla morte del fratello della cantante, è il più cupo dei tre ma non scioglie le incertezze di All we could do was sing, semmai ne dipana il disordine. Manca la sottile inquietudine di Fionn Regan, così come la complessa regia degli Acorn. Si respira invece la stessa patina eighties dei Crooked Fingers così come la scrittura tersa e ruvida dei Two Gallants. I registri sono variegati: si passa dal Neil Young nostalgico (Calm me down), al revival stile Pedro The Lion (Leap Year), all'occhieggiante Beatles (Love me through), fino a veri e propri plagi da Echo & the Bunnymen (My will is good). Il tutto è penalizzato da arrangiamenti piatti e scontati e dell'Alaska non si vede nemmeno l'ombra. (5/10) Salvatore Borrelli Port Royal - Dying In Time (Debruit De Silence, Ottobre 2009) G enere : E lettronica I Port-Royal, da quel di Genova, sembrerebbero avviati alla conquista del mondo. L'ep Kraken, gli album Flares e Afraid To Dance ne erano la premessa: questo nuovo disco è definitivamente oltre i post del loro più recente passato. Post-rock, post-glitch, post-shoegaze, post-ambient, post-lovely music. Hva (Failed Revolutions) è forse il pezzo che gli Archive si sognano la notte e che la 4AD vorrebbe da anni in catalogo. Il suono c'è: ed è una evoluzione accattivante, anche se non ancora perfettamente personale (forse), di Brian Eno, Lovely Music, Stars Of The Lid, Labradford ed elettronica a bordoni. Glie episodi meno convincenti sono proprio quelli nel solco dell'"ortodossia" (del tutto eterodossa) di certo shoegaze primi anni '90, come la sognante Nights In Kiev. Ancora: il suono c'è, ed è ammaliante. La formula funziona e le alchimie d'assieme della band pure. Ma manca forse un'intima ragione a tutto questo spreco di intuizioni, che non riescono a condensare in pezzi 'definitivi', come la band meriterebbe. 11 pezzi (mediamente troppo lunghi) che per un po' ti fanno viaggiare e sognare, poi solo sperare di ritrovare la strada verso casa, soprattutto quando certe movenze dance qui e là fanno capolino.(6/10) Massimo Padalino Rachel Grimes - Book of leaves (RuminanCe, Settembre 2009) G enere : P iano & F ield R ecordings Nonostante i limiti oggettivi, Systems/Layers fu l'ultima ibridazione espressionistica dei Rachel's. Un disco di chiaroscuri ed astrazioni arcane, una sorta di limbo in cui gli strumenti rimanevano serrati dietro la massa ambientale e sovraesposta di umori e field recordings. La loro musica diventava narrazione, materia vivente. Rachel Grimes prosegue proprio da queste premesse utilizzando il bozzetto esistenzialista, la brevità ed il frammento come nuova forma espressiva. Ogni traccia è come se fotografasse un movimento, una direzione, accarezzando la sua esilità. Book of Leaves è il suo racconto scritto su un taccuino di foglie che si spezzano per la crudele fragilità dei quattordici episodi composti per altrettanti piccoli microfilm del videomaker Greg King. Essi riprendono spazi naturali dove la presenza umana sembra essersi estinta per ritrovare una primordiale condizione di stupore e tremore. Sono brani che vanno nella medesima direzione delle poesie contenute in “Douve” di Yves Bonrecensioni 97 nefoy. Douve è quel non-luogo dove tutto si sfalda, tutto si allontana, creando immobilità e movimento, Douve è “il vero luogo” dove ogni creatura è investita dalla morte. Long before us è un'istantanea calligrafa dentro cui “Ti vedevo correre sulle terrazze, Ti vedevo lottare contro il vento, Ti sanguinava il freddo sulle labbra”, un'istantanea dove tutto diventa fermo immagine di una vicenda, un movimento. Lo strumming notturno di “Every morning” si svuota come una spirale in cavità interiori. “She was here” passa per la nudità di un'alluvione e sotto la frenesia di uccelli catturati insieme alle note del piano. Denis Roche avrebbe adorato questa passione sonora, in particolare “On the morrow”, così tersa e straziata tra note che fanno spola con lunghe pause, e possono appartenere solo a delle mani in cerca di trascendenza. C'è radicalità vivente in spazi macchiati di pause e prolungamenti risonanti, e se ha un pregio formidabile Rachel Grimes, questo è l'azzeramento di qualunque allusione alla contemporanea, ai tecnicismi. Stavolta la sensibilità è rivolta completamente all'ascolto dell'invisibile, del vuoto, dell'assenza, e senza manierismo. Rivive in ogni passaggio l'essere perpetuamente minacciati, l'opulenza delle stagioni, la contemplazione lirico-ambientale ed il disco si chiude come Douve: “Oh forza e gloria nostre, riuscirete a trapassare la muraglia di morti?”.(7.3/10) Salvatore Borrelli Radio Slave - Fabric 48 (Fabric, Settembre 2009) G enere : compil ation tribal deep Su 13 tracce di questo nuovo Fabric, tre (+1 remix) sono a nome Radio Slave. La supponenza di Matt Edwards è giustificabile dal peso dei suoi stab e delle sciabolate che da anni ci inacidiscono il dancefloor. Lui va al sodo con una cassa che punge il cervello e che non molla il tiro: un po' spacey in I Don't Need A Cure For This, un po' tribal in My Time e nell'anthem da club DDB. Non solo schiavi comunque. In più la deep di DJ Bola (Balada Redo) e le incursioni nell'eterogeneità world con i pezzi di Michel Cleis e di 2000 & One. La lezione teorica di Villalobos e di Luciano è ormai prassi consolidata. Basta con la minimal. Oggi la parola d'ordine è tribal deep. Diffondete il verbo. (6.7/10) Marco Braggion Radiohead - These Are My Twisted Words / Harry Patch (In Memory Of) (Autoprodotto, Settembre 2009) G enere : rock pop Due nuovi pezzi per i Radiohead. Di cui non possiamo non parlare. Non fosse che per la dichiarazione rilasciata da Yorke al periodico culturale di San Francisco The Believer, nella quale sostiene che la band non avrebbe più intenzione, non a breve almeno, di mettersi all'opera su un intero album. Quindi, forse, questa è il modo in cui recensiremo d'ora in avanti la band di Oxford: un singolo alla volta, al massimo un ep. Sarà davvero così? Intanto, queste due canzoni uscite in download a pagamento sul loro sito (una sterlina cadauna) ci raccontano da due diversi punti di osservazione e con diversi esiti lo stato delle cose. These Are My Twisted Words è un ordito teso e scuro, battito incessante, trafelato e schivo, un funky strinito e motorizzato su cui l'arpeggio dark-psych ricama un raga ipnotico, acido, brumoso. Niente voce di Mr. Yorke fino a metà brano, ai due minuti e trenta, ed è un incedere abbastanza assorto, il lirismo sospeso tra inquietudine e apatia. Il risultato è interessante ma non troppo, da rubricare senz'altro tra gli episodi secondari del repertorio. Da sottolineare però la "copertina consigliata", scaricabile assieme al brano. L'altro pezzo è un'altra storia, altra musica: s'intitola Harry Patch (In Memory Of) ed è stato registrato live in un'abbazia, con arrangiamento d'archi a cura di Jonny Greenwood (sempre più capace, oserei dire). Dedicato alla memoria dell'ultimo reduce inglese della prima guerra mondiale, morto recentemente alla veneranda età di 111 anni, è una commossa litania contro la guerra, pervasa da un impegno franco che sembra rielaborare le parole dello stesso Patch, che Yorke conosceva personalmente ("Give your leaders each a gun and then let them fight it out themselves"). Melodicamente può ricordare Motion Picture Soundtrack, però come raddolcita in un'estasi matura. Bella ancorché misurata l'interpretazione canora. Due canzoni che confermano la versatilità delle testediradio, ce li fanno sentire vivi pur senza farci gridare al capolavoro. Attendiamo sviluppi. Come sempre.(6.8/10) Stefano Solventi 98 recensioni Rain Machine - Rain Machine (ANTI-, Settembre 2009) G enere : pop - folk Se per Tunde Adebimpe, cantante e leader dei Tv On The Radio, sono stati fatti un milione di riferimenti a Peter Gabriel, per Kyp Malone, chitarrista e controcanto nella band, quelli con Phil Collins verrebbero più che naturali ascoltando i suoi Rain Machine, qui all'esordio discografico. Parecchio simili le voci dei due e un attacco come Give Blood porta diritti a un sound derivato anzichenò, eppure il giochetto delle associazioni finisce già alla terza traccia, assieme a ogni sentore di un percorso calligrafico, o parallelo. Malone non è il Collins pop del combo, semmai ne rappresenta le attitudini più romantiche e freak, slanci che nel gruppo di Sitek sono frenati sia dalla fisicità sia dal 'r'n'b di Tunde. Contrariamente Rain Machine è una collezione di ballate o meglio di canovacci, scuse di canzoni che a seconda del sentimento, acquistano pieghe psych (dunque in dilatazione, alla bisogna mantra indiani), o direzioni più robustamente Seventies con chitarre slabbrate e cadenze più ripetitive (e chiaramente umori più amari e dolorosi). A spuntarla sarà comunque e sempre l'anima free del Nostro (a tratti può ricordare pure l'Uncle Meat Zappiano) che libera e distende, lancia al cielo e ad esso si riconduce. Kyp è un inguaribile romantico e il tasso emotivo è altissimo in tutto il disco. Merito del falsetto ma anche di un registro più gracile e soprattutto nella modulazione tra le anime in cui si gioca il fascino narrativo dei testi. La forza è quella del folk eppure, ancora una volta, il legame al soul e alla wave è ancora TV ma in modo così personale e intelligente che non puoi che abbracciarlo questo mondo parallelo. A mancare, in alcuni episodi, è un pizzico d'incisività in scrittura, non tutto può essere mood e rantoli del cuore. E viene voglia di andarselo a riscoprire in seno al gruppo madre il Malone, con tutta la calma che queste tracce comandano naturalmente. (7/10) Edoardo Bridda Richard Chartier - Untitled (angle.1) (Line, Giugno 2009) G enere : sculture sonore Le strutture in microsuoni abili a comunicare con il silenzio le abbiamo imparate ed amate con Richard Chartier, per intenderci quelle iniziate con Series (Line,2000), rinnovate con Set Or Performance (Line,2004) ed a oggi compiute con indubbia poetica. Un'arte coltivata da anni, tra devoto riduzionismo ed esperienza fisica del suono, espressioni predominanti anche in quest'ultimo Untitled (angle.1), progetto congiunto con l'artista visuale Linn Meyers. La collaborazione si basa su un'installazione (presentata presso la Art Gallery dell’Università di Maryland nel marzo di quest’anno) estesa per otto canali, tracce d'inchiostro e due pareti e sull'interazione (resa possibile grazie ad alcuni trasduttori audio applicati direttamente sulla superficie) tra la componente acustica e quella visuale, elementi che qui lavorano per sinestesia. Ai confini come sempre le frequenze rasenti lo zero di acustici e digitali micro-elementi (svincolati, ingranditi e poi negati), un linguaggio questo altamente evocativo che conserva sempre lo stretto legame con spazio, tempo e forma. A dar prova di una congiunta affinità tra suono ed immagine è la superficie sonora, che dialoga con il tratto e prende il posto alla grafite con droni e riverberi sottili di rumore bianco. L'insieme è espresso come nelle più eccellenti opere di shodo e qui, a tenere la penna, è uno dei migliori maestri.(7.5/10) Sara Bracco Richard Hawley - Truelove's Gutter (Mute, Settembre 2009) G enere : pop nostalgico Richard Hawley esercita la difficile arte della calligrafia, che non è calco pedissequo ma bella (ri)scrittura di archetipi fondanti una tradizione e perciò innalzati al ruolo di classici. Nel suo caso il miglior pop d'alta classe dei decenni '50-'60 e relative derivazioni, rimessi in circolo secondo minime varianti formali che assecondano una curiosità musicofila molto più fervida di quanto possa apparire. Ama tributare i grandi songwriters Tin Pan Alley ma anche Elvis Presley e Scott Walker l'ex Pulp, e lo fa giocando rispettosamente con quelle atmosfere anche in base agli umori del momento, che qui iniettano ombre desolate e improvvisi spiragli di recensioni 99 luce in otto brani perfetti per la stagione in corso. Truelove's Gutter racconta infatti la parte crepuscolare dell'amore abbandonando del tutto i pizzichi spensierati del precedente Lady's Bridge a favore di tempi e suoni dilatati. L'armamentario si arricchisce di strumenti dalla grana inconsistente come l'acuofono e il crystal organ, i cui echi di sirene lontane e placidi fantasmi fanno il paio con slide guitar in rifrazione, lividi synth ed improvvisi bagliori orchestrali. La voce come sempre vellutata calca le sue zone più scure, si appoggia su riverberi sottili che la rendono solitaria nel vuoto (As the down breaks), e trova il giusto punto di equilibrio tra un Mark Lanegan lacrime agli occhi e un Jarvis Cocker nostalgico a fine serata nei nove minuti ampi come una pianura autunnale di Remorse code. Al contrario Oper up your door albeggia su tastiere cangianti prima che l'orchestra risplenda in zona Frank Sinatra e Soldier on - il brano migliore in scaletta - deflagra elettrica come i Mercury Rev di “All is dream” dopo un'introduzione di tastierame inquieto e slide doverosamente profonda. Ma anche quando sta maggiormente nelle righe (il vaporoso country-jazz di Ashes on the fire, il sarcasmo dolcificato del singolo For your lover give some time) Hawley dimostra di saper maneggiare e non subire una tradizione che lo vede oggi tra i pochi possibili proseguitori. Ad altri dunque il compito di stravolgere il passato per trovare chissà quale futuro; a lui invece quello di scaldarci i cuori accarezzandoli con malinconie senza tempo. (7.3/10) Luca Barachetti Ronin - L'Ultimo Re (Ghost Records, Ottobre 2009) G enere : imaginary soundtrack Le atmosfere cinematografiche hanno sempre rappresentato la spina dorsale dell’idea Ronin, naturale che il progetto dorelliano le abbracciasse ufficialmente in colonne sonore prima reali (quella del film Vogliamo anche le rose di Alina Marrazzi e della serie TV Non pensarci) e poi immaginarie (l’attuale comeback). L’Ultimo Re, oltre che una imaginary soundtrack, è 100 recensioni anche un concept. Niente di meglio della frase riportata all’interno del booklet per coglierne l'essenza. Fa "con le budella dell’ultimo prete impiccheremo l’ultimo re" ed è una frase recepita in tenera età dal Bruno che, come una ossessione dal passato, riecheggia nella fantasia dell’autore in mille, diverse forme e varianti nel corso degli anni, fino a quella (se non conclusiva, per lo meno temporaneamente definita) della composizione delle presenti 9 tracce. Film senza immagini e poesia senza parole, L’Ultimo Re è un disco elaborato in formazione a quattro e completamente al maschile: Nicola Ratti alla chitarra, Chet Martino al basso e Enzo Rotondaro alla batteria, più - graditi ospiti - il violino di Nicola Manzan, il basso tuba di Giordano Geronzi e i field recordings di Ivan A. Rossi; supporti preziosi nell’incastonare il mood generale in percorsi a volte sghembi e/o laterali. Riecheggiano visioni di rivoluzione e resistenza, ribellione e liberazione trasfigurate attraverso la lente strumentale classica del progetto, ovvero desertiche atmosfere un po’ spaghetti western morriconiani, un po’ malinconiche visioni da mitteleuropa in disarmo. C’è molta polvere tra i solchi, esattamente come quella che riempie la scena finale dell'ipotizzato film mentre una dissolvenza incrociata indugia su due piedi a penzoloni. Quelli della Morte Del Re.(7.5/10) Stefano Pifferi Rural Alberta Advantage Hometowns (Saddle Creek, Luglio 2009) G enere : I ndie pop , post screamo Combattuti tra un fare crudo à la Violent Femmes con reminescenze screamo (e se volete pure Meat Puppets), e dei modi da tipica band indietronica filo tedesca che non ha paura dei quattro quarti (e nemmeno dei campanellini), l'esordio di questi schizofrenici canadesi non è niente di più che la media delle fascinazioni che potete raccogliere, e avete raccolto, da questi generi. è indie un po' copia incolla, fatto con passione e cura ma che, d'altro canto, bada ancora troppo ad unire le punte del foglio e non libera veramente il cuore. Un ascolto, i fan dell'etichetta di Omaha dovrebbero darlo, senza tuttavia aspettarsi grandi sorprese né canzoni memorabili. In pratica, vale quel che si diceva per certi Tunng, pure loro un poco fregati da questo star in bilico tra sintetico e folk. Genuinità sì, ma a che pro?(6/10) Edoardo Bridda Serengeti & Polyphonic Terradactyl (Anticon, Giugno 2009) G enere : electro - hop intimista Serengeti & Polyphonic sono David Cohn e Will Freyman, rispettivamente rapper e produttore di stanza a Chicago. Entrambi hanno già qualche disco alle spalle quando si conoscono, un po' per caso, nel 2005, e cominciano a collaborare. Il disco intero arriva nel 2007, Don't Give Up, e gli fa guadagnare un posto alla Anticon. Serengeti rappa nella koinè spoken-paranoica dell'indie-hop Duemila, ma senza i picchi espressionisti, quando non i veri e proprio assalti, di colleghi più famosi come Buck 65, Sage Francis o lo stesso Doseone. Sembra piuttosto seguire la strada di un impressionismo scazzato. Le basi di Polyphonic sono la parte più interessante della faccenda. Suonano per certi versi nuove, in un contesto del genere. Un'elettronica dai piccoli tocchi quasi giocattolosi, ma per niente allegra, anzi decisamente sinistra, eppure divertente, un'elettronica glitch-percussiva, opportunamente (visto lo stile trattenuto del rapping), intimista, ora vicina ad arpeggi alla Glass-rallentato, ora vicina a soluzioni quasi da film noir. Picchi di genialità nell'uso delle corde pizzicate e della fisarmonica in Patriotism. Interessante, ma, come dire, da sviluppare. (6.9/10) Gabriele Marino Shannon Wright - Honeybee Girls (Vicious Circle, Ottobre 2009) G enere : indie folk Sta nel rifarsi al disco omonimo concepito con Yann Tiersen un lustro fa la chiave appropriata per addentrarsi in questo settimo lavoro di Shannon Wright. La quale festeggia il decennio di attività in proprio da che, abbandonate le Crowsdell, transitò dall’indie-rock a un folk-rock tormentato che risentiva del “post” e contemporaneamente mostrava una robusta conoscenza delle radici. Così la ragazza è maturata ulteriormente lungo un percorso di tre album, giocati tra graffiare di elettrica e pause pianistiche, un’ugola torturata e azzeccate seduzioni teatrali e classicheggianti. Mantenendo sempre la bussola e l’equilibrio, assieme alla consapevolezza che occorresse una svolta, prima o poi. La quale è giunta, come si dice in apertura, sotto forma di atmosfere più raccolte e trasparenti senza smarrire personalità né quel suo piglio severo, essenziale. Che è, probabilmente, quanto le ha sinora impedito di allargare quella cerchia di intenditori “underground” in cui la Wright è relegata da sempre. Chissà che non tocchi a Honeybee Girls fungere in tal senso da giustiziere, col suo abbassare ulteriormente il volume trattenendo la profondità esecutiva e confinando l’elettricità a due tracce soltanto, affidando il resto di ed emozioni a corde delicate, oscurità di tasti e stridori collocati per lo più in sottotraccia. Pressappoco quanto accadeva due anni fa nel predecessore Let In The Light con più continuità, ma per favore che non si parli di un passo indietro. Di un girare attorno, piuttosto, come attestano la tesa Father e una controllata Tall Countryside, il girotondo alla P.J. Harvey Never Arrived e le amarezze zuccherine di Sympathy On Challen Avenue. Più d’ogni altra cosa, dimostra la grandezza della Nostra una Asleep sottratta per sempre agli Smiths levando la scorza drammatica e spedendo la melodia in volo nel vento. Da restare senza fiato e applaudire fino a spellarsi le mani per il coraggio e la maestria. (7.4/10) Giancarlo Turra Simona Gretchen - Gretchen pensa troppo forte (Disco Dada, Novembre 2009) G enere : indie - folk - rock C'è della sostanza in questo esordio di Simona Gretchen. Qualcosa di indefinito ma al tempo stesso tangibile, terreno fertile per frutti acerbi e dai colori cangianti. Una comunicazione senza filtri mediata solo in parte dal buon lavoro in fase di produzione portato a termine da Gianluca Lo Presti e Lorenzo Montanà, ma anche un flusso di parole che si appropria della musica ripiegandola e stropicciandola, per farla rientrare nei limiti imposti dalla metrica. Viene in mente Alessandro Grazian, quando in Due apprendisti un'acustica suonata senza riguardo si mescola a un immalinconirsi delle trame; si vorrebbe citare la Cristina Donà del disco d'esordio ascoltando alcuni passaggi della mutevole Bianca in fondo al mare. Eppure c'è anche dell'altro. Nell'approccio quasi progressivo - nel senso di estremamente variabile - della scrittura, nella estemporaneità degli umori, nella voglia di seguire il distendersi delle parole senza grossi riguardi per la coerenza delle geometrie. Elettricità e lirismo, dissonanze e recensioni 101 melodia, fuse in una concezione di musica istintiva e immediata. In conclusione, da un lato si assiste a una dimostrazione di carattere non indifferente, dall'altro emerge forse la mancanza di una quadratura precisa che indirizzi gli sforzi narrativi della Gretchen verso un'estetica riconoscibile.(6.4/10) Fabrizio Zampighi Sondre Lerche - Heartbeat Radio (DECCA, Ottobre 2009) G enere : O rechestral pop Quest'anno Sondre Lerche firma il sesto album e c'è già qualcuno che lo paragona a Paul McCartney piuttosto che un amante dei Belle And Sebastian particolarmente spigliato. Lui però l'umiltà di farti la domanda che conta ce l'ha. Tell me what you think about this song, chiede nell'omonima Heartbeat Radio. E chiedendotelo inizia a cantare lasciandoti la sensazione che non se la faccia davvero. Sondre e Robbie (Williams) hanno qualcosa in comune. Da sempre sanno d'essere dei talenti e forse il loro vero problema è proprio quello. Il ragazzo from Bergen se l'è sempre sentito quel sangue da fottuto Michael J. Fox nelle vene. La commedia della canzone, l'epoca d'oro per eccellenza, tutte le big band, i San Remo buoni e cattivi, i Sinatra pop e quelli più jazz, gli swing e i twang.Tutti i mondi in smoking sono suoi, e lo sono sempre stati tanto che una soundtrack come Dan In Real Life (del 2007), manco a dirlo, gli era venuta come bere un caffè, quasi bella come quella di About A Boy che ci fece innamorare di Badly Drawn Boy (e dal quale abbiamo divorziato presto). E mentre Robbie s'affossa (anche commercialmente), l'oggi ci porta Heartbeat Radio servito ancora una volta caldo, dolce e con lo zucchero a velo sopra. Caria i denti, ma è buono. Peccato per la canzone omonima, anche singolo, non all'altezza della Two Way Monologue che è poi l’hit insuperato. Ma nel disco c’è di cui godere e Like Lanzeby, vaudeville da tubetto dentrificio davanti allo specchio dedicata al James Bond più sfigato della storia (quello scozzese che gli muore la moglie per chi se lo fosse scordato) è proprio the track, bella perché in quell’ironia sotto traccia c’è il di102 recensioni stinguo col Take That. Controllando i suoni, l'ego e la chitarrina da ritorno al futuro, Sondre surfa sul mainstream senza fottersi. Archi e fiati cinquanta style vanno alla grande in I Guess It's Gonna Rain Today ma è If Only è il gioiello d'arrangiamento e melodia. Hip hop, soundtrack 007, dub, samba. Di tutto e di più in una coralità limpida come davvero poco pop riesce. Al contrario, non manca l’essenzialità: Pioneer è quel che ci vuole per i corretti paragoni con il baronetto. Infine i difetti, non mancano sicuramente in quest'album: pose disney (Words & Music) e quelle Ottanta (Almighty Moon) sanno di minestra bollita e del resto, dai Cinquanta agli Ottanta (e ritorno) non si esce vivi. Speriamo che per questa strada non si finisca dalle parti di Quantum Leap (il telefilm).