Per una Storia della Ia Guerra Mondiale di Ernesto Bunetta, Professore di storia contemporanea(1) Per una Storia della Ia Guerra Mondiale 1898: guerra ispano-americana per Cuba; 1899-1902: guerra anglo-boera per il Transvaal in Sud Africa; 1900: spedizione internazionale in Cina contro l’insurrezione dei Boxers; 1904-1905: guerra russo-giapponese; 1908: annessione della Bosnia-Erzegovina all’Austra-Ungheria; 1911-12: guerra italo-turca per la Libia; 1912: I guerra balcanica; 1913: II guerra balcanica. Pur limitandoci a citare i fatti più importanti, quanto detto ci sembra sufficiente per annullare il luogo comune secondo cui questi sarebbero stati gli anni della Belle Époque. O meglio ciò precisa come essa abbia interessato solo ed esclusivamente l’Europa Occidentale, le guerre che abbiamo citato essendo o di carattere coloniale, o svolgentisi in teatri lontani. In altre parole, la pace, dopo la guerra franco-prussiana del 1870, interessò quella parte di mondo che di esso si considerava il centro o addirittura l’unica realtà storicamente valida. Questa serie di eventi aveva comunque messo sull’avviso i governi e gli stati maggiori delle grandi potenze circa l’inevitabilità del fatto che, prima o poi, la catena degli eventi li avrebbe in qualche modo interessati, e quindi anch’esse sarebbero state coinvolte in un grande conflitto. Era però errore comune, dei governi e degli stati maggiori, frutto di una concezione strategica ancora ottocentesca, l’idea che la guerra ventura sarebbe stata breve perché si sarebbe conclusa, com’era capitato appunto nei secoli precedenti, con una grande, decisiva battaglia che si sarebbe svolta entro poche settimane dall’inizio delle ostilità. La definizione di Belle Époque non si adatta pertanto a un periodo di pace che in realtà non c’è, quanto piuttosto a una serie di innovazioni tecnologiche – penso all’energia elettrica, al telegrafo, al telefono, al motore a scoppio, al cinematografo – che sembravano aver cambiato la vita delle grandi città europee, inondandole di luce e permettendo più rapide comunicazioni. In altre parole sembrava essersi realizzato il sogno di una scienza che si trasforma in tecnologia e si mette al servizio dell’uomo. Non a caso, la fantascienza, da Jules Verne a Herbert Welles, nasce in quest’epoca. (1) Insignito dal Presidente della Repubblica della Medaglia di Benemerito della Scuola, della Cultura e dell’Arte. 1 La Belle Epoque Restava da capire quale potenza avrebbe maggiormente fruito di queste innovazioni estendendo la sua egemonia fin dove possibile. Probabilmente un progetto cosciente di egemonia mondiale non era ancora stato pensato da nessuna cancelleria, ma di fatto la Gran Bretagna, con le colonie che si estendevano su circa un terzo delle terre emerse e con la sua grande flotta, di fatto già l’esercitava. Egemonia messa in pericolo, a partire dalla fine del XIX secolo, dall’Impero Tedesco già egemone sull’Europa continentale. Egemone non tanto, o non solo, sul piano politico, bensì, e soprattutto, sul piano culturale essendo le università tedesche ritenute le migliori del mondo, sicché da quelle cattedre la filosofia e la scienza si erano diffuse pressoché in tutti i paesi. Quindi, pur senza sposare la tesi di Fritz Fischer circa un consapevole piano tedesco per la conquista del mondo, è evidente come fosse sorta in Germania un’opinione pubblica pantedesca, già con qualche venatura razzista – penso alla Società Thule che proclamava la superiorità della razza nordica – che mirava a sostituire la Gran Bretagna anche nelle colonie e sui mari. Non va dimenticato che la Germania aveva “scoperto” l’Oceano Pacifico e vi aveva occupato alcuni arcipelaghi di grande importanza strategica collocati tra il Giappone e gli Stati Uniti. La grande contesa si giocava dunque tra l’Impero Britannico e l’Impero Tedesco. Tutte le altre questioni controverse, che pur non erano poche, ruotavano di fatto attorno a quest’asse. La Francia continuava a tenere aperta la sua querelle con la Germania per l’Alsazia e la Lorena, strascico della guerra del 1870, che non era però solo un problema di possesso territoriale di due pur ricche e importanti regioni, bensì metteva in questione anch’essa il problema dell’egemonia continentale. 