Linee Guida IVC - Universita` di Siena

LINEE GUIDA FLEBOLINFOLOGICHE
IN COLLABORAZIONE CON LA SAF-SEZIONE DI FLEBOLOGIA-SICVE, CON IL
CIF-COLLEGIO ITALIANO DI FLEBOLOGIA, CON LA SIAPAV-SOCIETA’ ITALIANA DI
ANGIOLOGIA E PATOLOGIA VASCOLARE
TASK FORCE
G.B.AGUS, G.ARPAIA, P.BONADEO, S. CAMILLI, R. DI MITRI, V.GASBARRO, P.ZAMBONI
GENERALITA’
CLASSIFICAZIONE CEAP EPIDEMIOLOGIA WORKLOAD DELLA
CHIRURGIA VENOSA IN CHIRURGIA VASCOLARE E SETTING
ASSISTENZIALE. ANALISI DEI COSTI
INSUFFICIENZAVENOSA CRONICA
PERCORSI DIAGNOSTICI PRE-INTRA-POST- OPERATORI e MODELLI EMODINAMICI COME
GUIDA ALL’INDICAZIONE TERAPEUTICA CHIRURGIA DELL'INSUFFICIENZA VENOSA
SUPERFICIALE
CHIRURGIA DEL SISTEMA VENOSO PROFONDO CHIRURGIA DELLE
COMPLICANZE:
ULCERE VENOSE
TROMBOSIVENOSESUPERFICIALI
VARICORRAGIE
COMPRESSIONE ELASTICA SCLEROTERAPIA POST-OPERATORIA O
ALTERNATIVA ALLA CHIRURGIA
FARMACOTERAPIA PRE-POST-OPERATORIA
TRATTAMENTI INCERTI, NON RACCOMANDABILI, SCONSIGLIABILI
TROMBOEMBOLISMO VENOSO
IL CHIRURGO VASCOLARE COME ESPERTO DI TEV: TVP. TVS. TROMBOSI
AXILLO-SUCCLAVIA IL TEV COME RISCHIO DI COMPLICANZA DELLA
CHIRURGIA VASCOLARE
APPENDICE. PATOLOGIA
LINFEDEMI
LINFORREA/LINFOCELE
LINFANGITE
DEI LINFATICI
[N.B. MALFORMAZIONI VENOSE OGGETTO DI ALTRA TASK FORCE]
«Note per gli utilizzatori»
Le decisioni cliniche sul singolo paziente richiedono l’applicazione delle raccomandazioni, fondate sulle
migliori prove scientifiche, alla luce dell’esperienza clinica e di tutte le circostanze di contesto.
Il documento è stato redatto considerando gli aggiornamenti 2005-2007, partendo dalle Linee Guida
italiane flebolinfologiche pubblicate in versione inglese su International Angiology nel 2005 (vol. 24: 107-68). La
durata di prevedibile validità, prima di ulteriori aggiornamenti, tiene conto dei periodici Congressi Mondiali
dell’Union International de Phlébologie.
Di seguito, la qualifica dei singoli componenti della Task-force: Agus GB: Ordinario di chirurgia
vascolare e Direttore dell’Istituto di Chirurgia Vascolare e Angiologia
dell’Università di Milano. Arpaia G:
Responsabile dell’ Ambulatorio di Angiologia Medica e Diagnostica vascolare non Invasiva, Azienda Ospedaliera
“Ospedale Civile” di Vimercate, Milano. Bonadeo P: Dirigente Medico Istituto di Chirurgia Vascolare e
Angiologia dell’Università di Milano. Camilli S. : Consultant Chirurgia Vascolare, Roma. Di Mitri R: Professore
a contratto Scuola di Specializzazione Chirurgia Vascolare-Università di Pisa. Responsabile Istituto Flebologico
Italiano-Ferrara. Gasbarro V: Associato di Chirurgia Generale in U.O. di Chirurgia Vascolare dell’ Università di
Ferrara Zamboni P: Associato di Chirurgia Generale e Direttore del Centro Malattie Vascolari dell’ Università di
Ferrara
d.
Non sono dichiarati “Conflitti di Interesse”, salvo rimborsi per la partecipazione a simposi, lezioni e
conferenze, da aziende farmaceutiche o biomedicali (cfr modalità dichiarative in : Ministero della Salute. Clinical
Evidence, Ed. italiana, 2001, n. 1).
PREMESSA
L’importanza del capitolo flebologico è emersa in tempi relativamente recenti; e tuttora non è valutata appieno
da alcuni settori della chirurgia vascolare italiana ferma quasi alla concezione della monopatologia “vene varicose”
appartenente al campo della Patologia Chirurgica come da vecchia trattatistica.
Viceversa, sia per dati epidemiologici ad elevato impatto socio-economico, sia per più moderne interpretazioni
fisiopatologiche correlate al tradizionale concetto di stasi venosa, ma contestualmente alle più recenti vedute sul danno
endoteliale, devono essere considerate con attenzione le conseguenze croniche e acute delle flebopatie.
Il singolo segno-sintomo “vene varicose” va infatti sostituito con il raggruppamento di patologia oggi definito
Insufficienza Venosa Cronica (IVC) con sua propria classificazione internazionale definita CEAP. Questo comprende
inoltre una serie di complicanze le cui sequele rimangono un grave problema sanitario: l’ulcerazione cutanea, la
varicorragia, le trombosi venose superficiali (TVS) e/o profonde (TVP), la sindrome post-trombotica (SPT).
Le TVS, TVP e SPT, a possibile esito di embolia polmonare (EP) costituiscono unitariamente un secondo
vasto raggruppamento di patologia definito TromboEmbolismo Venoso (TEV).
Le malformazioni venose sono una circoscritta componente della Flebologia, ricompresa in queste L-G nel più
ampio capitolo delle Malformazioni vascolari.
Infine, non deve essere dimenticato il piccolo capitolo della Linfologia perché se numericamente minore, tale non è
dal punto di vista dell’impatto sul malato e sul difficile management.
Sono questi tutti campi di azione dell’angiologo e del chirurgo vascolare; o anche specialista definibile
flebologo, nella misura in cui sia più esperto cultore della materia.
CLASSIFICAZIONE
L’ IVC ha sofferto in passato per la mancanza di precisione nella diagnosi che ha procurato dati contrastanti negli studi
sul trattamento di specifiche patologie venose (Widmer, 1978 1 e 2). E’ acquisito oggi che queste divergenze possano
essere risolte da una precisa diagnosi e classificazione relativamente ad ogni arto affetto, prima di procedere al
trattamento terapeutico. A tale scopo, l'utilizzazione di una singola classificazione universale facilita la comunicazione
sull’ IVC e serve da fondamento per una analisi più precisa e scientifica dei trattamenti alternativi (Antignani, 2001).
Nel Febbraio 1994 una commissione internazionale dell' American Venous Forum (AVF), istituita appositamente, si è
interessata a queste problematiche in occasione di un meeting organizzato dalla Straub Foundation in Maui, Hawaii,
Usa. Questa commissione mise a punto un Consensus Document per la classificazione e la stadiazione dell’ IVC
chiamata classificazione CEAP perché basata sulle manifestazioni cliniche (C), sui fattori eziologici (E), la distribuzione
anatomica (A), le condizioni fisio-patologiche (P). Lo scopo fu quello di fornire una classificazione obiettiva ed
esauriente che potesse essere utilizzata in tutto il mondo (Porter, 1985; Myers, 1995; Kistner, 1996; Labropoulos, 1997).
La classificazione CEAP è stata pubblicata in 25 riviste e testi in 8 lingue.
Tabella 1
Tabella 3
Classificazione anatomica
Oggi nella maggior parte delle pubblicazioni in Flebologia è in uso la classificazione CEAP. La necessità di ampliarla e
modificarla in seguito alle nuove conoscenze che vengono man mano acquisite in campo flebologico ha portato a
successive revisioni parziali. Nel 2000 sono stati pubblicate due modifiche della classificazione CEAP. Un apposito
comitato dell'AVF ha presentato un nuovo sistema di valutazione delle malattie venose secondo la loro severità
(Rutherford, 2000) ed una Consensus Conference internazionale a Parigi ha proposto una nuova classificazione per le
varici recidive dopo interventi chirurgici (Perrin, 2000). Sulla scorta di tali osservazioni è stata organizzata una
Consensus Conference sulla ridefinizione della "C" in CEAP durante il 14° Congresso Mondiale della UIP, tenutosi a
Roma nei giorni 8-14 Settembre 2001 (Antignani et al, 2001) . I risultati di tale lavoro relativi alla definizione dei
termini di comune uso nella CEAP sono riportati nella tabella 4 , che segue. Le definizioni sono essenziali per un
corretto e uniforme linguaggio “flebologico” (Allegra, 2003). Riguardo la classificazione CEAP, la classe 4 venne
suddivisa in due parti: C4a, comprendente la pigmentazione e l’eczema, e la classe C4b, con lipodermatosclerosi e
atrofia bianca, allo scopo di definire più correttamente la severità delle alterazioni trofiche considerando che i segni
della classe C4b sono predittivi dello sviluppo di ulcere (Allegra, 2003).