(7.1/10) Edoardo Bridda Soulsavers - Broken (V2 Music, Agosto 2009) G enere : electro rock blues Metti Mark Lanegan a pasteggiare con una coppia di transfughi trip hop (Rich Machin e Ian Glover). Metti che il suo fiero pasto faccia tremare le stoviglie e persino le gambe del tavolo, al punto che di trip hop non è quasi più il caso di parlare. Così oggi i Soulsavers sono soprattutto Lanegan (autore di tutti i testi) ed un circondario sonico (elettrico, elettronico, cameristico) che tenta di ricollocarne il perno espressivo ottenendo al più una lieve vibrazione dei margini blues-rock (con qualche fregola gospel). Ché ormai il caro Mark è icona monumentale, roccioso pilastro piantato al valico tra antico e contemporaneo, con poca voglia di rimettere in discussione il molto già conseguito. è questa la sua forza ed il suo limite. Difficile attendersi nuove sottigliezze diaboliche, l'angelico rovello e l'estasi sanguigna dei primi due lavori, sembrando anzi già lontanissimo persino il frugale mistero di Field Songs. Però ovviamente ci accontentiamo, perché l'autorevolezza generosa che pervade la trepida Can't Catch The Train o la minaccia ingrugnita di Death Bells sono situazioni più che degne. E ancor più la resa delle due cover in programma, Some Misunderstanding di Gene Clark e You Will Miss Me When I Burn di Will Oldham, quest'ultima cantata assieme all'australiana Red Ghost, al secolo Rosa Agostino, scoperta per l'occasione e apprezzata al punto da affidarle per intero le ombrose Praying Ground e By My Side. Le altre ugole impegnate a duettare con Lanegan sono un bel parterre de roi del mainstre- am alternativo: Jason Pierce degli Spacemen 3, il grande Mike Patton (in quella Unbalanced Pieces che sembra una outside dei Gutter Twins), persino i cari Gibby Haynes e Richard Hawley in diretta dal pianeta Butthole Surfers. Alla fine però il duetto più bello s'innesca tra il tenebroso Mark e la felpata Rosa in Rolling Sky, sette minuti e oltre di caracollare torbido e disarticolato tra fatamorgane jazz blues e cascami electro. Ci sarebbe pure una agile rilettura di Sunrise - strisciante ordigno risalente all'epoca Whiskey For The Holy Ghost - affidata al canto del principe Billy, ma è stata scelta come singolo-antipasto e non è stata inclusa in scaletta. Peccato. Anzi, meglio così: di carne al fuoco ce n'era già molta. Forse troppa.(6.8/10) Stefano Solventi Sparklehorse/Fennesz - In The Fishtank 15 (Konkurrent NL, Settembre 2009) G enere : electro folk è la quindicesima volta che capita. I pesci non perdono il vizio e la Konkurrent nemmeno. Stavolta nell'acquario ci sono finiti Sparklehorse e Fennesz. Come sempre, accadono cose che noi animali terrigni difficilmente potevamo prevedere. Difficile infatti calcolare affinità, divergenze e sintesi tra due specie tanto diverse eppure simili, così lontane così vicine. In entrambe una brama di centralità combattuto dall'istinto dei margini, tra le acque trasparenti ma rapide o le più quiete ma scure. Inafferrabili, se vogliamo, ed eccoli impegnati in questa session del dicembre 2007 a sfiorarsi, a intrecciare fili di traiettorie impalpabili, a mangiucchiarsi l'un l'altro la scia inseguendo quel microrganismo che accenda il bagliore, che completi per un istante il senso di tutto questo imprendibile guizzare.Astrazioni elettroniche, apocalissi angosciose, sospensioni frugali, fantasmi folk, palpitazioni tenui di cuori affranti abitano queste sette tracce effimere e intense come mandala da un'altra dimensione. Quella dell'acquario, appunto. Nella quale l'americano recupera con gli interessi quella delocalizzazione sonico/emotiva accennata ai tempi del magnifico Good Morning Spider, mentre l'austriaco esperimenta inauditi livelli di indolenzimento e batticuore. Risul- tati non eclatanti, comunque bastevoli per l'ennesimo chapeau.(7.2/10) Stefano Solventi Squarepusher - Solo Electric Bass 1 (Warp Records, Agosto 2009) G enere : as solo di bas so Che il pusher quadrato fosse amante del basso lo sapevamo già, ma dall'amore al disco ne passa. E invece lui si permette di riproporre sul supporto di plastica una session in solitaria tenuta alla Cité de la Musique di Parigi lo scorso settembre 2007. Una cosa che la ascolti e senti la sua tecnica tra slap e funk, tra arpeggi quasi chitarristici e svisate per gli amanti di Pastorius. E poi? Poco o niente. Più che un disco, uno sfoggio posh di conoscenza. Se sei coraggioso e riesci ad arrivare alla fine, l'anima non la vedi nemmeno col binocolo. Prescindibile anche (e soprattutto!) per i fan.(0.01/10) Marco Braggion Stardog - Oltre le nevi di piazza Vetra (Frequenze Studio, Settembre 2009) G enere : wave - pop Parte nel modo migliore Oltre le nevi di Piazza Vetri dei milanesi Stardog. Con una Quale Estate che somma aromi Radiohead prima maniera a cadenze autoriali, una Canzone del dove imbrattata di new wave elettrica tutta chitarre e crescendo, una Gli addii di Anita sospesa tra Bluvertigo e degli eightes robotici in stile Camerini. Poi un po' si perde. O meglio, sceglie coscientemente di adottare un approccio alla materia fin troppo “baustelliano”, con quell'incedere in levare decodificato in bilico tra elettronica, tastiere assortite e pop. Se in Sai Carmelo l'esperimento tutto sommato riesce, in Tridimensionale già ci si chiede il perché di tanta fedeltà a un modello formale che ha evidentemente fatto scuola ma che altrettanto chiaramente odora di stantio quando non è nelle mani di chi l'ha istituzionalizzato. La tentazione di confinare il disco tra le produzioni non del tutto riuscite diventa poi pressante nel momento in cui ci si imbatte in una Come cani francamente prescindibile e solo un colpo di coda finale del programma salva baracca e burattini da una sorte ingrata. Anche perché Il lamento di Bardamu è uno spettacolare esperimento di clonazione in bilico tra jazz e crossover mentre L'avventura è l'ennesimo flashback Radiohead mitigato da atmosfere malinconiche in stile chanson francese. recensioni 103 Alla fine un'opera ambivalente, Oltre le nevi di piazza Vetra, per una band che da un lato mostra di meritarsi la stima riservatale nell'ultimo periodo da addetti ai lavori e pubblico e dall'altro rivela di non aver ancora concluso il proprio percorso di ricerca.(6.7/10) Fabrizio Zampighi Stephan Mathieu/Taylor Deupree - Transcriptions (Spekk, Giugno 2009) G enere : ambient / elettroacustica Stephan Mathieu e Taylor Deupree ce l'hanno nel sangue i droni e l'elettroacustica, che per questa prima collaborazione in uscita Speek, scorrono disinvolti e fluidi. Mathieu ci mette le registrazioni e i marchingegni (due grammofoni, una serie di 78 giri e cilindri di cera, antenati dei conosciuti vinili), Deupree invece una serie d'interventi acustici per chitarra e sintetizzatori. A uno la fonte mentre all'altro le aggiunte in colore e luminosità ma come vedremo, passati i quarantotto minuti di Transcriptions, per raggiungere incantevoli formazioni d'insieme l'uno è certo che ha estremo bisogno dell'altro. Ora, tutto il merito non sta nell'esperienza in sé ma nel saperla mettere in gioco, tra monoliti in ambient (Nocturne) e texture che galleggiano (Andante), illuminate in un divenire ora introverso (Genius) ora idilliaco (Solitude of Spheres). Quando poi ci si viene incontro e non vengono a meno i principi (quelli del suono puro del Mathieu) ma se ne prende cura il Deupree con movimenti di superficie, non c'è certo bisogno di preoccuparsi a scrivere grandi rivoluzioni. Tanto basta quindi a presentare un'altra accoppiata in gara per il titolo della più bella dell'anno. (7.3/10) Sara Bracco Steve Earle - Townes (New West, Maggio 2009) G enere : country in opposition Un impegno toccante, l’album numero tredici di Steve Earle, incombenza che piace immaginare 104 recensioni in parte piacevole e in parte non poco amara. Mentore, compagno di vita maledetta e più d’ogni altra cosa amico, il capostipite della gloriosa tradizione dei “texan troubadour” Townes Van Zandt è affrontato col cuore in mano pescando tra brani più o meno celebri di una produzione con pochissimi eguali nella canzone americana per valore storico e incontaminata bellezza. Capisci quanta sia la profonda umanità profusa già da un titolo laconico ma che più significativo non potrebbe essere, dalla cura estrema e dai pochi ospiti - la consorte Allison Moorer, il figlio di recente debutto Justin Townes (eh…) e un sorprendente Tom Morello - aggiunti ai fidi strumentisti. Poco altro resta da dire oltre alla carica emotiva sprigionata da questa quindicina di canzoni, anello di una catena saldissima che conduce fino all’attualità di una pregnanza che si estende ben oltre il “disco tributo”. Per la semplice ragione che c’è un (grosso) pezzo di vita dell’interprete e tanti brandelli dell’autore racchiusi in essa, ragion per cui le dissertazioni stilistiche e oggettive di sorta possono, per una volta, andare a quel paese. Spazzate via dalla malinconia, dalla rabbia, da un respiro romantico d’altre epoche che oggi sono in pochi a possedere senza scadere nella cartolina: prese quasi a caso, Pancho And Lefty e Lungs, To Live Is To Fly e (Quicksilver Dreams Of) Maria rinascono come le altre compagne a nuova vita semplicemente perché non sono mai morte. Sono classiche, sempiterne increspature colate d’esistenza e virile poesia del Grande Paese. Di quando nascondeva ancora un sogno da raggiungere prima delle guerre insensate nel nome di diosacosa e prima del crollo di un sistema economico frantumato da se stesso. Solo Steve poteva degnamente omaggiare l’uomo di Fort Worth, avendone raccolto - qualcosa come venti anni or sono - il sofferto testimone, e così è stato.(7.6/10) Giancarlo Turra Summer Cats - Songs For Tuesdays (Slumberland, Agosto 2009) G enere : indie - wave - pop Il dubbio che nelle vene degli indie-popper più irriducibili questa musica possa scorrere rimane. Eppure in certi casi sottolineare come un pop leggero, nutrito a pane wave e Sixties, venato qui e là di garage per timidi, possa decisamente annoiare è doveroso. La pur amata Slumberland è andata a produrre una band australiana - al secolo Summer Cats - il cui unico picco sembra essere la capacità di infilare in Songs For Tuesdays esclusivamente dei luoghi comuni. Non che il pop per ragazzini debba necessariamente eccellere per originalità: l’estetica indie si alimenta del perenne procrastinamento di se stessa. Tanto più in un contesto così pianeggiante però è cruciale avere abilità, dosare le parti, saper scrivere. I Summer Cats puntano tutto su una tastiera giocattolovintage (non scomodiamo neanche le evidenti provenienze di questa scelta) e su una chitarra appena appena ingrezzita e svelta nel sciorinare gli accordi. Non si sente per nulla la passione per la scrittura. Anzi i Cats riescono persino a rovinare l’ennesima mossa-carica-feedback alla Jesus And Mary Chain di Paperweight, aggiungendo quel solito canto - la cosa che fa più innervosire del disco - squisitamente banale, immaturo, trascinato non si sa dove e perché. Non vogliamo fargliene troppo una colpa. Ma mettere in luce come la loro strategia, apparentemente disimpegnata, sia in realtà chiarissima.(5/10) Gaspare Caliri Susanna - 3 (Rune Grammofon, Ottobre 2009) G enere : E motronic Se il suffisso è fin troppo inflazionato, quell'emotronic che campeggia sul loro MySpace ben sintetizza la cifra stilistica di Susanna Karolina Wallumrod e Morten Qvenildi. 3 non si discosta di una virgola dai due precedenti album: è la parte elettronica e avanguardistica degli arrangiamenti a far da contraltare all'approccio puramente cantautorale e un poco pop di Susanna. In alcuni episodi è solo il piano ad accompagnare la splendida voce della Nostra (Another Day, cover di Ray Harper) e sono ancora barlumi e intermittenze siderali ad essere evocati in queste dieci canzoni. Il sublime è ancora il corrispettivo estetico di un fluorescente cosmoviaggio. (7/10) Andrea Provinciali Swell Season (The) - Strict Joy (ANTI-, Ottobre 2009) G enere : folk soul pop Baciati da repentina fama grazie al premio Oscar per Once, pellicola nella quale Glen Hansard e Markéta Irglovà hanno dato vita ad un docudrama più vero del vero, tanto fragrante la vicenda dei due aspiranti musicisti quanto riuscita la soundtrack che ne suggellò l'intesa. Questa clamorosa botta di celebrità ha ovviamente riempito di carburante il serbatoio del progetto, attivo dal 2006, anno che li vide debuttare con un album omonimo. Non stiamo parlando quindi di una continuità della "finzione" cinematografica come accadde con The Committments nel 1991, glorioso film di Alan Parker nel quale Hansard "interpretava" la parte di un chitarrista abbastanza sfigato. Ruolo che il buon Glen ebbe poi modo di ripudiare, preferendo dedicarsi anema e core alla causa dei suoi Frames. Questo Strict Joy va quindi visto come il nuovo capitolo di una deviazione - battezzata The Swell Season - nella ormai lunga carriera di Hansard, anche se rischia seriamente di trasformarsi nella sua esperienza più significativa. C'è da dire che con la pianista, chitarrista e vocalist ceca combina una coppia ben assortita. I due giocano bene le carte, conferiscono pathos tangibile alle canzoni, non si limitano al compitino disimpegnandosi tra soul di stampo Van Morrison (idolo dichiarato di Hansard ed eclatante modello per la sanguigna Low Rising) e folk più o meno corroborato "indie" (l'estro traditonal addomesticato in Love The Conquers e Fantasy Man, un impeto struggente in High Horses e The Rain). Molto romanticismo quindi, intensità, orchestrazioni preziose però mai eccessive, generosità e consapevolezza, i due sembrano a tratti un ibrido tra l'amico Damien Rice e i Counting Crows (vedi la bella The Verb o Felleing The Pull), oppure i nipotini segreti di Cat Stevens (Back Broke). La formula è giusta, il successo - oserei dire - legittimo.(7/10) Stefano Solventi Themselves - Crownsdown (Anticon, Ottobre 2009) G enere : electro - hop d ' as salto La Anticon ha vissuto una fase di stagnazione dopo i fasti dei primi pionieristici anni Duemila. Da qualche tempo, inaspettati, stanno giungendo - sempre però tra alti e bassi - i primi segnali di una ripresa. Se non altro ripresa della presenza sul mercato. A fine 2008, lo stiloso disco di Tobacco; in questo 2009, il progetto, sulla carta interessante, all'ascolto invece molto meno, di Buck 65 a nome Bike For Three; una nuova buona prova pop di Why?; il recensioni 105 riuscito atto secondo di Serengeti & Polyphonic; e, soprattutto, l'ottimo theFREEhoudini, preludio, nella forma programmatica del mixtape e del crewalbum, a questo vero e proprio comeback dei Themselves (che del mixone ripropone quattro brani). Di Doseone abbiamo già detto e tessuto le lodi, col suo timbro acidamente roco, con picchi alla Tom Waits, e un ipercinetismo che, anche qui, in certi picchi, ricorda addirittura il famoso scioglilingua greco di Demetrio Stratos. Fin qui tutto bello. Sarà allora forse la monodia del disco, rispetto alla varietà di houdini, a deludere. Meglio, delude forse il modo un po' monocromo che ha Jel di servire il solo Dose. Un massimalismo alla lunga un po' stancante (vedi anche il trattamento della voce, sempre stra-effettata), e che un po' mima e un po' adotta certi microstilemi-macrobrutture nu. L'effetto finale è quello di un frullatone electro-industrial un po' troppo indistinto e insistito. Peccato. Forse siamo tornati in un'era da mixtape.(6.4/10) Gabriele Marino Tickley Feather - Hors D'oeuvres (Carpark Records, Ottobre 2009) G enere : lo fi Vista col senno di poi, Tickley Feather la si potrebbe considerare madrina di Zola Jesus. E vuoi vedere che non lo sia sul serio. Però, chi prima inizia, pur essendo a metà dell’opera non ne è certo depositaria. Questione di talento, sempre e comunque. Diciamo che la protetta degli Animal Collective (l’esordio fu battezzato Paw Tracks. Oggi incide per Carpark Records, ma la cricca è la stessa) compie importanti passi in avanti rispetto allo sterile e confusionario debutto. Un Ariel Pink in tinte rosa che muove tra territori out pop (Muscles, Trashy Boys), saturazioni shitgaze (Buzzy) e dreamy andato a male, tipo Cocteau Twins alticci (Fly Like An Eagle). Conoscendola, ripetiamo, notevoli sono i miglioramenti. E poi, semmai si focalizzasse su quanto fatto in Club Rhythm 96 And Cell Phone - indolenza da cameretta a là Death Cab For Cutie -, il prossimo disco potrebbe anche stupire.(5.7/10) Gianni Avella 106 recensioni To Kill A Petty Bourgeoisie Marlone (Kranky, Settembre 2009) G enere : shoegaze , ambient A due anni di distanza da The Patron scatta l'orologio biologico di Jehna Wilhelm, Mark McGee e soci. Ancorati al passato come non mai, i due si gingillano in un tributo agli Slowdive, alle atmosfere slowcore e alle sonorità Kranky, senza dimenticare la 4ad. Rispetto ad un paio d'anni fa' hanno sacrificato trip hop e mantra industriali a favore di un narcotico romance e di atmosfere ossessive, collaudate dal prèt à porter batteristico di matrice post rock. Niente di nuovo ieri e nemmeno oggi. La noia incombe tranne che in un paio di casi: Villain con una Jehna decisamente ispirata (o posseduta da David Tibet, chi lo sa, con tanto di violino clichettoso ma azzeccato) e I Hear You Coming But You're Steps Are Too Loud che pur rispettando il mood generale si eleva quel tanto che basta a ridestare l'attenzione dell'ascoltatore. Tutto un disco così e sarebbe valso il discorso già intavolato per i compagni d'etichetta Deerhunter (vedi SA n.48). Invece i TKAPB hanno qualche problema di scrittura, non riescono ad essere originali quando aderiscono all'humus di riferimento e non convincono nemmeno nel momento in cui tentano la strada del pop (In People's Homes è il carosello più sgradevole della storia dell'etichetta di Chicago).(6/10) Francesca Marongiu Twilight Sad (The) - Forget the Night Ahead (Fat Cat, Settembre 2009) G enere : P ost -P unk Secondo album per gli scozzesi Twilight Sad la cui differenza rispetto all'esordio Forget The Night Ahead risiede nella brutta deriva emulativa Interpol barra Editors intrapresa. Ritmi cupi e dilatati, scenari grigi e le solite pose che vi immaginate di già.(5/10) Andrea Provinciali Van Cleef Continental - Red Sisters (Casa Molloy, Settembre 2009) G enere : rock Hanno fatto le cose in grande i bresciani Van Cleef Continental per questo esordio lungo Red Sisters, distribuito già da qualche mese in USA dalla Steam Machine Records e infine anche in patria grazie a Casa Molloy. L'album conferma quanto di highlight Zen Circus - Andate tutti affanculo (Unhip Records, Settembre 2009) G enere : punk - folk d ' autore La mutazione è completa. Il Circo Zen approda al cantautorato e all'italiano in un sol colpo, portando in dote il punk-rock elettro-acustico che da sempre identifica il gruppo. Primo disco completamente in lingua madre per i terzetto pisano coadiuvato dall'onnipresente Brian Ritchie e naturale evoluzione del discorso lasciato in sospeso con quel Villa inferno di un anno fa in cui già si assisteva a qualche cambiamento importante. Allora c'erano tre episodi della statura di Figlio di puttana, Vent'anni e Vana gloria a far ipotizzare una possibile coesistenza tra estremi in apparenza inconciliabili - il rock sboccato/sincopato dei nostri e la lingua di Dante -, oggi c'è un disco senza compromessi come Andate tutti affanculo a confermare le aspettative. Un ricongiungersi con la tradizione del Belpaese? Anche, ma alla maniera di Appino, Ufo e Karim. Il che significa testi orgogliosamente proletari, sentenze senza appello contro una quotidianità italiana intasata di porcherie (su cui si sputa volentieri) e un approccio alla scrittura che rimanda direttamente a certi anni Settanta ruvidi e impegnati. Il tutto fuori dalla gratuità apparente di testi e titoli, dal momento che “punk” per Zen Circus significa mescolare, attrarre gli opposti, estremizzare, ma al tempo stesso negare il no future a oltranza dei “Johnny Rotten” generalisti. Per far passare il messaggio, costi quel che costi. Non si sacrifica nulla del passato, anzi lo si riconferma e si aggiunge. Lo stoner/noise all'atropina di Gente di Merda, la ballata tossica e iconoclasta di Canzone di Natale, le primavere disilluse di Amico Mio (sorta di Canzone per l'estate da bassifondi), l'anticlericalismo in salsa “ciellina” di We Just Wanna Live, il cinismo accusatorio de L'egoista. Brani che mescolano un'indole quasi pop - nel senso di popolare - a ruvidezze spietate; episodi che sommano una visione musicale lucida a velleità letterarie on the road. La maggiore età per Zen Circus ha l'irriverenza dell'autonomia e il coraggio di un disco capace di aspirare alle posizioni alte della top ten di fine anno. Quindi per favore, non chiamateli più i “Violent Femmes italiani”.(7.7/10) Fabrizio Zampighi buono lasciava intuire quello Junior Bonner ep che ospitammo lo scorso anno su We Are Demo, aggiungendo un dominio del sound e una certa capacità di dilagare con grinta e criterio. Se il Paisley Underground dei Thin White Rope resta l'epicentro estetico di riferimento, magari tenuto a bada da un'enfasi accorata Willard Grant Conspiracy (vedi la palpitante Dry Queens) e da spasmi ombrosi Gun Club (nella travolgente Fire In My Bones), con una Then She Said bazzicano con disinvoltura territori Nick Cave (turbolenza percussiva, propulsione d'organo...), mentre con Skulls azzardano splendide aperture melodiche degne dei migliori Richmond Fontaine. C'è poi da dire di una Moonlight Shadows che neppure ci pensavo potesse essere quella di Mike Oldfield, invece è proprio lei, tesa e flemmatica col pastrano nero e gli stivali che non gli stanno neanche male. Perfettamente in parte, cazzuti quanto basta, insomma: bravi. (7/10) Stefano Solventi Vegetable G - Calvino (Olivia Records, Ottobre 2009) G enere : pop - psichedelia Dare per scontata la formula musicale propagandata da Giorgio Spada, Luciano D'Arienzo e Maurizio Indolfi viene quasi naturale, vista l'aprecensioni 107 parente semplicità con cui si mescolano al suo interno psichedelia barrettiana, pop inglese, voci suadenti à la David Bowie e quant'altro capiti sotto mano ai tre azionisti del progetto Vegetable G. Eppure quel confondersi di rhodes, chitarre elettriche, synth, basso, batteria, rubato ai Novanta british e analogico fino al midollo, è il risultato di un lavoro sapiente sui suoni e di una scrittura solida dalle fondamenta. A ben pensarci, la stessa che caratterizzava il precedente Genealogy, segno di una maggiore età raggiunta e di una personalità già formata. Sostenuta, in questo caso, da un ingorgo di contrappunti strumentali cresciuto a dismisura rispetto al passato e surreale al pari di quelle Cosmicomiche di Calvino che fanno da collante tematico all'opera. Il disco è tutto lì, nei controtempi vagamente Fiery Furnaces di Arcade Lovers, negli incroci di sintetizzatore della title track, nelle irrequietezze Blur di Saucerman, nell'effetto carillon in salsa As Tears Go By di Satellite Song. Nessuna indiscrezione che faccia pensare a nuove “zone del crepuscolo” per il rock contemporaneo, nessun colpo di teatro che possa rendere felici gli indie-critici più intransigenti. Ai Vegetable G basta l'autocoscienza di rappresentare l'ennesimo esperimento riuscito nel solco di un pop autoctono ampiamente contestualizzato ma nella pratica, quasi perfetto.(7.1/10) Fabrizio Zampighi Vic Chesnutt - At The Cut (Constellation Records, Settembre 2009) G enere : post songwriting Come per ogni grande songwriter, anche la carriera di Vic Chesnutt è un gioco di maschere in cui essere umano e artista sfuggono di continuo. In modo più sottile rispetto ad altri casi, magari, e nondimeno le attese di chi ascolta sono sempre messe in discussione nel momento in cui Vic ripensa se stesso. Specialmente lungo l’ultimo e intenso biennio, allorché - dopo la reinvenzione post-rock della propria cifra autoriale e un bel disco con gli Elf Power, dopo la collaborazione col regista Jem Cohen qui già incensata e un appassionato tour ancora in compagnia degli Elfi - la mossa è trasfigurare con ulteriore profondità il suono di North Star Deserter. 108 recensioni Se quell’opera meravigliosa poggiava salda su una mutazione da Maestro, At The Cut ne conferma cast di strumentisti (A Silver Mount Zion e Guy Picciotto) ma guarda altrove, indagando speranzosa nell’animo e creando una mitologia interiore valida per chiunque. Come se, riemerso dalla constatazione della rovina mondiale, Chesnutt fosse libero di perdersi in cento brandelli chiedendoci di fare lo stesso. Dopo un paio di brani è già accaduto, siamo nel pieno della calma susseguente la tempesta e delle sue tracce indelebili (Flirted With You All My Life è funk lento che nasconde inquietudini; l’apocalittica apertura Coward inganna arrivando dalla pellicola coheniana; Philip Guston spezza la minaccia a colpi d’equilibrata epica). Logico, dunque, che per ritornare a una dimensione rassicurante Chesnutt scelga gli abiti del suo Sud, dondolandosi in calde oasi folk-blues come When The Bottom Fell Out (voce e poco altro a inseguire scie) e It Is What It Is (satirica ma sorridente di lirico crescendo) e ballate saporose di jazz, screziato di “dopo soul” in Chinaberry Tree e dell’essenza della propria classicità per Chain. Quando fanno il loro ingresso in scena l’abbacinante Concord Country Jubilee e Granny, commiato spartano affine agli inizi del Nostro e struggente come pochi se ne sono sentiti in questo decennio, Vic rivela il cuore del disco e la capacità di ripetere i miracoli. Sempre uguali però diversi tra loro come del resto l’artefice, trattenuto in questo mondo da una voce che è soffio vitale.