2 Ragion per cui le antiche rivalità con la Gran Bretagna risalenti alla notte dei tempi e rinfocolate nel XIX secolo dalla rivalità coloniale, si erano risolte teoricamente in Sudan, con l’accordo di Fascioda del 1898; in realtà la rivalità era venuta meno per il comune interesse a contenere l’espansionismo tedesco. Infatti, più o meno dal 1904 si parlava di entente cordiale che non era un patto scritto ma indicava una sorta di canale privilegiato nei rapporti tra i due paesi. Era invece un vero e proprio patto la duplice intesa tra la Francia e l’Impero Russo, che aveva sì contenziosi aperti con la Germania, ma più ancora con l’Austria Ungheria e quindi vedeva nella Francia l’alleato ideale in funzione antiaustriaca, per l’egemonia sui Balcani, che era la grande aspirazione della Russia. A spese dell’Impero Ottomano sia la Russia, sia l’Austria Ungheria, volevano risolvere a proprio vantaggio la cosiddetta Questione d’Oriente, che altro non significava se non la riduzione della Turchia all’Asia, riducendone o annullandone del tutto i possessi in Europa. Il cozzo tra la Russia e l’Austria-Ungheria era quindi inevitabile e logicamente ciascuna cercava di trovare nella Penisola Balcanica puntelli su cui appoggiarsi. Nella Penisola Balcanica il naturale alleato della Russia, con la quale aveva in comune la religione, era la Serbia, che perseguiva per conto proprio l’ideale della riunione in un unico stato di tutti gli slavi del sud. Per lascito della II guerra balcanica, l’Austria-Ungheria guardava piuttosto alla Bulgaria, che aveva con la Serbia aperte varie questioni territoriali. L’accenno alla Serbia e alla Bulgaria ci porta a esaminare il comportamento di altre due potenze, di minore importanza certamente, ma che saranno destinate a giocare un loro ruolo nella guerra veniente: mi riferisco alla Romania che aspirava al possesso di quella parte della Transilvania che in allora faceva parte dell’Ungheria, ed era quindi potenzialmente un’alleata della Russia e delle potenze occidentali, e all’Italia, per la quale è necessario fare un discorso a parte. L’Italia aveva siglato la Triplice Alleanza con la Germania e con l’Austria-Ungheria nel 1882. È necessario riflettere sulla data dell’accordo perché esso segue l’occupazione della Tunisia da parte della Francia, occupazione che determinò nel governo italiano la sensazione che il Mediterraneo stesse per diventare un lago anglo-francese, donde la necessità di appoggiarsi agli Imperi Centrali. Seguì così un periodo di difficili rapporti tra l’Italia e la Francia contrassegnati dalla cosiddetta guerra delle tariffe, cioè dal progressivo incremento dei dazi sulle merci da e per la Francia. Anche però quando questo stato di tensione venne meno nel primo decennio del XX secolo a opera soprattutto del ministro degli Esteri Emilio Visconti-Venosta, la Triplice venne ripetutamente confermata fino all’ultimo rinnovo del 1912, rinnovo che comprendeva tra l’altro una convenzione militare segreta per la quale, in caso di guerra, un corpo di spedizione italiano avrebbe dovuto appoggiare sul Reno l’esercito tedesco. Tale politica del governo italiano dovette però sempre fare i conti con una parte dell’opinione pubblica orientata in senso opposto o perché convinta della necessità di completare il Risorgimento con Trento e Trieste, o per antichi legami ideologici con la Francia repubblicana. Era quindi evidente che l’Italia rappresentava l’anello 3 debole della Triplice perché contemporaneamente la sua politica la collocava sì agli antipodi della Francia, ma anche agli antipodi dell’Austria-Ungheria. E questa era una contraddizione difficilmente risolvibile. Una ancor più ampia contraddizione però, o quantomeno un punto interrogativo gravava su tutte le potenze europee, non essendo chiaro se l’atteggiamento dei governi coincidesse realmente con l’atteggiamento dei popoli, a orientare i quali contribuivano due opposti modi di vedere le