FISCHER, J. L La lotta di classe. In: FISCHER, J. L. La crisi della democrazia, 2. ed. Torino: Giulio Einaudi, 1977. p. 113-126. Pagina 111 Parte prima L’avvento del fascismo Pagina 112 (Em branco) Pagina 113 Capitolo primo La lotta di classe 1. Possiamo ora continuare la nostra esposizione. Eravamo rimasti ai motivi dello sfacelo economico, politico e culturale e agli inizi di una reazione a questo stato di cose. É nel «ceto medio» che si fa sempre piú chiaramente sentire la tendenza piú o meno forte a un rinnovamento sociale, sicché possiamo parlare di reazione dei ceti medi. Che essa esista e che acquisti sempre maggiore forza non vi è dubbio. Non sono chiari invece i motivi, le cause della sua nascita e della sua crescita. Finora eravamo convinti che o ilcapitalismo supererà le proprie difficoltà, come tante altre volte, oppure è condannato ad essere sostituito da un nuovo ordine sociale, che chiamiamo ordine socialista. In questo secondo caso le opinioni differivano soltanto sui metodi che avrebbero portato all’avvento del nuovo ordine. Gli uni pensavano che esso sarà, stabilito per «evoluzioni », con i metodi della democrazia, parlamentare; gli altri che sarà stabilito con a rivoluzione, con il metodo della «dittatura del proletariato». Era comune però la convinzione che parallelamente allo stato sempre piú critico delle società capitalistiche si sarebbero verificate le «condizioni obiettive» per la loro trasformazione in società socialiste. Il campo socialista «rivoluzionario», rappresentato dal comunismo politico, era addirittura convinto che queste condizioni obiettive sarebbero state le condizioni obiettive della rivoluzione proletaria. Il nostro primo compito sarà di analizzare le cause dell’insucesso del campo socialista riformista e comunista. In seguito rivolgeremo la nostra attenzione ai destini del capitalismo, nei quali con ogni probabilità deve trovarsi la chiave per spiegare i succesi della reazione dei ceti medi. Del marxismo interessa particolarmente i nostri assunti Pagina 114 la teoria della storia della società come storia di lotte di classe. La società borghese sortita dallo sfacelo della società feudale non soltanto non ha abolito le classi, ma ne ha accresciuto l’antiteticità dopo averle dapprima semplificate: essa ha diviso l’intera società in due campi nemici, la borghesia e il proletariato. La borghesia e il proletariato costituiscono la tesi e l’antitesi di una totalità; si può dire di loro che esse sono creazioni (Gestaltungen) del mondo della proprietà privata. L’eventuale vittoria del proletariato significa che esso abolirebbe se stesso e il proprio contrario. Il proletariato scomparirebbe e cosí ciò che lo condizionava, la proprietà privata. Questa missione storica del proletariato non discende affatto, si dice, da una sua «divinizzazione», come si obietta spesso, al contrario. Il proletariato può e deve liberare se stesso; non può però emanciparsi senza abolire le proprie condizioni di vita. E non può abolire le proprie condizioni di vita finché non ha abolito tutte le condizioni inumane di vita di tutta la società moderna, che in un certo modo si concentrano nella sua sorte. E non si tratta di quel che pensi questo o quel proletario o addirittura tutto il proletariato, il problema è che cosa sia il proletariato e a che cosa sarà storicamente costretto in accordo con questo suo essere. Il suo fine e la sua azione storica sono irrevocabilmente prefigurati nella sua situazione vitale e nell’organizzazione della società borghese. (Cfr. K. Marx e F. Engels, La sacra famiglia). Questa costruzione si fonda su due principî. Da un lato il principio dialettico hegeliano, dall’altro la lettura «materialistica» dell’«idealismo» metafisico di Hegel. Là dove per Hegel l’intera realtà era data dalla evoluzione dialettica dello spirito assoluto che mirava alla realizzazione di se stesso, cioè della libertà, il marxismo pone in suo luogo la «materia» in movimento dialettico. Nella proiezione sociale