(7.7/10) Giancarlo Turra Vitalic - Flashmob (Pias, Settembre 2009) G enere : P ost -F rench Pascal Arbez-Nicolas dopo 4 anni. Dopo aver lanciato la moda electro assieme all'amico The Hacker. Dopo quell'OK Cowboy che ha fatto strage. Il riciclo di quelle idee è pronto e appena sfornato su questo nuovo lavoro. E anche se il french touch è ormai impolverato (vedi le debacle di Simian Mobile Disco e di Digitalism) il buon vecchio uomo sa cosa fare di quei cliché che più cliché non si può. Il crescendo con gli sweep della titletrack, il basso acido nel fidgeting di See The Sea (Red), la progressività un po' Giorgio un po' Air di Poison Lips, gli anni 80 conditi con i Bloody Beetroots in Terminateur Benelux, la malinconia dei vocoder e dei filtri in aperture cosmiche di Second Lives (inno istantaneo), il rimando ai Chromeo in Alain Delon e altre bom- bette che fanno esplodere i neuroni. Invece di sputar fuori singoli inutili, c'è ancora qualcuno (vedi alla voce Mr Oizo) che attende e pubblica con il giusto tempismo.Attenti Justice, Vitalic vi tallona. Primo disco dell'autunno danzereccio. (7.3/10) Marco Braggion Vowels - The Pattern Prism (LoAF, Settembre 2009) G enere : K raut , free Unire la classica metronomia Neu! a svolazzi di tastiere e giochini vintage di marca Stereolab è un canovaccio che dà sempre belle soddisfazioni a chi lo fa e a chi lo ascolta. I Vowels nella bella To Wires si muovono idealmente proprio da questo terreno per mostrarci cosa a loro piace. Peccato che, con fare smooth jazz, il resto dell'album non farà che smentirlo, tentando quasi una strada diversa ad ogni traccia. In Appendix si prenderanno una licenza free imbarcandosi poi in un una supernova tra Triosk e Tortoise, in On Up! e Eh Uh faranno un botta e risposta con gli Oneida, mentre in Drums Gone Awry proveranno strategie jazz-wave su basi dub e tribal. Chi sono i Vowels? Sicuramente non una cosa sola. E di identità nelle fervide nicchie neo neo kraut, psych e space, specie ascoltando la forza della citata Eh Uh, ce ne vuole di più. Vero James Rutledge?(6/10) Edoardo Bridda White Rainbow - New Clouds (Kranky, Ottobre 2009) G enere : kraut boogie Quello che di più tipico e particolare c'è nella musica di White Rainbow è quella marea ondeggiante che pian piano si invigorisce e aumenta di ritmo e intensità. Un esempio perfetto a questo giro è dato dalla seconda traccia Major Spillage, che ha il pregio anche di richiamare gli ultimi Boards Of Canada. Quello di White Rainbow è il regno del ritmo, della pulsazione che sa farsi anche pesante come il vecchio big beat anni ’90 o come il vecchio e sempre di moda motorik kraut. New Clouds secondo disco su Kranky di Adam Forkner non perde per strada nessuno degli elementi che avevano fatto di Prism Of Eternal Now un disco degno di menzione, salvo forse il senso della misura che questa volta va decisamente a farmi benedire, in favore di un approccio maggiormente libero da costrizioni. Questo significa che innanzitutto il minutaggio si impenna e se la tracklist conta solo quatto brani, questo è perché il più breve dei quattro dura dodici minuti. Non necessariamente un male, ma per prendere il tiro giusto Forkner rispetto all’esordio ci mette più tempo, o forse si prende più tempo. Questo da un lato aiuta i suoi boogie woogie krautedelici a stendersi maestosi e coloratissimi come non accadeva prima, si veda tutto il lato B del disco con i tribalismi di All The Boogies In The Wold che imperiosi e incessanti mimano una marcia di ombre drogatissime verso il più classico degli arcobaleni acidi per poi stemperarsi anche troppo in una nube ambient che spezza troppo il ritmo. Ad un brano come Monday Boogies Forward Forever certo non gli puoi chiedere il senso della misura, ma arrivati a metà il sospetto che si stia girando un po’ troppo su se stessi si impadronisce dell’ascolto. Forkner rimane un piccolo mago del new kraut, con la particolarità di prendersi poco sul serio e di avere uno stile che balza all’orecchio dopo pochi secondi. Questa volta si è fatto prendere un po’ la mano, ma lui è uno di quelli che si fanno con il tempo.(7/10) Antonello Comunale Wicked Awesomes - Punk Holograms (Psychic Handshake, Settembre 2009) G enere : punk - wave A prima vista il Canada sembra aver avuto un ruolo piuttosto marginale in quella che negli ultimi due anni è stata la svolta della scena garage-punk americana verso i lidi della new wave; tuttavia ad un più attento sguardo non possono sfuggire nomi come Pink Noise, O Voids, Twin Crystals, Shearing Pinx, Mutators e, appunto, Wicked Awesomes i quali, dopo i soliti 7 pollici di rito, giungono al primo LP per la neonata e conterranea Psychic Handshake. Qualche mese fa, recensendo l'album degli O Voids su TroubleMan, dicemmo di come fosse un buon disco, ma troppo strettamente ancorato ai suoni del primo post-punk di fine '70/inizio '80; discorso analogo, ma con il dovuto cambio di coordinate temporali, potremmo fare ora. Questo Punk Holograms è infatti un disco al cento-per-cento 2.0: recensioni 109 tramuta strutture garage-punk in chiave synth-wave, riverbera ed enfatizza gli echi, porta in minore gli accordi senza rinunciare a qualche piccolo anthem (Shit Time and Crystal Snot, Hens Teeth) o a qualche refrain orecchiabile (80GB Ipod, Death Sunglasses). Un lavoro assolutamente attuale, dunque, il cui limite forse risiede proprio in questa sua così precisa collocazione; quando, tra non moltissimo, la foga per i riverberi wave sarà passata, questo dei Wicked Awesomes sembrerà, non a torto, uno tra i tanti dischi testimoni di un periodo. Non che non se ne possa fruire oggi, dunque; al contrario: fruirne subito prima che il tempo ne acuisca e ne evidenzi i limiti.(6.9/10) Andrea Napoli William Fitzsimmons - The Sparrow And The Crow (Downtown, Aprile 2009) G enere : american songwriting Ti fa sentire in pace col mondo uno come Fitzsimmons. Perché concede oniriche canzoni non lontane da un Nick Drake che, sconfitti i propri demoni, si rifugia negli Appalachi, in una capanna di tronchi vicina a quella di Neil Halstead. Ti informi e lo scopri ultimo figlio di genitori non vedenti cresciuto nei sobborghi di Pittsburgh, Pennsylvania, che comunica con papà e mamma attraverso i suoni; da lì a far musica per passione il passo è breve. Magari mettendo le mani su quell’organo che babbo s’è costruito in casa e alternando musica sinfonica con Joni Mitchell e Simon & Garfunkel (che tornano spesso e in I Don’t Feel It Anymore più che altrove). Chiaro che, quando arriva il momento di fare dischi propri (questo il terzo),William cavi dal cilindro uno stile sussurrato, raramente dato in consegna alla solidità “roots” - quando accade, è all’insegna della sobrietà: If You Would Come Back Home, Further From You - e viceversa eseguito in punta di dita e plettri. Canzoni che paiono messaggi stesi su una pergamena alla luce delle candele, insomma. Confessioni soffici e tuttavia partecipi, che rischiano però di confondersi con mille altre se non sostenute dalla scrittura. Fortuna vuole che la mano sia di vaglia, come indicano - pur scontando qualche eccesso di uniformità - Further From You e After Afterall, Even 110 recensioni Now e Just Not Each Other. Fa pensare uno come Fitzsimmons: al fatto che questo filone intimista fu appannaggio dei pessimamente invecchiati James Taylor o Cat Stevens e ora cammina su una contemporaneità che ha sdoganato tutto e il suo contrario. Tuttavia piace, finanche esalta nella struggente Find Me To Forgive. Ritroviamoci tra vent’anni, William.(7.1/10) Giancarlo Turra Willie Nelson - American Classic (Blue Note, Settembre 2009) G enere : vocal jazz Trenta anni son passati da quello Stardust che guadagnò al country men Willie Nelson gli onori del pubblico e i favori del botteghino. La formula era assieme geniale ed eretica: rileggere celebri standard in una chiave ibrida country-jazz. Funzionò. Eccome, se funzionò. Furono milioni le copie vendute, un exploit da cui il venerabile Nelson uscì consacrato e col conto corrente (meritatamente) irrobustito. Oggi, complice il passaggio alla Blue Note, eccolo tornare sul luogo del delitto. American Classic raccoglie altre dodici celebri perle dal Red Book e le affida alla grazia spiegazzata di quest'uomo, che per l'occasione ha riposto il country nella credenza e si è abbigliato jazz di tutto punto. è un crooner particolare, certo, nella cui voce gorgogliante e asprigna indovini il peso delle cose, consapevolezze di polvere e dolore, il rispetto per certi valori demodé quali - chessò - l'amore. Il risultato è buono, molto buono. Eleganza trattenuta (la band fornita da casa Blue Note è ovviamente di tutto rispetto) e tremiti adulti sottopelle, cui gli interventi di Diana Krall e Norah Jones (rispettivamente in If I Had You e Baby It’s Cold Outside) aggiungono quel pizzico di classe maliziosa. Basterebbe la sola I Miss You So a far capire la differenza rispetto ad un Bublé qualsiasi: all'incirca come tra un Lagavulin e un Glen Grant. Il punto è quello che sei, che possiedi, che ci metti. Bravo Willie.(7/10) Stefano Solventi Yacht - See Mistery Lights (DFA, Ottobre 2009) G enere : elettropop Jona Bechtolt aveva la carriera in discesa e si sapeva. Già lo conoscevamo per il gusto per la ritmica del pop elettronico e piacevolmente indie. E questo ci aspettavamo dal nuovo lavoro: lo stato dell’arte dell’elettro pop Pitchfork-proof. Un calendario intelligente di spunti ritmici da stanza dei bottoni e di ancheggiamenti. Promessa sostanzialmente mantenuta. See Mistery Lights è un organismo che fin dalle prime battute chiama a testimone chi del ritmo e del pop ha fatto professione (David Byrne, per esempio?), ma anche che si presta benissimo a uscire per la label che lo ha pubblicato, e cioè la DFA. Per il suo quarto album Jona, aka Yacht (che sta per Young Americans Challenging High Technology), si sceglie poi una voce femminile come compagna di viaggio. È l’ugola di Claire L. Evans, che si rischia di confondere con quella della cantante con cui Bechtolt condivideva il progetto The Blow, e cioè Khaela Maricich. Ma attenzione, non è una scelta casuale, se è vero che è quella voce che riesce a far diventare pop anche un pezzo tendenzialmente ostico (sotto parecchi punti di vista: ritmico, strutturale, armonico) come I'm In Love With A Ripper. Sembra che Jona conosca bene i propri rischi ma li percorra lo stesso. Inserisce saggiamente delle raffinatezze qua e là, come nel piccolo capolavoro dell’impasto ritmico della seconda parte di The Afterlife, in odore - speziato, ovviamente - di Ultravox; getta esche pop, picchi di gusto indie, quando la rete diventa per lui stesso difficile da sbrogliare, arrivando a volte al limite del popolare e delle sue regole (esemplare Don't Fight The Darkness, ancora con la voce Blow-esca). La seconda parte di It’s Borign/You Can Live Everywhere You Want segna poi un tentativo importante, cioè il passaggio dall’electro alla scimmia house (obbligato, vista la scuderia?); un brano che dopo aver trascinato un refrain per tot minuti, se ne sbarazza per una chiusa (da scimmia, appunto) che cita evidentemente gli El Guapo più ispirati e tirati di Supersystem. Insomma, un altro colpo al cerchio mentre si percuote la botte. Con la moglie ubriaca. È come se per certi aspetti Yacht puntasse a diventare il New Order dei Duemila (sentite Summer Song, pezzo che arriva alla DFA percorrendo i Liquid Liquid, con una melodia chiaramente derivabile da Love Song dei PIL, o I'm In Love With A Ripper (Party Mix)), che peraltro stanno finendo. Il punto è che, se i New Order partivano dalle cupe atmosfere di Curtis, ora Yacht parte dalla placida leggerezza dei Blow. Quindi percorso per così dire invertito. A fine ascolto, la sua strada rimane spianata, ma bisogna voltarsi per ritrovare qualcosa che generalmente si apprezza nel pop: la freschezza.(6.9/10) Zero 7 - Yeah Ghost (Atlantic Records, Settembre 2009) G enere : U p T empo R' n 'M ix Hanno rischiato di beccarsi un grammy per quella ciofeca chiamata The Garden dove ai più attenti non sarà sfuggita la transizione dagli smalti AIR lounge degli esordi a groove maggiormente up-tempo e ad atmosfere più facilotte ed estive. Ora provano a svoltare veramente diventando una sorta di brutta copia dei Basement Jaxx, proprio dopo essersela presa in saccoccia con due esperimenti più di nicchia come Ingrid Eto e Kling. E se due indizi fanno una prova, Yeah Ghost, quarta prova decisamente radio friendly dei ragazzi, non è altro che la telecronaca del fallimento del progetto mutaforma. Un disco che già sta piacendo poco ai fan dell’insuperato e salottiero Simple Things, e che - fidatevi - piacerà ancor meno agli eterni nemici del loro sound fin dalla chiacchierata traccia dedicata a Zidane (Everything Up (Zizou)) per la quale il duo ha tanto dato da intendere. Già, in quel nulla-elettro-qualcosa al canto c’è il non disprezzabile Henry Binns (metà del duo al secondo tentativo canoro) e, per l’appunto, saranno uno stuolo di cantanti altre l’airbag per le masse carstereofile. La consueta Sia Furler ha lasciato il posto a una cristallina e brava (senz’anima) Martha Tilston (Pop Art Blue) e una brava e basta r'n'b come Eska Mtungwazi (scoperta di Matthew Herbert di un paio di anni fa) ne ha sosituito consistentemente la presenza. Al canto in ben quattro tracce pare che l'impegnata londoner sia stata riluttante alla feature e che la collaborazione, dopo svariati tira e molla, si sia risolta in testi e parti vocali preparate in un giorno. In pratica: timbrata di cartellino. E se a un’obliterata ce ne aggiungi un’altra e non sei un grande produttore ma semplicemente un musicista senza idee, il risultato lo conosceiamo già (PS: che si tengano pure il misterioso Jackie Daniels vododerizzato).(4.5/10) Edoardo Bridda Gaspare Caliri recensioni 111 libri La musica liberata - L uca C astelli (A rcana , 2009) è un bel pezzo che Luca Castelli si occupa della complessa e fertile liaison tra musica e web sulle pagine del Mucchio Selvaggio. Argomento dalle implicazioni spesso tortuose (tecnologiche, etiche, estetiche, poetiche, legali...) che il Nostro si premura di annaffiare d'ironia e disincanto, ferma restando l'accuratezza e l'acume delle analisi. Con questo libro, il suo "debutto su lunga distanza", Castelli tira le somme del suo ormai decennale monitoraggio, una visione d'insieme che gli consente sintesi di più ampia portata. Dietro al piuttosto trionfalistico titolo La musica liberata, si celano le godurie e i tormenti dell'onniutente (neologismo castelliano) alle prese con una goduriosa rivoluzione. Quella che stiamo vivendo sulla nostra pelle anzi sui nostri timpani smerigliati dalla "deliziosa abbondanza" - per dirla con Cristina Donà - apparecchiataci dall'avvento di mp3 e P2P. Un'epoca durante la quale l'appassionato rock ha dovuto per così dire riposizionarsi. E mica di poco. Come il rock stesso, del resto. Fine dell'imperialismo unidirezionale degli intermediari di musica: attraverso le sinapsi informatiche pulsano i segni di una nuova libertà, che finalmente - come sosteneva Gaber - è partecipazione, fare parte di un discorso condiviso e globale, interattivo e orizzontale, dove l'amore che prendi è (quasi) uguale a quello che dài. Il desiderio e la sua soddisfazione non sono mai stati, dal punto di vista dell'informazione e della comunicazione (pop-rock compreso anzi in primis), tanto contigui, legati da un reciproco rapporto di causa-effetto. L'uno il carburante dell'altro. E questo, casomai non l'aveste capito, non significa certo che tutto sia comodo, facile, disponibile: non per l'artista, non per l'appassionato. Il primo perché deve imparare nuovi percorsi, aggiornare la mappa e - soprattutto - le mete. Il secondo perché le antiche fonti sono diventate un oceano, nel quale deve imparare a nuotare, selezionare la rotta, razionare forze e risorse. Per entrambi, il futuro si prospetta roseo, a patto di lanciare il cuore di là dalle macerie. Quanto alle major, vabbè... Il bello di questo libro è che mentre di tutto ciò (e molto altro) fornisce una cronaca puntuale, che poi è uno dei tanti modi possibili di raccontare gli ultimi quindici anni della nostra esistenza, fa riaffiorare nel lettore ultratrentenne pezzi di memoria assopita. è un'esperienza strana perché parliamo dell'altro ieri, mica di un secolo fa. Eppure, sembra di risvegliarsi a singhiozzo da una soffice ipnosi. E allora sono brividi, quando realizzi come e quanto certe consuetudini, certe categorie del pensiero, certi automatismi dell'anima, siano usciti stravolti, liquidati, vaporizzati nel giro di un paio di lustri appena. Castelli, bontà sua, non si limita a questo, ma abbozza possibili sviluppi ed ipotetiche soluzioni. Con leggerezza e passione. Con entusiasmo bagnato di nostalgia: perché l'epoca della scarsità - quando ti arrabattavi tra mitologici vinili, cassette carbonare e imperscrutabili cd - era sì "intensa e romantica", ma anche quella presente - con le esperienze che s'intrecciano tra quotidiano e universale, tra intimo e globale - "non scherza". Stefano Solventi 112 recensioni dvd Giorgio Li Calzi - Aleksandr Nevskij (CNI, Settembre 2009) Con Aleksandr Nevskij il grande regista sovietico Sergej Ejzenshtejn realizzò nel 1938 un solido film di propaganda. Eppure, vuoi per la parossistica solennità delle inquadrature, per l'espressionismo impetuoso delle interpretazioni, per l'imponenza e la plasticità delle scene, è un'opera emblematica che trascende il contesto storico interno ed esterno che la informano. Simbolo di una rivalsa messianica che sorge dal popolo obbedendo ad una nemesi vista come necessità, inevitabile algoritmo delle vicende umane e sovrumane, la vicenda di Nevskij procede con una veemenza trascendentale che abbaglia, scuote, soverchia tutto il catafalco di pensieri deboli con cui può capitare d'affrontarlo, e tante grazie al morbo del politicamente corretto. è un linguaggio anomalo ma dalla potenza intatta, perciò attualizzabile, visto che ahinoi non mancano alla contemporaneità situazioni di predominio cui ricondurlo, economico, politico, culturale o militare che sia. Su questa pellicola, originariamente musicata da Prokof'ev, il jazzista Giorgio Li Calzi ha imbastito una nuova soundtrack. Con risultati straordinari. Le elettroniche e la tromba di Li Calzi oppongono alla iperretorica di Ejzenshtejn un astrattismo futurista che disturba, lo precipita in un post-domani parallelo, incipiente, aggressivo per la sua carica di avanguardia astrusa ma percepibile, in divenire anzi già avvenuta sulle labbra di Miles Davis (da qualche parte tra In A Silent Way e Aura), nelle partiture dei profeti minimal-ambient e nelle alcove della electro sperimentale di casa Warp. Aleksandr Nevskij diventa così un'esperienza nuova e primordiale, uno iato vorace dove ribollono angosce presenti e vive.Vivissime. (7.5/10) Stefano Solventi recensioni 113 live report Jesus Lizard 21 settembre , C ircolo D egli A rtisti (R oma ) “So dieci anni che v’aspettamo” grida con la solita simpatia romanesca qualcuno accanto a noi, sintetizzando insieme l’ansia e l’attesa per il live del quartetto americano. Dal momento della notizia della reunion e fomentati dai resoconti che giungevano dai vari festival a cui, quest’estate, i quattro hanno partecipato – non ultima, la strepitosa performance al Primavera Sound di Barcellona – è stato un susseguirsi di scandagli online alla ricerca di qualche data italiana. L’attesa alla fine è stata premiata e i Jesus Lizard hanno toccato la penisola pronti a rinverdire i fasti di un suono che nella prima metà del 90s ha fatto proseliti e devastato audience in mezzo mondo. Aprono gli Edible Woman, compatti e metronomici come al solito, bravissimi nel creare vuoti pneumatici e momenti di apparente stasi rotti da sfuriate rumorosissime. Scaldano un pubblico al limite del sold-out con la loro formula ridotta all’osso basso+synth+batteria ma nell’aria c’è la tensione tipica da grande evento. Pochi minuti e i chicagoani si presentano sul palco. Boato ed eccitazione ai massimi livelli, tanto che David Yow si catapulta subito sul pubblico per il più classico dei crowd surfing. È lui il fulcro dei Jesus Lizard. Lo sa lui e lo sanno bene i suoi compagni che, praticamente immobili per tutto il set, lasciano al mefistofelico cantante la scena. Duane Denison, camicia da texano e capelli bianchi, e David Sims, traccagnotto e nerovestito, ai lati intarsiano un suono che tritura rock dei primordi e hard-rock sudista, blues del delta e lacerazioni noise; McNeilly dietro il suo drum-kit controlla il tutto dall’alto mentre percuote le pelli come un invasato. La chitarra di Denison è uno strumento chirurgico, tagliente e affilata come uno stiletto; il basso di Sims è invece un carrarmato rock: tondo e distorto è insieme al drumming di McNeilly la vera spina dorsale del suono Jesus Lizard, sulla quale Denison va ora di fioretto, ora di clava. I riflettori però sono tutti per Yow. Uno che alla soglia del mezzo secolo di vita sembra posseduto dai peggiori demoni del rock. Sputa, suda, impreca, si dimena; in grado di passare una buona metà del set a rotolarsi su un 114 recensioni pubblico in totale estasi senza perdere una battuta del suo cantato. In possesso di una voce sporcata da decenni di abusi ma capace di reggere quasi un’ora e mezza di puro delirio r’n’r. Con un fisico da lanciatore di coriandoli sfatto da eccessi di ogni tipo, regge la scena come pochi al mondo, mentre si lancia (letteralmente) in quella che in apparenza è una sorta di seduta psicanalitica a cuore aperto. Un live memorabile che dimostra ancora una volta – se ce ne fosse bisogno – la stoffa di chi col rock’n’roll non ha solo dimestichezza, ma ne ha fatto uno stile di vita. Stefano Pifferi Current 93/James Blackshaw 22 settembre ,T eatro A lfieri (T orino ) L'esoterica Torino e ben tre Festival in sinergia organizzativa (“MITO SettembreMusica”, “Torino Spiritualità” e “Il Sacro attraverso l'Ordinario”) per i Current 93. L'esibizione del gruppo di David Tibet si inserisce in una due giorni che vedrà la sera seguente sul palco del Teatro Alfieri Nurse With Wound, Larsen, z'ev e Blind Cave Salamander, piccolo happening noise-psichdelico-apocalittico di cui i Current sono l'attrazione principale e il pubblico presente – numeroso, attento, devoto, alla fine entusiasta – ne è la prova. Apre James Blackshaw, tra gli ultimi arrivati alla corte di Tibet, qui in veste solista con il suo nitido fingerpicking che sottopone il suono Tacoma a melodie dagli sviluppi rotondi e cinematici. In soli due brani, entrambi alla dodici corde, il chitarrista inglese conferma quanto di buono fatto sentire nei lavori pubblicati dal 2005 ad oggi (l'ultimo, The Glass Bead Game, nei negozi per la Young God di Michael Gira): peccato non si rivolga anche al pianoforte come nel precedente Litany of Echoes uscito l'anno scorso, ma la caratura del musicista emerge comunque e un nuovo passaggio sui nostri palchi nel futuro più prossimo è auspicabile se non doveroso. Anticipati da una Afternoon Delight della Starland Vocal Band sparata a volume sacrilego come sigla d'apertura, i Current 93 si presentano con la nuova formazione che sta caratterizzando le sporadiche esibizioni di questi mesi recenti. Oltre all'immancabile Baby Dee (piano e tastiera), in scena con Tibet ci sono Alex Neilson alla batteria, Andrew Liles alle macchine e i due nuovi chitarristi Blackshaw e Keith Wood (entrambi all'elettrica) in sostituzione di Ben Chasny e Michael Cashmore. Una line-up che letta su carta lascia prevedere un suono acustico virato massicciamente all'elettrico come nel recente Aleph At Hallucinatory Mountain, ma che al contrario su palco comporta una generale elettricizzazione del tutto, con Liles ottimo protagonista di tante incursioni tra il rumorismo e la psichedelia d'ambiente e Dee a prendersi l'onere di melodie cristalline e movimenti caotici, quasi a sgravare il compito delle due newentry, una delle quali (Blackshaw) non