Per una Storia della Ia Guerra Mondiale

Per una Storia della Ia Guerra Mondiale
di Ernesto Bunetta, Professore di storia contemporanea(1)
Per una Storia della Ia Guerra Mondiale
1898: guerra ispano-americana per Cuba; 1899-1902: guerra anglo-boera per il
Transvaal in Sud Africa; 1900: spedizione internazionale in Cina contro l’insurrezione dei Boxers; 1904-1905: guerra russo-giapponese; 1908: annessione della
Bosnia-Erzegovina all’Austra-Ungheria; 1911-12: guerra italo-turca per la Libia;
1912: I guerra balcanica; 1913: II guerra balcanica.
Pur limitandoci a citare i fatti più importanti, quanto detto ci sembra sufficiente per
annullare il luogo comune secondo cui questi sarebbero stati gli anni della Belle
Époque. O meglio ciò precisa come essa abbia interessato solo ed esclusivamente
l’Europa Occidentale, le guerre che abbiamo citato essendo o di carattere coloniale,
o svolgentisi in teatri lontani. In altre parole, la pace, dopo la guerra franco-prussiana del 1870, interessò quella parte di mondo che di esso si considerava il centro o
addirittura l’unica realtà storicamente valida.
Questa serie di eventi aveva comunque messo sull’avviso i governi e gli stati maggiori delle grandi potenze circa l’inevitabilità del fatto che, prima o poi, la catena
degli eventi li avrebbe in qualche modo interessati, e quindi anch’esse sarebbero
state coinvolte in un grande conflitto. Era però errore comune, dei governi e degli
stati maggiori, frutto di una concezione strategica ancora ottocentesca, l’idea che la
guerra ventura sarebbe stata breve perché si sarebbe conclusa, com’era capitato appunto nei secoli precedenti, con una grande, decisiva battaglia che si sarebbe svolta
entro poche settimane dall’inizio delle ostilità.
La definizione di Belle Époque non si adatta pertanto a un periodo di pace che in realtà non c’è, quanto piuttosto a una serie di innovazioni tecnologiche – penso all’energia elettrica, al telegrafo, al telefono, al motore a scoppio, al cinematografo – che
sembravano aver cambiato la vita delle grandi città europee, inondandole di luce e
permettendo più rapide comunicazioni. In altre parole sembrava essersi realizzato il
sogno di una scienza che si trasforma in tecnologia e si mette al servizio dell’uomo.
Non a caso, la fantascienza, da Jules Verne a Herbert Welles, nasce in quest’epoca.
(1) Insignito dal Presidente della Repubblica della Medaglia di Benemerito della Scuola,
della Cultura e dell’Arte.
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La Belle Epoque
Restava da capire quale potenza avrebbe maggiormente fruito di queste innovazioni
estendendo la sua egemonia fin dove possibile. Probabilmente un progetto cosciente
di egemonia mondiale non era ancora stato pensato da nessuna cancelleria, ma di
fatto la Gran Bretagna, con le colonie che si estendevano su circa un terzo delle terre
emerse e con la sua grande flotta, di fatto già l’esercitava.
Egemonia messa in pericolo, a partire dalla fine del XIX secolo, dall’Impero
Tedesco già egemone sull’Europa continentale. Egemone non tanto, o non solo,
sul piano politico, bensì, e soprattutto, sul piano culturale essendo le università
tedesche ritenute le migliori del mondo, sicché da quelle cattedre la filosofia e la
scienza si erano diffuse pressoché in tutti i paesi. Quindi, pur senza sposare la tesi
di Fritz Fischer circa un consapevole piano tedesco per la conquista del mondo, è
evidente come fosse sorta in Germania un’opinione pubblica pantedesca, già con
qualche venatura razzista – penso alla Società Thule che proclamava la superiorità
della razza nordica – che mirava a sostituire la Gran Bretagna anche nelle colonie e
sui mari. Non va dimenticato che la Germania aveva “scoperto” l’Oceano Pacifico
e vi aveva occupato alcuni arcipelaghi di grande importanza strategica collocati tra
il Giappone e gli Stati Uniti.
La grande contesa si giocava dunque tra l’Impero Britannico e l’Impero Tedesco.