ciò doveva significare che i processi «materiali» che si svolgono nella società sono il fattore determinante della vicenda sociale, dove il marxismo intendeva per processi materiali i processi economici, tutti i rapporti con la materia che l’uomo allacia durante il processo «vitale». Questo processo vitale era dato peril marxismo da tutto ciò che nel comportamento umano è materiale, empiricamente accertabile e legato a condizioni materiali. Potremmo brevemente dire che il marPagina 115 xismo ha sostituito lo spiritualismo hegeliano con una concezione naturalistica della realtà secondo cui reale era soltanto ciò che era in qualche modo misurabile; e che riteneva «empiria», esperienza, soltanto simili realtà misurabili. Di qui la nota conclusione marxista che le ideologie e le forme della coscienza ad esse corrispondenti non hanno autonomia. Non hanno perciò neanche storia e evoluzione (cfr. L’ideologia tedesca, libro I, cap. 1); soltanto l’uomo, sviluppando la propria produzione materiale, muta con tale realtà anche il proprio pensiero e i prodotti di esso. La vita non è determinata dalla coscienza bensí la determina. Ma questa tesi significa anche che la visione ideologica, intendi «scientifica», del processo reale vitale e sociale trasforma la conoscenza teorica in strumento pratico col cui aiuto si può intervenire praticamente nelle cose e cambiarle. Di qui anche la spesso citata undicesima tesi di Marx su Feuerbach; ma di qui anche il dubbio se la filosofia accanto alla scienza «empirica» abbia ancora una sua giustificazione esistenziale, dubbio risolto da Engels nel senso che in luogo della filosofia può aversi il compendio dei risultati piú generali astraibili dall’osservazione dello sviluppo storico dell’uomo. Per noi è importante ora prima di tutto i modo in cui il marxismo costruisce il conflitto dialettico tra la borghesia e il proletariato. La borghesia, spinta dalla necessità immanente di ampliare costantemente i mezzi di produzione e di accumulare capitale, dà vita con uguale necessità al proletariato. Accumulando proprietà, essa espropria il proletariato, ne fa una semplice merce. Moltiplicando i mezzi di produzione con la tecnica meccanica, da un lato proletarizza l’intero ceto medio e dell’altro unifica e livella l’esercizio del lavoro, tendendo a formare un proletariato sempre piú numeroso e livellato dal punto di vista sociale e lavorativo. Il proletariato risponde a questo processo con una crescente coscienza della propria sorte. Esso si associa e conduce una lotta di classe sempre piú cosciente con la borghesia. Esso inoltre trae vantaggio dall’antagonismo dei singoli stati borghesi e delle singole borghesie nazionali. Vi è poi la confluenza nel proletariato di settori proletarizzati della classe dominante e di settori della borghesia, soprattutto di quegli ideologi borghesi che riconoscono l’imminenza della necessaria trasformazione storica. Pagina 116 La coscienza di questa necessità è però propria soltanto di coloro che professano il materialismo dialettico e soltanto essi diventeranno gli esecutori del movimento sociale dialettico, come in Hegel; dove naturalmente questo ruolo spetta alla inoriarchia illuminata dallo spirito. Lo spirito assoluto del mondo che ha trovato definitivamente se stesso si manifesta infatti solo a singoli eletti. Il marxismo, trasportando i concetti idealistici hegeliani nella sfera materiale, trasportando la dialettica dello spirito in dialettica della materia, ha cosí fatto anche in questo caso: secondo il marxismo la coscienza della necessità del movimento economico sociale non è annunciata alla maggioranza, bensí a minoranze elette e in ultima analisi di nuovo a singoli eletti, i quali si pongono al servizio delle forze sociali collettive e trovano sostegno per la realizzazione della necessità evolutiva in gruppi scelti, nella «élite» di quello strato o classe sociale che è oggettivamente lo strumento predetinato di tale necessità, quindi nel nostro caso nella