del tutto a suo agio tra pedali e feedback. Fatte queste premesse ecco che trova un senso anche la scaletta: tutti brani recenti e recentissimi, cinque da Aleph..., i quattro dall'ep dell'anno scorso Birth Canal Blues e uno a testa da Black Ships Ate The Sky (la title-track) e Sleep has his house. I Current, Tibet compreso, ingranano a diesel sull'apertura di Invocation of Almost per poi venire fuori davvero solo alla quarta traccia, una Not because the fox barks giocata sulla linea di piano e l'impronta monocroma della chitarra che lanciano un crescendo pane per i denti del leader ora davvero spiritato. Ma gli arrangiamenti dei brani, e in particolare il loro mood, necessitano di un maggior rodaggio soprattutto quando ribaltano le carte in tavola. è il caso proprio di Black Ships Ate The Sky, ripresa in una versione quasi danzereccia dove la ritmica quadrata e le continue bordate di organo ed elettronica devono ancora trovare l'intesa giusta con la voce massacrata nell'interpretazione. L'effetto è decisamente attutito e tirate le somme anche l'intero set non colpisce come ci si attenderebbe. Ciò vale almeno sino alla chiusura di The nylon lion attacks as kingdom (straordinaria la tempra di Tibet a quel punto infuocata) e Suddenly the living are dying encore: due bolle di tensione e tragedia che dimostrano cosa siano in grado di fare i nuovi Current 93 al massimo delle loro potenzialità. Luca Barachetti Wildbirds & Peacedrums/Dente/Zu/ Massimo Volume/José Gonzáles/ Uzeda/Glasvegas… 4/5 settembre , S oundl abs F estival (T eramo ) Lo scorso anno proprio su queste pagine additammo il Soundlabs come potenziale miglior festival indie del Belpaese, grazie a quell’ottimale mix di buona musica, sole e mare che aveva monopolizza- to l’estate rosetana. Pur con presenza di pubblico non massiccia. Costante registrata anche quest’anno, con lo slittamento di poco più di un mese della programmazione (non più fine luglio ma inizio settembre). Il Soundlabs 2009, esclusion fatta per José Gonzales, i cantori della working class scozzese Glasvegas e i Wildbirds & Peacedrums, è stato di chiara matrice italiana con Massimo Volume, Dente e soprattutto Uzeda e Zu a farla da padroni. Proprio i live set di queste ultime due band hanno rappresentato i momenti migliori: i ritrovati catanesi con il loro sonico post-rock avvolgente, i romani con il loro mix di potenza, tensione e adrenalina alla stregua di una perfetta e oliata macchina da guerra post-nucleare. Applausi. Mentre l’onnipresente Dente e i (non più) redivivi Massimo Volume si sono “semplicemente” confermati, in linea con i loro recenti concerti: il primo candidandosi a nuovo paroliere della canzone d’autore italiana; la band bolognese – a parte piccoli inconvenienti tecnici – dimostrandosi perfetta ed emozionante come sempre. Avremmo gradito solo qualche piccola novità in più. Degno di nota il duo Wildbirds & Peacedrums: avvalendosi soltanto di batteria e voce, sono risultati ipnotici, suadenti e contagiosi. Meno sorprendenti i Glasvegas, headliner della prima serata, anche se le loro fragorose melodie a presa rapida hanno conquistato inevitabilmente la platea; da segnalare la loro buona rilettura di Everybody’s Got To Learn Sometimes dei Korgis. A proposito di cover, José Gonzalez ha avuto l’onere di chiudere il festival e naturalmente non ha perso l’occasione di presentare tutte le rivisitazioni di canzoni altrui (The Knife, Massive Attack, Joy Division, Kylie Minogue) che l’hanno fatto conoscere. In poco più di un’ora, il musicista svedese mezzosangue argentino è riuscito ad accarezzare e lenire le ferite inferte poche ore prima dagli Zu. Armato solo di voce e chitarra, a conferma di un talento innato. Il pubblico presente, pochi ma buoni, ha apprezzato, resistendo fino alla fine non dandola vinta alla pioggia. Il Soundlabs si conferma allora un festival interessante e coraggioso, che in futuro forse dovrà ripensare a un ricollocamento, probabilmente non a fine estate. Anche se il palco lo preferiremmo sulla spiaggia, o nelle sue vicinanze, che non sul cemento dello stadio. Andrea Provinciali recensioni 115 WE ARE DEMO #40 I migliori demo giunti nelle nostre cassette postali. Assaggiati, soppesati, vagliati, giudicati dai vostri devoluti redattori di S&A.Testo: Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi. Viti di Titanio - Il giro di vite (Autoprodotto, Luglio 2009) G enere : folk rock è un tumulto mediterraneo, desertico e balcanico, la musica delle Viti di Titanio. Una febbre nata nel 2005 all'ombra del Vesuvio, dove i fratelli Maurizio e Marcello Vitale si misero in testa d'avviare quello che oggi è un quartetto "aperto" di moderni cantastorie rock, tesi come buskers reietti che non hanno mai messo da parte né la pietà né la tenerezza. Consapevoli della forza della poesia, bisognosi del raglio elettrico. In questo Il giro di vite, seconda prova che espande gli ambiti dell'ep d'esordio Storie d’amanti e di demoni (2005), definiscono un sound ora solenne e brusco, ora convulso e misterioso tra chitarre, flauto, synth e i folti palpiti di basso e percussioni. Un sound stupendamente attagliato alle liriche che s'insinuano con basale austerità in certi crucci cruciali dell'odierno vivere, cantate inseguendo vibrazioni terrigne che se ne sbattono di qualsivoglia impostazione e legnosamente medita, allude, riflette, sferza, sussurra, e via discorrendo. Le prime due tracce sono da urlo: una mischia indocile tra Black Heart Procession, Vinicio Capossela, Ulan Bator, certo caracolare bieco Cesare Basile, certe beffarde sordidezze Afterhours... Per la cronaca, Calce spenta vede al banco di registrazione Paolo Messere (non c'è bisogno di presentazioni, giusto?), mentre al missaggio di Naguine troviamo Rodolfo Calandrelli (fonico per Markus Stockhausen tra gli altri). Poi la tensione si allenta di qualche punto, non troppi, tra una ballata ben giocata sul filo di uno sfuggente malanimo (Bambola di porcellana) e uno scherzetto serissimo con le trappole della contemporaneità (Nuove forme di chiusura). La cover di Amara terra mia, dolentissimo classico portato al successo da Modugno (che lo compose, mentre il testo è di Enrica Bonaccorti), chiude la scaletta stringendo l'obiettivo sul solo Marcello Vitale a voce e chitarra, conseguendo un'asciuttezza che non significa lesinare sulle emozioni. La sensazione complessiva è di potenzialità altissime da ben veicolare. (7.4/10) Stefano Solventi 116 recensioni Chris Yan - Urban Mantra (Autoprodotto, Ottobre 2009) G enere : A mbient Più che Fennesz John Carpenter, più che ambient una sorta di post-rock cinematografico con qualche deviazione psichedelico/jazz. L'avrete capito, Urban Mantra è uno di quei dischi che dividono le masse: chi lo definirà geniale e chi ne criticherà volentieri i barocchismi etnici eccessivi e le velleità totalizzanti. Di una cosa pero' siamo certi: un'asciugatina qua e là non farebbe male a un programma che rischia davvero di apparire imponente ai meno avvezzi. Nonostante l'india fascinosa sullo sfondo e il buon equilibrio dei suoni. (6.4/10) Fabrizio Zampighi Demednes - Conturbanti pensieri (Autoprodotto, Ottobre 2009) G enere : rock C'è da lavorare e parecchio dal punto di vista tecnico. Eppure i Demednes da Brescia riescono a catturare la nostra attenzione con un rock grezzo – chitarra, batteria, basso e poco altro – e di buona fattura. Dei Gun Club non ancora maggiorenni miscelati a un'indolenza wave su testi in italiano, per una musica d'impatto costruita su un paio di accordi e, talvolta, dal sapore vagamente grunge. La strada sembra essere quella giusta, con l'onere della verifica al prossimo intertempo. (6.7/10) Fabrizio Zampighi Droptimes - Looking For The Sun (Autoprodotto, Giugno 2009) G enere : electro wave Electro-wave scivolosa debitrice delle visioni moroderiane, più contagi jazz-prog e una febbricola psych-pop nella calligrafia dei Droptimes, un duo più che altro - Alessandro Maranesi canta e Alessio Catozzi si occupa di tastiere e basso - però come si suol dire aperto, visto che alla fine in questo Looking For The Sun si contano altri dieci collaboratori (tra batterie, ottoni e voci) senza contare il coro di nove bambini che impreziosisce la trafelata Wake Up. La loro proposta è inusuale ma accattivante, vengono in mente un po' i dEUS e un po' i Moonshake in fregola drum'n'bass (The Crocodile), dei Goldfrapp rapiti da alieni Depeche Mode (The Wall's Family) o certe farragini folktroniche a metà strada tra Mùm e Sigur Ros (When It Comes). Per non dire di quella A Revenge come avrebbero potuto i Kajagoogoo colti da foga electro-black. Sarà forse il caso di eliminare qualche orpello, ma questa generosa avventatezza mi piace. (6.8/10) Stefano Solventi Giuda Matti - Lunedì EP - Martedì EP (Autoprodotto, Luglio 2009) G enere : avant psych pop Non li fermerete mai nella loro missione di sbagliare musica con estro libero e saltellante, sciroccato e - ebbene sì - obliquo porco cane. Continuano a sfornare EP poco convenzionali, mettendosi pure in testa di realizzarne una collana di sette. La quale, visto che i primi due si chiamano Lunedì e Martedì, ritengo saranno dedicati ai giorni della settimana. E vivaddio. Parlo dei modenesi Giuda Matti e della loro arguta anarchia pop, che nel primo dei due volumetti chiama bellamente in causa un Morgan svampito Blur (Stomaci contorti e Il colpo di tacco) mentre nell'altro si ammanta di sciroccato intorpidimento psychprog, qualcosa tra dei più sordidi Afterhours in Cassonetti, guardando piuttosto in direzione Maisie e Mariposa in Cronaca locale. Divertono e disturbano, sanno regolare la manopola dei minimi termini e dissimulare drammi con abilità. Sono meritevoli insomma del più vasto pubblico indie rock. Glielo auguriamo. (7.2/10) Stefano Solventi Meadow - Self Titled (Autoprodotto, Ottobre 2009) G enere : folk - indie - canzone d ' autore Indie rock e melodia in un'ideale dialogo tra Sondre Lerche e Conor Oberst. In realtà le influenze sono disparate, ma il succo del discorso rimane una musica semi-acustica suonata in punta di plettro, jazzata, interessata all'articolazione della melodia. I Meadow arrivano dalla Svizzera ma l'ispirazione confina con l'easy listening, il folk raffinato e certo pop deviante. Per un EP ambizioso e di buono spessore. (6.8/10) Fabrizio Zampighi recensioni 117 Massive Attack Know Your Roots La prima bella notizia è che dal 2 ottobre è in circolazione un nuovo EP dei Massive Attack. La seconda è che non è affatto male.... - Giancarlo Turra 118 rearview mirror I n B ristol (W ithout a P istol ) Non ce ne voglia Matt Elliott, se ci appropriamo - anzi: “campioniamo” - il titolo di un suo (polemico) brano rovesciandone il significato. Probabile che apprezzi, considerando come anch’egli sia un illustre figlio di una città salita agli onori delle cronache per le solite ragioni sbagliate e superficiali. A nulla serve fingersi smemorati, lasciar credere che in quel cuore rovente dei Novanta fossimo da ben altra parte quando il “famigerato” trip-hop deflagrò, fino a diventare - in un processo cui ormai s’è fatta l’abitudine - un bene di consumo penetrato ovunque, dalla pubblicità alla tappezzeria sonora. Il problema era che la sua natura ondivaga e rilassata si prestava benissimo alla bisogna; tuttavia, se pargoli degeneri introducono nefandezze sulla battuta funk/hip-hop, la colpa non è dei Maestri. Sono i primi a valere poco oppure zero e sui libri di Storia non ne troverete traccia. Tuttavia c’è stato un anno magico, l’ultima grande raccolta sul serio fenomenale nel mondo del rock, quel 1991 così rivoluzionario da far strabuzzare gli occhi e dal quale le cose han preso a correre velocissime, probabilmente troppo. In quell’annata magica, in mezzo ai tanti muri che cadevano trovavi anche quelli che separavano underground e mainstream, psichedelia e noise, pista da ballo e marmaglia pogante.Tutti squassati dalle urla di un depresso biondo del nord-ovest americano, dalle distorsioni ipnotiche di Loveless, dai bassi profondi e le melodie stellari di Blue Lines. E, certo, anche dalla matematica degli Slint e dall’Estasi dei Primal Scream. Avvenimenti irripetibili, legati a doppio filo con dischi che lo sono altrettanto, per la semplicissima ragione che le rivoluzioni si fanno una volta nella vita. Le evoluzioni, invece sono materia quotidiana. Sono affrontare i cambiamenti senza farsi schiacciare da loro o da un passato ingombrante e immenso. Da molto tempo i Massive Attack sono “classici” che hanno mostrato quanto solido fosse il loro messaggio: ci insegnarono che si può essere un fan di rock e di black purché la radice e le aspirazioni - una musica “totale” e creativa, che travalica qualsiasi limite - siano le stesse; che puoi godere di un solo di chitarra come di un virtuosismo del giradischi; che storture ambient e attitudine alla danza non sono estremi incompatibili. Uno splendore che rintraccia la spiegazione in una parola: “crossover”. O, se preferite, meticciato. Facile respirarlo sin da bambino a Bristol, bellissima mulatta ad un certo punto così ricca e importante da essere considerata centro urbano più importante d’Inghilterra dopo la capitale. Era la più grande città fino alla rivoluzione industriale, avendo elevato il suo prestigio sul commercio degli schiavi: logico dunque che, una volta cancellata quella vergogna, rimanessero salde l’attitudine al commercio e a far girare le novità provenenti da fuori dell’isola. Tabacco o dischi reggae non fa differenza, specialmente se la comunità di colore è numerosa e pure alcuni bianchi proprio “british” non sono (Del Naja ha origini napoletane: così si capiscono meglio gli Almamegretta, no?). Si va d’accordo o grossomodo, perché stare in provincia spinge a rispondere creativamente al complesso d’inferiorità verso la metropoli e pertanto, in tanta multiculturalità, hai solo l’imbarazzo della scelta. Già l’apertura mentale di unire abrasività e free-jazz, dub e Captain Beefheart con il mastice della militanza saltava all’occhio nel Pop Group. Mentre costoro entrano nella storia e poi si dividono in decine di inebrianti rivoli, tra 1980 e l’85 fiorisce un’apprezzata scena anarco-punk fatta di squat, ristoranti vegetariani/vegani, cooperative e gruppi d’azione politica. Che sono gli stessi frequentati da chi poi incontri dove suonano jazz d’ogni schiatta fino a notte fonda, nei locali dove si fanno le ossa Adrian Utley dei Portishead e dove Roni Size raccoglie la “viba” felicemente tradotta in chiave jungle. Ancora non basta, però: bisogna far mente locale al vibrante e seguitissimo scenario reggae che decolla nei Settanta e fa capo - con regolare corona DJ, gruppi e soprattutto sound system - in locali come il Blue Lagoon e il Malcolm X Centre. Movimento tanto robusto da figliare almeno due formazioni di vaglia come Black Roots e Talisman, ma più che altro per come getta i semi del fascino in levare tra le generazioni più giovani, contribuendo con quanto sopra a creare un gusto che invaderà il mondo (basti annotare che la gavetta Rob Smith - metà di Smith And Mighty - fu come chitarrista reggae e Dave McDonald, Portishead “nascosto”, apprenderà parecchi trucchi). Abbiamo parlato di sound system, l’embrionale nocciolo della questione, un alveo pulsante di ritmo che Dick Hebdige definisce così: “Per una comunità circondata da discriminazione, ostilità, sospetto e incomprensione, il sound-system finì per rappresentare un prezioso angolo incontaminato.” Quasi giusto, poiché è proprio nel momento in cui il sound-system si apre ai visi pallidi che la contaminazione ha inizio e la Storia della musica cambia per sempre. Mostrano la via i Clash che si avventurano per le vie di Brixton durante il carnevale e se ne escono qualche anno dopo col caleidoscopico rearview mirror 119 The wild Bunch Sandinista!; tuttavia, quando leggi sulle riviste che Sinead O’Connor si da al toasting nello stesso contesto, Anno Domini 1991, capisci che qualcosa sta cambiando. Avete fatto caso alla data, immaginiamo. Bene, ora torniamo a quella vita notturna di Bristol così animata… M akin ' H istory C’è, tra i tanti collettivi musicali, anche uno dal nome citazionista come The Wild Bunch, ovvero Il Mucchio Selvaggio, celeberrima pellicola western (alzi la mano chi ha pensato alla fissa di Lee “Scratch” Perry per Sergio Leone…). è il 1983 quando cominciano ad aggregarsi nel sobborgo di St. Paul e ad attrarre rapidamente folle sempre più nutrite, scontrandosi amichevolmente coi colleghi locali e arrivando persino a Londra. La loro abilità e grandezza sta nella varietà degli sili proposti, caratteristica all’epoca tutt’altro che usuale: conta che la battuta vada decelerando sempre più e nel frattempo copuli con un’elettronica non invasiva (un’idea ve la potete fare ascoltando un cd della Strut uscito nel 2002, The Wild Bunch: Story Of A Sound System; 7,0/10). Sono un collettivo, inoltre, non un “gruppo rock”; tutt’al più sono vicini al concetto di posse mutuato dal rap, salvo evolversi ben presto in una piccola però tenace unità produttiva di gen120 rearview mirror te che fa musica anche se non sa suonare - grazie, punk rock! - nel senso comunemente inteso. Fanno in tempo a esser messi sotto contratto dalla 4th & Broadway per un singolo, Friends And Countrymen, sul quale fa bella mostra di sé la bacharachiana The Look Of Love ed è l’ennesimo segnale, disossato palpitare di basso, batteria e voce. Chiamalo, se vuoi, trip-hop. Al Mucchio partecipano dei bei tipi: il graffitaro Robert “3 D” Del Naja e i dj Grant “Daddy Gee” Marshall, Andrew “Mushroom” Vowles, Nellee Hooper e Miles “Milo” Johnson. Se l’ultimo sparisce dopo il rompete le righe e Hooper si affermerà come produttore di notevole ingegno, tocca al terzetto proseguire l’attività come Massive Attack dall’87. Facendosi precedere sul traguardo dell’LP dai Soul II Soul dello stesso Nellee, che nell’estate di due anni più tardi danno alle stampe il capolavoro Club Classics Vol. One (Ten Records; 8,0/10), dissoluzione in un cocktail gradevolissimo di soul, hip-hop, trip-hop ancora da codificare e morbidezza a prova di carie. Non durerà, ed è significativo assai che la loro brillantezza si affievolisca progressivamente mentre i Nostri guadagnano il proscenio. Nel frattempo hanno inoltre preso a maneggaire strumenti veri e propri integrandoli con l’armamentario “dance”, poggiando le parti vocali anche su alcuni amici di vecchia data, tra cui Shara Nelson e Tricky. Pubblicano un nuovo e dolce 12”, Any Love, prodotto da Smith And Mighty che, chiusura del cerchio, tra ‘88 e ‘89 faranno uscire altre due cover di Bacharach/David quel lustro buono in anticipo sul suo sdoganamento critico. Si comincia a mormorare di un pop senza più confini mentre esce un altro vinile un po’ meno carbonaro, Daydreaming, frutto del contratto con la Circa Records. Spetta ancora a una coppia di e.p. soffiare sul fuoco delle attese e far invocare a grand voce un 33 giri. Il quale finalmente vede la luce in piena guerra del golfo, dopo che la formazione deve scorciare la ragione sociale in Massive. Un fulmine a cielo sereno, Blue Lines (Circa; 10/10), capace di armonizzare ipotetici contrasti e conflitti proprio nel mentre il mondo ne iniziava uno e con esso una nuova era, la nostra. Perché non si era mai sentita una ritmica ipnotica che arriva a Blade Runner partendo da Billy Cobham (Safe From Harm); il dub si era sì contaminato con panorami industriali ma mai in modo così filmico, teso e sognante al contempo (One Love: canta la leggenda giamaicana Horace Andy e sarà così riscoperto). La cura del particolare racchiude l’ingegno dei Grandi visionari della musica di ogni luogo ed epoca, e modella la contemporaneità a suon di una title-track che sulle ali di Isaac Hayes racchiude tutto il sound morbido austriaco mentre spazza via rimasugli acid-jazz. La cura del particolare lascia a bocca aperta, così come le trovate d’arrangiamento e di scrittura, improntate a un’ibridare qualsiasi cosa capiti a tiro: trasfigurazioni di poco note perle soul (Be Thankful For What You’ve Got) e lo stesso valga per il reggae (Five Man Army); cantabilità assoluta resa stranita perché archi e ritmica viaggiano a una velocità diversa (Unfinished Sympathy) o battito e armonia sono così distanti da fondersi (Daydreaming); disco music ripresa sott’acqua o tra le pieghe di un sogno drogato; dissonanze industriali in buccia di struggente pop-soul. Una pietra miliare che nella busta interna si dice ispirata da P.I.L. e Neville Brothers, John Lennon e Herbie Hancock. Filmico e vibrante, prodotto in modo scintillante assieme al recentemente scomparso Jonny Dollar, è lavoro storico che traccia una via stilistica e attitudinale battuta da decine di successori, Portishead e Neneh Cherry i più personali fra tutti in quanto provenienti dallo stesso “humus”. Devono tuttavia trascorrere tre stagioni - in mezzo la dipartite della Nelson e un remix fantastico per rearview mirror 121 Nusrat Fateh Ali Khan - per essere rassicurati da Protection (Circa, 1994; 8,5/10),che orienta il suono verso una direzione meno vicina ai club. Mossa azzeccata e intento raggiunto con la spazialità degli archi arrangiati da Craig Armstrong, l’omonimo piovoso soul post-moderno con ospite Tracey Thorn, il ciondolare arabeggiante e paranoico di Karmacoma con un Tricky pronto a camminare da solo, una Heat Miser da colona sonora, inquietante di respiri e oscurità a stento squarciata. A rinsaldare il legame col predecessore e prescindendo dalla deludente cover di Light My Fire, assapori Spying Glass (ancora Andy a rimbalzare in catacombe d’echi) e Better Things (da manuale la linea di basso giamaicana, idem la Thorn che vi s’arrampica jazzy); apprezzi la sensuale, melanconica imponenza di Sly e l’impronta Bilie Holiday della cantante Nicolette (che torna, latineggiando, in Three), il pianoforte classico ma pure da night club sparso su quello che adesso chiami trip-hop per Weather Storm. Bellezza e coraggio che significano muoversi da un centro verso altre direzioni senza smarrire la bussola, consapevoli dei luoghi da cui si proviene. Un essere sempre diversi e insieme se stessi. Atteggiamento lucido che spiega l’intuizione di far rileggere l’intero lavoro in chiave “dubadelica” in No Protection: Massive Attack Vs. Mad Professor (Gyroscope, 1995; 7,0/10). Un bello sparpagliare di carte per aria, e ancor di più convincono il lungo tour successivo e un quadriennio speso a remixare a destra e a manca lasciando sempre il segno, dai Garbage a Madonna. Ne consegue il terzo e difficile disco nella primavera ’98, seguito di una trionfale apparizione a Glastonbury dell’estate precedente. In Mezzanine (Circa;8,5/10) sono citati per la prima volta degli strumentisti a chitarre, bassi e batteria, mentre il trio nella foto interna è colto in un torvo bianco e nero che riflette l’umore dell’album. Cupo e azzeccato, sbianca in conseguenza di quanto sopra le sonorità attraverso un (post) wave-rock pur sempre negroide, peculiarmente contemporaneo allorché del trip-hop si spengono gli ultimi fuochi e si avvia la farsa. Risposta orgogliosa da parte di Artisti rispettosi di sé e del pubblico, che applaude e può gioire del confermato Horace Andy nella meraviglia Man Next Door (di suo pugno; già riletta dalle Slits e attraversata da un campione di 10.15 Saturday Night dei Cure, casomai non avessimo capito l’aria che tira…) e della sorpresa Elizabeth Fraser nella sognante Teardrop. Annichilisce il crescendo dell’iniziale, melodica però muscolare Angel e resta mirabile 122 rearview mirror il suo spegnersi circolare; sono contorte le atmosfere di Risingson (qui il “sampling”, appena percettibile, è dei Velvet Underground!) e della tribale Inertia Creeps. Sparge un po’ di sole Exchange, jazzato omaggio di classe agli amici Portishead, laddove Dissolved Girl - forte del timbro fanciullesco di Sara Jay - gioca a nascondere i nervosismi in impennate hard. Compongono l’eccezionale resto una gommosa Black Milk, i minacciosi punti interrogativi della title-track e l’escursione dalle tinte acid-soul Group Four. Materiale perfetto per raccogliere il plauso di critica e college americani, nonché da portare in tournee, dopo la quale Mushroom sbatte la porta per la piega sonica presa. 