Tutte le altre questioni controverse, che pur non erano poche, ruotavano di fatto
attorno a quest’asse. La Francia continuava a tenere aperta la sua querelle con la
Germania per l’Alsazia e la Lorena, strascico della guerra del 1870, che non era
però solo un problema di possesso territoriale di due pur ricche e importanti regioni,
bensì metteva in questione anch’essa il problema dell’egemonia continentale.
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Ragion per cui le antiche rivalità con la Gran Bretagna risalenti alla notte dei tempi
e rinfocolate nel XIX secolo dalla rivalità coloniale, si erano risolte teoricamente
in Sudan, con l’accordo di Fascioda del 1898; in realtà la rivalità era venuta meno
per il comune interesse a contenere l’espansionismo tedesco. Infatti, più o meno dal
1904 si parlava di entente cordiale che non era un patto scritto ma indicava una sorta
di canale privilegiato nei rapporti tra i due paesi. Era invece un vero e proprio patto
la duplice intesa tra la Francia e l’Impero Russo, che aveva sì contenziosi aperti con
la Germania, ma più ancora con l’Austria Ungheria e quindi vedeva nella Francia
l’alleato ideale in funzione antiaustriaca, per l’egemonia sui Balcani, che era la
grande aspirazione della Russia.
A spese dell’Impero Ottomano sia la Russia, sia l’Austria Ungheria, volevano risolvere a proprio vantaggio la cosiddetta Questione d’Oriente, che altro non significava se non la riduzione della Turchia all’Asia, riducendone o annullandone del tutto i
possessi in Europa. Il cozzo tra la Russia e l’Austria-Ungheria era quindi inevitabile
e logicamente ciascuna cercava di trovare nella Penisola Balcanica puntelli su cui
appoggiarsi. Nella Penisola Balcanica il naturale alleato della Russia, con la quale
aveva in comune la religione, era la Serbia, che perseguiva per conto proprio l’ideale della riunione in un unico stato di tutti gli slavi del sud. Per lascito della II guerra
balcanica, l’Austria-Ungheria guardava piuttosto alla Bulgaria, che aveva con la
Serbia aperte varie questioni territoriali.
L’accenno alla Serbia e alla Bulgaria ci porta a esaminare il comportamento di altre
due potenze, di minore importanza certamente, ma che saranno destinate a giocare
un loro ruolo nella guerra veniente: mi riferisco alla Romania che aspirava al possesso di quella parte della Transilvania che in allora faceva parte dell’Ungheria,
ed era quindi potenzialmente un’alleata della Russia e delle potenze occidentali, e
all’Italia, per la quale è necessario fare un discorso a parte.
L’Italia aveva siglato la Triplice Alleanza con la Germania e con l’Austria-Ungheria
nel 1882. È necessario riflettere sulla data dell’accordo perché esso segue l’occupazione della Tunisia da parte della Francia, occupazione che determinò nel governo
italiano la sensazione che il Mediterraneo stesse per diventare un lago anglo-francese, donde la necessità di appoggiarsi agli Imperi Centrali. Seguì così un periodo di
difficili rapporti tra l’Italia e la Francia contrassegnati dalla cosiddetta guerra delle
tariffe, cioè dal progressivo incremento dei dazi sulle merci da e per la Francia.
Anche però quando questo stato di tensione venne meno nel primo decennio del
XX secolo a opera soprattutto del ministro degli Esteri Emilio Visconti-Venosta, la
Triplice venne ripetutamente confermata fino all’ultimo rinnovo del 1912, rinnovo
che comprendeva tra l’altro una convenzione militare segreta per la quale, in caso
di guerra, un corpo di spedizione italiano avrebbe dovuto appoggiare sul Reno l’esercito tedesco.
Tale politica del governo italiano dovette però sempre fare i conti con una parte
dell’opinione pubblica orientata in senso opposto o perché convinta della necessità
di completare il Risorgimento con Trento e Trieste, o per antichi legami ideologici
con la Francia repubblicana. Era quindi evidente che l’Italia rappresentava l’anello
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debole della Triplice perché contemporaneamente la sua politica la collocava sì agli
antipodi della Francia, ma anche agli antipodi dell’Austria-Ungheria. E questa era
una contraddizione difficilmente risolvibile. Una ancor più ampia contraddizione
però, o quantomeno un punto interrogativo gravava su tutte le potenze europee, non
essendo chiaro se l’atteggiamento dei governi coincidesse realmente con l’atteggiamento dei popoli, a orientare i quali contribuivano due opposti modi di vedere
le cose.