Ulteriori contributi hanno proposto di ridefinire i quadri che sottendono la vecchia definizione di varici; e finanche
opportuno di distinguere il termine disease da disorder. La terminologia anglosassone di chronic venous disorder
permette infatti di includere un più ampio spettro di alterazioni morfologiche e funzionali del sistema venoso, dalle
teleangectasie alle ulcere venose, le prime delle quali non sempre risultano malattia-disease, pur presenti
frequentemente nella popolazione adulta sana. Il termine insufficiency, peraltro ormai consolidatosi nel tempo,
implicherebbe alterazioni funzionali più severe comprendenti l’ edema, le distrofie cutanee e le ulcerazioni (Eklof,
2004)
Tabella 4
DEFINIZIONE DEI TERMINI CLINICI DELL’ IVC
TELEANGECTASIA
Confluenza di venule intradermiche permanentemente dilatate di meno di 1 mm di calibro. Spiegazione: esse
dovrebbero essere normalmente visibili da una distanza di 2 metri in buone condizioni di luce. Sinonimi: “spider
veins”, “hyphen webs”, “thread veins”
VENE RETICOLARI
Vene intradermiche bluastre permanentemente dilatate solitamente di diametro da 1 mm a meno di 3 mm.
Spiegazione: sono di solito tortuose. Questo esclude vene visibili "normali" nei soggetti con cute trasparente.
Sinonimi: vene blu, varici intradermiche, venulectasie.
VENE VARICOSE
Vene sottocutanee permanentemente dilatate, di 3 mm di diametro o più, in posizione eretta. Spiegazione: le
vene varicose sono solitamente tortuose ma anche le vene rettilinee con reflusso possono essere classificate
come varicose. Possono essere vene varicose tronculari, tributarie o non safeniche. Sinonimi: varice, varici,
varicosità.
CORONA FLEBECTASICA
Teleangectasie intradermiche a ventaglio localizzate nelle regione laterale e mediale del piede. Spiegazione: il
significato e la localizzazione sono controverse e richiedono alcune considerazioni. A volte potrebbe rappresentare
il segno iniziale di malattie venose in stadio avanzato. In alternativa si può riscontrare negli arti che presentano
semplici teleangectasie in altre sedi. Sinonimi: “flare” malleolare, “flare” della caviglia.
EDEMA
Incremento percepibile del volume del fluido nel tessuto sottocutaneo identificato dalla formazione di una impronta
sotto pressione. Spiegazione: questa definizione include solo l'edema attribuibile alla malattia venosa. L'edema
venoso si manifesta di solito nella regione della caviglia ma può estendersi al piede e alla gamba.
PIGMENTAZIONE
Scurimento pigmentato brunastro della cute che si riscontra di solito nella regione della caviglia ma che può estendersi
al piede ed alla gamba. Spiegazione: è una modificazione iniziale della cute.
ECZEMA
Eruzione eritematosa, vescicolare, essudativa o desquamativa della cute della gamba. Spiegazione: è spesso localizzato
vicino a vene varicose, ma può essere riscontrato in qualsiasi zona della gamba. Talvolta può estendersi a tutto il corpo.
L'eczema è di solito dovuto a malattie venose croniche e/o alla sensibilizzazione a terapie locali. Sinonimi: dermatite da
stasi.
LIPODERMATOSCLEROSI
Indurimento cronico della cute localizzato, talvolta associato a cicatrizzazione e/o contrattura Spiegazione: è un
segno di malattia venosa severa, caratterizzata da infiammazione cronica e fibrosi della cute, del tessuto
sottocutaneo e talvolta della fascia.
IPODERMITE
L'ipodermite viene riferita ad una forma acuta di lipodermatosclerosi. E' caratterizzata da fragilità e diffuso
arrossamento della cute dovuto ad infiammazione acuta. Spiegazione: L'assenza di linfoadenite e di febbre
differenzia questa condizione dalla erisipela o cellulite.
ATROPHIE BLANCHE O ATROFIA BIANCA
Area biancastra e atrofica, circoscritta spesso circolare della cute circondata da chiazze di capillari dilatati e
talvolta iperpigmentazione. Spiegazione: è un segno di malattia venosa severa. Lesioni cicatriziali di ulcere guarite
sono escluse in questa definizione.
ULCERE VENOSE
Alterazioni croniche della cute che non riescono a guarire spontaneamente, causate da malattie venose croniche.
EPIDEMIOLOGIA
L’ IVC costituisce una condizione clinica assai rilevante sia dal punto di vista epidemiologico sia per le importanti
ripercussioni socio-economiche che ne derivano. Nei Paesi occidentali sono ben note le conseguenze della sua elevata
prevalenza, i costi dell’iter diagnostico e del programma terapeutico, le significative perdite in ore lavorative e le
ripercussioni sulla qualità di vita (Int TaskForce, 1999; Department, 2003; Carpentier, 2004; Bergan, 2006; Campbell,
2006). La prevalenza attuale dell’IVC a carico degli arti inferiori è del 10-50% nella popolazione adulta maschile e del
50-55% in quella femminile. La malattia varicosa è presente, clinicamente manifesta, nel 10-33% delle donne e nel
10-20% dei maschi adulti (Callam, 1987; Consensus Circulation, 2000; Callam, 1994; Cesarone, 1997; Wienert, 1992;
Antignani, 2005). Fra i diversi studi epidemiologici, ai fini di fornire dati di incidenza pura, appaiono di notevole
interesse speculativo quelli prospettici. Pochi sono in realtà dedicati all’IVC. Il più citato è il Framingham in cui
l’incidenza di varici (comparsa di nuovi casi nell’unità di tempo) è del 2.6% nella donna e dell’1.9% nell’uomo per
anno; a due anni le varici colpiscono rispettivamente 39/1000 uomini e 52/1000 donne (Brand, 1998). La correlazione
fra prevalenza di varici e età è quasi lineare: il 7-35% e il 20-60% rispettivamente degli uomini e delle donne fra i 35 e i
40 anni; dal 15 al 55% degli uomini e dal 40 al 78% delle donne oltre i 60. Le flebopatie e le varici sono rare nei
bambini e negli adolescenti. Tuttavia bambini con familiarità positiva per varici possono sviluppare vene ectasiche ed
incontinenti già nell’adolescenza (Consensus Circulation, 2000; Wienert, 1992; Canonico, 1998). Notevoli variazioni
circa la prevalenza di varici si osservano negli studi epidemiologici condotti in differenti aree geografiche (Wienert,
1992; Subramanian, 2007; Sam,2007). La trasmissibilità ereditaria dei disturbi venosi è discussa. L’incidenza di varici
in persone con o senza fattori ereditari trasmissibili varia dal 44 al 65% in presenza dei suddetti fattori vs il 27-53% in
loro assenza (Wienert, 1992). Una predisposizione familiare coesiste nell’85% dei portatori di varici vs il 22% di
pazienti senza antecedenti (Scott, 1995). Tuttavia se molti studi dimostrano una “eredità verticale” nessuno al momento
ne rivela una “orizzontale” che potrebbe spiegare un modello genetico. L’IVC colpisce prevalentemente il sesso
femminile fino alla quinta-sesta decade, successivamente non si notano significative differenza fra i sessi. Globalmente
gli studi epidemiologici evidenziano un rapporto uomo/donna di 1:2-3 sebbene l’importante studio di Basilea di Widmer
(Widmer, 1978 II) dimostri un rapporto di 1:1. Probabilmente influiscono le differenti metodiche di studio (Wienert,
1992). Numerosi studi epidemiologici correlano l’incidenza delle varici con la gravidanza e con il numero dei parti. Esse
variano dal 10 al 63% in donne con figli versus 4-26% in nullipare. Da 1 a 5 gravidanze comportano un’incidenza di
malattia varicosa dell’11-42% con progressione lineare con l’aumento dei parti. La correlazione è ancora più evidente se
la donna è già affetta da disturbi venosi. Tuttavia non mancano studi che dissentono negando una relazione fra incidenza
di varici e numero di gravidanze (Wienert, 1992).