élite del «proletariato», rappresentata dal partito comunista. Di qui il marxismo sfocia nella richiesta di una dittatura della minoranza. Il marxismo però insegna che tale dittatura è un fenomeno puramente transitorio. Dopo la sconfitta definitiva della borghesia non vi saranno piú classi sociali, vi sarà una società socialista e comunista senza classi. Poiché poi le istituzioni di potere e lo stato in generale erano solo uno strumento di oppressione di classe, con l’abolizione delle classi scompare anche lo stato. Ma in questo caso sarebbe terminato il processo di sviluppo sociale, perché sarebbero state abolite tutte le contraddizioni che costituivano le leve motrici del processo. L’ultima parola del marxismo è l’escatologia sociale, copia fedele seppure rovesciata dell’escatologia hegeliana che poneva ugualmente fine a qualsiasi ulteriore sviluppo laddove lo Spirito assoluto trovava se stesso. Si potrebbe dire che la via hegeliana verso la libertà finisce nel despotismo dello stato, la via marxista verso la necessità nell’anarchia, essendo la sua incarnazione la massima libertá individuale, probabilmente nel senso del liberalesimo quando negava ogni oppressione sociale nel nome del governo di leggi naturali «necessarie» e contemporaneamente «ragionevoli»; Il contrasto da questo punto di vista è perfetto, con l’aggiunta però che il marxismo Pagina 117 poi, fidando nella necessità impersonale dello sviluppo sociale, ha rifiutato di pronunciarsi in qualsiasi modo sulla strutura dell’annunciata società socialista. Ma queste sono le conclusioni nelle quali avviene la negazione «dialettica» delle tesi di partenza. Rispetto a tali conclusioni, l’«idealismo» hegeliano resta un individualismo che trapassa in culto degli eroi, e il «materialismo» marxista la perfetta negazione dell’individualismo e dell’individuo. L’individuo peril marxismo è una pura funzione e l’unica realtà sociale diventano le «classi», obiettivamente, cioè materrialmente, cioè economicamente condizionate e obiettivamente mosse dalla dialettica dello sviluppo. Tra queste classi svetta il «proletariato». Marx nega che si tratti di adorazione del proletariato. Ma se anche non fornisse di ciò innumerevoli prove la Russia sovietica, occorre pensare che a un pensiero volto a cose tangibili e misurabili il lavoro fisica appare come il processo sociale piú reale e gli operai la componente sociale piú reale. La teoria del plusvalore, che misura qualsiasi valore economico col lavoro (fisico) impiegato ne è un esempio classico. Certo, anche secondo il marxismo la quantità deve «dialetticamente» trapassare in qualità, ma tale passaggio è determinato da una necessità impersonale che è in sostanza materiale, che ricade nell’ordine quantitativo. La negazione degli aspetti individuali e la loro fagocitazione ad opera della classe ha portato inoltre al livellamento, alla «collettivizzazione», cioè all’esigenza della massima «uguaglianza» sociale, ora caratterizzata in senso «proletario». A rigore, solo qui dovremmo parlare di adorazione del proletariato, ad immagine del quale deve essere livellata l’intera società. Ma tali tendenze livellatrici, che discendono dalla tendenza «materiale» del marxismo e che portano al concetto di una materia sociale omogenea, sono peraltro in contrasto col modello hegeliano, dal quale trapassa nel marxismo l’idea della «selezione». Per questo il marxismo dà al proletariato tutte le chiavi del paradiso terrestre, ma non direttamente, bensí per mezzo di una élite «proletaria» selezionata. Se aguardiamo il marxismo dal punto di vista della sua base ideologica «materiale», quantitativa ci appare come uno degli esiti del prototipo culturale meccanico moderno, dunque in sostanza come una foglia del capitalismo, soltanto rovePagina 118 sciata. Ma allora esso resta nello stesso ambito di idee che voleva superare, dunque non lo supera. Piú precisamente: intende superarlo negandolo con le sue stesse armi, negando la «materia» dei capitale con la «materia» sociale = «proletariato». Ma la negazione di una quantità con una quantità porta di nuovo alla quantità e non a una (nuova) qualità. Se accogliamo il principio quantitativo, qualsiasi processo dialettico diventa una impossibilità logica. Qui cade il marxismo. Se tentassimo di mettere in rapporto il marxismo con l’ordine qualitativo ontico, troveremmo che dove nel capitalismo eccedevano gli aspetti economici a danno di quelli personali, sociali e culturali, nel marxismo eccedono gli aspetti sociali economicamente fondati a danno di quelli personali e culturali. La società cessa di essere una struttura di individui autonomi e in suo luogo c’è una massa omogenea (= «proletariato») impersonalmente inserita in un processo dialettico necessario, determinato da aspetti economici e da altri aspetti materiali. La cultura poi, privata di qualsiasi autonomia e intesa come semplice riflesso di tali processi materiali, può cercare i propri fini soltanto al servizio della totalità sociale cosí intesa. Rispetto al problema della democrazia: il marxismo la nega, con l’eccezione di quei casi in cui la borghesia lotta contro l’ordine precapitalistico, precedendo e favorendo quindi la missione del proletariato, oppure quando le conquiste della democrazia politica possono servire al proletariato come arma contro la borghesia. L’arma politica propria del marxismo è però la dittatura del proletariato; con la sua vittoria la democrazia borghese si trasforma in democrazia proletaria, che potremmo definire come una forma di autonomia, limitata e caratterizzata in senso proletario. Qui si apre una contraddizione tra il determinismo economico che ammette la «libertà» soltanto come necessità cosciente e l’esigenza democratica, che solo ora dovrebbe fornire democrazia a quella autonomia; e inoltre tra aristocratismo selettivo, che fa governare la «maggioranza» dalla «minoranza», e l’esigenza di uguaglianza democratica, sia pure proletariamente limitata. Come sarebbe l’ordine sociale che incarnasse tali principî marxisti nella realtà non è dato di sapere chiaramente da Pagina 119 questi stessi principî per il fatto che il marxismo da un punto di vista positivo è estremamente avaro. 2. I concetti centrali della teoria politica del marxismo sono quelli di «proletariato», «proletarizzazione» e «lotta di classe». «Proletario» è sinonimo di un uomo senza radici, socialmente non radicato, esistenzialmente insicuro, politicamente privo di diritti. Tale era veramente l’operaio all’inizio della produzione capitalistica meccanica. Marx vedendo questo stato di cose lo ritenne il destino necessario dell’operaio nel capitalismo e condannava strati sociali sempre piú numerosi allo stesso destino, parallelamente alla industrializzazione e alla accumulazione di capitale; ma una tale deduzione da uno stato particolare, valido soltanto per il momento iniziale di un determinato processo, di conseguenze dirette che devono valere per un intero processo è un procedimento inammissibile, il cui pericolo già Comte avvertiva per la sociologia. Inammissibile anche dal punto di vista dialettico. Infatti il principio dialettico presuppone la soluzione continua di contraddizioni i cui elementi mutano continuamente. Ma allora la capitalizzazione della società probabilmente avrà un’influenza sul proletariato, come d’altra parte la reazione oppostandel proletariato probabilmente avrà un’influenza sul suo ruolo sociale nel capitalismo [Nota 1]. In luogo di ciò il marxismo suppone che un proletariato sempre piú numeroso cadrà socialmente sempre piú in basso, mentre dall’altra parte crescerà costantemente la sua coscienza di classe e la sua forza, per effetto del numero e della crescita culturale. Ma quei due fattori si escludono a vicenda, essi non possono valere contemporaneamente. Pagina 120 Il processo reale infatti è stato diverso; gli operai, che appunto grazie al marxismo e alla propaganda marxista si rendevano conto del proprio indegno destino nel capitalismo, si