L’Internazionale Socialista riteneva infatti di essere la legittima rappresentante dei
lavoratori di tutto il mondo e nei suoi congressi, l’ultimo a Basilea del 1912, aveva
solennemente affermato essere la guerra un problema di imperialismi contrapposti che interessavano le borghesie e non il proletariato che della guerra comunque
sarebbe stato vittima. Aveva proclamato pertanto che in caso di guerra i lavoratori avrebbero dovuto rispondere con lo sciopero generale, mettendo così i paesi
nell’impossibilità di combattersi l’un l’altro.
D’altro canto, la quasi totalità della cultura militante del tempo – penso in particolare ai futuristi, ma non soltanto a loro – riteneva la guerra necessaria per ripulire il
mondo delle molte scorie che lo affollavano. Riteneva, infatti, la cultura militante
che i popoli avessero smarrito il senso dei valori accontentandosi, o aspirando, di un
quieto vivere borghese pago dei consumi e dei divertimenti, mentre la vita avrebbe
dovuto nutrirsi di un senso eroico, di bei gesti esemplari, di dinamicità e di cambiamento. Naturalmente questo era detto a chiare lettere solo in circoli limitati, ma
attraverso l’opera della scuola tale convincimento, sia pur volgarizzato e ridotto ai
minimi termini, in qualche misura era penetrato anche a livello di massa, ragion per
cui le categorie mentali dell’oggi che respingono la violenza, sono difficilmente
applicabili agli eventi di allora dal momento che la violenza aveva un ruolo considerato non negativo nelle categorie mentali del tempo.
Quando tuonarono i cannoni d’agosto, infatti, non scoppiò alcuno sciopero generale; anzi a Berlino e a Parigi, ma non solo, la popolazione invase le strade e le piazze
inneggiando alla guerra. Solo che le convinzioni dei generali si rivelarono errate
dal momento che, lungi dal concludersi in poche settimane, la guerra s’impantanò a
Occidente lungo la Marna e a Oriente lungo una linea che, attraversando la Polonia,
giungeva ai Carpazi, obbligando gli eserciti contrapposti a scavare trincee e ad apprestarsi a un’imprevista guerra lunga.
Ciò che s’impose fu la tecnologia e in particolare la messa in postazione della mitragliatrice che con il suo fuoco impediva, o rendeva sanguinosissimi, quegli attacchi
frontali sui quali s’imperniava la tattica di ogni esercito e non solo, è tempo di dirlo,
quella ideata dal generale Luigi Cadorna sul fronte italiano.
Prolungandosi la guerra, si resero necessari alcuni provvedimenti. In primo luogo
era d’obbligo dare uno schermo ideologico entro il quale mascherare i reali obiettivi
della guerra. La Francia e la Gran Bretagna avrebbero potuto giocare la carta dei
loro regimi democratici di contro al militarismo e ai residui di feudalesimo propri
degli Imperi Centrali; ostava però a ciò l’alleanza con la Russia che nel 1914, nonostante la prima rivoluzione del 1905 e la nascita di una Duma, cioè di una camera
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rappresentativa, era ancora il massimo esempio di autocrazia. L’intellettualità dei
paesi belligeranti ricorse quindi ad altre formule: i francesi in particolare utilizzarono l’arma della civilisation, cioè il loro essere rappresentanti dei diritti dell’uomo
e del cittadino, mentre i tedeschi si ergevano a difensori della kultur, cioè di una
compatta società organica fondata sull’ordine e sulla disciplina.
Al di là degli schermi ideologici, si trattava però di vincere la guerra e quindi tra
il 1914 e il 1915 fitti furono gli incontri diplomatici per provocare l’intervento in
guerra delle nazioni che ancora ne erano fuori. Si argomentava che, essendo le due
forze in perfetta parità dato che erano ferme su fronti ormai consolidati, l’intervento
di qualche altro paese avrebbe potuto e dovuto rappresentare il peso determinante
atto a risolvere la guerra in un senso o nell’altro. Nel 1916 il corteggiamento degli
alleati interessò la Romania, nel 1915, invece, fu l’Italia a essere invocata sia dalla
Triplice, sia dall’Intesa come quel peso che sarebbe stato determinante sulle sorti
della guerra.