La relazione fra varici e peso corporeo è stata esaminata da vari autori. Persone in sovrappeso, specie se di sesso
femminile e abitanti in aree civilizzate, soffrono maggiormente di IVC e di malattia varicosa rispetto a soggetti di peso
normale, dal 25 ad oltre il 70% (in entrambi i sessi) vs il 16-45% (Wienert, 1992). Le varici si manifestano abitualmente
ad entrambi gli arti inferiori, dal 39 al 76% dei casi (Wienert, 1992). L’ipertensione, il fumo di sigaretta, la stipsi non si
sono rivelati fattori di rischio statisticamente significativi e correlabili all’IVC. È ampiamente riconosciuto che alcune
occupazioni, particolarmente quelle che obbligano ad un prolungato ortostatismo, si associno con maggiore prevalenza
di varici anche se una tale correlazione è estremamente difficile da dimostrare sul piano statistico (Callam, 1994;
Hobson, 1997). Si è esaminata l’incidenza di varici in soggetti occupati in varie professioni, particolarmente in
lavoratori dell’industria. Una positiva associazione tra la stazione eretta e le varici è dimostrata da più autori (Wienert,
1992; Lorenzi, 1986). Risulta inoltre influente la temperatura del luogo di lavoro (Hobson, 1987). I molteplici ed
indipendenti indicatori di rischio per la comparsa di varici suggeriscono come una reale prevenzione delle varici sia
difficile su singoli indicatori epidemiologici (Fowkes, 2001; Laurikka, 2002). L’edema e la comparsa di lesioni trofiche,
l’iperpigmetazione e l’eczema, espressioni di IVC CEAP 4-6 variano dal 3 all’11% della popolazione. Lo sviluppo di
nuovi sintomi/anno è circa l’1% per l’edema e lo 0.8% per modeste dermopatie (Consensus Circulation, 2000). D’altra
parte sono stati condotti studi epidemiologici che hanno correlato la presenza di sintomi legati all’IVC senza segni
obiettivabili corrispondenti alla classe C0 della classificazione CEAP (Allegra, 2006; Antignani, 2005; Langer, 2005)
nell’ambito di un più approfondito esame della classe C (Carpentier, 2003) Ulcere venose (U.V.) in fase attiva si
ritrovano in circa lo 0.3% della popolazione adulta occidentale e la prevalenza globale di ulcere attive e guarite si attesta
sull’1% con sconfinamento oltre il 3% negli ultrasettantenni (Ruckley, 2000; Pina, 2007; MacKenzie, 2003). La
guarigione delle U.V. può essere ritardata od ostacolata dall’appartenenza dei pazienti a classi sociali medio-basse. La
prognosi delle U.V. è poco favorevole tendendo esse a guarire in tempi lunghi e a recidivare con grande facilità. Il
50-75% ripara in 4-6 mesi mentre il 20% resta aperto a 24 mesi e l’8% a 5 anni. Se in età lavorativa, il 12.5% dei
pazienti ha registrato un prepensionamento (Consensus Circulation, 2000; Int TaskForce, 1999; The Alexander House,
1992; Nelzen, 2000; Moffatt, 2006).
WORKLOAD DELLA CHIRURGIA VENOSA IN CHIRURGIA VASCOLARE
E SETTING ASSISTENZIALE. ANALISI DEI COSTI
L’importanza della chirurgia delle varici nei sistemi sanitari occidentali è data dalla frequenza della domanda. Si calcola
in generale un fabbisogno di 80.000 interventi nel Regno Unito (MacKenzie, 2002 I), 200 per 100.000 abitanti in
Finlandia (Laurikka, 2002), fino a circa 120.000 interventi per anno in Italia (dati dal sistema DRG e stima
approssimativa della flebologia privata) e 200.000 per anno in Francia (Banhini, 1998).
Il trattamento dell’ IVC inoltre, vede oggi un interesse dilatato all’intero arco dell’anno, sia per le variazioni climatiche
o microclimatiche da un lato, sia per le nuove conoscenze sulla cronobiologia. Era noto il maggior impegno flebologico
nelle stagioni calde ed era stato ipotizzato il rafforzamento delle “vein clinics” anglosassoni in tali stagioni. Tuttavia ,
da uno studio inglese (Cook, 1995) e dallo studio austriaco SERMO (Schmeiser-Rieder, 1998), confermati in
un’esperienza italiana (Agus, 2000), emerge come non vi siano differenze né sintomatologiche né nella decisione di
farsi trattare, da parte di differenti gruppi omogenei di pazienti sottoposti a questionario in due diversi periodi dell'anno
Le variazioni climatiche in atto – caldi improvvisi in stagioni considerate fredde e viceversa -, e le variazioni
microclimatiche – ambienti abitativi o di lavoro surriscaldati d’inverno, lunghi trasferimenti in auto con riscaldamento
diretto alle gambe, e viceversa più diffusa vita in ambienti climatizzati con aria condizionata e congrui periodi di
vacanza in estate – motivano il dilatarsi del carico di lavoro delle malattie venose croniche. Dalla cronobiologia e
cronoepidemiologia ci arrivano inoltre segnali di maggior incidenza di eventi venosi acuti, con insorgenza di trombosi
venose più elevata in inverno (gennaio-febbraio), forse correlata ad aspetti metereologici come la pressione atmosferica
più bassa (Esquenet, 1997), o più probabilmente emoreologici, comuni anche agli altri due più frequenti eventi
cardiovascolari, l’infarto e l’ictus (Manfredini, 1995). La chirurgia del sistema venoso superficiale è dunque
responsabile di un notevole carico di lavoro per le strutture operative di chirurgia generale e vascolare e produce liste di
attesa ancora oggi significativamente lunghe (Jaffe, 1991; Whiteley, 1996; Harris, 2006; Michaels, 2006; Koh, 2007).
Dai dati resi noti dal Ministero della Salute in base alla elaborazione delle SDO (ultimo anno elaborato statisticamente il
2004) e dal Registro SICVE (anno 2005) si evince che il totale degli interventi (DRG 119) eseguiti in Italia per le
varici degli arti inferiori, è di 116.013 (di cui 64.736 in regime di DS e 51.277 in regime di RO)(Tabella 5).
Tabella 5 - Dati statistici tratti dal sito Web del Ministero della Salute, DRG selezionato: 119
LEGATURA E STRIPPING DI VENE
Regime ordinario Riepilogo nazionale
Anno 2004
Legenda tipo istituto
AO/GD: Aziende ospedaliere e Ospedali a gestione diretta POL/IRCCS/CLASS/ALTRI: Policlinici Universitari, Istituti di
ricovero e cura a carattere scientifico, Ospedali classificati, Istituti sanitari privati qualificati presidio USL, Enti di ricerca CC
ACCR: Case di cura private accreditate CC N-ACCR: Case di cura private non accreditate
Regime ordinario Riepilogo nazionale
Anno 2004
Va segnalato che patologia varicosa è ricompresa anche in codificazioni diverse dal DRG 119, per tipologia di
intervento chirurgico; o per patologia, come nel caso del trattamento delle ulcere. Su 116.013 interventi del DRG 119
solo 8.535 (pari al lo 0,8% circa) sono stati eseguiti da U.O. di Chirurgia Vascolare con un trend degli stessi in
diminuizione rispetto al numero di casi eseguiti gli anni precedenti ( pur essendo aumentato il numero dei centri
partecipanti al Registro stesso, SICVEREG). Nonostante tale dato, la patologia venosa rappresenta il 32,6%
dell’attività chirurgica totale delle U.O. di Chirurgia Vascolare in Italia, mentre il 61,6% è rappresentato da patologie
arteriose; il 3,7% dalle complicanze; l’1,9% dalle patologie artero-venose; e vicino allo 0% la patologia chirurgica dei
linfatici.
L’analisi di tali dati, distribuiti per Regioni, evidenzia inoltre che circa 3.577 interventi (sempre il solo DRG 119) pari
al 41% degli stessi è stato eseguito in una unica Regione: la Lombardia. Per sfatare una convinzione molto diffusa
nell’ambiente dei Chirurghi Vascolari , in Italia solo lo 0,7% degli interventi (DRG 119) viene eseguito in regime
privatistico . Nella stragande maggioranza dei casi infatti tale intervento viene eseguito in strutture Pubbliche: Ospedali
e Università per il 45% e strutture private accreditate nel 55%. E’ evidente quindi che tale patologia pur essendo di
dirito compresa fra le prestazioni specialistiche di chirurgia vascolare viene in realta’ eseguita da altri specialisti e il
trend è in netto peggioramento . Se a questi dati di semplice natura statistica si aggiungono quelli derivanti dal fatto che
una chirurgia “inadeguata” sembra essere responsabile di molti casi di recidiva, nonostante una tecnica chirurgica
esente da errori (van Rij,1998; Allegra, 2007), anche se non è ben definibile che cosa si debba intendere per chirurgia
adeguata, o appropriata, e inadeguata , o non-appropriata (Jantet, 2000), si può immaginare a quale tipo di
considerazioni si può giungere. Analogamente a quanto fatto in passato per la chirurgia arteriosa (Jibawi, 2006) dove
si è dimostrato che i migliori risultati si ottengono solo in centri qualificati, alcuni lavori scientifici sembrano
confermare gli stessi esiti per la chirurgia flebologica. Resta naturalmente da stabilire quali debbano essere i centri
qualificati per professionalità, tecnologia e organizzazione in Flebologia in Italia .
