Chi è Tucidide? La vera "questione tucididea": la Schuldfrage Ritratto di Tucidide Chi è Tucidide? Il bravo generale punito da Ateniesi esasperati e folli? Oppure un uomo che mente e sapientemente occulta le proprie responsabilità? In Tucidide. La menzogna, la colpa, l'esilio del 2016 Luciano Canfora attacca la leggenda tucididea per ricostruire la vera figura e la vera sorte che toccò al padre della storiografia, così come oggi la conosciamo. Qui di seguito un breve estratto dal libro. "Ci sono due «questioni tucididee». 1. La prima, ancora oggi molto frequentata dagli studiosi, fu impostata sin dal 1846 da Franz Wolfgang Ullrich, ma a ben vedere era già presente ai critici antichi (a Dionigi, Su Tucidide, alle fonti di Marcellino, Vita, 47). Riguarda la individuazione delle fasi compositive degli otto libri nei quali è racchiuso il racconto tucidideo della lunghissima guerra. Problema affascinante ma non passibile di risoluzioni davvero conclusive, beninteso «senza misconoscere l’utilità – scrisse, nei tardi anni Sessanta, Giovanni Pugliese Carratelli – di tante ricerche» e della «cospicua serie di divergenti saggi sulle fasi e i gradi della redazione e sui tempi della pubblicazione». Che peraltro sia da ipotizzare una prima stesura in abbozzi e poi una riscrittura che comportava aggiunte e aggiornamenti (ciò che, tutto sommato, pensavano già le fonti di Marcellino), e che il manoscritto d’autore dovesse perciò di necessità avere forma di «schede» – tali da poter recepire inserzioni, sostituzioni, spostamenti etc. – è più che ovvio. Ma è proprio un tale (necessario) modo di lavorare che di per sé offusca i cosiddetti «indizi interni». Invece il tipo di analisi della ‘composizione’ dell’opera tucididea che può dare frutti è quello mirante a riconoscere, nei limiti del possibile, i diversi gradi di elaborazione («l’annotare» e l’«abbellire» diceva ingenuamente Marcellino). E anche su questo piano, ammonisce Pugliese, non può escludersi che un autore consideri «insignificanti» alcune incongruenze, «come [accade] in tante opere che i loro autori [anche moderni] hanno licenziato come compiute». Comunque è indiscutibile che i libri sulla guerra tra Atene e Siracusa rivelino una compiutezza che sentiamo fortemente carente ad esempio nella gran parte del quinto libro. Fallace può invece rivelarsi lo scavo mirante a individuare le parti scritte prima e quelle scritte dopo, assumendo, per esempio, come indicatore i «riferimenti al 404». In tal caso l’errore è di datare ‘in blocco’ un’intera ‘parte’ o un libro in base all’acclarata datazione di una singola pagina. Ciò che non andrebbe mai perso di vista è che gli ‘strati’ compositivi attraversano o possono attraversare tutte le ‘parti’. 2. Esiste però anche un’altra – più scomoda e secondo taluni obsoleta – «questione tucididea». Ed è quella che, con terminologia divenuta poi usuale nel secolo XX per eventi di portata mondiale, è stata chiamata la Schuldfrage (= "questione della colpa") tucididea. Se considerata col necessario tasso di buon senso, essa, a sua volta, riapre la questione ‘esilio’. Come si giustificava quella pesantissima condanna in rapporto alla condotta di Tucidide come stratego? O Tucidide, nel raccontare ciò che fece in Tracia come stratego, nasconde le sue vere responsabilità? La sua condotta fu dunque davvero unschuldig («incolpevole») come risulterebbe dal suo racconto? E in tal caso dovremmo ripiegare sulla stereotipa soluzione «Cleone cattivissimo e assemblea popolare assatanata contro un innocente»? (Una risposta la cui larga diffusione si spiega con la clichettistica visione della realtà ateniese di quegli anni, nonostante l’isolato, ma sensato ammonimento di Eduard Schwartz: «Atene era uno Stato di diritto»). O invece colpa (Schuld) ci fu, e la reazione cleoniano-popolare assurge a reazione comprensibile, anzi al fondo encomiabile, per lo meno agli occhi dei «classicisti democratici»? Chi si è accanito a cercare di disvelare e stabilire la «colpa» di Tucidide stratego, lo ha fatto perché, in sostanza, riteneva inverosimile che egli fosse stato condannato a fronte dei comportamenti suoi descritti in IV, 104-107. (E perciò era portato a concludere che Tucidide non fosse stato veritiero). Chi, invece, difende