sono rivoltati contro di lui. Essi si organizzano in «proletariato», inteso ora come classe, come nuovo strato sociale che si separa dai rimanenti strati nel momento in cui acquista la coscienza della propria appartenenza di classe. In questo processo è sfuggito e sfugge tuttora all’attenzione soprattutto dei marxisti il fatto che il significato originario delle parole «proletariato» e «proletarizzazione» è completamente cambiato. «Proletariato» non significa massa proletarizzata degli operai, bensí operai politicamente coscienti e organizzati che con la «lotta di classe» aboliscono la propria «proletarizzazione». Ma allora ambedue i concetti, «proletariato» e «proletarizzazione», stanno in rapporto di opposizione. Il proletariato per il fatto di prendere coscienza di se stesso come, appunto, «proletariato», abolisce la propria «proletarizzazione». Al contrario il marxismo pensava che il proletariato, prendendo coscienza di se stesso come proletariato, si sarebbe abolito come proletariato, il che era possibile solo a condizione che abolisse contemporaneamente il capitale. Comprenderemo meglio queste differenze se ricorderemo che secondo le originarie previsioni del marxismo da un lato la proletarizzazione del proletariato doveva continuare con lo sviluppo del capitalismo e dall’altro dovevano trasferirsi nelle file del proletariato gruppi sociali sempre maggiori. Invece di ciò gli operai si sono ribellati alla propria proletarizzazione, organizzandosi come proletariato fornito di coscienza di classe, ma con ciò si sono contemporaneamente posti contro gli altri strati sociali, il che significa che si sono separati e distinti da essi. In questo senso li si potrebbe considerare come una classe autonoma, i cui limiti stanno nei limiti in cui viene politicamente manifestata l’appartenenza alle fila degli operai. Ciò significa che è proletario, membro del proletariato, colui che si ritiene un membro dello strato operaio fornito di coscienza di classe. Un operaio che non abbia tale coscienza di classe è proletario solo potenzialmente, cioè può diventarlo grazie alle condizioni obiettive della sua sorte sociale. Ma queste condizioni obiettive sono d’altra Pagina 121 parte anche il limite senza il quale non si raggiunge la coscienza proletaria. La parola «proletariato» perde dunque un suo senso preciso. La spiegazione di questo fenomeno è molto semplice: le condizioni oggettive che dovevano determinare l’appartenenza al proletariato venivano individuate nelle condizioni economiche, prima di tutto nel salario. Non a ragione, in quanto molto piú importante è l’inserimento sociale dei singoli strati sociali e dei loro membri, accompagnato di solito dall’esercizio di determinate funzioni, da un certo grado di istruzione e da un certo stile di vita. Grosso modo vale naturalmente che a un significato sociale maggiore di una certa funzione corrisponde una maggiore retribuzione. Ma appunto le conquiste salariali degli operai nei primi anni dopo la guerra mettono in dubbio la validità di questo asserto, poiché garantiscono a un operaio spesso una retribuzione maggiore che a un membro medio dell’«intelligenza» [Nota 1], senza che per questo tale «intelligenza» abbia raggiunto una coscienza proletaria. La pauperizzazione degli strati non proletari è accompagnata da risentimento sia verso gli strati sociali ai quali si «discende», sia verso gli strati nei quali vengono individuati i colpevoli di tale «discesa». Per tornare ai nostri argomenti: se l’operaio è tuttora socialmente non radicato, egli ha però le proprie radici di classe, cioè proletarie. Di qui da un lato il suo rapporto negativo verso la rimanente società non proletaria e dall’altro lato il suo rapporto positivo verso il proletariato delle altre società capitalistiche, che si manifesta con la solidarietà internazionale. Questo internazionalismo operaio è anch’esso parte dalla fede socialista. Organizzandosi come proletariato, gli operai rafforzano la propria posizione in due