Raccomandazioni:
La chirurgia flebologica è di diritto una branca della Chirurgia Vascolare, ma con eccellenze al di fuori di questa per
numeri e qualità. La Chirurgia Vascolare dovrebbe maggiormente impegnarsi al fine di incidere nei processi di
adeguatezza nei percorsi clinico-assistenziali Grado B IV
Setting Assistenziale
La possibilità clinica, organizzativa ed amministrativa ad effettuare interventi chirurgici o anche procedure diagnostiche
e/o terapeutiche invasive e semiinvasive, praticabili senza ricovero e senza necessità di osservazione post-operatoria, in
studi medici, ambulatori o strutture protette, in anestesia locale e/o loco-regionale, è sottoposta oggi in Italia a codifica
normativa e legislativa attraverso i LEA (G.U. Repubblica Italiana, Febbraio 2002), onde differenziare i tre possibili
regimi di effettuazione della chirurgia delle varici: ambulatoriale (A) ; day-surgery (DS); ricovero ordinario (RO) . I
Protocolli di Valutazione Appropriatezza (PVA) sono strumenti discendenti dall’ originario protocollo Appropriateness
Evaluation Protocol (AEP) per la valutazione di appropriatezza di utilizzo, sviluppato da Gertman e Restuccia nel 1981
(Gertman, 1981). AEP rappresenta il metodo più ampiamente verificato , validato ed usato nei programmi di gestione
negli ospedali USA fin dai primi anni 80. Successivamente, un gruppo di lavoro formato da sette Paesi europei (Austria,
Francia, Italia, Portogallo, Spagna, Svizzera, Regno Unito) ha verificato, aggiornato e validato il protocollo AEP da cui
deriva una versione europea (Lang, 1999). Una versione italiana, chiamata Protocollo di Revisione Utilizzo Ospedale
(PRUO), viene impiegata in diverse Regioni italiane (Ufficio MCQ, 2001; Restuccia, 2002). Il PRUO è caratterizzato da
aggiunte di sezioni specifiche mirate ad identificare le ragioni di ammissione e degenza non appropriate. Moduli
specifici sono necessari per identificare l’ appropriatezza del Ricovero Ordinario piuttosto che in Day Surgery
o prestazione Ambulatoriale . I criteri utilizzati per la determinazione del livello assistenziale si
dividono in quattro categorie :
Comorbilità (presenza di problemi medici concorrenti che pongono il paziente in una situazione di rischio
speciale, indipendentemente dal tipo di intervento chirurgico);
Complicazioni (la possibilità di insorgenza nel post-operatorio , considerata durata dell’ intervento uguale o
superiore a 60 minuti, fattori sociali quali paziente che viva da solo o con indisponibilità ad uso di mezzi di trasporto,
grande distanza dalla struttura sanitaria,ecc);
Cure intensive (eventuali necessità nel post-operatorio);
Criteri straordinari (override) Dalla analisi di questi dati e con questi strumenti è emerso, in questi ultimi anni
il concetto di inappropriatezza, nell’ambito dei LEA , del DRG 119 in termini di setting assistenziale. In sostanza
l’analisi dei dati statistici elaborati dal Ministero della Salute italiano evidenziano come ancora troppi interventi di
questo tipo vengono eseguiti in RO laddove sarebbe più appropriato in termini di governance il ricorso alla DS (Tabella
6 ). La DS sembra oggi , quindi,la più adatta alla maggioranza degli interventi chirurgici per varici, a patto di seguire
criteri selettivi precisi:
a)
la durata delle prestazioni in regime di DS deve essere preferibilmente contenuta entro un’ora;
b)
i pazienti da avviare a tale regime debbono essere opportunamente selezionati e debbono essere
preventivamente informati sul tipo di intervento e/o di trattamento al quale saranno sottoposti, sottoscrivendo un
consenso informato personalizzato. Attualmente è dimostrata una soddisfazione dei pazienti alla DS molto
vasta, anche se essa non è gradita in percentuali vicine al 25% (Forsdahl, 1997; Campbell, 1998; Balzer, 2001;
Sweeney, 2002);
c)
la selezione deve tener conto delle condizioni generali del paziente e dei fattori logistici e
d)
familiari;i pazienti che afferiscono ai programmi di chirurgia ambulatoriale e di DS devono essere in buone
condizioni generali. I candidati ideali sono quelli classificati nelle classi ASA 1 ed ASA 2. Le urgenze chirurgiche
sono escluse dal trattamento secondo tal regimi assistenziali;
e)
sono applicabili criteri di selezione in base ad età e peso. Con possibili eccezioni l’età massima indicativa
è di 75 anni. L’obesità è un fattore di rischio di notevole importanza e tale condizione deve essere attentamente
valutata;
f)
relativamente alla situazione logistica, è preferibile che il luogo di residenza del paziente non sia lontano
dalla struttura dove viene praticata la prestazione per consentire un tempestivo intervento in caso di necessità e
comunque il tempo di percorrenza dovrebbe essere preferibilmente compreso entro un’ora di viaggio. Ulteriore
requisito è rappresentato dalla sicurezza di poter comunicare telefonicamente con la struttura di riferimento;
g)
tutti i pazienti debbono essere assistiti durante il ricovero da un familiare o persona di fiducia
responsabile, opportunamente istruito, in grado di accompagnare a casa il paziente e fornire tutta l’assistenza
necessaria, soprattutto nelle prime 24 ore dall’intervento chirurgico;
h)
la scelta di intervenire in un regime piuttosto che in un altro resta esclusiva responsabilità del medico, il
quale potrà scegliere in assoluta libertà, nel rispetto del consenso informato del paziente, basandosi sui principi di
scienza e coscienza su cui da sempre si fonda la facoltà di curare;
i)
la scelta del regime di ricovero più opportuno sarà guidata dall’accertamento delle condizioni cliniche e
psicologiche del paziente. Molte delle patologia trattabili in regime ambulatoriale, se di maggiore estensione o
complicate, dovranno essere trattate in regime di DS o addirittura in regime di RO;
j)
si precisa da ultimo che, se un tipo di intervento compare nell’elenco delle prestazioni eseguibili in DS, ciò
non deve costituire alcun obbligo ad eseguire il trattamento indicato secondo tale regime assistenziale.
k)
L’analisi statistica del Ministero della Salute italiano per l’anno 2004 (non esistono dati ufficiali più
recenti)
evidenzia un trend in miglioramento verso forme di assistenza sanitaria più snelle . In particolare se
partiamo dai dati generali si evince che su 12.979.409 ricoveri in totale , 9.096.392 sono stati ordinari (circa
70%)
mentre 3.883.017 Day Hospital (circa il 30%) . Tali dati sono ben lontani da quelli ottenuti da altre
esperienze
come quella USA, dove la percentuale dei ricoveri in Day Hospital raggiunge quasi il 50%, ma
testimoniano un trend comunque in miglioramento.
Tabella 6 - Dati statistici tratti dal sito Web del Ministero della Salute, DRG selezionato119
LEGATURA E STRIPPING DI VENE Riepilogo regionale Anno 2004 Ricoveri DS
Ricoveri Ordinari
Se prendiamo in considerazione , più specificatamente i dati disponibili sul DRG 119 si documenta che in quell’anno
sono stati eseguiti 116.013 interventi chirurgici , di cui 51.277 (circa il 44%) in RO con una degenza media di 1.90
giorni e 64.736 (55%) in regime di DS con una degenza media di 1.67 giorni. Sicuramente la elaborazione dei dati
statistici di questi ultimissimi anni dimostreranno un ulteriore spostamento verso i ricoveri in DS. La tabella 6 (tratta
dai dati statistici del Ministero della Salute italiana ) ci offre la possibilità di ulteriori osservazioni:
le strutture che hanno recepito meglio lo spostamento del setting assistenziale verso le forme più semplici sono state le
strutture private o private accreditate nelle quali la degenza media risulta più bassa rispetto alle altre strutture;
solo una quota irrilevante sul totale di questi interventi viene eseguito in regime privatistico, contrariamente alla
sensazione comune, per lo 0,07% e solo meno della metà degli interventi viene eseguita in strutture private accreditate.