l’‘onore’ di Tucidide come storico veritiero, ha ripiegato sulla soluzione apparentemente più ‘comoda’: che cioè la condanna fosse dovuta alla congiunta sfrenatezza antiplutocratica di Cleone (promosso a «padrone della situazione») e alla leggerezza quasi irresponsabile del «popolo di Atene». È quasi superfluo soggiungere che affrontare questa seconda – e non irrilevante – «questione tucididea» investe anche problemi relativi alla prima «questione»: giacché i tempi e i modi della composizione (e, prima ancora, della raccolta dei dati, delle testimonianze e dei documenti) sono in stretto rapporto con la condizione materiale e ambientale in cui il lavoro si esplicò. E ognun vede che la soluzione, in senso o in un altro, della «Schuldfrage» comporta anche qualche conseguenza per quanto attiene alla affidabilità stessa del racconto tucidideo, in generale. Luciano Canfora, Tucidide “Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio” di Luciano Canfora Se ben contestualizzata, col suffragio di uno sguardo sinottico sull’intera produzione di Luciano Canfora, quest’ultima opera (Tucidide, la menzogna, la colpa, l’esilio, Laterza 2016) altro non risulterà al lettore che un vero e proprio sforzo di sintesi d’un incessante lavorio oramai cinquantennale attorno alla storia antica (in particolare dell’Atene democratica d’età classica), alla guerra del Peloponneso e alla storiografia tucididea. Enormi gli sforzi profusi dall’autore sull’argomento, tra articoli e volumi. Fatti salvi nella nostra recensione gli articoli comparsi su rivista, il primo volume che Canfora dedicò a questa tematica reca titolo Tucidide continuato, data 1970. Proseguendo attraverso alcune ricerche (sempre negli anni ’70) sui meccanismi di selezione del patrimonio documentario e ricezione dei dati storiografici (Teorie e tecniche della storiografia classica, 1972) e numerose opere di curatèle, gli interessi dello studioso, noto per la compenetrazione di acute competenze filologiche e precisa dottrina storica, si sono quindi concentrati tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 sulla “figura storica” di Tucidide (Tucidide, l’oligarca imperfetto, 1988) e su un’opera di commento nei confronti del più vessato e studiato dei passi tucididei: il dialogo tra Melî e Ateniesi (culminato in due curatèle, per i tipi di Marsilio e Laterza). Segue il fondamentale Il mistero Tucidide del 1999, in cui Canfora si diverte a indagare sotto la superficie della convenzione, scoprendo così un'altra vita di Tucidide, grazie soprattutto a un testimone di prim'ordine: Aristotele (cfr. oltre). L’opera in esame, Tucidide. La menzogna, la colpa, l’esilio, si configura come libro “risolutivo” sulla questione tucididea per due ragioni, tra loro interconnesse. Nel volume, in primo luogo, riaffiorano – nell’impostazione, nello svolgimento e nelle conclusioni – tante delle tematiche di ricerca di Canfora. Su tutte, oltre a quelle già citate, un elemento di metodo: la tradizione, intesa come convergenza dei dati tràditi – dunque selezionati, altro non è che quello che si è voluto vedere nel corso della storia. Suscettibile a modifiche, cambiamenti di prospettiva, meccanismi di selezione. Ma sopra ogni cosa, pronta ad essere smentita. Il secondo pilastro su cui poggia il lavoro di Canfora consiste, certamente, nel riportare alla luce una indagine sul Tucidide uomo; in particolare, sul Tucidide uomo politico e stratega. Se la storia è “solo contemporanea”, come Tucidide afferma in premessa, ecco che anche lo storico sarà uomo contemporaneo del suo tempo; e se il suo tempo è l’Atene del V secolo e l’uomo che scrive è membro della classe dirigente ateniese, ecco che quell’uomo sarà intimamente, per vocazione o necessità, politico. La prima e fondamentale questione si risolve tracciando un ritratto completo di Tucidide. Figlio di Oloro II, nell’ultimo quarto del V secolo a.C. egli altro non è che un ricco e potente signore di una altrettanto ricca e potente famiglia ateniese, quella dei Philaìdai. Tra gli avi più recenti annoverava Cimone II. Necessariamente nemici di Pericle, ma prima di tutto necessariamente politici. In tal senso si connota l’impegno storiografico tucidideo. Lo storico, paradossalmente ma non