3 D e Daddy G tirano dritto ma il colpo è incassato duramente dal secondo, in fuga sabbatica nella tranquillità famigliare. Robert si affida dunque alle mani di Neil Davidge, già in Mezzanine: bene gliene incoglie solo a sprazzi, essendo il difetto principale del dignitoso 100th Window (Virgin, 2003; 7,0/10) il mostrare un uomo solo al comando dove la Grandezza era nella molteplicità del collettivo. E nel progredire, mente qui per la prima volta si gira in tondo con una certa freddezza. Non un flop, intendiamoci, tuttavia è lampante che l’ispirazione fosse prigioniera di una mente che tutto non poteva. E che si appoggia alla cura per l’intarsio, all’inossidabile Horace nella valida Everywhen e in una gassosa Name Taken, convoca Sinead O'Connor e nondimeno cade su alcune lungaggini. Si fanno comunque ricordare la traslucida Future Proof e una What Your Soul Sings che si guarda indietro con giudizio, l’ondeggiare orientale di Butterfly Caught e il folk manipolato A Prayer For England. La colonna sonora di Danny The Dog (EMI, 2004; 6,5/10) non chiariva alcunché, diversivo passato per lo più ignorato e che sarebbe stato più saggio far uscire a nome del solo Del Naja. Dissolvenza. Quando il senno suggeriva di archiviare la pratica (Robert dedito ad altri commenti per il cinema), ecco un nuovo e.p., recante la soffice Splitting The Atom e la più articolata e persuasiva Pray For Rain con Tunde Adebimpe di TV On The Radio. Sarà una delle tante stelle presenti nel disco previsto per l’anno venturo, cosa che racconta la volontà di riallacciare i contatti con il proprio background (c’è Martina Topley-Bird in un pezzo) e nel frattempo riscoprire il senso per la musica senza limiti (incuriosiscono, Damon Albarn e Hope Sandoval). Il futuro prossimo? Un’ipotesi che, si spera, resti fedele a un ideale che ha plasmato la Storia e ora celebra l’equilibrata mezza età. rearview mirror 123 Ristampe Brian Eno/Hans-Joachim Roedelius/ Moebius - After The Heat (Bureau-b, Ottobre 2009) G enere : krautrock After The Heat, datato 1978, nato dalle medesime sedute di Cluster & Eno, è un disco diverso dal precedente. Bipolare. Anzitutto sparisce la sigla Cluster per far spazio all’intestazione Moebius e Roedelius. Eno, pure alla voce solista, rimane intatto. La forma guadagna spessore. La proto-ambient di poco prima alterata (e alternata) dal groove. Le movenze si fanno fosche. Si annidano funk torbidi. Foreign Affairs e Base & Apex, le sinistre Tzima N'arki (con take vocali, in reverse, presi da King’s Lead Hat di Eno) e Broken Head - anticamera, tra le tante cose, del Peter Gabriel di Intruder - muovono, di contro alla passata sortita, verso forme art pop prossime al Before After And Science che l’inglese - con cameo di Moebius e Roedelius rilasciava l’anno prima. È un dono divino. The Belldog, il climax: sei minuti tra i più belli del ‘900 tutto. Ballad siderale e visionaria, pregna di spleen cosmico nonché prova monstre dei Nostri. Qualche settimana dopo si materializzava Music For Airports di Eno, ovvero la musica ambient al debutto. E qui, in After The Heat, se ne ascoltano 124 rearview mirror incipit (Luftschloss, The Shade, Old Land) e pregustano umori. Le loro strade si divisero di lì a poco: Moebius e Roedelius impegnati con Cluster e progetti in proprio, e Brian Eno, tra una produzione qua e la divulgazione della musica per ambienti là, che non ebbe più un minuto libero. Alla pari di Cluster & Eno: un gioiello prezioso, l’idillio perfetto (8/10) Gianni Avella Cluster/Brian Eno - Self Titled (Bureau-b, Ottobre 2009) G enere : krautrock Già ristampati nel 2005 dalla Water (in jewel box), i due dischi che videro Brian Eno e Cluster in join venture sonica ritornano sul mercato in formato digipack e correlati dalle note interne – peculiarità delle reissue Bureau B – di Asmus Tietchens. Cluster & Eno, l’iniziazione. Anno di grazia, 1977. secondo Tietchens, il primo album ambient mai registrato in terra krauta. Discutibile presa di posizione; ma se consideriamo il fenomeno come istituzionalizzato poi dall’ex Roxy Music nei seminali Music For Airposts (cioè mutuato da Satie) e Music For Films, e non stile Klaus Shulze (Irrlicht, datato 1972, è suonato con Wagner nel cuore), sì, il disco in esame ha in nuce tanta ambient a venire. Nello studio di Conny Plank (che produce) anche Holger Czukay al basso e lo stesso Tietchens ai synth. L’alchimia produce nove affreschi di muzak cosmica; laddove Eno, interiorizzata e personalizzata la poetica di Roedelius e Moebius (vedi Another Green World), muove in simbiosi con il duo come se si conoscessero da sempre. Minimalismo in miniatura (Ho Renomo, Mit Simaen), meta-spleen (Steinsame, Fur Luise, Vermut), meta-pop (Die Bunge) e rilasci orientaleggianti (One) fanno di Cluster & Eno un gioiello prezioso, l’idillio perfetto. Dalle stesse session verrà fuori un altro lavoro, After The Heat, e molte cose cambieranno. (8/10) Gianni Avella Damon & Naomi - Sub Pop Years (20/20/20, Settembre 2009) G enere : S lowcore -F olk Dopo l'esperienza Galaxie 500, Damon & Naomi hanno proseguito verso uno slowcore raffinato e nostalgico, diventando un piccolo classico. La loro musica “eterea” ha ispirato gruppi altrettanto fondamentali: Mojave 3, Pale Saints, Mazzy Star, Movietone, fino agli ultimi Beach House. Vicini alla musica dei Low, che sembra la loro la parte maledetta, Damon & Naomi sono sempre rimasti fedeli al centellinamento, raggiungendo un'onesta emozionalità senza effetti speciali né colpi di scena in una discografia esigua, cosa assai rara di questi tempi. Proprio per questo rigore, ci aspettavamo che i cosiddetti “classici” Sub Pop Years venissero sottoposti a mastodontica celebrazione tra sezioni d'archi e nuovi arrangiamenti, proprio come quel Bonnie Prince Billy sings Greatest Palace Music! Ed invece niente di tutto ciò: questa è soltanto una semplice compilazione di 15 traccie composte tra il 1995 ed il 2002. Dal momento che il gruppo gode di ottima salute, ed è anche alle prese con un nuovo album, un'introduzione alla loro musica appare quantomeno discutibile. Negli anni successivi alla fine del contratto con la Sub Pop, Damon & Naomi collaborano con Bhob Rainey e Greg Kelley (in “The earth is blue”). Per Within these walls coinvolgono Margaret Wienk (Valerie Project, Fern Knight) Helena Espvall, Kyle Brukemann. Pur subendo l'influenza di questi ed altri ottimi collaboratori, la loro musica non è mai cambiata di una virgola rispetto a quella degli albori. E così parlare degli anni della Sub Pop induce ad errore, perché il titolo sembrerebbe sussumere un grappolo di anni come si trattasse di un momento specifico della loro carriera, mentre Damon & Naomi sono sempre rimasti fedeli ad una linea indivisibile e coerente.Tra l'altro proprio di quegli anni di cui si parla, viene troncato per intero il primo “More sad hits” (del 1992) ristampato recentemente. Se questa doveva essere una compilazione, bisognava attingere soprattutto da lì. Sarebbe stato meglio ristampare i dischi saccheggiati: Song To The Siren, The Wondrous World Of Damon & Naomi, Playback Singers e Damon & Naomi with Ghost, piuttosto che passarli al setaccio (attenzione: si trovano tutti in stock tra distributori e negozi, sebbene esauriti su Sub Pop). Sub pop years odora semplicemente di denaro. 7 ai materiali, 5 all'operazione che ha il sapore di sfruttamento. (6/10) Salvatore Borrelli Donnas (The) - Greatest Hits vol.16 (Purple Feather, Ottobre 2009) Genere: Rock Brett Anderson, Allison Roberts, Maya Ford, Torry Castellano: le Donnas. Non sono fashionable. Non suonano roba d'attualità. Non fanno trend. Sono pure un po' sfigatelle a dire il vero. Eppure questi dinosauri in gonnella hanno salvato il punk rock dei Ramones e ce lo hanno sparato in faccia dritto dritto. Almeno agli inizi è stato così, quando le quattro ragazzine muovevano i loro primi passi musicali in quel di Palo Alto (California) e sfornavano proiettili melodici e perforanti quali Let's Go Mano o I Don't Wanna Go To School. Kim Fowley e le Runaways? Certamente. Sex Pistols e Motorhead? Come no! Di tutto hanno masticato queste donnacce, anche se è da tempo che la macchina bubblegum sembrava essersi inceppata a favore di un hard rock meno coinvolgente. Ora, dopo l'abbandono della major Atlantic e l'apertura della personale etichetta Purple Feather, le Donnas decidono di donarci un Greatest Hits dove rileggono nuovamente alcuni loro classici (I Don't Want to Go to School, Get You Alone, Get Rid of That Girl, You Make rearview mirror 125 Me Hot, High School Yum Yum) e dove stipano un paio di b sides al fulmicotone (We Own The Night, She's Out of Control), per un totale di 16 tracce (incluse le versioni alternative d'obbligo, un remix ed un inedito di valore: Teenage Rules). Back to the basic. Questo è rock'n'roll. (7/10) Massimo Padalino Natural Yogurt Band (The) - Away With Melancholy (Now Again, Ottobre 2009) G enere : jazzy - funk Ristampa di un disco uscito per la Jazzman nel 2008 e presto andato fuori catalogo. Si tratta dell'esordio di un misterioso duo inglese dedito ad un funk jazzato dal sapore artigianale, dominato dalle tastiere (organi elettrici e piano), con forti influenze tropicali, latin e perfino un tocco di reggae. Nipotini di campagna di Marc Moulin, cugini di provincia di Catto e degli Heliocentrics. Piccola chicca stra di genere, ma che regala momenti di vera goduria. Solo per cultori.Vinile-cd 1000 copie o digital download dal sito della Stones Throw. (7/10) Gabriele Marino Q-Tip - Kamaal/The Abstract (Battery, Settembre 2009) G enere : lounge - jazz soft - hop Ancora (vedi il caso Large Professor) un ottimo disco di un classico dell'HH che riemerge da un passato carbonaro e maltrattato. Ci sono voluti una petizione dei fan e i soldi dello stesso Q-Tip (e forse anche un cambio di look in senso "più figo") per riscattare dagli archivi della Arista e vedere pubblicato questo The Abstract, registrato nel 2001, programmato per il 2002, rinviato all'infinito causa ridotto commercial potential. Pare che nel progetto sia stato coinvolto attivamente J Dilla (non si capisce bene se come semplice recorder, come tagliatore di selecta o come creatore di suoni), già al lavoro con Tip solista e prima ancora con la sua Tribe. Il tutto sarebbe un tagliaecuci di jam in studio dei due bboyz affiancati da turnisti jazz di lusso.Vedremo cosa diranno i dillologi. Il suo tocco si intravede forse in certi intarsi, come i clap di A Million Times o il gusto wonky-analogico di Abstractisms. Restando sul dato fenomenologico della cosa, il disco è molto suonato, lunghe code strumentali, smo126 rearview mirror oth jazz notturno, tastiere liquide e trombe fumose, tocchi funky, le parti vocali che latitano il rap fino a metà scaletta. Un ibrido all'epoca abbastanza sperimentale e per certi versi parallelo, anche cronologicamente, a quello brevettato da Mos Def (peraltro anche Tip fa film), con risultati, se meno clamorosi di quelli degli esordi di Def (Black On Both Sides), meno dispersivi e pasticcioni di quelli delle sue ultime prove (The Ecstatic). Una vera piccola-grande sorpresa, invecchiata molto bene. (7.2/10) Gabriele Marino Radiohead - Kid A / Amnesiac / Hail To The Thief (Parlophone, Agosto 2009) G enere : electro rock Dopo Pablo Honey, The Bends e Ok Computer, è tempo di Collectors Edition anche per gli ultimi tre album targati Parlophone dei Radiohead. In effetti, se c'è una vicenda che merita - in pieno terzo millennio - un supporto fisico con tutti i crismi, è proprio quella della band dell'Oxfordshire, che un bel giorno del 2000 - il 2 di ottobre - decise di completare l'outing abbozzato con Ok Computer, addentrandosi in un territorio elettronico e progressivo che ripensava in profondità il proprio discorso estetico e poetico, trainando seco un bel pezzo del contemporaneo indie rock. Kid A fu una svolta ribadita il 4 giugno dell'anno successivo da Amnesiac, il gemello dichiarato, registrato quasi in contemporanea al predecessore rispetto al quale sottolineò l'intenzione e la capacità di far collassare un songwriting tradizionale nel calderone sintetico della post-modernità. Di questi due momenti così lontani così vicini da noi e tra di sé, le bonus track non aggiungono granché. Kid A presenta una sequela di buone performance live, essendo quel disco come è noto privo di singoli e relative b-sides. Che invece non mancarono ad Amnesiac (Pyramid Song e Knives Out) ed erano pure buoni, ma appunto ben noti e qui semmai comodamente raccolti, con l'aggiunta di un pugno di tracce live di cui la migliore è la stupenda Like Spinning Plates, che però è quella contenuta in I Might Be Wrong, e quindi... Comode e succulenti highlight Tim Buckley - Live At The Folklore Center (Tompkins Square, Ottobre 2009) G enere : songwriting Colpaccio della benemerita Tompkins Square che con Live At The Folklore Center rispolvera un documento eccezionale, che testimonia il set acustico suonato in un piccolissimo locale di NY da Tim Buckley il 6 marzo ’67, con ben 6 inediti. L’atmosfera è raccolta e si sente, intima (35 persone) e pressoché silenziosa, la tensione palpabile e va da sé la magia dell’esibizione c’è tutta. Un musicista e la sua dodici corde. Siamo nel primo periodo della carriera di Buckley, quando tra il primo e il secondo album si fa conoscere esibendosi per la maggior parte in piccoli club. Testimonianza registrata dall’impresario folk Izzy Young e impreziosita da un’intervista del medesimo contenuta nel booklet, il live è ulteriore prova del sublime e dell’assolutezza che raggiungeva una delle voci più “aliene” e non ancora estreme allora. Esibizione pressoché perfetta e per niente editata, secondo le testimonianze, se non per rumori di fondo e poco altro. Cos’altro aggiungere se non che il disco è da avere assolutamente, una delle uscite più preziose di quest’anno. (8/10) Teresa Greco dunque le nuove edizioni di questi due ottimi lavori che hanno segnato l'alba degli anni zero, soprattutto se consideriamo le versioni con DVD che propongono al solito gustose esibizioni televisive (al Top Of The Pops e a Later… With Jools Holland) più gli sconcertanti video d'animazione che accompagnarono Amnesiac. Alla fine ad uscire maggiormente valorizzato dall'operazione è Hail To The Thief, album uscito nel giugno del 2003. Solito trattamento, più o meno. Non parliamo cioè di inediti che gettano luce, però la compresenza delle b-sides estratte dai singoli There There e Go To Sleep e dei remixes contenuti in 2+2=5, rafforzano la sensazione di una fase di passaggio già parecchio avanzata verso asciutti lidi black (techno frugale strinita soul e funky capace di estatici rapimenti jazz) dissimulata sotto una iperproduzione che ne normalizzò l'impatto. Che lo step successivo fosse l'arguta e terrena trepidazione di In Rainbows, con quella fragranza sbrecciata di suono suonato, appare insomma più naturale di quanto non sia sembrato in real time. Visti i prezzi (circa 21 euro, 25 le versioni con DVD) se vi venisse la voglia di levarvi lo sfizio non sarebbe così scandaloso. Magari regalando le vecchie copie a qualche sprovveduto che vi sta parecchio a cuore. (6.9/10) Stefano Solventi Sunny Day Real Estate - Diary/Lp2 (Sub Pop, Ottobre 2009) G enere : emocore Ragazzi emotivi dal Nordovest. Da Seattle. Nella culla del grunge, la Sub Pop, e fuori nel 1994 mentre l’uomo che aveva permesso a Bruce Pavitt e Jonathan Poneman di pagare finalmente le bollette senza fiato sul collo, cioè Kurt Cobain, si toglieva la vita. Ma non divaghiamo. Fu comunque in quella stagione che i Sunny Day Real Estate, esordendo con Diary, sancirono di fatto la nascita dell’emo core di seconda generazione, passo successivo alle gesta di Embrace, Rites Of Spring e Fugazi - va da se' - nonché unica alternativa alla bellezza scultorea dei Shudder To Think. Scovati nel Maggio del 1993 da Poneman, invaghitosene dopo un concerto al Crocodile Café di Seattle, l’embrione dei SDRE crebbe prima come trio, nel 1992, per poi evolversi a quartetto con l’innesto del vocalist Jeremy Enigk. Quindi: Dan Hoerner (chitarra), William Goldsmith (batteria), Nate Menrearview mirror 127 highlight Harmonia/Brian Eno - Tracks and Traces (Gronland Records, Settembre 2009) G enere : krautrock Il disco lasciato nei cassetti, dimenticato, l’anello mancante. L’equivoco. Tracks and Traces, il terzo rilascio degli Harmonia, per l’occasione noti come Harmonia '76. Un lavoro importante perché primo contatto in studio tra Brian Eno, Hans Joachim Roedelius e Dieter Moebius. C’era anche Michael Rother, naturalmente. Oggetto fantasma, fuori postumo nel 1997 via Sony - le registrazioni risalgono al 1976 - e rimosso dal mercato subito dopo poiché pubblicato all’oscuro di Rother. Il perché di tanta attesa, si dice, sia da ascrivere allo smarrimento dei master e al conseguente ritrovamento, su per giù una ventina d’anni dopo, da parte dello stesso Rother e Roedelius. Sul ritiro dal mercato, invece, grava la questione che una volta rinvenuti i nastri, Roedelius, l’autore del mastering del ’97, abbia agito senza interpellare i colleghi, che ritrovatisi un Tracks and Traces spersonificato risolsero drasticamente. Litigi tra innamorati, verrebbe da dire, visto che la musica licenziata dal combo (e mettiamoci pure Zuckerzeit dei Cluster, prodotto da Rother) nel biennio 1974/75 fu figlia di un rapporto incantato. Unico. Passionale per cui bizzoso. Per Brian Eno, che conobbe Roedelius e Moebius nel 1975 dopo aver partecipato ad una data dei Cluster al Fabrik di Amburgo, gli Harmonia erano la band più importante del momento, e vedersi partecipe del progetto fu motivo d’orgoglio e palestra spirituale. Al supergruppo kraut per antonomasia vi si aggiunse, quindi, l’illuminato dell’art rock anglosassone. Poteva venire fuori qualcosa di scontato? Impossibile. Di indimenticabile? Nemmeno.Troppo Ingombranti gli spauracchi Musik Von Harmonia e Deluxe, difficile eludere il raffronto. Si coglie l’animo melodico di Rother (Les Demoiselles, delizioso preludio alle sue prove soliste) e dell’Eno che verrà (Luneburg Heath, test generali di Before After & Science), anche se la presenza di quest’ultimo, specie se vista in prospettiva Cluster & Eno/After The Heat, è discreta e mai invasiva; la solita verve ipnotica (Vamos Companeros, una Watussi col freno tirato), liquida (By The Riverside) e dolciastra (Almost). Classe, insomma, ribadita e immacolata. A rendere più appetibile la ristampa, tre bonus track inedite. Lavoro didascalico e filologico, d’importanza più storica che musicale. Ovviamente, da avere. (7/10) Gianni Avella del (basso) più lo stesso Enigk. Dietro al suono di Diary, Brad Wood (Liz Phair, Smashing Pumpkins), uomo dal tocco cristallino e ruvido allo stesso tempo, che da spessore alle chitarre e cuore alla voce. Dentro, una sequela di inni alla nuova sensibilità. La vena nervosa di Seven e Round, il pathos nelle note di In Circles e 47 (con chitarra stile Alive dei Pearl Jam), la psichedelica Grendel, il piano grave di Pheurton Skeurto e la straniante ballad Song About An Angel. Un susseguirsi di vuoti/pieni puntellati da Jeremy Enigk, ugola vellutata quanto scabra. Rapisce. Tutto in Diary rapisce, grafica inclusa. 128 rearview mirror Nel 1995 è la volta di Lp2, l’altrimenti noto come Pink Album, lascito postumo di una band prossima alla dipartita. Oggetto cinto d’aurea mitologica da fan e storici del genere emo, il secondo SDRE riprende take risalenti alle sessioni di Diary (Rodeo Jones) ed estratti da un antecedente 7” (8). Lo stile si è fatto dogma: Friday, Theo B (con un funambolico Goldsmith), Red Elephant e 4 vanno dritte al punto, cioè al cuore. Di lì a poco, a gruppo sfaldato, Goldsmith e Mendel risponderanno alla chiamata di Dave Grohl per i neonati Foo Fighters, mentre Enigk, nel mentre convertitosi al cristianesimo, si av- vierà in una breve quanto sterile parentesi solista. Si rincontreranno tutti, tranne il bassista, nel 1997, ma non sarà più la stessa cosa. Lavori pressoché identici, Diary e Lp2, la cui unica differenza, forse, sta nel concepimento, laddove il primo, decisamente più organico, vince di poco sulla vaga discontinuità del secondo. Nelli presenti ristampe, con note redatte per l’occasione sia dai membri del gruppo che da gente come Craig Wedren degli stessi Shudder To Think (tutto torna…), oltre alle bonus track di rito vi troverete la causa che ha spinto a suonare i vari Mineral, Elliott, Last Days Of April e l’estetica Deep Elm tutta. Emozioniamoci, ancora. (8/10) Gianni Avella J Dilla - Dillanthology 3 - Dilla's productions (Rapster, Ottobre 2009) G enere : hip - hop Terzo volume celebrativo della Rapster. è la volta delle produzioni da solista, a nome Jay Dee o J Dilla. Tre pezzi da Welcome 2 Detroit e tre da The Shining, due da tutti gli altri, compresa la ven- ture con Madlib a nome Jaylib e l'ultimissimo Jay Stay Paid. è un Dilla meno chirurgicamente concentrato rispetto alle gemme regalate agli altri, ma è quello più visionario, istintivo (e cut-upistico), più intenso e, perché no, sofferto, tutto trasudante quell'anima soul, ora sopra le righe ora strappalacrime, anche quando fa rap. Torniamo a dire: non era meglio un confanetto, o un dvd coi video dei singoli (Drop di Spike Jonze, vedi volume uno), invece del solito livello zero dell'anthology (internet-era eccetera)? Come rassegna stilistica va bene, ma si poteva storicizzare di più, inserendo, ad esempio, Fuck The Police, la prima solo-release del nostro, anno 2001. Restano le riserve sull'operazione, ma restano per fortuna anche i pezzi di Dilla, semplicemente uno più bello dell'altro. Otto ai materiali della trilogia, sette scarso al progetto editoriale, sette pieno ai due volumi precedenti. A questo un pizzico di più, perché c'è sempre il rischio che il "grande pubblico" (...) si perda qualcuna di queste perle incastrata tra le spire di uno di quei dischi che non sono Donuts. (7.3/10) Gabriele Marino rearview mirror 129 (GI)Ant Steps #31 John Coltrane A Love Supreme (Impulse!, Febbraio 1965) Le classifiche dei migliori dischi e le discoteche di base sono - pur necessarie - semplificazioni storiografiche che rischiano di cristallizzare un artista e ridurlo ad una sola opera (il disco migliore, il più rappresentativo, eccetera), falsandone la figura. A Love Supreme è un'opera talmente potente da rompere dall'interno questo meccanismo, questo effetto collaterale della bignamizzazione della musica, riuscendo davvero a sintetizzare in sé le diverse anime, o meglio l'unico animo dilaniato, del suo artefice. Dopo il tirocinio con gente come Dizzy Gillespie, Miles Davis e soprattutto Thelonious Monk, "Trane" entra nel canone jazz a cavallo tra hard e post-bop, con due opere tanto programmatiche da essere percepite quasi come didattiche, Giant Steps (1959; e come si chiama questa rubrica?) e My Favourite Things (1960). Trane diventa il riferimento primo per i saxofonisti di tutto il mondo, scalzando addirittura il fondativo Charlie Parker. Tecnicamente perfetto, e per questo eternamente destinato all'insoddisfazione, di una irrequietezza che lo porta sempre a cercare di forzare i confini, ostinato esploratore delle possibilità espressive del sax tenore (e riscopritore di quello soprano), libero finalmente dalla schiavitù dell'eroina, Trane trova rifugio in un misticismo panteistico che vede nella musica il filo diretto con dio, un percorso musicale che è percorso di vita, un percorso taumaturgico che trova nella suite in quattro parti A Love Supreme il picco della propria parabola. Un rito sacro che gli apre le porte per la santificazione fuori dal mondo jazz e che sarà il preludio a quei veri bagni 130 rearview mirror di purificazione nel magma del suono che saranno opere-monstre come Ascension, Meditations (1965) ed Expression (postumo, 1967), segnate dal contributo fondamentale dell'allievo Pharoah Sanders, sempre più calate nell'estetica free e intrise di suggestioni provenienti dalla musica orientale. In questa messa per quartetto jazz, uno dei picchi di intensità della storia della musica, viene messa in scena la continua sofferta dialettica tra tensione e distensione, dove la tecnica (l'estenuante esplorazione della modalità, della melodia oltre le gabbie dell'armonia tradizionale) si fa carne, mantenendo però un'eleganza formale che la rende fruibile anche da chi non intende coglierne il caldo respiro umano. Le opere successive porteranno questa ricerca alle estreme conseguenze, verso una musica che sempre più rincorre l'astrazione sublimando violentemente la concretezza