In sostanza questo è un intervento che continua ad essere eseguito prevalentemente in Ospedale o comunque in strutture
pubbliche;
l’analisi dei dati suddivisi per Regione ci indica come le Regioni del Centro-Nord si sono adeguate meglio è più
prontamente, al cambiamento del setting assistenziale, preferendo la DS rispetto al RO, rispetto alle regioni del
Centro-Sud e che la degenza media rimane comunque in assoluto più alta in queste regioni rispetto alle prime;
-un dato in controtendenza, rispetto ai dati epidemiologici, ci dice inoltre che vengono eseguiti molti più interventi di
questo tipo al Centro-Nord rispetto al Centro-Sud evidenziando che esiste ancora un problema di mobilità dei pazienti
anche per patologie minori.
Lontano dal voler dare delle interpretazioni sommarie all’analisi dei dati, gli stessi però devono farci riflettere sul fatto
che in termini di revisione degli standard organizzativi, di remunerazione delle prestazioni , ancora bisogna lavorare
alacremente, al fine di eliminare discriminazioni regionali che non hanno più motivo di esistere.
Negli ultimi anni si è evidenziato che lo sviluppo della pratica medica e del management ospedaliero nonché la
disponibilità di nuove tecnologie sanitarie consentono l'erogazione, in regime ambulatoriale, in totale sicurezza per il
paziente e per l'operatore, di una nuova prestazione, affine e alternativa alla precedente, effettuata per via endovascolare
con l'utilizzo di tecniche sofisticate (quali il Laser o la Radiofrequenza). Tale possibilità tecnica si è in alcuni casi
trasformata , per alcune amministrazioni Regionali, in una occasione per ritoccare le remunerazioni senza che si
stabilissero dei criteri oggettivi di tipo organizzativo. L’ambulatorialità è infatti un modello organizzativo più semplice
rispetto al RO e alla DS che prescinde dal luogo di esecuzione della prestazione stessa. In sostanza il SSN italiano non è
ancora pronto a recepire modelli puramente ambulatoriali (office) quali esistono in altri paesi Europei e negli USA. In
Italia al massimo si può accettare il modello di ambulatorialità chirurgica cosidetta protetta cioé eseguita in ambito
ospedaliero, ma con setting assistenziale semplificato. In sostanza mentre ancora si cerca di ridurre il numero di RO ,
dall’altra si introduce la possibilità teorica e pratica di poter erogare la medesima prestazione anche in regime
ambulatoriale. Purtroppo mentre per i RO e per quelli in DS sono ormai noti i criteri di selezione universalmente
accettati in Italia, per le prestazioni ambulatoriali si rimanda ai requisiti tecnico-amministrativi che ogni Regione adotta
per prestazioni ambulatoriali (ma che fanno riferimento alle tradizionali prestazioni ambulatoriali quali quelle di
endoscopia, odontoiatriche, ecc e non prendono in considerazione la chirurgia flebologica con le sue numerose varianti
di tecniche possibili). In Regioni quali il Veneto, ad esempio con Delibera della Giunta Regionale n°2468 del 1° agosto
2006, si apportavano modifiche e aggiornamento delle tariffe al nomenclatore tariffario per le prestazioni ambulatoriali
comprendendo gli interventi per varici degli arti inferiori. In tale Delibera si procedeva a dare anche delle indicazioni
più specifiche nel senso che venivano prefissate le percentuali per le tipologie del setting assistenziale, aggiungendo che
le procedure endovascolari si dovevano intendere solo procedure con setting assistenziale ambulatoriale a cui
ovviamente veniva attribuita una remunerazione più bassa e inadeguata per costo-beneficio complessivo .
Al fine di non creare confusione possiamo concludere che il setting ambulatoriale per il trattamento chirurgico delle
varici degli arti inferiori si presta bene per le tecniche endovascolari ed esistendo un precedente normativo (Regione
Veneto) può considerarsi lecita l’ organizzazione di un tale setting . Per la chirurgia standard (stripping) si può ipotizzare
la possibilità di un setting assistenziale ambulatoriale analogo, con requisiti tecnici e organizzativi che ogni Regione
deve prime rivedere e codificare e non soltanto dal punto di vista prettamente economico, ma stabilendo quelle regole
di comportamento e di sicurezza che non devono mancare anche in una visione di setting semplificato che non può
peraltro non avere come protagonista della governance dello stesso il medico specialista.
Raccomandazioni:
Il setting assistenziale più appropriato per l trattamento chirurgico delle varici degli arti inferiori è rappresentato dalla
DS. Grado A Ib La DS dovrebbe essere eseguita in Unità Operative dedicate o Free Stand Unit Grado B III Il
trattamento endovascolare delle varici può prevedere un setting assistenziale proprio, laddove le Regioni abbiano
provveduto a elaborare criteri di selezione e appropriatezza specifica, congiuntamente agli specialisti.
Grado B Ib
ANALISI DEI COSTI
L’IVC rappresenta un notevole onere per i servizi di prestazione di salute ed un’importante fonte di costo per la società
(Ruckley, 1997). Il numero di ore lavorative perse per IVC ogni anno in Inghilterra e Galles è pari a circa 500.000
mentre negli USA (dove 25.000.000 di persone sono portatori di varici, 2.500.000 di IVC e 500.000 di ulcere venose
attive) è di
2.000.000. Dati desunti dal servizio sanitario pubblico brasiliano dimostrano che fra le 50 malattie più frequentemente
citate come causa di assenteismo dal lavoro e regolarmente riconosciute sul piano finanziario col rimborso, l’IVC è al
a
14° posto essendo la 32 causa di inabilità permanente (Consensus, 2000). I costi annuali per la gestione dell’IVC,
sicuramente in difetto, sono stimati in 290 milioni di Sterline, 2.241.000.000 di € in Francia, 1.237.326.000 di € in
Germania, 845.956.400 di € in Italia e 103.614.400 di € in Spagna. Inoltre viene stimato che per i principali Paesi
europei la Comunità Europea stanzi l’1.5-2% dell’intero budget sanitario del 1992 esulando dai cosi indiretti dovuti
all’invalidità (Intern Task Force, 1999; Ruckley, 1997 ). Il costo annuale per la cura delle U.V. in UK è di circa
400-600.000.000 di Sterline (40.000.000 per il solo materiale di medicazione), oltre 1 bilione di Dollari negli USA
(300.000.000 di Dollari solo per le cure domiciliari), 204.520.000 € in Germania e 32.940.000 di € in Svezia mentre in
Francia il trattamento di un’ulcera comporta una spesa media di
36.000 € all’anno (Consensus, 2000). In Italia si effettuano circa 291.000 visite/anno per lesioni ulcerative con
prescrizioni nel 95% dei casi e onere pari a
125.499.026 € all’anno (IMS, 1997). Complessivamente il costo diretto ed indiretto dell’IVC è di circa 1.000 miliardi di
€ per ogni Stato europeo di cui si disponga di maggiori dati (UK, Francia, Germania) (Consensus, 2000;, Nel zen,
2000).
Sistema DRG e tendenze nella remunerazione della chirurgia venosa
I DRG nascono in ambiente accademico nella seconda metà degli anni '70. Lo stato americano del New Jersey, preoccupato dell'
enorme variabilità dei costi da ospedale ad ospedale, anche per il trattamento di casi simili, commissionò all' Università di Yale una
ricerca per mettere a punto un sistema di controllo dell' efficienza degli ospedali. A seguito della legge di riforma 502/517 del
1992/93, si decise nel 1994 anche in Italia di adottare la decima versione dei DRG (HCFA-DRG-10.0) per il pagamento a prestazione
dei ricoveri ospedalieri. Per comprendere meglio pero’ il funzionamento e la complessita’ e diversita’ dei calcoli in base ai DRG è
necessario conoscere ulteriori dettagli. Come noto, per ogni DRG esiste un valore di soglia, espresso in giornate, che esprime il valore
oltre il quale un caso è considerato fuori soglia (o outlier). Si definisce fuori soglia per durata di degenza un ricovero la cui durata di
degenza si discosti in maniera statisticamente significativa da quella dell'insieme degli altri pazienti che presentano caratteristiche
cliniche simili. Per ciascun DRG è indicato un valore soglia che individua la durata di degenza (espressa in giornate), oltre la quale si
applica una remunerazione aggiuntiva, corrispondente al costo marginale sostenuto dall'ospedale quando il paziente supera il valore
soglia del DRG di appartenenza. Questo rimborso viene definito mediante una cifra corrisposta “a giornata” per il numero di giornate
eccedenti la soglia.