troppo, è “un politico intento a capire le dinamiche, i meccanismi concreti della politica”1 che scrive per “coloro che vorranno vedere chiaro nell’imminenza dell’azione”2. Sotto questa luce assume un senso nuovo la “lucidità” – se così la si può definire – dell’analisi tucididea di alcune questioni interne alla democrazia ateniese. Solo considerando Tucidide uno storico “militante” si potrà finalmente considerare uno dei suoi più grandi capitoli (II, 65) per quello che è: una spietata analisi dei meccanismi della democrazia in Atene (od oligarchia della massa, per riprendere un concetto caro a Canfora): quasi a parlarci fosse Gustav Le Bon [celebre psicologo delle masse], azzarda lo studioso (p. 20). 1 2 Canfora 2016, p. 17. Tucidide, I, 22, 4 (dai famosi “capitoli sul metodo”). Il libro non tarda ad entrare nello specifico dei particolari dirimenti nella biografia di Tucidide. Due sono le questioni che maggiormente hanno afflitto biografi e studiosi tucididei. Canfora propone una risoluzione definitiva con una intuizione a prima vista banale, ma certamente essenziale ad una lineare comprensione del problema. 1. La prima problematica – discussa oramai da secoli – riguarda il presunto possesso di alcune miniere di Tucidide a Skaptè Hyle, in Tracia. Ed è proprio questo “possesso” si deve, filologicamente, fare grande attenzione proprio alle parole, di Tucidide, dei suoi contemporanei e dei suoi studiosi - a divenire tema fondamentale, come vedremo, se legato alla questione dell’esilio. Chiarito con un excursus di natura cronologica lo sviluppo della vicenda dell’adesione dell’isola di Taso alla Lega delio-attica (detentrice del possesso e dell’usufrutto delle miniere sino al 463/2) e del seguente conflitto, Canfora risolve come problema di ghènos la destinazione allo storico ateniese delle miniere (p. 34 e seguenti). Comprendere se Tucidide “possedesse” quelle miniere (o il loro usufrutto) – e soprattutto da quando, per quanto – è tema cruciale per capire se il soggiorno tucidideo in quei luoghi sia stato, o meno, un esilio. Avviene a questo punto del testo, tra i capitoli III e IV, un interessante sfondamento in alcune dinamiche dell’economia antica, la quale - come ogni studioso d’antichità ben sa - basa buona parte del suo funzionamento sul commercio di schiavi e sull’andamento delle guerre3. Riprendendo alcuni argomenti reperibili in un testo tardo ottocentesco di August Böckh4, il quale tentò di giustificare il ventennale esilio di Tucidide a Skaptè Hyle tramite la proprietà tucididea della suddetta miniera (ragionamento logico: l’esiliato, fuori da Atene, si sarebbe evidentemente recato in un luogo “franco”, di sua proprietà), Canfora ribalta la situazione. A suffragare la sua tesi un dato economico, conservato nel Corpus Inscriptionum Graecarum, la presenza di un costante flusso di “entrate annuali” di φθοίδες (lingotti d’oro, ovvero i contributi in forma di tasse che ogni città subordinata doveva ad Atene) tra il 411 e il 409: dalle miniere di presunta proprietà di Tucidide dirette ad Atene, negli anni in cui Tucidide doveva essere lì esiliato. Prova evidente che non ci fu esilio, ma che, al contrario, Tucidide era legittimo detentore della cosiddetta ἐργασία delle miniere (possesso della lavorazione, non delle miniere: tecnicamente dunque usufrutto, non proprietà!), che giuridicamente facevano del tutto parte del dominio ateniese. Cade sotto i colpi dell’evidenza l’ipotesi, suffragata da molti nel corso di decenni di studio, di un ateniese in esilio… in territorio ateniese (!). Altra prova vòlta a scalfire la leggenda dell’esilio viene addotta tramite la riabilitazione di una impresa tucididea, più volte ridotta nella sua capitale importanza da storici e filologi. Come ben sappiamo da Tucidide in primo luogo, l’anno 424 fu un anno particolarmente intenso (e militarmente negativo) per la città d’Atene. Nella fattispecie, la vicenda che interessa particolarmente Canfora (e che ci aiuta nella sistemazione della questione “esilio”) si riferisce ad una scorribanda di Brasida, colui che ha trasformato la guerra di Sparta contro Atene in una guerra moderna, “lasciandosi alle spalle il rituale […] delle incursioni stagionali”5, in Tracia, tra Anfipoli ed Eione, luoghi fondamentali, forieri di risorse e legno6. Per la storia dell’economia greca si veda Migeotte, L’economia delle città greche: dall’età arcaica all’Alto Impero romano, Roma, Carocci, 2003. 