cose. L’Internazionale Socialista riteneva infatti di essere la legittima rappresentante dei lavoratori di tutto il mondo e nei suoi congressi, l’ultimo a Basilea del 1912, aveva solennemente affermato essere la guerra un problema di imperialismi contrapposti che interessavano le borghesie e non il proletariato che della guerra comunque sarebbe stato vittima. Aveva proclamato pertanto che in caso di guerra i lavoratori avrebbero dovuto rispondere con lo sciopero generale, mettendo così i paesi nell’impossibilità di combattersi l’un l’altro. D’altro canto, la quasi totalità della cultura militante del tempo – penso in particolare ai futuristi, ma non soltanto a loro – riteneva la guerra necessaria per ripulire il mondo delle molte scorie che lo affollavano. Riteneva, infatti, la cultura militante che i popoli avessero smarrito il senso dei valori accontentandosi, o aspirando, di un quieto vivere borghese pago dei consumi e dei divertimenti, mentre la vita avrebbe dovuto nutrirsi di un senso eroico, di bei gesti esemplari, di dinamicità e di cambiamento. Naturalmente questo era detto a chiare lettere solo in circoli limitati, ma attraverso l’opera della scuola tale convincimento, sia pur volgarizzato e ridotto ai minimi termini, in qualche misura era penetrato anche a livello di massa, ragion per cui le categorie mentali dell’oggi che respingono la violenza, sono difficilmente applicabili agli eventi di allora dal momento che la violenza aveva un ruolo considerato non negativo nelle categorie mentali del tempo. Quando tuonarono i cannoni d’agosto, infatti, non scoppiò alcuno sciopero generale; anzi a Berlino e a Parigi, ma non solo, la popolazione invase le strade e le piazze inneggiando alla guerra. Solo che le convinzioni dei generali si rivelarono errate dal momento che, lungi dal concludersi in poche settimane, la guerra s’impantanò a Occidente lungo la Marna e a Oriente lungo una linea che, attraversando la Polonia, giungeva ai Carpazi, obbligando gli eserciti contrapposti a scavare trincee e ad apprestarsi a un’imprevista guerra lunga. Ciò che s’impose fu la tecnologia e in particolare la messa in postazione della mitragliatrice che con il suo fuoco impediva, o rendeva sanguinosissimi, quegli attacchi frontali sui quali s’imperniava la tattica di ogni esercito e non solo, è tempo di dirlo, quella ideata dal generale Luigi Cadorna sul fronte italiano. Prolungandosi la guerra, si resero necessari alcuni provvedimenti. In primo luogo era d’obbligo dare uno schermo ideologico entro il quale mascherare i reali obiettivi della guerra. La Francia e la Gran Bretagna avrebbero potuto giocare la carta dei loro regimi democratici di contro al militarismo e ai residui di feudalesimo propri degli Imperi Centrali; ostava però a ciò l’alleanza con la Russia che nel 1914, nonostante la prima rivoluzione del 1905 e la nascita di una Duma, cioè di una camera 4 rappresentativa, era ancora il massimo esempio di autocrazia. L’intellettualità dei paesi belligeranti ricorse quindi ad altre formule: i francesi in particolare utilizzarono l’arma della civilisation, cioè il loro essere rappresentanti dei diritti dell’uomo e del cittadino, mentre i tedeschi si ergevano a difensori della kultur, cioè di una compatta società organica fondata sull’ordine e sulla disciplina. Al di là degli schermi ideologici, si trattava però di vincere la guerra e quindi tra il 1914 e il 1915 fitti furono gli incontri diplomatici per provocare l’intervento in guerra delle nazioni che ancora ne erano fuori. Si argomentava che, essendo le due forze in perfetta parità dato che erano ferme su fronti ormai consolidati, l’intervento di qualche altro paese avrebbe potuto e dovuto rappresentare il peso determinante atto a risolvere la guerra in un senso o nell’altro. Nel 1916 il corteggiamento degli alleati interessò la Romania, nel 1915, invece, fu l’Italia a essere invocata sia dalla Triplice, sia dall’Intesa come quel peso che sarebbe stato determinante sulle sorti della guerra. Il corteggiamento, fatto come sempre in questi casi di ampie promesse, si risolse a