Inoltre, gli ospedali erogano prestazioni assistenziali di vario livello, intensità e durata in base alla tipologia dei
pazienti ricoverati. La produzione di differenti tipi di casi, con diversi livelli di complessità, rappresenta la casistica globale
dell'ospedale. Il case-mix costituisce appunto l'espressione di questa casistica. Sulla base di determinati requisiti sono state
definite quattro classi di ospedali pubblici, equiparati ai pubblici e privati accreditati per acuti: Classe A – Strutture
ospedaliere di ricovero per acuti che possiedono almeno due dei requisiti indicati; Classe B - Strutture ospedaliere di
ricovero per acuti che possiedono almeno uno dei requisiti indicati ovvero siano monospecialistici con riferimento ad una
delle alte specialità ex DM 29.01.1992, ovvero siano strutture pubbliche di riferimento provinciale; Classe C - Strutture
ospedaliere di ricovero per acuti che non possiedono alcuno dei requisiti indicati, ma dispongono di almeno 120 posti letto,
ovvero non abbiano 120 posti letto ma svolgano istituzionalmente attività di didattica o di ricerca ovvero siano
monospecialistici, ovvero sede di Pronto Soccorso, ovvero 2° livello per l’assistenza perinatale; Classe D – le altre strutture,
comprese quelle nelle quali l’attività per acuti sia minima parte rispetto all’attività di riabilitazione e di lungodegenza post
acuzie.
Queste premesse, ricordate solo in parte, sono indispensabili per la comprensione della enorme variabilità esistente sul
territorio nazionale, relativo alle remunerazioni delle prestazioni. Se date le premesse il panorama diventa intellegibile
ciò non significa che sia condivisibile. Se prestazioni chirurgiche semplici vengono eseguite in strutture molto
dispendiose (data la loro complessità, ecc) il SSN e il SSR dovrebbero impedire a tali strutture di eseguire cose
“semplici” a tariffe proibitive o metterle nelle condizioni di poter adeguare il setting assistenziale (day
surgery/ambulatorialità) al fine di poter risparmiare risorse. Il 119 è un DRG con elevato rischio di inappropriatezza
per l’ampio ricorso al RO poiché in Italia , nella realta’ dei fatti, non esiste una capillare diffusione delle cosidette free
stand Unit di Day Surgery.
Solo tali strutture possono garantire uno standard appropriato dal punto di vista tecnico-organizzativo delle prestazioni .
Quindi neanche la riduzione tariffaria può o deve rappresentare una soluzione dei problemi della Sanità. Le attuali
tariffe di rimborso del DRG 119 (tranne casi eccezionali di alcune Regioni che avendo abbassato oltro ogni limite, le
stesse, non fanno altro che incrementare il fenomeno della mobilità passiva) sono piu’ che adeguate dal punto di vista
generale. Il problema è la distribuzione delle risorse, nell’ambito di questo calcolo, che invece di premiare la
professionalità dello specialista, la migliore organizzazione di un sistema rispetto all’altro, appiattisce gli stessi sui costi
di gestione delle strutture che come sappiamo lasciano a desiderare su tutto il territorio nazionale. Fino agli anni ’90
comunque quasi nessuno si è posto il problema dei costi e delle tariffe, soprattutto in ambito flebologico, fino a quando
nel panorama tecnologico non hanno fatto la comparsa le cosidette tecniche endovascolari (Laser, Radiofrequenza,
Scleromousse). Secondo l’assioma per cui, a parita’ di diagnosi principale, ciò che determina il DRG finale è la
procedura utilizzata, è intuitivo che il DRG finale, utilizzando tali nuove metodiche, non può essere il 119 (generato
dalla legatura e stripping ). Il primo vero problema è quindi che attualmente in Italia , pur utilizzando una classificazione
, giunta alla 19.a revisione, mancano le voci specifiche per classificare tali nuove procedure e quindi manca il sistema di
calcolo di un nuovo DRG che tenga di conto del costo delle tecnologie, ma anche del diverso setting assistenziale che le
stesse potenzialmente possono offrire. Da ciò può nascere un uso e abuso di un diverso DRG quale il 479 che meglio di
ogni altro però ricostruisce le specifiche di un intervento endovascolare e le reazioni di varie Regioni che in maniera
arbitraria ne impediscono l’utilizzo o lo stravolgono nei suoi contenuti. Se solo tutte le Regioni eseguissero una analisi
dei costi che tenga presente l’aumento degli stessi giustificata dall’utilizzo di apparecchiature, materiali e Know-how, ma
la diminuizione relativa alla possibilità di un setting assistenziale più semplice (ambulatorialità), una più rapida ripresa
del paziente alla sua vita di relazione, ecc; ecco che tutte le problematiche sarebbero risolte. Non è la tecnologia che
costa, ma la presunzione di volerla applicare con le stesse modalità tecnico-amministrative; con gli stessi setting
assistenziali di una chirurgia invasiva e in strutture non competitive e conservatrici . Tutto ciò oltre a determinare un
grave problema di politica economica determina un problema di ingiustizia sociale poiché non a tutti i cittadini viene
offerta la possibilità di poter essere curati nel modo migliore creando quei flussi ingiustificati di pazienti da una Regine
all’altra che influiscono non di poco nei bilanci economici delle singole Regioni.
PERCORSI DIAGNOSTICI PRE- INTRA- POST- OPERATORI MODELLI
EMODINAMICI COME GUIDA ALL’INDICAZIONE TERAPEUTICA
La diagnostica non invasiva delle malattie venose è stata sviluppata per lo screening, la quantificazione del danno e
lo studio emodinamico. I medici generalisti e gli specialisti devono conoscere – con diversi gradi di competenza – il
significato dei vari test vascolari e le loro indicazioni e limitazioni, così da limitare al massimo l’uso di test invasivi e
costosi (Nicolaides, 1987; Struckman, 1985; Christopoulos, 1987). Le malattie venose presentano una maggiore
difficoltà di valutazione rispetto alle malattie arteriose e richiedono pertanto una buona esperienza ed una valutazione
più accurata. Per tali motivi i test venosi risultano maggiormente operatore-dipendenti e richiedono una competenza
specifica clinica soprattutto per la valutazione dell’IVC. L’ IVC è sempre il risultato di un ostacolo al deflusso tissutale
sia esso imputato ad ostruzione oppure ad una riduzione della frammentazione dinamica della colonna di pressione
superficiale e/o profonda, sostenuta da un incontinenza valvolare (generante il reflusso) o da un disfunzionamento
primario della pompa osteo-muscolo-articolare (Franceschi, 2003). L’obiettivo dell’esame clinico e strumentale è
rilevare quale fra tali condizione sia presente. Va ricercata inoltre la localizzazione anatomica dell’alterazione e
quantificato il reflusso e/o l’ostruzione. Sono disponibili molti test, semplici, rapidi ed efficaci per costo-beneficio.
Le procedure diagnostiche, riportate di seguito in forma sintetica, rispecchiano quanto pubblicato nelle “Procedure
Operative per Indagini Diagnostiche Vascolari" prodotte dalla Società Italiana di Diagnostica Vascolare e utilizzate
anche dal Collegio Italiano di Flebologia (SIDV, 2000).
INDAGINI UTILIZZABILI
•
Ultrasonografiche: Doppler
C.W. Eco-Doppler (duplex)
Eco(color)Doppler (ECD)
•
Imaging Radiografico angio TC angio - RM pletismografiche
fotopletismografia quantitativa
flebografia
Lo scopo dell’esame è l’accertamento di un reflusso oppure di una trombosi venosa superficiale e/o profonda. Nei due
casi l’ iter diagnostico e procedure sono differenti. Il circolo venoso profondo deve essere sempre valutato.
Accertamento di un reflusso
L’indagine utilizzata può essere una di quelle sopra indicate. Le metodiche di prima scelta sono quelle ultrasonografiche
o la fotopletismografia; i due tipi di indagine devono essere considerati complementari piuttosto che alternativi.