Il corteggiamento, fatto come sempre in questi casi di ampie promesse, si risolse a
favore dell’Intesa, prevalendo in Italia, in modo costituzionalmente corretto, anche
se un po’ sforzato, due correnti che molto provvisoriamente si trovarono ad agire
assieme. Da un lato c’erano infatti coloro che ritenevano la guerra necessaria, affinché l’Italia assurgesse al ruolo di grande potenza, dall’altro c’erano gli eredi del
mazzinianesimo e del garibaldinismo, che ritenevano la guerra necessaria in nome
dell’autodeterminazione dei popoli.
Il Partito Socialista italiano fu l’unico, in Europa, che, almeno al vertice, si professò compattamente neutralista, ma questo suo atteggiamento non si tradusse in
un reale sabotaggio della guerra e fu dunque sostanzialmente sterile nel senso che
permise agli interventisti di giocare tranquillamente le loro carte. A questo punto la
volontà degli interventisti incontrò la volontà del Re e del Governo presieduto da
Antonio Salandra e si giunse così alla firma del patto di Londra, che equivaleva alla
denuncia della Triplice Alleanza, denuncia che sopraggiunse ufficialmente qualche
giorno dopo. L’intervento dell’Italia non fu invece determinante, così come non fu
determinante nel 1916 l’intervento della Romania che avrebbe dovuto modificare lo
svolgimento del conflitto sullo scacchiere orientale.
Una volta svanite queste speranze, il 1916 si connotò per l’elevato grado di stanchezza che toccava tutti i popoli e tutti gli eserciti. Sul finire di quell’anno, infatti, si
fecero insistenti le voci di un accordo per porre fine alla guerra. Più specificamente,
il cancelliere tedesco Bethmann Holveg formulò in novembre una sua proposta di
accordo che venne unanimemente respinta dall’Intesa perché sembrò che a trarne
vantaggio sarebbe stata soltanto la Germania. La proposta tuttavia incoraggiò il presidente americano Woodrow Wilson a formulare una sua proposta che prevedeva, se
si fossero concluse le ostilità, la formazione di una Lega delle nazioni che avrebbe
dovuto evitare le guerre del futuro.
Le proposte di cui sopra si muovevano evidentemente nel campo della diplomazia
internazionale, ma era rimasto in Europa qualche lacerto del vecchio neutralismo socialista, sicché i partiti o le frazioni di partito che erano rimasti fedeli al neutralismo
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dei congressi dell’Internazionale si riunirono nel 1915 a Zimmerwald e nel 1916 a
Kienthal ove venne al proscenio Wladimir Il’ič Lenin che riteneva fosse necessario
trasformare la guerra imperialistica in rivoluzione proletaria, per uscire dall’incubo
nel quale le diverse borghesie nazionali avevano condotto i loro paesi. Sembrava
la millanteria di un esule ormai da tempo lontano dal suo paese, ma l’anno successivo avrebbe mostrato trattarsi invece di una soluzione possibile. Certamente più
incisiva del tentativo esperito da Sisto di Borbone, per conto dell’imperatore Carlo
succeduto nel novembre del 1916 a Francesco Giuseppe, che fece il giro delle corti
europee nel tentativo di trovare la via di una pace di compromesso.
L’anno decisivo fu il 1917 dal momento che fu l’anno in cui la guerra cambiò aspetto, assumendone uno che non era neppur lontanamente simile a quello che aveva
nel 1914. I motivi per i quali il 1917 è diverso dal 1914 vanno trovati in Russia
e negli Stati Uniti d’America. In Russia la rivoluzione di febbraio aveva portato
all’abdicazione dello Zar e alla nascita di una Duma che sembrava intenzionata a
introdurre anche in Russia il sistema liberaldemocratico per conseguire il quale era
condizione preliminare continuare la guerra a fianco dell’Intesa che quel sistema
appunto rappresentava. Le potenze occidentali, infatti, vennero prese da una sorta
di euforia perché finalmente la guerra assumeva l’aspetto di uno scontro tra due
sistemi politici contrapposti e, dopo febbraio, anche la Russia apparteneva senza
contraddizioni a questo schieramento.
Nell’aprile 1917 l’entrata in guerra degli Stati Uniti sembrò confermare che la guerra aveva assunto l’aspetto di cui abbiamo appena detto e, quasi a conferma dell’assunto, il presidente Wilson si apprestava a pubblicare, ciò avverrà nel gennaio 1918,
i 14 punti, vero manifesto che spiegava i motivi della guerra dell’Intesa.