favore dell’Intesa, prevalendo in Italia, in modo costituzionalmente corretto, anche se un po’ sforzato, due correnti che molto provvisoriamente si trovarono ad agire assieme. Da un lato c’erano infatti coloro che ritenevano la guerra necessaria, affinché l’Italia assurgesse al ruolo di grande potenza, dall’altro c’erano gli eredi del mazzinianesimo e del garibaldinismo, che ritenevano la guerra necessaria in nome dell’autodeterminazione dei popoli. Il Partito Socialista italiano fu l’unico, in Europa, che, almeno al vertice, si professò compattamente neutralista, ma questo suo atteggiamento non si tradusse in un reale sabotaggio della guerra e fu dunque sostanzialmente sterile nel senso che permise agli interventisti di giocare tranquillamente le loro carte. A questo punto la volontà degli interventisti incontrò la volontà del Re e del Governo presieduto da Antonio Salandra e si giunse così alla firma del patto di Londra, che equivaleva alla denuncia della Triplice Alleanza, denuncia che sopraggiunse ufficialmente qualche giorno dopo. L’intervento dell’Italia non fu invece determinante, così come non fu determinante nel 1916 l’intervento della Romania che avrebbe dovuto modificare lo svolgimento del conflitto sullo scacchiere orientale. Una volta svanite queste speranze, il 1916 si connotò per l’elevato grado di stanchezza che toccava tutti i popoli e tutti gli eserciti. Sul finire di quell’anno, infatti, si fecero insistenti le voci di un accordo per porre fine alla guerra. Più specificamente, il cancelliere tedesco Bethmann Holveg formulò in novembre una sua proposta di accordo che venne unanimemente respinta dall’Intesa perché sembrò che a trarne vantaggio sarebbe stata soltanto la Germania. La proposta tuttavia incoraggiò il presidente americano Woodrow Wilson a formulare una sua proposta che prevedeva, se si fossero concluse le ostilità, la formazione di una Lega delle nazioni che avrebbe dovuto evitare le guerre del futuro. Le proposte di cui sopra si muovevano evidentemente nel campo della diplomazia internazionale, ma era rimasto in Europa qualche lacerto del vecchio neutralismo socialista, sicché i partiti o le frazioni di partito che erano rimasti fedeli al neutralismo 5 dei congressi dell’Internazionale si riunirono nel 1915 a Zimmerwald e nel 1916 a Kienthal ove venne al proscenio Wladimir Il’ič Lenin che riteneva fosse necessario trasformare la guerra imperialistica in rivoluzione proletaria, per uscire dall’incubo nel quale le diverse borghesie nazionali avevano condotto i loro paesi. Sembrava la millanteria di un esule ormai da tempo lontano dal suo paese, ma l’anno successivo avrebbe mostrato trattarsi invece di una soluzione possibile. Certamente più incisiva del tentativo esperito da Sisto di Borbone, per conto dell’imperatore Carlo succeduto nel novembre del 1916 a Francesco Giuseppe, che fece il giro delle corti europee nel tentativo di trovare la via di una pace di compromesso. L’anno decisivo fu il 1917 dal momento che fu l’anno in cui la guerra cambiò aspetto, assumendone uno che non era neppur lontanamente simile a quello che aveva nel 1914. I motivi per i quali il 1917 è diverso dal 1914 vanno trovati in Russia e negli Stati Uniti d’America. In Russia la rivoluzione di febbraio aveva portato all’abdicazione dello Zar e alla nascita di una Duma che sembrava intenzionata a introdurre anche in Russia il sistema liberaldemocratico per conseguire il quale era condizione preliminare continuare la guerra a fianco dell’Intesa che quel sistema appunto rappresentava. Le potenze occidentali, infatti, vennero prese da una sorta di euforia perché finalmente la guerra assumeva l’aspetto di uno scontro tra due sistemi politici contrapposti e, dopo febbraio, anche la Russia apparteneva senza contraddizioni a questo schieramento. Nell’aprile 1917 l’entrata in guerra degli Stati Uniti sembrò confermare che la guerra aveva assunto l’aspetto di cui abbiamo appena detto e, quasi a conferma dell’assunto, il presidente Wilson si apprestava a pubblicare, ciò avverrà nel gennaio 1918, i 14 punti, vero manifesto che spiegava