della materia sonora. Ma tutto parte da qui, da quel colpo di gong, da quelle quattro note di basso, dagli arzigogoli errabondi che ne seguono, da quel mantra dal fascino sinistro e ipnotico. Da avere la ristampa del 2002, con il bonus prezioso dell'unica esecuzione live nota della suite, al festival di Antibes, e della take del primo movimento con il sax tenore di Archie Shepp. Gabriele Marino classic album rev Gang Of Four Entertainment (EMI, Gennaio 1979) è il crepuscolo degli dei. Quella è la fine degli anni '70 e quella che si intravede laggiù è l'Inghilterra alla fine degli anni '70. Siamo a Leeds. C'è un vento che spazza il sociale e lo fa a suon di musica. Musica nuova. Una cosa chiamata New Wave. Scioperi interminabili, supermercati come covi di cospiratori del consumismo di massa, il thatcherismo alle porte, i sindacati che arrancano. A Leeds, come nel resto del Regno Unito, queste sono colpe. E le colpe si espiano. Ecco allora che la lontana Cina offre una chance di rivoluzione ad un manipolo di studenti di belle speranze. Loro sono i Gang Of Four, la Banda dei Quattro (proprio come quella ai tempi di Mao), e non sono i soli, in quel ritratto tutto angoscia sociale e rivolgimenti studenteschi che scuote il '77 britannico, a volere di più. Con loro (anzi: di fianco a loro) ci sono i concittadini Mekons e i Delta 5, per citare solo due delle band dell'epoca. E Dave Allen (basso), Hugo Burnham (batteria), Andy Gill (chitarra) e Jon King (voce) non perdono la loro occasione di far vedere di che stoffa son fatti; stoffa rude come cartavetrata: vorrebbero suonare come una versione al vetriolo di Stevie Wonder, ma ottengono un risultato ancora più imprevedibile: il number one del funky (il ritmo circolare su cui si regge la lezione di James Brown) trasfigurato in una bomba d'anarchia e cinismo puro. Non a caso doti personali proprie del quartetto (si pensi a Andy Gill e alle sue dichiarazioni senza peli sulla lingua). Non stupisce così che, la loro prima uscita, il 'classico' e.p. Damaged Goods (ottobre 1978, Fast Product) esploda inatteso per le orecchie di molti (anche 'a venire'; ad esempio Michael Stipe: "I Gang Of Four sì che sapevano come suonare. Ho rubato molto da loro"). Ma è solo un antipasto, questo in formato minore, la bomba vera è il loro 33 giri d'esordio. Una manciata di titoli, e Entertainment (EMI, 1979) è leggenda: Ether, Damaged Goods, Return The Gift, I Found The Essence Rare. Tutte figlie della temibilissima e paradigmatica - non meno delle altre citate, a livello di liriche - At Home He's A Tourist, presente sull'e.p. precedente (con versi come "He fills his head with culture / He gives himself an ulcer"). Su tutte le canzoni lo spettro del punk aleggia: riverberi dub profondi e metallici, ansie blues a disperdersi, avvitamenti funky della chitarra, una batteria mobile e stretta nei suoi loop. Una lezione di sabotaggio di un genere dall'interno. Meglio di così, all'epoca, sapranno fare in pochi. E raramente meglio di così seppero fare, nel seguito di carriera, gli stessi Gang Of Four, eroi d'oltremanica di un suono bastardo e creativo. Massimo Padalino rearview mirror 131 3-D Il 3-D che stiamo sperimentando non è altro che il punto non d'arrivo di una vicenda che si è sviluppata insieme alla storia del cinema. Prima parte di uno speciale dedicato alla bidimensionalità - Costanza Salvi 132 la sera della prima “Benvenuti nel mondo della profondità e dell’illusione, dove le grotte si estendono in una profonda oscurità, meteoriti sfrecciano dalle pagine (dei fumetti) e star del cinema possono essere letteralmente abbracciate!” (Hal Morgan e Dan Symmes, Amazing 3-D, 1982). Eccolo qui il mondo del futuro: addio bi-dimensionalità, piattezza, figurazione! Benvenuta profondità! Un mondo a 360º che mi circonda: la realtà! No, un’illusione! Quanto mi piacerebbe potervi offrire un paio di occhiali e qualche immagine in arancione e blu per farvi provare l’ebbrezza del futuro… E mi piace anche questa specie di corto circuito fra le due visioni complementari di un cinema totale (René Barjavel, Cinema Totale, 2001) quella degli anni 50 sul 3-D e quella attuale sul virtuale, rappresentata dai new media ma anche dai sistemi attuali di cinema tridimensionale. Studiare il 3-D è come fare uno scavo archeologico alla ricerca di tracce antichissime di UFO o di incursioni aliene avvenute in un passato talmente arcaico da coincidere col futuro. Il 3-D che stiamo ora sperimentando non è nient’altro che il punto (non finale) di una vicenda che si è sviluppata insieme alla storia stessa del cinema e che ha inizio già nel XIX secolo. L’evoluzione di questa scoperta durante tutto il XX secolo, poi, è passata attraverso albe e tramonti che corrispondono esattamente ai momenti di declino e recupero, rispettivamente, del pubblico nelle sale. Inoltre siamo propensi a pensare al 3-D come una “cosa insolita“, una specie di novità che cerca di rilanciare una moda degli anni 50, mentre in realtà le visioni stereo possono vantare una tradizione lunga e colorita che ci porta addirittura indietro all’antica Grecia. Fu Euclide a precisare per primo i principi della visione binoculare dimostrando che l’occhio destro e quello sinistro vedono due immagini leggermente differenti dello stesso oggetto o scena e che è proprio la fusione di queste due immagini a creare la percezione della profondità. Ma questa profondità si perde con la lontananza dell’oggetto; gli oggetti vicini ci appaiono dotati di una specie di rotondità mentre quelli lontani perdono il loro volume ottico. La posizione, forma e dimensione degli oggetti più lontani, infatti, è dedotta da tutta un’altra serie di informazioni che abbiamo sul reale piuttosto che realmente appurata da input visivi. La stessa deduzione, a dire il vero, facciamo nel caso del cinema bi-dimensionale. Nel film in 3-D, invece, l’immagine stereo viene offerta agli occhi come una doppia immagine separata (mono) che poi verrà corretta dal cervello attraverso l’uso di un dispositivo, i famosi occhiali (viewers). Un film in 3-D viene ottenuto attraverso l’uso di due obbiettivi fotografici separati che immortalano le scene producendo un’immagine doppia, che appare, senza viewers, sfocata. La distanza fra i due obiettivi è calcolata sulla media della distanza fra le due pupille di un essere umano adulto. I progressi successivi arrivarono nel 1838, quando Charles Wheatstone inventò lo stereoscopio riflessivo (o a specchio), un complicato dispositivo che sfruttava la visione stereoscopica. Il dispositivo veniva usato per dare profondità a certe vedute ovvero semplici disegni che, con un sistema di specchi, acquisivano profondità. L’introduzione del dagherrotipo nel 1839 diede un ulteriore impeto alle teorie sulla stereoscopia dal momento che l’obiettivo principale era quello di ottenere un effetto di realtà che fosse nello stesso tempo efficace, strabiliante e fantasmagorico. La fotografia avrebbe rimpiazzato il disegno nei dispositivi stereoscopici. Nel 1844 in Scozia David Brewster inventò un dispositivo più veloce e maneggevole di quello di Wheatstone perché inseriva un sistema di lenti prismatiche che permettevano di piazzare le figure direttamente di fronte al dispositivo invece che all’esterno e di fianco come nel meccanismo di Wheatstone. Prima della guerra civile americana in molte case si diffusero questi dispositivi per la visione di fotografie tridimensionali. Alcune erano prodotte da macchine fotografiche doppie, altre da camere dotate di due lenti. Nel 1862 Oliver Wendell Holmes Jr. e Joseph Bates cominciarono a proporre sul mercato uno stereoscopio abbastanza economico. In effetti, tutti i bambini, da allora, ne hanno tenuto in mano una versione successiva almeno una volta nella loro vita. Durante il decennio del 1870, lo stereoscopio e i suoi box-viewers crebbero moltissimo in diffusione e in fama. Le vedute tridimensionali portarono l’intero mondo all’interno delle case. In particolare si trattava di visioni di luoghi del mondo famosi come le cattedrali europee, la frontiera, le battaglie della guerra civile. Offrivano tour delle grandi città, le piramidi dell’antico Egitto e le rovine della Grecia antica. Per quanto riguarda il cinema, nonostante una certa confusione in quanto a date e a nomi, pare certo che sia stato un inglese, William Friese-Greene, ad aver sviluppato la prima macchina da presa che riprende immagini stereo destinate alla proiela sera della prima 133 zione. Qualche primo tentativo fu subito destinato ai peep-show in cui brevi film in stereo potevano essere visti solo attraverso una sorta di finestrella da una sola persona per volta. La cosa più sconvolgente, però, è che il primo film ufficialmente in 3-D mostrato ad un’esibizione pubblica sia stato L’arrivé du train dei fratelli Lumiére. Ovviamente non si trattava di quello del 1895 ma di una sua versione stereoscopica del 1903. A parte qualche altra versione molto breve dei Lumiére nessun altro esperimento in 3-D si verificò nei primi anni, almeno fino al 1915 quando la Famous Players Film Company di New York (poi divenuta la Paramount) girò qualche film di una sola bobina, sempre con il sistema anaglifico. Cioè un unico film - una sola striscia - sviluppato con il codice dei due colori per creare l’impressione stereo durante la proiezione. Se l’immagine è proiettata attraverso due colori come l’arancione e il blu per esempio, il filtro arancione del viewer permette di vedere solo l’immagine blu e quello blu solo l’immagine arancione dando l’impressione della tridimensionalità. Questi minifilm furono proiettati all’Astor Theatre a New York il 10 giugno di quell’anno. Si trattava di immagini girate nello stato di New York e nel New Jersey grazie ad un dispositivo creato dal pioniere del cinema e regista di The Great Train Robbery, Edwin C. Porter e da William E. Waddell. Nessuno di questi film era stato registrato e sembrano essere scomparsi. Gli anni 20 sono i più prolifici in assoluto per quanto riguarda le tecnica della proiezione dell’immagine stereo. Del resto furono anni prolifici per le tecnologie in generale: nel 1929 apparve il primo film sonoro. Il cinema è un mondo ancora tutto da scoprire, è un prodigio della tecnica, quindi rappresenta una sfida sul futuro per i pionieri ma anche una nuova forma di sfruttamento economico per l’impresa dello spettacolo. Per lo spettatore, invece, è soprattutto una specie di fantasmagorica esperienza di “visioni“. Non era importante il soggetto, la narrazione, la fiction o, anche, l’aspirazione artistica: il cinema era pura attrazione costruita sulle visioni. Quello che attirava era il fatto di vivere esperienze eccitanti e colorate (i primi film, contrariamente a quanto generalmente si pensa non erano in bianco e nero ma colorati). Il movimento stesso era un prodigio, una specie di attrazione prodotta dalla cinetica che costringeva allo stupore. Ogni anno durante quel decennio, qualche spettacolo in 3-D veniva presentato nei maggiori teatri di New York o Los Angeles: The Power of Love di Harry K. Fairall che è stato perduto o il programma Movies of the Future di Willliam Van Doren Kelly presentato al Rivoli Theatre di New York. Questo show comprendeva due minimovie come Plasticons (che era una dimostrazione sul 3-D stesso) e New York City, di cui alcune recensioni esaltavano il potere illusorio di profondità creata dalle riprese top-shot dalla cima dei grattacieli. Un altro film che riscosse particolare successo fu Plastigrams (il nome del processo tecnico inventato da Leventhal e Ives e che in seguito venne battezzato Stereoscopiks) di Jacob F. Leventhal e Frederick Eugene Ives che fu proiettato per vari mesi e viene ricordato come il primo film tri-dimensionale sonoro. Uno dei più attraenti fra questi spettacoli fu Teleview di Lawrence Hammond e William Cassidy, una sorta di multimediale programma di presentazione della nuova tecnica che durava 85 minuti, presentato al teleview 134 la sera della prima tru-view Selwyn Theatre di New York. Una sorta di visore con un otturatore rotante era montato di fronte ad ogni poltrona del teatro ed era sincronizzato con il proiettore. Lo spettatore guardando dentro questo dispositivo, dotato dei filtri colorati, vedeva prima con l’occhio destro uno dei due frame dell’immagine stereo poi l’altro con l’occhio sinistro ricevendo la percezione del volume tri-dimensionale. Il dispositivo era dotato di un otturatore che, sincronizzato alla stessa velocità del proiettore (24 f per secondo), copriva la vista di ora l’uno ora l’altro occhio. In sostanza sfruttava la persistenza retinea con un principio simile al fenakisticopio per eliminare il fastidio degli occhiali da mettere sul naso. Il programma includeva una sorta di stereoscopica danza delle ombre, immagini fisse, un film documentario sugli indiani Hopi girato in Arizona e un film a soggetto che raccontava un viaggio su Marte, tutto ovviamente in 3-D. Negli anni 20 addirittura Abel Gance decise di girare alcune parti del suo epico Napoléon col formato anaglifico dei due colori ma dovette desistere dall’intento e finì per scartare queste porzioni di girato. Dopo il boom tecnologico degli anni 20, in cui sperimentazioni sul 3-D si accompagnarono a quelle sul sonoro e sul formato della pellicola, la Grande Depressione si portò via tutto il desiderio di tridimensionalità. Gli anni 30 furono un periodo di relativa oscurità. L’interesse generale per le immagini stereo riguardò solo la commercializzazione di cataloghi di vedute; compagnie come la Keystone View e la Tru-Vue continuarono a mettere sul mercato questo tipo di prodotti con viewers che non avevano cambiato di molto l’appeal e le caratteristiche di quelli dei decenni precedenti. Era necessario un salto tecnologico che potesse permettere nuovi stimoli. Un fatto alquanto deludente era, per esempio, l’impossibilità di mantenere l’intera gamma dei colori e la loro fedeltà al soggetto originale. Il formato anaglifico, infatti, comportava una distorsione dei colori. Un passo in avanti in questo senso venne dal laboratorio di Cambridge, in Massachusetts, dove Edwin H. Land iniziò a sperimentare sulla luce polarizzata. Land sperava di vendere il materiale all’industria dell’automobile perché l’utilizzo di questa luce permetteva di ridurre il riverbero durante la guida notturna. Ma già in altri posti del mondo si cominciava ad applicare il materiale polarizzato la sera della prima 135 view master alla fotografia stereoscopica con la possibilità di mantenere la fedeltà dei colori. Nel 1936 ci fu una presentazione pubblica al Waldorf Astoria Hotel di New York e il potere dei colori di aumentare la sensazione di profondità fu dimostrato con notevole successo. Intanto anche in Russia, in Italia (che pare essere il paese dove avvenne la prima proiezione 3-D parlata: Nozze Vagabonde di Guido Brignone del 1936) e in Germania si diede inizio alla sperimentazione. In Germania, in particolare, un procedimento all’avanguardia e particolarmente efficace era stato sviluppato da Zeiss-Ikon (Polaroid) chiamato Raumfilm-System che era stato utilizzato anche 136 la sera della prima per le riprese delle Olimpiadi di Berlino del 1936. Nel 1939, intanto, fu organizzata la New York World’s Fair il cui tema era “Building the World of Tomorrow“. Durante questa fiera le persone potevano sperimentare il Tru-Vue, salire e scendere dalle strutture, entrare nello sferisterio e osservare i film panoramici proiettati sulla superficie interna (una sorta di precursore del cinerama costruito da Fred Waller). Allo stand della Chrysler ogni giorno le persone indossavano i loro occhiali a forma di automobile con i due filtri colorati al posto dei fari per vedere il loro primo film stereoscopico polarizzato. L’invenzione di Land trovò una delle sue prime fortunate applicazioni. Si trattava di un film di John Norling, Motor Rhythm: un documentario di 12 minuti che mostrava la costruzione di una Plymouth con gli alberi motore che balzavano e sfrecciavano verso gli spettatori e velocissime Plymouth che si sporgevano fuori dallo schermo. La proiezione suscitò talmente tanto successo che nuovi corti furono prodotti anche per l’anno successivo sia per la Chrysler che per la Petroleum Industries. Qualche anno prima, peraltro, anche la MGM (che allora era una delle majors più ricche e facoltose) venne coinvolta nel business del 3-D e produsse alcuni Audioscopiks, come vennero definiti cambiando termine per l’ennesima volta (non avevano soggetto, erano scene inanellate a caso della durata di otto minuti circa ed erano qualitativamente abbastanza poveri). L’ultimo film prima dello stop dovuto alla II guerra mondiale fu prodotto dal dipartimento-soggetti della MGM guidato da Pete Smith, Third Dimensional Murder, un horror/comedy di 7 minuti e ½ del 1941 che era modellato sui film di Frankenstein. Molti di questi film vennero poi rieditati negli anni 50 quando Hollywood si lanciò completamente nella terza dimensione. Durante la fiera del 1939 al pubblico fu data la possibilità di portarsi a casa un souvenir del 3-D, il View Master. Si tratta di uno dei più venduti dispositivi di 3-D di tutti gli anni 40 e parte dei 50. Realizzato dalla Sawyer’s, questo dispositivo consentiva di osservare scene di Bambi, Rin Tin Tin e del west americano. Venivano venduti vari dischi contenenti le bobine delle vedute al costo di 0.35 $ ciascuna. Le prime versioni del dispositivo costavano, invece, 1.50 $. Ora, ovviamente, il valore è di molto aumentato facendo la fortuna di chi abbia scelto di conservarlo. Successivamente la varietà dei soggetti delle bobine si moltiplicarono: Hansel e Gretel, Biancaneve, La lampada di Aladino, 20.000 leghe sotto i mari, storie bibliche e vedute realistiche ma dopo un po’ la sola varietà dei soggetti non poteva essere di grande auspicio per aumentare le vendite. In realtà in questo periodo (tutto il decennio dei 40), a parte qualche sporadica sperimentazione già citata, come per esempio il coinvolgimento della MGM, era molto difficile che qualcuno andasse al cinema per vedere un film in 3-D. dal punto di vista del pubblico, l’unica vasta diffusione fu assicurata dalle “vedute” e dalla successiva diffusione degli apparecchi fotografici stereo amatoriali. La fatica dello spettatore e la necessità del dispositivo, infatti, continuarono ad essere le “bestie nere” (Cherchi Usai) del cinema in 3-D. Con l’avvento della tv e il timore che la sua crescente popolarità portasse via troppi spettatori e si sostituisse al cinema, il 3-D ebbe nuovamente qualche chance di entrare nelle sale. Era, infatti, un buon modo per rendere di nuovo indispensabile la loro frequentazione da parte del pubblico. Ma, in effetti, il terreno doveva essere preparato e per fare questo la fotografia amatoriale in 3-D era un mezzo che poteva risultare davvero utile. Negli anni 40 oltre al View Master ci fu la diffusione di altri dispositivi come il Vectograph della Polaroid. Questo aveva applicazione in ambito militare: interi manuali di training e immagini di sorveglianza aerea venivano realizzate e usate tramite questo dispositivo. Le immagini potevano essere distribuite insieme a libri che mostravano, per esempio, come smontare il fucile o il funzionamento di certi macchinari, il tutto sempre osservato con i soliti occhialini. Per quanto riguarda la fotografia aerea si trattava di una sorta di precedente del satellite ovviamente solo per ciò che riguarda la sua utilità: avere una visione il più possibile fedele dell’aerea in cui agire. Addirittura i militari poterono contare su immagini in 3-D della costa della Francia per lo sbarco degli alleati in Normandia. Si trattava di un dispositivo che funzionava a luce polarizzata e che fu utilizzato per tutti gli anni della guerra, poi la Polaroid ripiegò sul più prolifico mercato delle foto istantanee, sviluppate a partire dal 1947. Intanto nel novembre del 1945 una pagina della rivista American Photography annunciava il lancio del nuovo Stereo Realist realizzato da Seton Rochwhite per la David White Company. La pubblicità recitava: more natural, more excitingly real than you’ve never taken! Qualche mese dopo s’insisteva sulle sue possibilità entusiasmanti: thrill to your own pictures in breath-taking third dimension, like alice trough the looking glass you’ll step into a vivid new world of vision… decantando la profondità e i colori estremamente realistici. I clienti che compravano questa macchina (al costo di 162.50 $) scattavano la loro fotografia usando lo Stereo Realist e una normale pellicola Kodak di 35 mm a colori. Questa veniva poi mandata alla Kodak che la stampava e infine a Milwaukee (alla David White Company) che la montava sul Viewer. L’effetto finale era quello di avere foto in 3-D della propria famiglia osservabili attraverso i visori. Tutti gli oggetti tipici degli anni 40/50 finirono per essere immortalati in 3-D. Molti altri fotografi cercarono di dedicarsi a soggetti più seriosi come fiori ravvicinati, notturni, fino a spingersi sul soggetto perfetto dei la sera della prima 137 50, ovvero il nudo (fra cui quelli splendidi dell’attore e regista del muto Harold Lloyd). Nel 1950 nacque la prima Hollywood Stereoscopic Society a cui parteciparono lo stesso Harold Lloyd, Dick Powell, Frank Capra, Walter Houston, Cecil B. DeMille, Joan Crawford, Irene Dunne e molti altri che cercavano di promuovere anche commercialmente la Stereo Realist. Più avanti si aggiunsero Fred Astaire, Bob Hope, Virginia Mayo, Gregory Peck, fotografati con le loro personali Stereo Realist. Ma l’apice si raggiunse quando una foto di Dwaight Eisenhower venne stampata su Life. La foto riprendeva il Presidente intento a scattare istantanee 3-D del suo viaggio a Istanbul (circa 500 delle sue foto stereo sono ora conservate alla Eisenhower Library ad Abilene in Kansas). Alla metà del 1952 la febbre del 3-D era alle stelle, così cominciarono i giochi al rialzo, esattamente nello stesso modo in cui funziona oggi l’evoluzione della tv digitale o satellitare e la novità del HD. Nacquero nuove trovate destinate a sfruttare al massimo l’interesse: proiettori per visioni di gruppo e nuove e più sofisticate macchine si affacciarono sul mercato (fra cui quelle tedesche) che abbassavano sensibilmente il loro prezzo. Anche le vecchie società che operavano nel settore fin dagli anni 30 ritornarono a lanciarsi nel settore: la Tru-Vue, per esempio, acquisita dalla Sawyer’s, ebbe la licenza di produrre visioni dei personaggi della Disney. La View Master rilanciò la sfida con Bugs Bunny e Chilly Willy e con i personaggi di Gene Autry, Lone Ranger e Roy Rogers. Intanto la Bolex Stereo, una stereo-camera che permetteva di girare piccoli film amatoriali fu introdotta nel 1952. La pubblicità diceva che presto si sarebbero visti film in 3-D al cinema ma che fino ad allora il pubblico avrebbe potuto far divertire i propri amici con la cinepresa stereo. Infatti proprio nel 1952 Hollywood rispose alla fame di 3-D che era nata nelle persone grazie alla semplicità d’uso delle macchine fotografiche con il famoso Bwana Devil, che viene ricordato come il primo film del periodo classico del 3-D. Ma nel 1960 l’amore del pubblico per la tridimensionalità era già finito e cominciò il mercato della seconda mano. Man mano che procedo nella storia del 3-D non posso fare a meno di pensare continuamente alle affermazioni fatte nel 1944 da René Barjavel. Nella parte intitolata “Il cinema in rilievo“, dopo aver citato i primi esperimenti sul fenakisticopio, dice: “Prima ancora che il cinema fosse nato, nel mondo intero si 138 la sera della prima cercava di crearlo in rilievo”; Barjavel immagina che il volume possa avere la stessa storia, nel cinema, del sonoro e del colore. Anzi il colore venne usato all’inizio proprio per dare rilievo e forme alla grigia bidimensionalità del bianco e nero. E dice ancora che sempre nuovi scienziati stanno facendo ricerca dappertutto e che colui che riuscirà, riuscirà per caso. “Perché si tratta di trovare qualche cosa completamente nuova, e non di partire da invenzioni già esistenti per perfezionarle ed adattarle“. Non importa, in realtà, che lui abbia o non abbia avuto ragione nelle sue profezie sul 3-D o che le sue affermazioni possano risultare semplicistiche e infantili. Contrariamente a ciò che Barjavel pensava nel ’44 (il cinema non esiste ancora), noi, oggi, siamo costretti a pensare che il cinema degli