Se teniamo presente la grandezza di questi eventi, l’episodio di Caporetto che iniziò
il 24 ottobre e si concluse sul Piave il 9 novembre 1917 assume un aspetto decisamente secondario nel panorama della guerra mondiale, trattandosi di una sconfitta
militare quali ne subirono un po’ tutti i belligeranti e che venne prontamente riscattata con la difesa sul Piave a cui parzialmente parteciparono le stesse truppe che
sembravano essersi dissolte a Caporetto.
L’euforia delle potenze occidentali circa gli eventi in Russia era comunque destinata
a durare poco perché già in aprile Lenin, rientrato dall’esilio, pronunciò un discorso,
diventato poi le Tesi d’aprile, in cui andava dritto al nocciolo del pensiero profondo
delle masse russe, pensiero profondo che non coincideva con gli ideali delle democrazie occidentali. Lenin aveva capito due cose fondamentali: che il popolo era
stanco della guerra, e dunque gli promise la pace immediata a qualsiasi costo, e che
la grande massa dei contadini anelava a impossessarsi delle grandi proprietà terriere
e a dividersele, e dunque Lenin lanciò lo slogan “La terra ai contadini”.
Da aprile a novembre passò qualche mese, ma in quel torno di tempo l’esercito russo che era composto di larghissima parte di contadini si autosmobilitò perché costoro volevano tornare il più rapidamente possibile ai loro villaggi per partecipare alla
distribuzione delle terre. In novembre fu palese che l’esercito non sarebbe stato più
in grado di reagire a una eventuale ribellione, che anzi avrebbe fatto fronte comune
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con eventuali insorti e dunque i bolscevichi decisero che era venuto il momento
di giocare la carta della seconda rivoluzione che infatti, a Pietroburgo e a Mosca,
s’impose quasi senza spargimento di sangue. Così la Russia uscì praticamente dalla
guerra, anche se l’armistizio con la Germania fu firmato poi a Brest-Litovsk soltanto nel marzo 1918.
La defezione russa fu al momento solo parzialmente compensata dall’intervento
degli Stati Uniti perché l’arruolamento, l’addestramento e il trasferimento del corpo
di spedizione americano in Francia fecero sì che, dal punto di vista militare, gli effetti dell’intervento americano si facessero sentire solo a partire dal settembre 1918.
L’intervento americano contava però molto di più sul piano politico per i motivi che
già abbiamo esposto e, ancor di più, sul piano economico perché le potenze dell’Intesa ebbero accesso alle materie prime e alle derrate alimentari delle quali gli Stati
Uniti disponevano, attraverso una serie di prestiti a tasso agevolato. E ciò proprio
nel momento in cui il blocco navale posto in atto fin dall’inizio del conflitto e che la
flotta sottomarina tedesca non era riuscita a infrangere, faceva sentire i suoi effetti
sugli Imperi Centrali ridotti a una vera e propria penuria degli alimenti di base.
Naturalmente il pessimo regime alimentare proprio della popolazione degli Imperi
Centrali portò la medesima ai limiti dell’esasperazione che si esternò in episodi
quali lo sciopero generale scoppiato a Vienna nel gennaio 1918.
Nel lungo termine, tutto ciò giocava evidentemente a favore dell’Intesa, ma nel
breve la scomparsa del fronte orientale rafforzò notevolmente gli eserciti tedesco e
austroungarico su fronti occidentali, sicché dal punto di vista militare la situazione
Vienna 1918: le donne in coda per il pane
Foto: Archiv der Bundespolizeidirektion.it
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all’aprirsi del 1918 sembrava più favorevole agli Imperi Centrali che non all’Intesa.
Infatti, il Comando tedesco concentrò sul fronte francese una massa di uomini e di
mezzi quale mai si era vista fino a quel momento e iniziò dalla primavera del 1918 il
più poderoso attacco che mai si fosse verificato su quel fronte. Nel contempo anche
l’esercito austroungarico, raccolte le ultime forze, che peraltro erano ancora notevoli, si apprestò all’offensiva sul fronte italiano nella cosiddetta battaglia del Solstizio.