L’esame Doppler con ultrasuoni permette di dimostrare la presenza di un reflusso, identificare la sua origine e seguire
l’asse di reflusso in senso cranio-distale. Strumentazione: Si utilizza per il Doppler C.W. una sonda da 8 MHz, per
l’eco-Doppler una sonda lineare da 5-10 MHz
STUDIO DI UN DISTRETTO REFLUENTE La continenza delle valvole deve essere analizzata in ortostatismo
sviluppando un gradiente retrogrado (contrario all’orientamento dei piani valvolari) transvalvolare. I gradienti
retrogradi possono essere di due tipi: 1) IPERPRESSIVO, come quello sviluppato durante la manovra di Valsalva 2)
GRAVITAZIONALE in quanto sfrutta il peso della colonna ematica una volta mobilizzata verso l’alto. La
mobilizzazione della colonna può avvenire a) in modo STATICO mediante il test di
COMPRESSIONE/RILASCIAMENTO (C/R) o SQUEEZING TEST (TEST STATICI) b) in modo DINAMICO
mediante l’attivazione della pompa muscolare
•
•
•
•
Test di Parana
Test di Oscillazione
Test del Sollevamento sulla punta dei piedi
Test della dorsiflessione delle dita
PROCEDURA
L’esame viene eseguito con il paziente in ortostatismo. La mano destra dell’esaminatore tiene la sonda che viene posta
all’origine della vena grande o piccola safena. La mano sinistra esegue delle brevi manovre di compressione e
successivo rilasciamento sulla stessa vena in sede distale. Questa manovra è essenziale per il Doppler C.W. per poter
centrare con la sonda l’insonorizzazione del vaso da studiare, in quanto non “vede” la struttura. Dopo aver centrato la
sonda sulla vena, si cominciano ad eseguire le varie manovre analizzando le concordanze o le discordanze tra le stesse.
Significato delle varie manovre
La presenza di un reflusso, sviluppato da un gradiente retrogrado transvalvolare, viene segnalata dalla comparsa di un
flusso invertito per una durata superiore a 0.5 sec che è indice sempre di insufficienza della valvola.
Manovra di Valsalva
Il gradiente iperpressivo prodotto durante la manovra di Valsalva si trasmette in distalità indipendentemente dalla continenza
dei piani valvolare situati prossimalmente. Questo è possibile grazie all’inerzia di chiusura dei piani valvolari stessi,
permettendo così il passaggio dell’onda di pressione la cui velocità di propagazione è nettamente superiore a quella del flusso
ematico. Il Valsalva pertanto innesca sempre una trasmissione in distalità di un’onda di pressione. Quando è presente
un’incontinenza valvolare tra i vari distretti o compartimenti, per esempio tra la rete profonda e quella superficiale, all’onda di
pressione si associa la comparsa di un reflusso transcompartimentale. I passaggi di compartimento (tra rete profonda e rete
superficiale, tra sistema safenico e collaterali) che risultano incontinente al Valsalva sono definiti punti di fuga. La valutazione
della corretta esecuzione del Valsalva è data dalla comparsa di un flusso anterogrado cioè di una ripresa del flusso una volta
cessata la manovra. Ciò dimostra che il carico ipertensivo, cioè il blocco al flusso fisiologico anterogrado, è stato realizzato.
Manovra di COMPRESSIONE/RILASCIAMENTO e TEST DINAMICI
In presenza di un’incontinenza valvolare, il reflusso è determinato dal ritorno della colonna ematica verso il basso in rapporto al
suo peso, una volta che è stata mobilizzata verso l’alto da una manovra di compressione (test statico) o tramite la contrazione
muscolare (fase sistolica del test dinamico). E’ fondamentale il concetto generale per cui un reflusso in un vaso incontinente si può
realizzare solo se all’applicazione di un gradiente retrogrado è presente un “rientro” del sistema stesso verso un compartimento
contiguo a pressione inferiore. L’abbassamento pressorio è realizzato tramite la chiusura dei piani valvolari (frazionamento
dinamico della colonna di pressione). Vedi ad esempio il reflusso nella rete superficiale con rientro nella rete venosa
profonda.(Franceschi, 2003). Tale affermazione può essere verificata sistematicamente in tutti i pazienti. Infatti la chiusura,
mediante una compressione digitale del rientro del reflusso, per esempio quello safenico, condiziona la sua scomparsa ai vari test,
soprattutto a quelli gravitazionali. Da notare che i test dinamici, attivando le pompe muscolo-articolari, mobilizzeranno molto più
sangue a livello profondo che non il test di compressione/rilasciamento, specialmente in polpacci di grosse dimensioni. Avremo
pertanto una maggior frammentazione della colonna idrostatica profonda, tramite la chiusura dei piani valvolari, con conseguente
abbassamento pressorio e quindi sviluppo, in caso di incontinenza della rete superficiale, di un gradiente di rientro molto più
elevato rispetto a quello sviluppato dal test C/R. I test dinamici saranno pertanto molto più efficaci del test di C/R per il rilievo di
reflussi nei casi dubbi. I test gravitazionali evidenzieranno pertanto l’incontinenza valvolare distalmente rispetto alla posizione del
campione doppler senza fornire alcuna informazione sul funzionamento del piano valvolare soprastante. Pertanto, se vogliamo
studiare una valvola in particolare, dobbiamo posizionare il campione doppler della sonda sul versante prossimale della valvola, per
esempio sul versante femorale, se vogliano analizzare la valvola safenica terminale. Nel caso di una incontinenza safenica con
continenza della valvola terminale della giunzione safeno-femorale, avremo, a livello dell’arco safenico, un Valsalva negativo
(eccetto il caso di un concomitante shunt pelvico) con un test di C/R positivo . Il test di C/R diventerà negativo quando sarà
posizionato sul versante femorale della valvola terminale. Riassumendo possiamo dire che mentre i test gravitazionali evidenziano
un’incontinenza valvolare in senso lato, la positività del Valsalva dimostra che tale incontinenza si associa a punti di fuga, cioè a
passaggi di compartimento incontinenti. Pertanto non sempre un’incontinenza degli assi venosi si associa a punti di fuga (vedi il
caso della valvola terminale continente), in tal caso avremo reflussi gravitazionali ma Valsalva negativi. .(Cappelli, 2004; Cappelli,
2006).
Da quanto sopra analizzato emergono due considerazioni: 1) I vari test usati comunemente in modo equivalente per la diagnostica
dell’incontinenza valvolare non lo sono affatto, essendo ciascuno di essi in rapporto ad eventi emodinamici specifici. 2) Il doppler
CW, essendo “cieco” non permette una diagnosi emodinamica accurata, anche se usando la combinazione delle varie manovre
possiamo comunque trarre indicazioni su quali sono i più probabili quadri emodinamici possibili.
L’esame eco(color)Doppler è più facile da interpretare rispetto all’esame Doppler C.W. e fornisce delle ulteriori
indicazioni connesse alla morfologia della grande safena, come il diametro della stessa, il calibro e la continenza
valvolare delle collaterali ostiali e di eventuali safene accessorie, una visualizzazione ottimale della valvola ostiale e
pre-ostiale (Antignani, 1998; Bernstein, 1993). Nella valutazione del reflusso nella piccola safena l’ eco(color)Doppler
permettte di studiare l’anatomia vascolare del poplite, la sede esatta di origine dalla vena poplitea piuttosto che una
origine alta della safena dalla vena femorale superficiale, la continenza della vena di Giacomini, un ’origine del reflusso
da perforante poplitea. L’eco (color) Doppler fornisce inoltre informazioni morfologiche permettendo di ricostruire
l’anatomia vascolare, il diametro dei vasi, permettendo di studiare in modo accurato la mappa emodinamica
pre-operatoria e le possibili recidive post chirurgia o post scleroterapia. La dimostrazione di un reflusso da una
perforante incontinente è invece accurata con l’eco(color) Doppler, poco precisa con il Doppler C.W. che non dovrebbe
più essere utilizzato a questo scopo.
L’esame ultrasonoro permette di studiare il singolo asse superficiale o profondo, identificandolo in base alla diversa
sede anatomica e permette di dimostrare in modo completo l’origine e l’asse del reflusso. Il limite dell’esame
ultrasonoro è legato proprio alla sua valutazione selettiva e distrettuale che male si presta a studiare in maniera globale e
funzionale la rilevanza del danno causato dal singolo reflusso sul ritorno venoso (Guias, 1998). L’esame
fotopletismografico (PPG) quantitativo computerizzato eseguito con il test della pompa venosa, per esempio con le
manovre di estensione dorsale dell’articolazione tibio-tarsica, valuta invece l’efficacia funzionale globale della pompa
muscolare e la continenza valvolare degli assi venosi (Blazek, 1996; Schultz-Ehrenburg, 1994). La pletismografia
venosa consente di valutare la funzionalità venosa globale misurando i cambiamenti del volume di sangue venoso nella
gamba. Queste misurazioni possono essere effettuate con una delle tre tecniche pletismografiche oggi in uso: la
fotopletismografia/reografia a luce riflessa (PPG/RLR), la pletismografia strain gauge (estensimetrica, SGP) e la
pletismografia ad aria (APG) (Nicolaides, 1991; Consensus, 2000). La PPG/RLR utilizza fotosensore fissato sulla cute
che misura il riempimento del plesso venoso cutaneo (Nicolaides, 1987); la SPG utilizza sensore estensimetrico (laccio
conduttore elastico) che misura i cambiamenti della circonferenza della gamba nel punto dove è applicato (Strukman,
1985), mentre il sensore della APG è un gambaletto gonfiabile che misura i cambiamenti del volume venoso totale della
gamba (Christopoulos, 1987). Effettuando misurazioni in diverse posizioni e con diverse manovre, si possono valutare i
seguenti parametri:
1) deflusso venoso (rallentato se presente una occlusione venosa); 2) reflusso venoso totale (grado di
incontinenza valvolare); 3) efficacia della pompa muscolovenosa del polpaccio (grado di svuotamento
venoso durante l’esercizio
muscolare e velocità di riempimento venoso dopo la fine dell’esercizio). L’esame può essere eseguito prima e dopo la
occlusione venosa superficiale, ottenibile con uno o più lacci per isolare il reflusso superficiale e prevedere il risultato
di un intervento di asportazione safenica sulla funzione del ritorno venoso. Il miglior laccio e’ un manicotto alto 3cm,
gonfiato a 100mmHg. Il vantaggio della PPG è quello di poter ottenere un dato quantitativo in secondi (il tempo di
riempimento venoso o “venous refilling time”) che descrive in maniera globale la eventuale compromissione
funzionale del ritorno venoso secondaria a reflusso venoso.