sensi; da un lato verso la società cioè potiticamente, dall’altro verso gli imprenditori, cioè corporativamente e sindacalmente. (Questa organizzazione corporativa e sindacale degli operai non presuppone necessariamente la loro presa di coscienza nel senso marxista, d’altra parte è rafforzata e provocata proprio da tale presa di coscienza). Pagina 122 Frutto del rafforzamento politico degli operai, rappresentato dai partiti politici operai, è staràfa parificazione dei loro diritti politici. Ciò significa che l’operaio non si sente piú uno spostato politico. Con tale parificazione è soddisfatta la condizione minima affinché questa società diventi la sua società e affinché egli se ne senta parte almeno fittiziamente uguale. Egli tuttavia nonostante questo mutato rapporto non si sente parte di tale società come soggetto autonomo ma come proletario. Tra la società e l’operaio resta quindi questa barriera. Frutto del rafforzamento corporativo degli operai ─ rappresentato dalle organizzazioni sindacali ─ è una serie di vantaggi non soltanto salariali ma anche lavorativi e social. Anche queste conquiste attutiscono l’incertezza della sorte operaia; tutto ciò in una parola ha portato a una sproletarizzazione del proletariato. Analogamente non sopravviene neanche il previsto livellamento del lavoro, in connessione con la crescita della tecnica meccanica, ma sopravviene al contrario una differenziazione degli operai; negli strati piú qualificati la lotta di classe perde molto del suo carattere rivoluzionario, mentre continua ad essere assai forte negli strati non qualificati. Anche la «collettivizzazione» di varie funzioni economiche (per esempio delle comunicazioni) favorisce tale sproletarizzazione, nel senso che le categorie interessate hanno un minimo esistenziale garantito e rivolgono la propria attenzione quasi esclusivamente a ulteriori conquiste di tipo sindacale. Possiamo concludere che il proletariato prima unito si divide in diverse componenti nelle quali l’originaria coscienza proletaria subisce modificazioni e indebolimenti. Parallelamente alla sproletarizzazione degli operai diminuisce anche la loro combattività proletaria, sostituita sempre piú dalla lotta per miglioramenti sindacali. Coglieremo meglio questa trasformmazione con la tesi secondo cui il proletariato come «classe» passa in proletariato come «ceto» («stato»), per aggregarsi in questo senso agli altrinceti sociali, la cui attività politica prende anch’essa sempre piú carattere sindacale. Il proletariato come «stato» naturalmente non è interessato alla scomparsa della borghesia bensí al contrario alla sua prosperità. Con ciò prende corpo definitivamente la nostra tesi sulla simbiosi del proletatiato col capitalismo, tesi Pagina 123 la cui conclusione doveva necessariamente essere che la strutura delle società capitalistiche è rimasta in sostanza intatta sotto la pressione sindacale operaia. In particolare è rimasto immutato l’inserimento degli operai nel processo economico, il che significa concretamente che la direzione delle funzioni economiche continua a restare al di fuori della competenza operaia. Se volessimo porre queste conclusioni in connessione con il conflitto dialettico tra il proletariato come classe e la sua proletarizzazione, ne deriverebbe che il risultato è stata la trasformazione degli operai in «stato» o ceto. Questa conclusione non soltanto è in contraddizione con la costruzione marxistica ma anche con le intenzioni politiche degli operai che intendevano abolire il capitalismo. Si delinea quindi un nuovo conflitto dialettico tra gli operai come classe e gli operai come stato per la cui soluzione gli operai hanno un’unica arma, la lotta di classe. La lotta di classe ha peró spinto gli operai all’isolamento e ha portato a pressioni di tipo corporativo. Senza lotta di classe non vi sarebbe stata sproletarizzazione degli operai. Con la lotta di classe tuttavia non è stato possibile sfondare la barriera degli operai come classe. A questa