anni 40 non solo fosse già nato e cresciuto ma, anzi, coi suoi capolavori, avesse già raggiunto l’apice. Il cinema attuale, invece, ci appare come qualcosa d’irrimediabilmente perduto in tutto ciò che cinema non è: new media, internet, videogame, tv. Da puristi nostalgici pensiamo non che il cinema non sia ancora stato inventato ma che sia più che altro disperso e ibridato, morto. Per cui ciò che ci dovrebbe affascinare di Barjavel è proprio il suo entusiasmo di cinefilo che si affaccia sul nuovo, una specie di virale fiducia nel futuro con cui ci dovremmo ‘contaminare’: l’estro di un’intelligenza che ha sintetizzato il senso del cinema in un solo innamoramento, in un solo e sublime sguardo prospettico. In una sola immaginazione (Abruzzese). Del resto, Abruzzese nell’introduzione esalta il potere anche rivoluzionario (cioè anti-istituzionale) di un progetto/ tesi che Barjavel poteva avere dalla sua privilegiata condizione di moderno, all’oscuro delle evoluzioni successive delle teorie e delle tecniche. L’idea di cinema che Barjavel aveva in mente non era legata solo al potere di escapismo dell’immagine. L’immagine, con il suo potere d’illusione sempre più forte, non doveva solo servire come oppio del popolo ma doveva consentire una rivoluzione del senso attraverso la rinnovata percezione di un mondo ricreato. Non si tratta, quindi, solamente d’illusione ma anche di una sorta di redenzione (comprensione e liberazione) rappresentata da un cinema che ancora non aveva iniziato ad esistere e che sarebbe certamente stato anche “in rilievo“, appunto. Il problema, in realtà, è che il cinema è ancorato ad una narrazione: una storia, il racconto, il soggetto, l’interpretazione, l’autore e che noi tendiamo a far coincidere l’idea dell’approfondimento e della riflessione proprio a queste componenti. Cosa che ad Abruzzese proprio non va giù e che, secondo lui, eliminerebbe il potere eversivo del cinema come tecnologia che agisce sul corpo dello spettatore e che ne altera le percezioni, costruendo un sapere alternativo a quello alfabetico e istituzionale. La narrazione al cinema, la scrittura, le istituzioni e il lavoro intellettuale (i valori dell’autore e i valori dell’arte) si sono portati via le forme emotive e virali, non concettuali e il piacere del corpo che il cinema aveva all’inizio, all’alba della sua scoperta, quando ancora si poteva dire: il cinema non è nato. Cherchi Usai nel suo intervento lo ribadisce: “Il cinema in 3-D tende a privilegiare la sensazione sulla riflessione, la componente figurativa su quella psicologica. Un film comico non ha bisogno del 3-D, una sto- R iferimenti ria d’amore non sa che farsene, ed è fin troppo facile pensare ad altri generi che possono volentieri farne a meno“. La stessa preoccupazione ce l’aveva Barjavel: passata la prima emozione, con il mondo abituato a questo nuovo giocattolo, occorrerà diventare seri. Non è completamente certo di cosa voglia dire serietà però è all’incirca qualcosa come: realismo, storia, narrazione, autorialità. La terza dimensione sembra, quindi, come dice Cherchi Usai, “non ancora necessaria allo spettatore“, nonostante i progressi tecnologici attuali e il potere illusorio del cinema in 3-D digitale. Non c’è ancora una coscienza collettiva che possa stabilire un vero bisogno al quale il cinema stereoscopico possa rispondere. È un cinema che non è ancora nato. bibliografici Hal Morgan e Dan Symmes, Amazing 3-D, Little Brown, Boston, 1982 è una delle mie due fonti principali insieme a R. H. Hayes, 3-D Movies: A History and Filmography of Stereoscopic Cinema, McFarland and Company, Jefferson, 1989. Cherchi Usai ha scritto un saggio dal titolo “Vederci triplo” in ‘Segnocinema’, n. 158, luglio/agosto 2009. Il testo di René Barjavel si intitola Cinema totale. Saggio sulle forme future del cinema, Editori Riuniti, Roma, 2001. la sera della prima 139 L’anno scorso a Marienbad Alain Resnais (Francia, 1961) - Aldo Romanelli In un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio: cavalieri e donne, cortei regali e semplici viandanti. 140 la sera della prima L ’incipit è quello de Il castello dei destini incrociati, di Italo Calvino, 1973, ma potrebbe essere altro, potrebbe essere la sinossi di un film. Il film in questione è L’anno scorso a Marienbad (L’année dernière à Marienbad), 1961, di Alain Resnais. Nel castello di Marienbad, ricostruito in tre diversi luoghi della Baviera (Nymphenburg, Amalienburg e Schleissheim) trovano luogo le vicende di una donna e di due uomini, di molte comparse senza nome che si muovono come zombies all’interno di spazi lussuosi e silenziosi. La donna, A, Delphine Seyrig pare da subito scossa e debole, inspiegabilmente fragile. L’uomo, X, Giorgio Albertazzi, è mostrato sin dall’inizio sicuro e forte nel cercare di avvicinarsi ad A, chiederle di ricordare qualcosa che li legherebbe profondamente e che la donna non sembra riuscire a riportare alla mente. Secondo l’uomo, infatti, l’anno prima i due si sarebbero incontrati, conosciuti e amati in quello stesso posto, a Marienbad. La donna gli avrebbe chiesto un anno di tempo per capire, per rendersi conto dell’entità del suo sentimento e ora, adempiuto l’impegno, X esige il premio della sua pazienza. A non è sola, è accompagnata da M, Sacha Pitoeff, che, freddo e distante, pare protettivo come un padre e geloso come un marito che odora il tradimento. Sulle loro vicende ha ruolo preponderante il palazzo: i giardini, il labirinto e le statue; così come i suoi interni, i saloni e i corridoi. Dice Resnais che tutto il film può essere immaginato come un documentario su una statua e s’intuisce l’importanza di questi monumenti perché molte volte la macchina da presa li inquadrerà, si soffermerà lungamente su di loro, quasi a chiedere aiuto, a cercare una soluzione al mistero, al peregrinare ostinato dei personaggi che si muovono silenziosi lungo i corridoi barocchi, su tappeti che assorbono il suono dei passi e rendono inudibili i rumori, segno di presenza umana. Da una porta che si apre su un corridoio, si passa a un salone e poi, di nuovo, a un altro corridoio che porta allo stesso salone. Il labirinto non è solo quello nel giardino, passatempo colto per gli abitanti del palazzo: appare chiaro presto che tutto il film è un labirinto, che tutto muta in ogni istante, perdendo logica. Ciò che mantiene una lucidità fredda e implacabile è la volontà di X di portare via con sé A, la sua risolutezza nel limare le certezze della protagonista. Logico resta il gioco del Nim, passatempo mostrato da M a tutti gli ospiti che, basiti, non capiscono. L’anno scorso a Marienbad vince il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia. è il secondo lungometraggio del regista francese che, dopo alcuni documentari, trova la via per il cinema narrativo con Hiroshima mon amour (id.), 1959. In una sorta di trittico incentrato sul tema della memoria e composto dal film del ’59, dal film del ’61 e da Muriel, il tempo di un ritorno (Muriel ou le temps d’un retour), 1963, Resnais s’interroga sui meccanismi di funzionamento del ricordo, sui modi in cui si decide di salvare o tralasciare un avvenimento e si tende inevitabilmente a modificarne i particolari nel tempo. Se gli altri due film del trittico lavorano sulla rielaborazione dell’orrore proveniente dal passato recente e sugli influssi di questo nel presente dei protagonisti, L’anno scorso a Marienbad tratta della memoria intesa come mistero ed enigma irrisolvibile. Diversamente dalle altre due opere, il regista si cimenta qui con un film assolutamente non lineare, narrativo ma con tutte le eccezioni che confermano questa definizione. Attraverso una forma borderline che passa continuamente dal thriller psicologico all’horror, Resnais cerca di mostrare com’è fatta la memoria. Non rispettando nessun canone, prende il via un viaggio onirico grazie ai numerosi carrelli sui quali è posta la macchina da presa, travelling interrotti e, in seguito, ripresi in un altrove la sera della prima 141 di Marienbad. Senza nome, i personaggi del film si muovono come enti che il palazzo attrae a sé, magneticamente e senza via di fuga. Cercherà più volte di allontanarsene A, ma senza riuscirci. La memoria è ineludibile e si può sfuggirle solo apparentemente. è un film difficile, molto: i tempi lunghi e gli ampi movimenti di macchina si sposano alla perfezione con gli arredamenti barocchi del palazzo che rendono il flusso d’immagini simile a una litania salmodiante e ipnotica. Questo ritmo è volto a immobilizzare lo spettatore, a limitarne le capacità di opposizione, richiedendogli il massimo dell’attenzione. La voce over di X cerca di ipnotizzare chi guarda, di attrarlo a sé, sin dai primi istanti del film. Si deve ascoltarla. Un escamotage può servire come viatico a non soccombere nella difficoltà di visione: non si deve cercare un senso, non è necessario cercare di capire chi è chi e dove si trovi la verità, dare un’interpretazione alle vicende o ai luoghi; ma abbandonarsi, proprio come si fa con un salmo ridondante, alla sonorità delle immagini, alle suggestioni create dal montaggio, alla straordinaria capacità di mimare il ricordo nel suo scorrere ed espandersi. Quasi fosse una litania profana d’immagini e parole, il film chiede la totale fedeltà di chi guarda, la sua completa disposizione 142 la sera della prima a farsi stimolare i sensi. Questo diventa il film: rappresentazione visiva del ricordare, simulacro della memoria e della polvere che il tempo lascia cadere sui fatti, sulle parole e sui luoghi. Pura esperienza sensoriale. è stato definito un film inaccessibile, eccessivamente colto, con riferimenti manifesti solo a chi conosce l’opera di Proust o di Joyce. è stato avvicinato a Otto e mezzo, 1963, di Federico Fellini e forse il confronto non aiuta nessuno dei due film, opere difficili di due registi che non hanno mai smesso di perdersi in alcuni sentieri dell’esperire umano. Il tempo, senza dubbio, non è stato clemente con Marienbad. Mai adeguatamente divulgato e affidato esclusivamente a passaggi televisivi notturni, mai prima delle due di notte; non consono alle velocità degli stacchi di montaggio e dei movimenti di macchina del cinema e della televisione di oggi, può apparire lento e ridondante. Quest’apparenza è scalfita e infranta non appena ci si lascia andare al suo ritmo, al flusso magmatico delle immagini e si considerano alcuni fattori storici molto importanti. Il montaggio di Colpi e Chasney è un punto di rottura con quanto fatto prima in tutta la storia del cinema: non si può più parlare di stacchi tra sequenze, né di raccordi o di ellissi perché con difficoltà si possono riconoscere nel film episodi separati o indipendenti l’uno dall’altro, momenti vicini o assimilabili.Tutto a Marienbad appare collegato e legato. Tutto è unito, nello stesso modo in cui la memoria non pone vincoli al suo fluire ma prosegue ininterrottamente attraverso i sensi. La massa del ricordo si scioglie lievemente in più punti, lascia passare qualcosa, non fa passare altro. Nessun raccordo, nessuna figura stilistica è conciliante con quella che la precede, nessuna regola basilare del fare cinema è rispettata e questa particolarità avvicina il film alla temperie storica nella quale è, seppur sui generis, collocato. Siamo negli anni della Nouvelle Vague e Resnais è parte attiva e particolare di quell’insieme di cineasti e teorici che hanno reso celebre quegli anni del cinema francese. Un film senza regole stilistiche alle quali obbedire, un regista che cerca di indagare, con la macchina da presa, l’insondabile della mente umana e i suoi tempi misteriosi. Quanto di più impensabile per il “cinema di papà” contro il quali andavano i “giovani turchi” parigini. Lo spettatore oggi ha perso la capacità di abbandonarsi al puro potere dell’immagine. Rapito dall’intreccio narrativo e fin troppo saldo nella volontà di non essere sorpreso alla fine del film, mantiene castamente una posizione di rigidità nei confronti di quanto vede. Ne è prova il fatto che i maggiori successi di queste ultime stagioni sono film nei quali le cose non sono mai ciò che sembrano ma rifrazioni, deviazioni e aspetti parziali di una realtà più ampia e scoperta solo alla fine. Ciò che attrae è, oggi, la possibilità di mettersi alla prova, lo sfidare il film, cercando di anticipare quanto accadrà o gli esiti che gli eventi avranno. L’anno scorso a Marienbad richiede un altro modo di porsi, forse questo sì passato, un altro canone di reazione all’immagine che potrebbe essere utile conoscere, riconquistare. Il film di Resnais deve essere libero di dipanarsi nel sensibile di chi guarda, nel suo lato emozionale e non nell’ambito razionale e logico. L’esperienza di Marienbad è da affidare alla pancia, al flusso e al ritmo. la sera della prima 143 Drag Me To Hell di S am R aimi (USA, 2009) Avvocato del Diavolo in rosa. Per la par condicio. Così come il passaggio da New York a Los Angeles, dallo studio legale agli uffici di una banca. Del resto più che a qualche scandalo politico in tempo di crisi globale, a far scalpore sono mutui, premi d’uscita ai manager, speculazioni e titoli gonfiati come bicipiti al metadone. Ma quella è un’altra Hollywood. Quella delle superproduzioni miliardarie. Drag Me To Hell (Sam Raimi, 2009), presentato fuori concorso nella sezione delle proiezioni di mezzanotte a Cannes, invece è una produzione low budget della Ghost House Picture di proprietà del regista. Tutto fatto in casa: il sapore (sanguinolento) della tradizione, il gusto (macabro) di una volta. Certo non siamo ai livelli di certi splatter che solo Quentin Tarantino e compagni di merende potrebbero venerare, ma il portafogli dei fratelli Raimi era indubbiamente meno gonfio rispetto alla saga di Spiderman. Ed è un bene. Lo zio Sam del terrore ritorna nella soffitta de La Casa (The Evil Dead, 1981) e riapre qualche vecchio baule. Come le migliori storie si tratta di bauli pieni d’oro. Un vecchio racconto scritto con il fratello Ivan nel 1989 durante la lavorazione di Darkman, parte della troupe utilizzata durante le riprese della trilogia de La Casa – il supervisore agli effetti speciali per il make up Greg Nicotero e il direttore della fotografia Peter Deming - , il giusto mix di paura, disgusto e risate, un titolo altisonante che tradisce ben presto il gigione autocompiacimento di un vecchio maestro di genere. Non eccellente, ma decisamente ben architettato. Di genere ma allo stesso tempo d’autore. L’orrore quotidiano di licenziamenti, casse integrazioni, prestiti a tasso variabile viene tradotto in un horror che torna finalmente ad essere un genere politico. È qui che si consuma la grande differenza con il resto della brodaglia horror che infesta sale e televisioni nei mesi estivi. Ed è anche per questo che l’uscita italiana arriva con un imbarazzante ritardo sulla programmazione mondiale. Gli stessi distributori che volevano tradurre il titolo in un più autarchico Trascinami all’inferno, salvo poi rinsavire, hanno preferito distribuire prima l’immancabile cianfrusaglia italiana dal titolo anglofono S.Darko (Chris Fisher, 2009), per ricordarci che «Donnie Darko aveva una sorella». La paura è che i produttori scoprano anche il resto dell’albero genealogico di casa Darko per assicurare una lenta eutanasia ad un cult. Non solo macinato grosso, pajata e bistecche 144 la sera della prima al sangue. Quello di Raimi è un horror intelligente che cavalca l’onda delle produzioni destinate ad adolescenti brufolosi cresciuti con i Piccoli Brividi di R.L. Stine, strizza l’occhio ai seguaci della setta King, di cui tra l’altro riprende e rielabora al femminile il villain gitano di Thinner, da qualche buffetto agli ortodossi del settore. Un horror che nonostante le evidenti allusioni allo sconcertante attuale non rinuncia al retrogusto drive-in tutto popcorn e pepsi. Quindi dentiere che volano, spillatrici usate come arma, bare aperte come ovetti kinder, botte da orbi, gatti sacrificati, santoni indiani, vecchiette che si dopano per armeggiare blocchi di cemento come se fossero pezzi di polistirolo. Le streghe sono tornate. Tremate, ma il clima che si respira in questo morality play di formazione si avvicina più a quello dei racconti dell’orrore di un campo scout che alle favole dei Grimm, più alla collana Haunt Of Fear che ad una riduzione del Necronomicon. Di nuovo c’è ben poco, è tutta roba già vista, già sentita, ma poco importa. Il pudding di casa Raimi è più buono degli altri. Abbiamo la maledizione dello zingaro come nel romanzo di King. Ma in questo caso il ruolo del villain è affidato ad una decrepita megera dell’Est Europa, la signora Ganush (Lorna Raver), entrata a pieno titolo nell’olimpo dei cattivi assieme a Freddy Krueger. Frequentano già lo stesso estetista (notevoli le unghie lignee) e lo stesso dentista. Non manca lo sprovveduto secchioncello di provincia che gioca a fare il duro come in L’avvocato del diavolo (Taylor Hackford, 1997), anche se in gonnella e sotto le candide sembianze della bionda Alison Lohman. E il campionario prosegue con medium e sensitivi, psicologi razionali che si prestano ad essere le vittime designate, demoni cornuti e mazziati.Tutti elementi che erano presenti nei primi film horror targati Universal negli anni della crisi del ’29. Ma 80 anni dopo il copione si ripete. Ad essersi invece liberato dalle ragnatele è il regista che, presa una pausa dalla saga dell’Uomo Ragno, trova il tempo di ricordare anche alle generazioni più giovani che i suoi migliori film non sono quelli dedicati al nerd entomologo. La trama è semplice, quasi banale. Christine Browne (Alison Lohman) è una ragazza di provincia che ha studiato economia sui libri e va nella grande città per far carriera. Una di quelle province dove la massima aspirazione è essere la reginetta del maiale, vincere un prosciutto crudo e un panino con la porchetta insomma. Cresciuta però con le crostate della nonna e le camicette pastellate della zia teresina la giovane si dimostra subito un pesce rosso in una vasca di squali. Così, quando una bavosa vecchietta ungherese dalla dentatura di una contadina colombiana le chiede una proroga sul mutuo della casa, decide di pensare alla carriera e sacrificare un evidente investimento a perdere. Del resto nel solo 2009 in America sono fallite più di 18 banche. Aiutati che il ciel t’aiuta si sarà detta. Peccato che, se il telefono di Dio è sempre spento o momentaneamente irraggiungibile, il call center infernale è sempre pronto a mandare qualcuno dei suoi migliori agenti, come Lamia. Il demone se nell’anno di Woodstock se la faceva con frikkettoni, hippies e contadini messicani, a Pasadena, e aveva tempo da sprecare per punire un marmocchio colpevole di aver rubato una collana ad una zingara, dopo un master in economia della tortura cambia clientela. Nel 2009 è la società bene degli yuppie ad attrarlo. Prima della crisi, ricordiamo, c’è stato il riflusso. Buon viaggio all’inferno. Paradossalmente con un cappotto nuovo di zecca. Rigorosamente azzurro cielo. Il Grande sogno di M ichele P l acido (I talia , 2009) Michele Placido pesca tra i suoi ricordi per questo film o, meglio, così racconta. Non che non si creda al suo passato da questurino nella Roma del'68, è un dato storico certo, ma non si vede sincerità nel suo utilizzo del dato biografico. Nicola, alter-ego di Placido, vive senza nessun trauma o scisma interiore la sua condizione di doppio in un mondo in cui era necessario essere definiti e schierati. Allo stesso modo, alla fine del film, Nicola perde l'amore di Laura, allontanandosi così dall'epilogo più oscuro e crudo delle rivolte cominciate nel 1968: la svolta armata e il terrorismo. La sequenza conclusiva del film racconta, attraverso didascalie, un paradossale happy end nel quale tutti hanno trovato la loro strada, in primis Nicola che è diventato un attore, poi Laura diventata madre e professoressa, i suoi fratelli e, infine, Libero che vive in Francia dal 1972, accusato di terrorismo. Proprio nella soluzione del dramma si evince l'utilizzo del dato biografico a scopi promozionali e di marchio. Astenendosi da ogni giudizio di tipo politico, da ogni possibile scelta di campo, Placido non fa altro che confermare quanto già si sa sul '68 italiano e sull'analisi di questa data. Questo film è storicamen- Luca Colnaghi la sera della prima 145 te inutile e non muove di un millimetro l'opinione in chi già ha scelto, dicotomicamente, da che parte stare: tra il credere che quei giorni furono una rivoluzione dalla portata unica e il credere, invece, che la letteratura al riguardo sia l'unica vera vincitrice di quegli scontri verbali e fisici. Scegliendo di porre il suo dato biografico a garanzia di tutto il narrato, il regista mette insieme dati storici, dati personali e dati di fantasia senza nessun filtro e presuppone che chi guarda non veda nel film una mancata occasione per affrontare il tema storico, il più dibattuto della Storia italiana, ma si accontenti della giovinezza e della freschezza dei protagonisti, dei loro corpi fusi in amplessi libertini e ormai molto poco rivoluzionari. Il regista racconta una storia che ha sullo sfondo la Storia, credendo di poter giocare a nascondino con le implicazioni che Questa ha avuto e ha sulla vita nazionale. Allontanando il suo epigono dai fatti, alla fine del film, con la scelta di Laura di andare con Libero, Placido sembra scusarsi di aver preso parte a quei giorni, vissuti da poliziotto, e si lava le mani dalle scelte compiute dai “compagni che sbagliarono”, dalle P-38 e dalle gambizzazioni. La promozione del film, già da prima della sua presentazione alla 66' Mostra di Venezia, è stata incentrata sull'importanza storica dell'opera, sul valore testimoniale e biografico, sulle prove di tre brillanti attori italiani. Inutile dire che, di questi, l'unico aspetto effettivamente rinvenibile è quello che riguarda la prova degli attori. Meritato è il premio che la Biennale di Venezia ha riservato a Jasmine Trinca, convincente Riccardo Scamarcio che recupera la sua primigenia dizione pugliese, accorato Luca Argentero che, disperatamente alla ricerca di una credibilità cinematografica, interpreta un rivoluzionario più di nome che di fatto. Dialoghi insussistenti vengono, però, incarnati da attori che oltre a essere bravi sono anche molto belli, rendendo, in conclusione, un effetto stridente e di scarsa credibilità. Se Placido vuole significare che i giovani del '68 erano tutti belli non ci riesce, se intende dire che chi era “nel giusto” era bello è tutta un'altra storia che questo film non sostiene e difende per una fondativa mancanza di coraggio. Gli italiani sono pronti a vedere un film in cui, per dirla con Pier Paolo Pasolini, i veri proletari sono i poliziotti di Valle Giulia e non i bei rivoluzionari con eskimo e Vespa, ma forse l'industria culturale mainstream non lo è e continua a favorire rielaborazioni folcloristiche dei fatti più che fedeli racconti delle idee che ad essi portarono. Se 146 la sera della prima di '68 si deve parlare, che lo si faccia in modo coraggioso e sincero, altrimenti si fa inutile e anacronistico andare a dissotterrare eventi e personaggi di un passato non conciliante né assimilato. Aldo Romanelli The Age Of Stupid di F ranny A rmstrong (USA, 2009) The Age Of Stupid, diretto dalla regista britannica Franny Armstrong, è il nuovo film-evento appena uscito – il 22 settembre - nelle sale di oltre 40 paesi. Uno sguardo sul problema climatico dal futuro, per invitare ad agire oggi. Arriva dopo una première a New York, organizzata non a caso in concomitanza con l’avvio degli incontri sul clima al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite di NY e con la Climate Week in New York City, una settimana di azioni a supporto dell’ambiente. La storia del film inizia nel 2055, anno in cui la terra è devastata da una serie di catastrofi ambientali, con l’umanità sull’orlo dell’estinzione, ammassata nel nord del pianeta. In una torre al polo nord l’Archivista, interpretato da Pete Postlethwaite (I soliti sospetti), è custode di un archivio/arca di Noè dove animali, opere d’arte e documenti, sono preservati (per quali posteri, si chiede l’Archivista) come memoria dell’umanità. L’espediente narrativo è la ricostruzione operata dall’archivista tramite un sofisticato software di montaggio – un’astuzia cinefila della regista Armstrong -, che avviene attraverso l’impiego di una serie di spezzoni di filmati (veri documentari girati dalla regista), animazioni (esilarante la satira sul consumismo sottolineata da I can’t get Enough dei Depeche Mode) e documenti d’archivio (la doppia cassa heavy metal sulle immagini della guerra in Iraq è un pugno nello stomaco). Lo scopo dell’Archivista è documentare l’incuranza di un’umanità stupida che, sebbene sapesse, non ha fatto nulla per fermare il disastro climatico. “In ogni epoca abbiamo lasciato il mondo meglio di come lo avevamo trovato. Si chiama progresso. […] Non questa”, commenta l’Archivista, sottolineando la stupidità di quella che il film condanna come l’ideologia sovrana, il consumismo. "Avremmo potuto salvarci, ma non l’abbiamo fatto. Non è incredibile? Cosa avevamo mentre avevamo l’estinzione davanti e ce ne siamo completamente disinteressati?”