16_c_Testi a confonto

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16.
c) La celebre “cattiveria” di Cicerone
Macrobio, Saturnalia II 3, 1-12
Della mordacità e dell’arguzia di Cicerone, note a tutti i contemporanei,
abbiamo testimonianza grazie a un’opera di età tardo-imperiale, i Saturnali di
Macrobio, composti (la data è discussa) verso la fine del IV o i primi decenni del
V secolo negli ambienti dell’aristocrazia pagana di Roma, quando i grandi autori
latini del passato, ormai divenuti classici (e ormai insidiati dalla nascente cultura
cristiana) sono riletti alla luce di un nostalgico programma di restaurazione degli
antichi costumi romani. L’opera (proprio sull’esempio ciceroniano) si presenta in
forma di dialogo, ed è il grande Simmaco, di cui avremo modo di parlare a suo
tempo, a ricordare ai presenti alcuni dei più arguti motti ciceroniani tramandati
nel corso dei secoli.
Erano tutti attenti per ascoltarlo, ed egli cominciò: – Marco Cicerone era a cena da
Damasippo; il padrone di casa servì un vino mediocre dicendo; «Bevete questo Falerno,
ha quarant’anni», e quello: «Li porta bene».
Vedendo suo genere Lentulo, che era di piccola statura, armato di una lunga spada,
disse: «Chi ha legato mio genero ad una spada?».
Neppure al fratello Quinto Cicerone risparmio la sua mordacità. Visitando la provincia
in cui egli era stato governatore, vide un ritratto di lui poggiante su scudo, raffigurato
con un busto enorme secondo la moda, e Quinto era invece di piccola statura; disse
«To’! Mio fratello a metà è più grande che tutt’intero».
Durante il consolato di Vatinio, che durò pochi giorni, circolava famosa una battuta di
Cicerone: «È avvenuto un gran prodigio nell’anno di Vatinio: mentre egli era console
non ci fu né inverno né primavera né estate né autunno». E a Vatinio che si lamentava
perché aveva fatto difficoltà ad andare a trovarlo a casa malato, rispose: «Avrei voluto
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venire durante il tuo consolato, ma mi sorprese la notte». Evidentemente Cicerone si
vendicava, perché si ricordava che, quando egli si vantava di essere rientrato dall’esilio
portato a spalla, Vatinio gli aveva ribattuto: «E come mai hai le vene varicose?».
Anche Caninio Rebilo, che come hai già detto Servio fu console per un sol giorno, salì i
rostri assumendo e deponendo nello stesso momento la carica di console. Cicerone, che
non si lasciava sfuggire nessuna occasione per far dello spirito, osservò ironicamente:
«Caninio è un console percepibile solo con l’intelletto»; quindi: «Rebilo ottenne che si
chiedesse sotto quali consoli egli fu console». Inoltre non cessava di ripetere: «Abbiamo
in Caninio un console vigilante, che durante il suo consolato non prese mai sonno».
Pompeo non riusciva a sopportare gli scherzi di Cicerone. Si riferiva questa battuta del
secondo: «Io ho chi fuggire, ma non chi seguire». Quando poi passò dalla parte di
Pompeo, a chi gli osservava che era venuto tardi, ribatteva: «Non sono affatto in ritardo;
vedo che qui non c’è nulla di pronto». E a Pompeo che gli chiedeva dove fosse suo
genero Dolabella rispose: «Con tuo suocero». Pompeo aveva dato la cittadinanza
romana ad un disertore; e quello: «Che uomo amabile! ai Galli promette la cittadinanza
altrui, e non è in grado di dare a noi la nostra». Perciò Pompeo sembrava aver ragione di
dire: «Vorrei che Cicerone passasse al nemico, perché ci temesse».
La mordacità di Cicerone affondò i suoi denti anche in Cesare. Anzitutto, dopo la
vittoria di Cesare, quando gli chiesero perché si fosse sbagliato nella scelta del partito,
rispose: «Mi ingannò il suo modo di cingersi la toga», e lo scherzo era rivolto contro
Cesare, che indossava la toga in modo da lasciarne strisciar l’orlo camminando, come
un effeminato: tanto che Silla, come fosse presago del futuro, disse a Pompeo:
«Guàrdati da quel ragazzo mal vestito». Inoltre, quando alla fine dei giochi Laberio
ebbe l’onore di ricevere da Cesare l’anello d’oro, immediatamente passò nelle
quattordici file riservate, nonostante l’avvenuta violazione del rango; ma no fu accolto
come cavaliere romano e senz’altro respinto; e Cicerone, mentre Laberio gli passava
davanti alla ricerca di un posto, gli disse: «Ti farei sedere io, se non fossi allo stretto»,
contemporaneamente ricusando di accoglierlo e scherzando sul nuovo senato che
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Cesare aveva aumentato di numero oltre il lecito. Ma non se la cavò liscia; giacché
Laberio gli ribatté: «È strano che ti trovi allo stretto, tu che sei solito occupare due
posti», rinfacciando a Cicerone la leggerezza ambigua, per cui non meritava di essere
biasimato quell’ottimo cittadino. Un’altra volta lo stesso Cicerone irrise apertamente
alla facilità con cui Cesare eleggeva nuovi senatori. Al suo ospite Publio Mallio che lo
pregava di far ottenere al suo figliastro la carica di senatore in un municipio, rispose alla
presenza di molta gente: «A Roma, se vuoi; ma a Pompei è difficile». Ma la sua
mordacità non si fermò entro questi limiti. Un certo Androne di Laodicea era passato a
salutarlo: gli chiese il motivo della sua venuta a Roma e avendo appreso dalla risposta
che era ambasciatore presso Cesare per la libertà della sua patria, si riferì al pubblico
servaggio con queste parole: «Se riesci nella tua missione, fa l’ambasciata anche per
noi!».
(Traduzione N. Marinone)
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