antinomia Marx non aveva pensato; egli supponeva che tutta la società sarebbe stata gradualmente proletarizzata, che quindi avremmo avuto non l’isolamento del proletariato dalla società bensí l’assorbimento della società da parte del proletariato, e che questo processo sarebbe stato accompagnato da una accresciuta coscienza politica degli operai. Non essendo soddisfatte queste premesse, gli operai hanno dovuto far valere le proprie istanze su una base comune, insieme ad altri strati sociali politicamente organizzati. Abbiamo già detto che tale base è diventata la democrazia parlamentare, di cui il socialismo politico fa propria la prassi, supponendo che col suo aiuto raggiungerà gradualmente il proprio fine. Concretamente ciò significava che esso voleva raggiungere l’uguaglianza (sociale) attraverso la libertà (politica). Abbiamo anche già detto che gli è sfuggito il legame fondamentale tra l’ordine capitalistico e l’organizzazione democratica moderna, legame che escludeva fin da prima qualsiasi possibilità di abolire l’organizzazione capitalistica con i mezzi di cui disponeva la democrazia parlamentare. L’organizzazione democratica sanzionava politicamente e legalmenPagina 124 te l’autonomizzazione delle attività economiche che caratteriza essenzialmente il capitalismo. Tale organizzazione permetteva un vuoto amministrativo, la mancanza di ancoraggio amministrativo delle società capitalistiche, in cui era impossible qualsiasi regolamentazione efficace e ordinata delle funzioni sociali e prima di tutto delle funzioni economiche. Questa organizzazione non offre e non può offrire nessun punto di appoggio per qualsiasi socializzazione della società, in particolare poi per la socializzazione dellle attività economiche. Questa simbiosi del socialismo col democratismo parlamentare, parallela a quella del proletariato col capitalismo, ha sostituito le intenzioni rivoluzionarie del marxismo con intenzioni riformistiche, col risultato di nascondere perfettamete il fine originario del socialismo, l’abolizione del capitalismo. Tale fine continua certo ad essere presente agli operai, ma continua a mancare di basi ideologiche salde e quindi anche di un programma politico concreto. Di qui la circostanza che i partiti socialisti dopo la guerra non hanno potuto avere dalla loro partecipazione ai governi altri frutti che di tipo corporativo, se misuriamola loro attività politica da un punto di vista socialista. Poiché erano mal preparati teoricamente e politicamente, non hanno avuto iniziativa politica; e poiché non avevano un proprio programma politico, non è rimasto loro che accogliere la confessione di fede della sinistra borghese, mescolandola variamente con elementi di origine marxista e sottolineando la difesa delle richieste operaie. Ciò è stato chiamato un tradimento del socialismo; non a ragione, perché il tradimento presuppone una intenzione cosciente che mancava nel socialismo riformistico. A ragione in quanto, con i metodi finora usati, l’ordine capitalistico è rimasto intatto. Ricapitoliamo ancora una volta: secondo il marxismo il capitale, rappresentato dalla borghesia, doveva necessariamente alimentare la vita e la crescita del proletariato e il proletariato doveva, abolendo se stesso, con uguale necessità abolire la borghesia. In realtà gli operai si sono organizzati come proletariato fornito di coscienza di classe per tentare con ciò di abolire la propria proletarizzazione, ma cosí facendo si sono isolati e divisi dal resto della società come classe autonoma, ciò che ha portato a un ugual isolamento Pagina 125 del fine che doveva essere perseguito, l’abolizione della borghesia e del capitalismo. La realizzazione di questo fine doveva passare attraverso la lotta di classe; la lotta di classe però, condotta dagli operai come classe isolata, è rimasta limitata alla sfera proletaria e ha portato in ultima analisi alla trasformazione del proletariato come «stato». Rispetto al postulato socialista ciò significa: poiché