. Franny Armstrong affida la parte documentale alle voci di sei personaggi, nella parte di se stessi, da tutto il mondo, che raccontano le sfide e i problemi di oggi. Un giovane imprenditore indiano di una compagnia di voli low cost superinquinanti, due orfani iracheni, fuggiaschi da una guerra per il petrolio e riparati ad Amman, l’alpinista ottantaduenne Fernand Parau, che ha assistito durante la sua vita al costante scioglimento dei ghiacciai delle Alpi, il giovane inglese che cerca di costruire impianti eolici con continue opposizioni, la giovane dottoressa nigeriana in una terra insanguinata dalla sete di risorse energetiche, il tecnico petrolifero di New Orleans, sopravvissuto al disastro Katrina, una cui frase da il titolo al film. Il “docu-film-profezia” è un tentativo disperato per svegliare le coscienze e riformulare la semantica della questione del cambiamento climatico. Sembra volerci dire: sta accadendo adesso, e non rimane altro che agire, fare altrimenti è da stupidi. Questa è la sensazione che rimane dopo aver visto The Age Of Stupid, che ha la doppia capacità di preoccupare in maniera salutare e spingere lo spettatore a prendere una posizione, rimboccarsi le maniche e darsi da fare. Rapidamente. Grazie al ritmo incalzante, che trova il suo climax nello spasmo del finale, e a un uso alchemico di flashback, ellissi temporali, tempi e temi musicali, il film riesce a generare un’urgenza quasi fisica in chi lo guarda, corrispondente a quella necessaria di agire sulla questione climatica. Per quello che per noi è una vita – pensiamo al 2050 – per la Terra sono gli ultimi secondi sul baratro, l’istante prima della caduta. Indicato da molti critici come uno dei film più importanti del nostro tempo, The Age Of Stupid ha attirato l’attenzione di personaggi importanti, come Kofi Annan, Gillian Anderson e Thom Yorke dei Radiohead, tutti presenti il 20 settembre alla première a New York. “L'ho visto e mi è rimasto impresso” ha dichiarato Yorke – "specialmente nell'ottica del summit che si terrà a dicembre a Copenhagen e in cui i nostri gloriosi leader decideranno come affrontare i cambiamenti climatici." La band inglese ha chiuso ieri sera con uno show esclusivo l’anteprima newyorkese, trasmessa in diretta satellitare da un tendone completamente alimentato da energia solare. La regista, Franny Armstong, nota al pubblico per il successo McLibel, il documentario censurato sul maxi-processo contro McDonald Corp., ha inoltre voluto che la proiezione in cinema di oltre 40 paesi, incluso il collegamento con l’Arctic Sunrise, la nave di studi artici di Greenpeace, avvenga via satellite per abbattere costi economici ed energetici delle proiezione. Una scelta appropriata visto che l’intero film è stato girato limitando al massimo le emissioni di Co2, tanto che nei titoli di coda è possibile sapere in dettaglio le emissioni totali: i 105 membri della crew hanno consumato quello che 8 cittadini britannici o 4 americani consumano in un solo anno, ovvero le emissioni di 1000 cittadini della Tanzania. Mentre scriviamo la proiezione del film in Italia – distribuito da QMI – è stata confermata al Nuovo Cinema Aquila di Roma, al Politeama di Frascati, al Cineplex Porto Antico a Genova, al Cinecity Mantova, al Medusa di Rozzano (MI), al Nuovo di Abbiate Guazzane (Va), al Tiberio di Rimini e all’Ariston di San Remo. Per ulteriori informazioni fare riferimento al sito ageofstupid.com Emanuele Bompan Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans di W erner H erzog (USA, 2009) Remake: come indica la sua traduzione letterale dall' inglese è il rifacimento di un film esistente. Il remake può essere più o meno fedele all'originale: si può cambiare l'ambientazione, qualche personaggio, si può attualizzare la trama, o cambiarne qualcosa.Tutto ciò, ovviamente, a seconda delle esigenze diverse da quelle del film origila sera della prima 147 nale. Solitamente maggiore è la distanza temporale tra le due pellicole, maggiori sono le differenze(...) (Fonte: Wikipedia) Il cattivo tenente – Ultima chiamata New Orleans, (Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans, 2009), è l'ultimo film- o forse no, vedremo dopo- di Werner Herzog. Atteso come uno degli eventi clou della 66' Mostra del Cinema di Venezia, dove partecipava alla competizione ufficiale, ha suscitato un clamore atteso e voluto, una disanima accorata e partecipata da tutti, o quasi, gli avventori del Lido. Cinefili e “non” sono a conoscenza dell'esistenza di un bellissimo film di Abel Ferrara intitolato Il cattivo tenente (Bad Lieutenant, 1992), con uno straordinario – forse il migliore - Harvey Keitel nei sofferenti panni di un anonimo tenente della polizia di New York, corrotto, tossicomane ed erotomane, che si trova a indagare sullo stupro di una suora. Essi sanno che Abel Ferrara è un regista unico nel suo genere: travagliato e spesso borderline nella vita come nella sua arte, in preda alle stesse frustrazioni che crescono, film dopo film, sempre alla ricerca di una redenzione a perdizioni estreme e con un innato senso religioso di fede viscerale e oscura. Cinefili e un po' meno “non” sanno che 148 la sera della prima Werner Herzog è uno dei più autarchici e geniali registi europei viventi e che ogni suo film costituisce un gradino successivo al film precedente nella ricerca di un linguaggio cinematografico sempre più funzionale all'affermare i valori principali dell'essere umano, al definire la nostra civiltà. Il suo film qui analizzato racconta la storia di un tenente di polizia corrotto e tossicomane che svolge un'indagine su un omicidio multiplo a New Orleans. Qui entra in campo il concetto di fedeltà richiamato dalla definizione precedente: sic stantibus rebus il film di Herzog è un remake, nel più ampio senso suggerito da Wikipedia. Si cambia qualche personaggio, qualche elemento della trama e si ottiene l'esempio più limpido di remake cinematografico. Una piccola eccezione, però, va fatta se il regista del secondo film riesce a elevarsi dal primo, dall'“originale” e creare un film che cammini da solo, che non abbia bisogno di essere riferito al primo, che non senta nessun legame con esso ma riesca a vivere autonomo, sufficiente e bellissimo: è il caso del film di Werner Herzog. Il tenente Terence McDonagh, Nicholas Cage, viene promosso dal grado di sergente per essersi comportato egregiamente durante i terribili momenti dell'uragano Katrina, a New Orleans. Un trauma alla schiena rimediato durante quegli atti lo condanna a dolori costanti e all'utilizzo di potenti analgesici ai quali lui aggiunge la frequentazione di droghe sempre in maggior quantità. Ha una compagna, Frankie Donnenfeld, Eva Mendes, che fa la prostituta d'alto bordo e lo ama, seguendolo lungo il percorso discendente delle sue dipendenze. Tiene in piedi una famiglia disgregata e stantia con un padre e una matrigna alcolizzati. Ha un caso al quale pensare: la strage di un'intera famiglia causata dalla lotta per il controllo del mercato della droga. E poi ha un'ironia innata. Questo è uno degli elementi principali del film di Herzog: si tratta di una commedia estremamente drammatica. Al di là dell'ossimoro volutamente provocatorio, pare evidente che il film racconti il declino mentale e fisico di un uomo al quale le cose improvvisamente vanno male e poi, altrettanto improvvisamente, si sistemano con una velocità e una semplicità paradossale e quindi comica. Il suo perdersi nei meandri della dipendenza e della frequentazione della malavita è raccontato con una forza e un'unicità quasi naif. In alcune sequenze del film pare di trovarsi in Paura e delirio a Las Vegas (Fear and Loathing in Las Vegas, 1998), di Terry Gilliam. Lo stato di alienazione che vive il protagonista è tale da dissociarlo dalla realtà nella quale vive e da spingerlo, in alcuni frangenti del film, in una dimensione allucinatoria e demenziale. Si tratta di due sequenze completamente divergenti dal resto del corpus del film, veri e propri momenti indipendenti. Nel primo caso, durante un'operazione di polizia, all'uscita da un bagno nel quale ha sniffato cocaina, McDonagh raggiunge i suoi colleghi pronti a dare inizio alle operazioni e vede, unico a farlo, due iguane sul tavolo. Alla sua richiesta su chi siano i proprietari dei due animali, i colleghi gli rispondono, ovviamente, che non ci sono animali nella stanza, Improvvisamente una canzone malinconica sale extra-diegeticamente e il primissimo piano dei due animali sembra mostrarli cantare. Il poliziotto, con aria stralunata, li guarda e sorride beato. La sequenza ha una durata rilevante e il pubblico in sala non può fare altro che ridere di gusto. La seconda sequenza da analizzare è quella dello scontro tra i responsabili dell'assassinio multiplo sul quale lavora il tenente e la banda alla quale deve dei soldi. Girata al ralenti, con la colonna sonora di un arpeggio country di armonica a bocca, racconta una sparatoria alla Le iene (Reservoir Dogs, 1992), di Quentin Tarantino, nella polvere di un chilo di cocaina sparso nell'aria, che riempie di nebbia chimica la stanza. Tutto si conclude con McDonagh che, divertito come un bambino, chiede di sparare ancora al capo degli avversari, già morto, perché vede la sua anima danzare. Il controcampo mostra un cadavere affiancato da un ballerino di break dance che, sulle note dell'armonica a bocca, danza forsennatamente. I sicari eseguono, uccidono per la seconda volta il nemico e un'iguana si insinua in primo piano nell'ilarità del protagonista e degli spettatori in sala. Questi due momenti, a Venezia accolti con applausi a scena aperta, ricordano per cifra e lucida follia David Lynch e il suo modo di operare ben lungi da quello di Herzog. Su queste sequenze l'analisi deve farsi più precisa. Werner Herzog partecipava a Venezia con due film, quello qui in analisi e uno a sorpresa, scoperto nel giorno della presentazione pubblica del film con Cage e Mendes. Unico nella storia del festival, il regista tedesco ha presentato due opere, entrambe in concorso, la seconda delle quali è My Son My Son, What Have Ye Done? (id, 2009), prodotto da David Lynch e dalla sua Absurda film. Molti degli attori del film con Cage sono presenti anche in questo, nel quale la partecipazione di Lynch è evidentemente non legata solo all'ambito produttivo ma anche alla direzione di alcune sequenze e dell'andamento generale del film. Si tratta della ricostruzione a flashback dei moventi di un matricidio operato da un aspirante e alienato attore, Mike Shannon che, in Bad Lieutenent: Port of Call New Orleans, interpreta il poliziotto corrotto Mundt. Ecco spiegato il mistero: è evidente che i due registi stanno collaborando e che l'influenza di Lynch, chiara e inalienabile, marchia gli ultimi lavori di Herzog. Bisogna aspettare il prossimo lavoro di Lynch per capire se il favore è stato ricambiato. Nel caso di Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans questo rapporto allontana ancora di più dal film di Ferrara che resta un capolavoro di oscurità e perversione. Ci sono aspetti simili presenti in entrambi i film sul cattivo tenente ma le distinzioni sono macroscopiche e il gioco delle similitudini si fa presto sterile e frivolo. Il film di Herzog è qualcos'altro: un remake per alcuni aspetti; il primo frutto di una storica collaborazione tra geni per altri; un film buono, da ricordare e con un Nicholas Cage da Coppa Volpi, per chi scrive. Aldo Romanelli la sera della prima 149 i cosiddetti contemporanei Musica e Fascismo "Siamo contro alla cosiddetta musica oggettiva che come tale non rappresenterebbe che il suono preso a sè, senza l'espressione viva del soffio animatore che lo crea" (dal manifesto fascista di Toni) “CARO DUCE…”. I COMPOSITORI ITALIANI E IL FASCISMO Il rapporto intercorso tra i musicisti e i regimi totalitari rappresenta uno dei casi più controversi ed estremi di relazione tra l’arte e le istituzioni. In maniere molto diverse fra loro, tutte le dittature del XX secolo hanno perseguito lo stesso fine rispetto alla creatività, assoggettandola all’ideologia. Insita nel senso stesso delle politiche totalitarie, l’interferenza dello Stato in tutti i settori della società si manifestò anche nel campo delle arti. Seppure in contesti completamente distinti, sia nell’Unione Sovietica staliniana, sia nei regimi di ispirazione fascista come l’Italia e la Germania, venne imposto un consenso incondizionato alla cultura dominante. Ciò determinò la mortificazione di qualsiasi espressione radicale e dissidente, provocando, negli anni tra il Primo e il Secondo Dopoguerra, una frattura netta e incolmabile tra il neoclassicismo di regime e le avanguardie storiche europee. Il Paese ad aver infierito maggiormente sulle tendenze moderniste è stato senz’altro la Germania nazista. Le politiche antisemite e razziste sulle quali poggiava il potere di Hitler, costrinsero all’esilio tutti gli artisti di origine ebraica, allontanando dalla cultura tedesca grandi menti musicali del calibro di Arnold Schoenberg e Kurt Weill. Di fatto, a parte il servile adulatore Carl Orff, il trasformista Von Karajan (affrettatosi a tesserarsi sia al partito austriaco che a quello tedesco) e l’ormai vecchio Richard Strauss, la Germania degli anni Trenta ha regalato alla storia forse soltanto il genio 150 contemporanei di Furtwaengler, il cui nome spicca tra i più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi. In Italia, nel corso del Ventennio fascista, le cose andarono leggermente meglio. Qualche buon compositore, riconosciuto a livello internazionale, l’Italia di Mussolini lo ha prodotto, ma quanto ad innovazioni stilistiche non ci si può certo entusiasmare. Mentre nel resto d’Europa (e, in seguito alla migrazione degli artisti tedeschi, negli Stati Uniti) la musica usciva dalle gabbie ormai arrugginite del Tardo Romanticismo annunciando a viva voce la morte del sistema tonale, i musicisti italiani si guardavano indietro. Scemato il vento innovatore del futurismo, scomparvero presto dalla scena musicale italiana due personaggi radicali, i quali, pur avendo aderito al fascismo, non proseguiranno, durante il Ventennio, nei loro esperimenti. Luigi Russolo, infatti, lasciò cadere nel vuoto le sue invenzioni rumoriste (che pure avevano riscosso l’interesse di Varèse) per dedicarsi a tempo pieno alla pittura, mentre Francesco Balilla Pratella lasciò più spazio alle sue ricerche etnomusicologiche che alla composizione musicale. I due compositori futuristi rappresentano l’ultimo baluardo dell’avanguardia italiana, sparita quasi del tutto durante tutto il fascismo. Al tempo della Marcia su Roma, la vita musicale italiana viveva ancora di ciò che restava del melodramma verista di fine secolo.I punti di riferimento erano ancora Puccini e Mascagni, entrambi vecchi (nati rispettivamente nel 1958 e nel 1963) e famosi. Ma mentre il primo, negli anni ’20 dava l’ennesima dimostrazione della sua viva creatività, scrivendo Turandot, l’autore della Cavalleria Rusticana campava di rendita ormai quasi da vent’anni. Diverso è stato anche l’atteggiamento dei due compositori nei confronti del fascismo. Pur essendo un conservatore affascinato dall’autoritarismo di Bismarck, Puccini ha soltanto sfiorato la dittatura del Ventennio (muore nel ’24), mentre Mascagni, subito dopo la presa di potere di Mussolini, dimostrò una capacità trasformista senza precedenti. Definito dalla destra un “socialista per stupidità”, il compositore livornese, più che prendere posizioni convinte, si è sempre rivelato un opportunista, abile a cambiare bandiera ogni qualvolta lo ritenesse necessario. Tanto che, divenuto uno dei più sfacciati adulatori del Duce, riuscì ad ottenere posizioni di potere e importanti riconoscimenti, pur non avendo composto una sola opera degna del suo passato glorioso, fermo al 1890. LA “GENERAZIONE DELL’OTTANTA” Morti o ridotti a inoffensivi cimeli storici, i compositori della generazione precedente all’avvento del fascismo (Puccini, Mascagni, Cilea e Giordano), toccò alla nuova generazione, quella dei nati negli anni ’80 dell’ Ottocento, rappresentare la “grandezza” di un’Italia che si preparava a scomodi paragoni con l’Impero romano. I compositori appartenenti alla cosiddetta “generazione dell’Ottanta” sono quelli che incarnano meglio la musica di quegli anni perché più direttamente sono stati coinvolti nei cambiamenti dell’Italia fascista: “La creazione di uno stile moderno nostro è stato il problema assillante della mia generazione. Quando questa generazione cominciò a pensare, l’unica musica tipicamente italiana era quella operistica ottocentesca e verista piccolo borghese. Urgeva dunque scuotere a tutti i costi questa idea angusta e antistorica e ricondurre i musicisti prima e le masse più tardi a pensare che ben altre, più profonde, più varie erano le fondamenta della nostra musica”. Le parole di Alfredo Casella, il più attivo sostenitore delle idee fasciste, sintetizzano bene lo scopo che si prefiggevano questi musicisti: “sprovincializzare” la musica italiana guardando alla tradizione dei “classici” come all’unica soluzione possibile per il superamento del melodramma verista. Tradotto in termini pratici, attingere al glorioso passato come unica strategia possibile per affrancarsi dalla scomoda tradizione pucciniana. Mossi da una forte spinta ideologica, questi ten- alfredo casell a tativi di dare vita ad un nuovo “rinascimento” fondato sul concetto di classicità, aderirono perfettamente al populismo mussoliniano. Come per artisti del calibro di Tommaso Marinetti, Gabriele D’Annunzio e Luigi Pirandello, anche per i musicisti, l’adesione al fascismo si divise sostanzialmente tra due ragioni fondamentali: la convinzione nell’ideologia e la necessità di sopravvivere. Ma nella maggior parte dei casi queste due ragioni comparivano insieme, essendo difficilmente separabili l’una dall’altra. In un regime totalitario, infatti, la sopravvivenza non può che essere garantita dall’adesione alle regole e alle idee dettate dal potere. Al di là del diverso rapporto con le autorità fasciste, tutti i compositori della “generazione dell’Ottanta” a modo loro hanno cercato di esaltare gli ideali fascisti e la figura di Mussolini, ottenendone le sperate ricompense, tra cui l’ambita nomina all’Accademia d’Italia. Il neoclassicismo italiano non è certo paragonabile a quello stravinskiano, che si proponeva l’arduo compito di tradurre nel linguaggio moderno gli stili di autori classici come Pergolesi (Pulcinella), né a quello elaborato negli stessi anni da Prokofiev in Russia. Non sarebbe giusto, in ogni caso, liquidare le opere di Pizzetti, Casella, Respighi e Malipiero semplicemente bollandocontemporanei 151 le come l’espressione più conservatrice della musica europea tra le due Guerre. Soprattutto nelle opere di Alfredo Casella, il più cosmopolita di formazione (studia a Parigi), il linguaggio modernista non rimane estraneo all’operazione di recupero della tradizione, sia classica, sia folklorica. “Il neoclassicismo e il folklorismo caselliani […] non hanno un carattere nostalgico e oblivioso –come sostiene Gianfranco Vinay- ma estroverso, aggressivo, imperativo: l’immagine diatonica della classicità è integrata dal sentimento di una salute e di un’esuberanza vitale impresse da una luminosità solare e mediterranea”. Lo stesso vale per Ottorino Respighi, che attinge a piene mani dal repertorio sei-settecentesco in un misto di lessico moderno e sonorità arcaiche. Già noto prima del 1923, Respighi durante il Ventennio non fece altro che conservare la propria posizione senza compromettersi troppo con il regime, pur accettandone i favori. Era l’unico compositore dell’epoca il cui nome circolava regolarmente all’estero, a testimonianza di un forte isolamento della musica italiana fuori dalle mura domestiche. La sua trilogia di poemi sinfonici dedicata a Roma (Le Fontane Di Roma (1916), I Pini Di Roma (1924) e Feste Romane (1929)) sopravvive ancora nei repertori sinfonici delle orchestre europee. Questo successo, misto ad un na152 contemporanei ildebrando pizzetti turale accademismo di maniera, gli valse la stima di Mussolini e la relativa tranquillità in Patria. VERSO LA “NUOVA MUSICA” Una partecipazione più attiva non solo alla vita, ma anche agli ideali dell’Italia fascista, contraddistingue invece Pizzetti e Malipiero. Rivali accaniti per la successione di Respighi alla direzione di Santa Cecilia (assegnata poi al primo, più quotato all’epoca), i due musicisti sono il classico esempio di vita quotidia- na durante il regime. La loro è una partecipazione dettata dalle circostanze, contraddittoria e probabilmente neanche troppo convinta. Eppure, entrambi non misero mai in discussione la propria adesione al fascismo, neanche all’epoca delle leggi razziali. Una fiducia incondizionata non sempre ripagata con la stessa moneta. La Favola del Figlio Cambiato (1934) di Malipiero, su testo di Pirandello, fu bloccata dalla censura per un banale riferimento alle parole “Giustizia e Libertà”, secondo Mussolini un accostamento troppo diretto al maggiore movimento di opposizione alla sua dittatura. Una storia simile a quella della Lady Macbeth di Shostakovich, abbattuta dalla scure zdanoviana perché poco ortodossa. Mentre il neoclassicismo di Pizzetti scava nel canto gregoriano e nella vocalità del Cinquecento, il barocco è il punto di partenza della musica di Malipiero, il cui Torneo Notturno (1929) rappresenta l’opera teatrale più nota. In una posizione un po’ defilata rispetto alla “generazione degli Ottanta” si trova il napoletano Franco Alfano, ricordato più che per le sue composizioni, per aver avuto l’onore di terminare l’ultimo atto di Turandot, lasciato incompiuto alla morte di Puccini. L’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, mette in crisi gli ideali del fascismo, minando i suoi consensi. In campo culturale comincia una transizione che culminerà nella riapertura degli orizzonti europei. Per la generazione di musicisti nati alle soglie del Novecento, che pure aveva vissuto la fase di maggiore salute del regime, la fine dell’autarchia coincide con una sorta di “riapertura delle frontiere” musicali. Il graduale avvicinamento alla dodecafonia e ad un linguaggio più astratto di compositori come Ghedini, Dallapiccola e Petrassi rappresenta una fase di transazione verso le avanguardie post-belliche, in cui l’abbandono del neoclassicismo si compie attraverso la dissoluzione del diatonismo. Emblematica, in questo senso, la trasformazione stilistica di Goffredo Petrassi nel decennio tra il ottorino respighi 1940 e il 1950. Se, infatti, il Magnificat (1940) utilizza una scrittura nettamente diatonica, il celebre Coro dei Morti composto l’anno dopo e tratto dalle Operette Morali di Leopardi, segna già la svolta verso un maggior interesse timbrico e una scrittura tendente alla “corrosione dei legami con la tradizione” (Vinay), culminati in Noche Oscura (1950-51). Dietro l’angolo, però, ci sono già i giovani che scalpitano. Ragazzi nati in piena epoca fascista, ma che non ne hanno subito l’influenza, impregnandosi degli ideali opposti. I vari Maderna, Berio, Nono, rappresentano l’Italia della “nuova musica”. Un’Italia ritornata alleata della Germania, ma per tutt’altri scopi. A Darmstadt non ci si incontra per pianificare strategie belliche o “soluzioni finali”, ma per provare a cancellare il passato attraverso la musica, dando vita a nuovi linguaggi. L’unico rimedio possibile per superare la tragedia nazifascista sarà, infatti, distruggere per ricostruire. Daniele Follero contemporanei 153 www.sentireascoltare.com