Gli alleati occidentali resistettero anche per l’introduzione, in particolare da parte
dell’esercito britannico, di nuovi tipi d’armamento quale i carri armati, e dall’estate
1918 fu palese che mai più gli Imperi Centrali avrebbero potuto radunare una così
gran massa di uomini e di mezzi per tentare nuove offensive. In altre parole, la guerra aveva rivelato il suo vero volto di guerra di logoramento nella quale parte preponderante avevano i mezzi che potevano essere messi a disposizione degli eserciti.
La cosa fu talmente compresa dai governi e dagli Stati Maggiori dell’Intesa, che si
esitò nell’ordinare di passare all’attacco per il timore delle perdite e si preferì che
fossero il logorio e le carenze di quanto era necessario per sopravvivere a fiaccare
gli eserciti e i popoli degli Imperi Centrali.
Infatti, era dal settembre che si sollecitava il governo italiano perché esso insistesse
presso il generale Armando Diaz, nuovo comandante supremo, per una offensiva
sul fronte italiano; ma Diaz nicchiava, così come nicchiavano i suoi colleghi francese, inglese e americano sul fronte occidentale, sicché non ci fu una grande battaglia
che concludesse la guerra in campo aperto, quanto piuttosto un progressivo arretramento delle truppe tedesche dalla Francia, determinato anche dalle notizie che
arrivavano dalla Germania di tumulti e ribellioni, culminate con l’ammutinamento
della flotta della base di Kiell.
A questo punto furono i generali medesimi a consigliare all’Imperatore Guglielmo
II di chiedere l’armistizio. Il che Guglielmo fece, facendo seguire alla richiesta la
propria abdicazione dal trono onde consentire alla sopravveniente repubblica di
chiedere la pace sulla base dei 14 punti di Wilson. Ciò non avvenne, anzi, le potenze
occidentali vollero rivalersi sulla Germania delle perdite e dei danni subiti imponendole, considerata unica responsabile della guerra, una somma in conto riparazioni che il paese non era in grado di sostenere e che affrontò con la pesantissima
svalutazione della moneta e concedendo parte dei macchinari delle proprie industrie
in conto riparazioni.
L’esercito italiano affrontò, attorno a Vittorio Veneto, una vera battaglia contro l’esercito austroungarico, ma quest’ultimo era ormai minato dalle aspirazioni nazionali dei diversi popoli che lo componevano, motivo per il quale la resistenza fu maggiore o minore a seconda delle etnie dei reggimenti che si opponevano all’offensiva
italiana. Non a caso resistettero molto di più i reggimenti croati e sloveni in quanto
l’ormai generalizzata aspirazione all’unità della Jugoslavia collideva fatalmente
con le aspirazioni italiane su quelle terre di confine, da Trieste a Fiume, alle quali
entrambi i paesi aspiravano.
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Per quanto pesante sia stato il bilancio delle vittime e dei danni, la conclusione della
guerra portò con sé alcune importanti conseguenze. Sia pur temporaneamente, il
militarismo tedesco venne bloccato e, nel 1918, nessuno avrebbe potuto prevedere
l’avvento di Hitler e la riapertura a breve del conflitto con ancor peggiori conseguenze. Quel residuo di Medio Evo rappresentato dall’Impero Asburgico si era dissolto così come prevedeva lo spirito dei tempi, e su quel territorio aveva trionfato
il principio dell’autodeterminazione dei popoli. È facile oggi parlare di esagerati
nazionalismi, ma, nel 1918, l’aspirazione al riconoscimento della propria nazionalità era ancora sentimento diffuso e sentito.
I 14 punti di Wilson, inoltre, costituirono una sorta di manifesto della democrazia
e alcune nazioni europee adeguarono a essi il loro regime politico; tuttavia importa
di più il fatto che i 14 punti siano entrati nel patrimonio ideale di una parte dell’opinione pubblica europea. Nel contempo, mai nella storia un evento fu così foriero di
speranze e di timori quale fu la Rivoluzione d’Ottobre, che non si può spiegare se
non nel clima e nell’ambito della guerra.
Quasi per paradosso una guerra, subita e non voluta, non diventata rivoluzione, se
non in Russia, aveva comunque trasformato i popoli da oggetto in soggetto di storia.
Per tutti questi motivi ritengo quanto meno semplicistico limitare il ragionamento al
concetto di “inutile strage”, come sembra oggi essere opinione prevalente.
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