4 A. Böckh, Die Staatshaushaltung der Athener, vol. I Reimer, Berlin, prima ed. 1817, p. 381. 5 Canfora 2016, p. 87. 6 IV, 108. 3 A quel tempo, Tucidide condivideva assieme ad Eukles (φύλαξ già da tempo in Anfipoli) il ruolo di stratego ateniese, di stanza ad Eione. Un fraintendimento storiografico vorrebbe un Tucidide “inetto” - pertanto “processato” (come? quando?) ed esiliato - di fronte alla conquista spartana di Anfipoli. Tutt’altro: con ragionamento da fine generale, ben conscio dei fisiologici automatismi bellici (in primis le defezioni “a catena” dovute alle ingannevoli promesse spartane, p. 89), Tucidide decide di lasciare al suo destino Anfipoli e difendere la vicina ed essenziale piazzaforte di Eione: fondamentale, rifacendoci a Gomme7, per il mantenimento di una posizione di vantaggio in quella zona strategica. Tucidide, insomma, secondo la leggenda sarebbe stato processato ed esiliato “a causa” di un successo fondamentale in una situazione di totale disfatta ateniese! In questo senso si inserisce una interessante polemica tra Canfora e la diffusa tendenza americana della new history. Prendendo in esame nella fattispecie un passo della monumentale opera di Donald Kagan (padre di Robert Kagan, anch’egli storico e intellettuale di punta del movimento “neocons” americano) Canfora smentisce la surreale ipotesi di un Tucidide salvatore di Eione e punito “per alto tradimento” per non aver salvato quello che non poteva salvare (Anfipoli) e, di concerto, la tesi di un rimaneggiamento tucidideo dell’evidenza storica. Frattanto, piccate le sue repliche alla tendenza “giornalistica” dei “wasp”: “non temono il ridicolo”8. Ci addentriamo nella parte centrale del volume – in cui Canfora si dedica ad una serie di problematiche di natura segnatamente filologica, ancorché legate inscindibilmente a questioni di ordine storico (già oggetto di diversi suoi studi, come si è notato in incipit). Il settimo capitolo è dedicato alla doppia “questione tucididea”. Dopo un accenno al problema dei diversi strati compositivi dell’opera tucididea (si tornerà puntualmente in seguito sul tema), l’autore si dedica alla questione della cosiddetta Schuldfrage, intrinsecamente legata al presunto esilio dello storico. Con una puntuale recensione delle opposte risposte date al tema. Se effettivamente Tucidide fu oggetto di un processo, egli fu esiliato “ingiustamente” (dunque incolpevole: si aprirebbe il varco alle pacate e pensanti teorie di Jacoby e Schmid di un ipotetico auto-esilio, o allontanamento volontario, citate poco sopra) o, se colpevole, di quale colpa e tramite quale processo? Tramite un incalzante rosario di prove di ordine vario, Canfora viene a negare la possibilità di una condanna a morte conseguente ad un processo. Tra le tante motivazioni addotte a questa teoria, emerge (pp. 138-139) una rilettura di un verso delle Vespe di Aristofane (del febbraio 422), nel quale il cenno ad un processo di Tucidide è evidentemente riferito a Tucidide di Melesia, l'avversario di Pericle, e non certamente al nostro, di Oloro. 2. La seconda metà del libro è la sigla conclusiva sul più contraddittorio ed eclatante dei temi di ricerca di Luciano Canfora: l’avvicendamento tra Tucidide e un “secondo redattore” della Guerra del Peloponneso. Redattore che, a detta di Canfora, ha un nome ben chiaro: Senofonte. Il continuatore della vicenda tucididea, che si interrompe laddove iniziano le Elleniche (a firma Senofonte) viene smascherato definitivamente proprio da un passo del cosiddetto “secondo proemio” - che Canfora non teme a definire “collage” di stilemi tucididei da parte di Senofonte, editore e continuatore dell’opera. Accogliendo una “Se Tucidide non avesse salvato Eione, Cleone non avrebbe potuto nemmeno intraprendere la campagna per recuperare Anfipoli”, in Gomme-Andrews-Dover, A Historical Commentary on Thucydides, vol. III, Clarendon press, Oxford, p. 579. 8 P. 97. 