i motivi della guerra dell’Intesa. Se teniamo presente la grandezza di questi eventi, l’episodio di Caporetto che iniziò il 24 ottobre e si concluse sul Piave il 9 novembre 1917 assume un aspetto decisamente secondario nel panorama della guerra mondiale, trattandosi di una sconfitta militare quali ne subirono un po’ tutti i belligeranti e che venne prontamente riscattata con la difesa sul Piave a cui parzialmente parteciparono le stesse truppe che sembravano essersi dissolte a Caporetto. L’euforia delle potenze occidentali circa gli eventi in Russia era comunque destinata a durare poco perché già in aprile Lenin, rientrato dall’esilio, pronunciò un discorso, diventato poi le Tesi d’aprile, in cui andava dritto al nocciolo del pensiero profondo delle masse russe, pensiero profondo che non coincideva con gli ideali delle democrazie occidentali. Lenin aveva capito due cose fondamentali: che il popolo era stanco della guerra, e dunque gli promise la pace immediata a qualsiasi costo, e che la grande massa dei contadini anelava a impossessarsi delle grandi proprietà terriere e a dividersele, e dunque Lenin lanciò lo slogan “La terra ai contadini”. Da aprile a novembre passò qualche mese, ma in quel torno di tempo l’esercito russo che era composto di larghissima parte di contadini si autosmobilitò perché costoro volevano tornare il più rapidamente possibile ai loro villaggi per partecipare alla distribuzione delle terre. In novembre fu palese che l’esercito non sarebbe stato più in grado di reagire a una eventuale ribellione, che anzi avrebbe fatto fronte comune 6 con eventuali insorti e dunque i bolscevichi decisero che era venuto il momento di giocare la carta della seconda rivoluzione che infatti, a Pietroburgo e a Mosca, s’impose quasi senza spargimento di sangue. Così la Russia uscì praticamente dalla guerra, anche se l’armistizio con la Germania fu firmato poi a Brest-Litovsk soltanto nel marzo 1918. La defezione russa fu al momento solo parzialmente compensata dall’intervento degli Stati Uniti perché l’arruolamento, l’addestramento e il trasferimento del corpo di spedizione americano in Francia fecero sì che, dal punto di vista militare, gli effetti dell’intervento americano si facessero sentire solo a partire dal settembre 1918. L’intervento americano contava però molto di più sul piano politico per i motivi che già abbiamo esposto e, ancor di più, sul piano economico perché le potenze dell’Intesa ebbero accesso alle materie prime e alle derrate alimentari delle quali gli Stati Uniti disponevano, attraverso una serie di prestiti a tasso agevolato. E ciò proprio nel momento in cui il blocco navale posto in atto fin dall’inizio del conflitto e che la flotta sottomarina tedesca non era riuscita a infrangere, faceva sentire i suoi effetti sugli Imperi Centrali ridotti a una vera e propria penuria degli alimenti di base. Naturalmente il pessimo regime alimentare proprio della popolazione degli Imperi Centrali portò la medesima ai limiti dell’esasperazione che si esternò in episodi quali lo sciopero generale scoppiato a Vienna nel gennaio 1918. Nel lungo termine, tutto ciò giocava evidentemente a favore dell’Intesa, ma nel breve la scomparsa del fronte orientale rafforzò notevolmente gli eserciti tedesco e austroungarico su fronti occidentali, sicché dal punto di vista militare la situazione Vienna 1918: le donne in coda per il pane Foto: Archiv der Bundespolizeidirektion.it 7 all’aprirsi del 1918 sembrava più favorevole agli Imperi Centrali che non all’Intesa. Infatti, il Comando tedesco concentrò sul fronte francese una massa di uomini e di mezzi quale mai si era vista fino a quel momento e iniziò dalla primavera del 1918 il più poderoso attacco che mai si fosse verificato su quel fronte. Nel contempo anche l’esercito austroungarico, raccolte le ultime forze, che peraltro erano ancora notevoli, si apprestò all’offensiva sul fronte italiano nella cosiddetta battaglia del Solstizio. Gli alleati occidentali resistettero anche per l’introduzione, in particolare da parte dell’esercito britannico, di nuovi tipi d’armamento