il socialismo è stato delimitato proletariamente, dovrebbe restare un socialismo «di classe», proletario, cioè una questione degli strati operai. Non lo rimarrà. Per la semplice circostanza che il comunismo, unico di tutti i partiti socialisti, ha condotto una lota intransigente contro il capitalismo (anche se in realtà senza mai superare l’antinomia tra il carattere di classe e il carattere corporativo degli operai), esso doveva avere una grande attrattiva per tutti coloro che lottavano sullo stesso fronte, quindi prima di tutto sulla élite culturale che, trascurando e non scorgendo le contraddizioni tra la teoria marxista e la realtà sociale e inoltre affascinata dal panorama della grande rivoluzione russa, scorgeva nel comunismo l’unico combattente per la giustizia sociale. Per quanto infatti si possa rimproverare molto al marxismo, esso ha presentito giustamente anche se non ha visto con chiarezza una cosa: che l’abolizione della società capitalistica presuppone una nuova volontà politica unitaria. Per quanto il comunismo postbellico si sia sbagliato, esso ha presentito giustamente anche se non ha visto chiaramente che con i metodi della democrazia formale non si può né fondare né tanto meno realizzare questa nuova volontà. Ugualmente il marxismo aveva ragione là dove diceva che l’ordine sociale capitalistico è essenzialmente sbagliato e difettoso e quindi condannato alla perdizione. Le forze scatenate dal capitalismo conducono certamente allo sfacelo sociale e debbono quindi prima o poi provocare una reazione. Il socialismo doveva e deve essere soggetto e interprete di tali reazioni. Ma l’ideologia sulla quale poggia e la prassi che ne ha dedotto gli hanno impedito di realizzare questa missione. Né si è dato una diversa base teorica. Allora però rinunciare anche agli ultimi resti del marxismo significherebbe rinunciare a qualsiasi ideologia che sia in qualche modo socialista. Pagina 126 Questo è il circolo vizioso: la lotta di classe non conduce allo scopo, senza lotta di classe lo scopo si perde. Ebbene la lotta di classe non conduce allo scopo perché è un concetto negativo e non già positivo. È negativo già per il posto che occupa (come antitesi) nella costruzione marxista. Per questo non ha unito la società nel nome di una comune volontà politica socialista. Per questo poté servire come strumento di difesa quando il suo complemento opposto, il capitalismo, era in ascesa, ma per questo necessariamente fallí quando falliva il capitalismo: alla crisi del capitalismo corrisponde l’ineficacia della lotta di classe. La lotta ai classe dunque non ha superato il capitalismo né ideologicamente né di fatto per il suo carattere negativo. Non ha potuto scuotere un solo pilastro della costruzione sociale capitalista, con l’eccezione della Russia sovietica, dove secondo le premesse marxiste doveva avere le minori possibilità. La lotta di classe non conduce allo scopo. Ma s’è forse perduto necessariamente per questo anche il fine al quale doveva condurre? La società socialista? Niente affatto. È «soltanto» necessario formularlo in modo nuovo e fornirlo di una sicura base ideologica, cioè di una nuova teoria. Non so come sottolineare l’importanza di questo aspetto: che tale fine deve essere un fine positivo e positivamente motivato. Ciò significa che non deve essere una semplice antitesi dalla quale esca meccanicamente la sintesi desiderabile, deve essere primariamente una sintesi che abolisce le contraddizioni esistenti. Marx aveva ragione: il compito è l’abolizione del capitalismo. Ma questo compito non riguarda soltanto gli operai, anche se gli operai vi sono piú di altri direttamente interessati, riguarda l’intera società. E la sua soluzione deve ugualmente abbracciare l’intera società. In fin dei conti, anche questo voleva Marx. Ma sbagliava là dove supponeva che tale intera società sarà costituita, dopo la proletarizzazione di tutti gli strati sociali ad eccezione di una piccola parte della borghesia, dal proletariato.