7 lectio difficilior tràdita da un ramo minore della tradizione testuale, che vedrebbe ἀμφίπολιν come aggettivo e non come nome di città, l’interpretazione del passo è ribaltata: alla luce di due versi delle Coefore di Eschilo, ove ἀμφίπολις è “ciò che avvolge in senso ostile la città”, l’allusione qui è chiaramente alla guerra civile ateniese, e non alla spedizione tucididea contro Anfipoli. Guerra civile a seguito della quale Senofonte fu esiliato9: non altri. Tutta l’ultima parte del libro è dedicata alla ricezione del testo tucidideo. Tramite una attenta analisi delle tradizioni esegetiche - già in linea con quel critico scandaglio che accompagna tutto il libro e già tutta l’esperienza dello studioso - si viene a ricostruire la lunga storia della storia. Con l’attenzione al dettaglio a cui già Luciano Canfora ci aveva abituato, e al contempo con la matura consapevolezza che sono proprio i dettagli, in filologia, a ricostruire la storia, la lettura termina su un’impegnativa serie di appendici d’approfondimento ad alcune delle questioni più interessanti trattate nel libro. Un libro che ha il sapore di definitivo, ma che indubbiamente indica con chiarezza rotte sempre nuove agli studiosi di storia e storiografia classica. Recensione di Federico Diamanti. 9 P. 215 e seguenti. Luciano Canfora, Il mistero Tucidide In quest'opera del 1999 Luciano Canfora si diverte a grattare la superficie della convenzione, scoprendo così un'altra vita di Tucidide, grazie soprattutto a un testimone di prim'ordine: quell'Aristotele "maestro di color che sanno" che del nostro personaggio sapeva parecchie cose. "E' come scoprire un tempio pagano sotto una cattedrale", dice l'antichista del suo lavoro. "Sono risalito indietro rispetto alla biografia e all'opera di Tucidide quali ci sono state tramandate dai grammatici alessandrini. Arrivando così ad Aristotele e ai suoi scolari: perché dimenticarcene, visto che abbiamo la possibilità di interrogarli? Prima di Alessandria, c'è Atene: è valsa la pena di andare a vedere". Il risultato è un racconto appassionante, costruito secondo le leggi della suspense. I lingotti d'oro di Skaptè Hyle, la testimonianza di Demetrio, la coltissima corte del macedone Archelao: gli ultimi anni del secolo d' oro - il V avanti Cristo - si srotolano con il passo di una detective story, tanto da creare impreviste attese nel lettore contemporaneo ("Ma Teopompo che diceva?", ci si ritrova a domandare tra un capitoletto e l'altro). Professor Canfora, qual è stato il primo indizio? Che cosa l' ha indotta a rivedere la biografia di Tucidide? "Non mi ha mai convinto quell'incipit di Senofonte nelle Elleniche: "Dopo ciò...", dove "ciò" indica gli avvenimenti narrati negli ultimi capitoli de La guerra del Peloponneso di Tucidide. Un esordio brusco e oscuro che non è sostenibile come esordio autonomo". E allora? "E' lecito supporre che la cesura che i grammatici alessandrini operarono tra l'opera di Tucidide, La guerra del Peloponneso, e l'opera di Senofonte, le Elleniche - opere che erano state a lungo unite - fosse una cesura arbitraria. Con la conseguenza di attribuire a Tucidide ciò che era di Senofonte". Si riferisce a un passo in particolare? "Sì, là dove Tucidide dice: "Ho vissuto questa guerra dall'inizio alla fine... Mi è inoltre accaduto di essere mandato in esilio per vent'anni dopo la mia strategia..."". Un falso? "No, un cattivo assemblaggio. L'esule che scrive queste righe era in realtà Senofonte". Che cosa cambia? "Non poco. Sulla base di questo brano, ad Alessandria si rese necessaria l'invenzione di una biografia di Tucidide costretto a un esilio ventennale. Ne scaturì una vita completamente diversa da quella che Aristotele conosceva e che si può ritenere ben fondata". Ma che cosa sapeva Aristotele? "Moltissime cose, ma a questo proposito vorrei aprire una parentesi. Il mistero Tucidide nasce da una serie di lezioni che tenni qualche anno fa all'École des Hautes Études di Parigi. Quando proposi al mio editore francese Desjonquères il titolo Quel che Aristotele sapeva di Tucidide, ricevetti in cambio una smorfia di disgusto. In realtà il succo sta tutto qui". E cioè? "Per ragioni familiari e personali, Aristotele aveva accesso alla documentazione storica del regno di Archelao, il sovrano macedone amico degli elleni. Fu così che egli e i suoi allievi conobbero una vita di Tucidide diversa da