quale i carri armati, e dall’estate 1918 fu palese che mai più gli Imperi Centrali avrebbero potuto radunare una così gran massa di uomini e di mezzi per tentare nuove offensive. In altre parole, la guerra aveva rivelato il suo vero volto di guerra di logoramento nella quale parte preponderante avevano i mezzi che potevano essere messi a disposizione degli eserciti. La cosa fu talmente compresa dai governi e dagli Stati Maggiori dell’Intesa, che si esitò nell’ordinare di passare all’attacco per il timore delle perdite e si preferì che fossero il logorio e le carenze di quanto era necessario per sopravvivere a fiaccare gli eserciti e i popoli degli Imperi Centrali. Infatti, era dal settembre che si sollecitava il governo italiano perché esso insistesse presso il generale Armando Diaz, nuovo comandante supremo, per una offensiva sul fronte italiano; ma Diaz nicchiava, così come nicchiavano i suoi colleghi francese, inglese e americano sul fronte occidentale, sicché non ci fu una grande battaglia che concludesse la guerra in campo aperto, quanto piuttosto un progressivo arretramento delle truppe tedesche dalla Francia, determinato anche dalle notizie che arrivavano dalla Germania di tumulti e ribellioni, culminate con l’ammutinamento della flotta della base di Kiell. A questo punto furono i generali medesimi a consigliare all’Imperatore Guglielmo II di chiedere l’armistizio. Il che Guglielmo fece, facendo seguire alla richiesta la propria abdicazione dal trono onde consentire alla sopravveniente repubblica di chiedere la pace sulla base dei 14 punti di Wilson. Ciò non avvenne, anzi, le potenze occidentali vollero rivalersi sulla Germania delle perdite e dei danni subiti imponendole, considerata unica responsabile della guerra, una somma in conto riparazioni che il paese non era in grado di sostenere e che affrontò con la pesantissima svalutazione della moneta e concedendo parte dei macchinari delle proprie industrie in conto riparazioni. L’esercito italiano affrontò, attorno a Vittorio Veneto, una vera battaglia contro l’esercito austroungarico, ma quest’ultimo era ormai minato dalle aspirazioni nazionali dei diversi popoli che lo componevano, motivo per il quale la resistenza fu maggiore o minore a seconda delle etnie dei reggimenti che si opponevano all’offensiva italiana. Non a caso resistettero molto di più i reggimenti croati e sloveni in quanto l’ormai generalizzata aspirazione all’unità della Jugoslavia collideva fatalmente con le aspirazioni italiane su quelle terre di confine, da Trieste a Fiume, alle quali entrambi i paesi aspiravano. 8 Per quanto pesante sia stato il bilancio delle vittime e dei danni, la conclusione della guerra portò con sé alcune importanti conseguenze. Sia pur temporaneamente, il militarismo tedesco venne bloccato e, nel 1918, nessuno avrebbe potuto prevedere l’avvento di Hitler e la riapertura a breve del conflitto con ancor peggiori conseguenze. Quel residuo di Medio Evo rappresentato dall’Impero Asburgico si era dissolto così come prevedeva lo spirito dei tempi, e su quel territorio aveva trionfato il principio dell’autodeterminazione dei popoli. È facile oggi parlare di esagerati nazionalismi, ma, nel 1918, l’aspirazione al riconoscimento della propria nazionalità era ancora sentimento diffuso e sentito. I 14 punti di Wilson, inoltre, costituirono una sorta di manifesto della democrazia e alcune nazioni europee adeguarono a essi il loro regime politico; tuttavia importa di più il fatto che i 14 punti siano entrati nel patrimonio ideale di una parte dell’opinione pubblica europea. Nel contempo, mai nella storia un evento fu così foriero di speranze e di timori quale fu la Rivoluzione d’Ottobre, che non si può spiegare se non nel clima e nell’ambito della guerra. Quasi per paradosso una guerra, subita e non voluta, non diventata rivoluzione, se non in Russia, aveva comunque trasformato i popoli da oggetto in soggetto di storia. Per tutti questi motivi ritengo quanto meno semplicistico limitare il ragionamento al concetto di “inutile strage”, come sembra oggi essere opinione prevalente. 9