quella che ci è stata tramandata. In poche parole? Tucidide era ad Atene nel 411 a.C., quando ci fu la rivoluzione oligarchica che rovesciò la democrazia. In seguito si è ritirato nei suoi domini e di lì è entrato in rapporto con la corte di Pella e con il milieu ateniese raccoltosi intorno ad Archelao. E' morto alquanto tempo dopo Archelao, scomparso nel 399". Questi dati biografici aggiungono qualcosa al suo personaggio? "Altroché: si riabilita il Tucidide storico! In realtà questo mio accanimento sulla sua vera biografia - che dura da circa trent'anni - ha una motivazione ben precisa: non potevo rassegnarmi alla curiosa circostanza che a colui che è il grandissimo storico delle cose viste facciamo raccontare cose non viste. Prendiamo il colpo di Stato del 411 ad Atene: se Tucidide era in esilio in Tracia, siamo costretti a pensare che la sua cronaca dettagliata di quei fatti fosse in realtà di seconda mano. Le pare che uno come Tucidide si faceva raccontare le cose per telefono?" Dalla sua ricostruzione viene fuori che Tucidide era molto vicino ai cospiratori. Questo non contrasta con la sua immagine di storico rigoroso e obiettivo? "Sicuramente le sue simpatie politiche e intellettuali andavano a chi ha tentato di abbattere la democrazia. Ciò però non gli impedisce di esprimere riserve su questo tentativo. L' oggettività come distanza siderale dagli eventi è pura illusione. Tranne le epigrafi rupestri dei re persiani, non esiste una storiografia oggettiva. A dirla tutta, la storiografia è il massimo della falsità!". Il fatto che sia stata a lungo manipolata la vita stessa del suo padre supremo può essere il simbolo di questa precarietà... "Certamente è un caso limite: il legislatore della storia - così lo chiamava Luciano di Samosata - vittima di un cattivo uso della storia...". Ma come è potuto accadere così a lungo? "La forza del conformismo filologico è fortissima. Esiste una biografia tucididea recepta quella di Marcellino - che fa testo. Lei se li immagina i moderni che cercano le tracce di qualcos'altro? Succede anche nelle inchieste giudiziarie: una verità viene fuori, ma è così in contrasto con i convincimenti radicati che ci si rifiuta di prenderne atto". E lei si è dato la parte del revisionista? "Proprio così: il nostro mestiere consiste nel mettere in discussione le certezze. Il primo revisionista è stato lo stesso Tucidide, quando reinterpretò il tirannicidio di Ipparco, figlio di Pisistrato, in chiave di rivalità amorosa, non già politica. Operazione revisionistica al massimo, perché colpiva uno dei miti fondatori della democrazia ateniese. Gli storici hanno il dovere di mettere alla prova le verità tramandate. La mia speranza è che a sinistra non si creda più che il revisionismo sia patrimonio della destra". Gli storici di sinistra respingono questa accusa. "E allora perché hanno preferito vilipendere Renzo De Felice piuttosto che discuterne il lavoro? Forse perché era troppo faticoso!" Una domanda personale. Il fatto che Tucidide sia stato un singolare tipo di democratico spregiatore delle masse, estimatore di Pericle proprio perché riusciva a tenerne a bada l'incostanza e la volubilità - quanto ha influito sulla sua simpatia per il personaggio? "Mi piace molto il suo modo disincantato di porsi davanti alla politica. La democrazia antica, scrive Alexis de Tocqueville, è un'aristocrazia allargata. Prima di lui gli oligarchi ne avevano evidenziato il meccanismo di privilegi. Tucidide ne smaschera luoghi comuni e autorappresentazione demagogica". In un suo libro di diversi anni fa, a proposito della sua morte improvvisa, ipotizzava un assassino eccellente: nientemeno che Senofonte... "Era solo un divertimento intellettuale! Gli antichi sospettavano che Tucidide fosse morto di morte violenta perché la sua opera era rimasta incompiuta". La storia di Tucidide è storia politica e militare. Il suo non era un punto di vista un po' angusto? "Alcuni glielo rimproverano, ma il suo punto di vista ebbe straordinaria influenza nei secoli a venire. La più importante storiografia politica occidentale - Machiavelli incluso - ha in lui un grande modello". Fonte: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1999/01/22/tucidide-ilmistero-svelato.html?refresh_ce