Strumentazione: fotopletismografo computerizzato quantitativo.
PROCEDURA
L’indagine quantitativa permette un aggiustamento automatico del segnale basale ( basato sulla elaborazione del segnale
) e valuta in modo più preciso i parametri connessi al tempo di riempimento dopo test della pompa muscolare e i
parametri connessi all’ampiezza del segnale. Il sensore viene fissato circa 8 cm al di sopra del malleolo interno con un
anello biadesivo. Il paziente è seduto e rilassato con i piedi ben poggiati a terra. Tronco-cosce e cosce-gambe devono
formare tra loro un angolo di circa 110°. Il test della pompa muscolare è quello più frequentemente utilizzato e richiede
l’esecuzione di 8 estensioni dorsali dell’articolazione tibio-tarsica in 16 secondi. Alla fine dell’esercizio il paziente resta
immobile e rilassato per 30 secondi. Gli apparecchi più moderni sono programmati; emettono dei segnali sonori sia per
eseguire le estensioni dorsali del piede che per delimitare il periodo di riempimento. Il parametro di valutazione è il
tempo di riempimento venoso o “ venous refilling time” (To ) espresso in secondi.
Si distinguono 4 classi:
-normale
To > 24 secondi
-insufficienza di pompa grado 1 leggera To da 24 a 20 secondi
•
“ “ grado 2 moderata To da 19 a 10 secondi
•
“ “ grado 3 severa To < 10 secondi
Esiste un secondo parametro di valutazione negli apparecchi computerizzati, la potenza della pompa venosa ( Vo ) che
non è ancora sufficientemente standardizzata e che quindi non va considerato nella refertazione. Nella pratica clinica
la pletismografia venosa ha le seguenti applicazioni:
a) Quantificare e documentare il grado di compromissione delle diverse funzioni venose (ostruzione, reflusso) e
seguirle nel tempo; b) Quantificare il contributo delle vene superficiali e profonde e predire gli effetti
emodinamici della chirurgia delle vene superficiali; c) Studiare e documentare gli effetti emodinamici delle
diverse operazioni chirurgiche e validare le nuove
tecniche operatorie. Va tenuto presente un limite della PPG: può essere difficile differenziare un reflusso venoso
superficiale da un reflusso profondo e/o da un reflusso in perforanti incontinenti.
La flebografia con iniezione in una vena del piede non viene più eseguita per valutare un reflusso venoso, sostituita
dall’esame ECD. Lo studio flebografico dovrebbe essere riservato a pazienti con precedenti trombosi venose profonde
o precedenti interventi, con recidive ad incerta etiologia (tecnica chirurgica ignota) e nei pazienti con reperto
ultrasonografico dubbio.
Ancor più raramente viene utilizzata oggi la varicografia per lo studio delle recidive post-chirurgia o
postscleroterapia, specie a livello del cavo popliteo o di perforanti incontinenti, in particolare se plurime.
L’imaging radiologico (secondo livello richiesto dallo specialista) completa lo studio ultrasonografico nella
determinazione della sede e della natura della lesione, e nella valutazione della patologia, soprattutto a carico del circolo
profondo. Indicata l’angio-RM soprattutto nello studio delle angiodisplasie, è attualmente in via di sostituzione
dell'angiografia (Devulder, 1998; Schultz-Ehrenburg, 1994; Koizumi, 2007).
Indagini sulla microcircolazione
-Laser-Doppler -Capillaroscopia
-Microlinfografia -Pressioni interstiziali
-Misurazione pressioni parziali O2 e CO2
Raccomandazioni
L’esame ultrasonoro permette di dimostrare la presenza di un reflusso, identificare la sua origine e seguire l’asse di
reflusso in senso cranio-caudale . Grado A Accanto alla clinica, per lo screening dell’IVC, l’esame di primo
livello deve essere considerato il Doppler CW
Grado B
Le metodiche Eco-Doppler ed Eco(color)Doppler sono da riservarsi alla definizione della localizzazione e della
morfologia del problema e come esame pre-operatorio. Grado A La Flebografia andrebbe presa in considerazione solo
in un ridotto numero di pazienti portatori di anomalie anatomiche, malformazioni o quando vi sia indicazione ad un
intervento sul sistema venoso profondo. Grado B Le pletismografie devono essere considerate test aggiuntivi di tipo
quantitativo. Grado B Le indagini rivolte allo studio della microcircolazione hanno indicazioni selettive e
prevalentemente di ricerca.
Grado C
QUALITA’ DELLA VITA NELLA VALUTAZIONE DELL’IVC
Sono ormai numerose le basi per considerare la Quality of Life (QoL) tra gli outcome terapeutici anche nell’IVC (Garrat,
1993; Lamping, 1997; Consensus Statement, 2000; Andreozzi, 2000; Andreozzi, 2005). Il metodo di misurazione
generica, considerato gold standard negli USA ed in Europa, è il Q. SF-36 (Short Form Health Survey) MOS (Medical
Outcomes Study), di cui viene spesso usata in flebologia la forma semplificata SF-12 (Ware, 1994; Stewart, 1992).
Specifici questionari per l’IVC (CVIQ1 e CVIQ2; Aberdeen Q.) sono stati sviluppati a partire dal 1992 con risultati sotto
questo aspetto sorprendenti per una malattia spesso sottostimata dalla categoria medica: l’IVC interferisce
profondamente con la vita di ogni giorno del paziente e risulta enfatizzato l’impatto dell’IVC sulle capacità locomotorie
quanto l’efficacia della farmacoterapia (Garratt, 1993; Launois, 1994 ; Klyscz , 1998). Meno chiara risulta la necessità di
usare questionari specifici per la valutazione dell’impatto delle ulcere venose rispetto a strumenti generici come il Q.
SF-12 e altri (Iglesias, 2005). La valutazione di trial randomizzati controllati e con verifica della QoL sugli esiti della
chirurgia risulta complessa (Solomon, 1995). Peraltro sono comparse successivamente numerose esperienze sia per la
rivalutazione dello stripping (MacKenzie, 2002 II; Durkin 2001; Blomgren, 2006) che di nuove tecniche chirurgiche
sull’IVC come la legatura endoscopica delle perforanti mediante SEPS (Nelzen, 2000), la valvuloplastica (Agus, 2001) e
le tecniche endovascolari (Rautio, 2002; Lurie, 2003; Agus, 2006 II).
Raccomandazioni: L’analisi dei parametri clinici di valutazione della qualità di vita dovrebbe utilizzare criteri
psicometrici standard per riproducibilità, validità e accettabilità. I forms SF-36 MOS e NPH (Nottingham Health Profile)
si sono dimostrati di rilievo scientifico, ma la loro utilità sull’IVC viene considerata superata da Questionnaires specifici.
Grado B Ib
TRATTAMENTO CHIRURGICO
TRATTAMENTO CHIRURGICO DELL'INSUFFICIENZA VENOSA SUPERFICIALE
GENERALITÀ E INDICAZIONI Le basi del trattamento chirurgico delle varici degli arti inferiori sono stabilite da un secolo
con gli interventi eseguiti nel 1905 da Keller (stripping per invaginazione), nel 1906 da Mayo (stripping extraluminale)
e nel 1907 da Babcock (stripping endoluminale con sonda rigida) e sono tuttora valide grazie all’uso in decine e decine
di migliaia di interventi praticati e “validati dall’esperienza comune” e successivamente da studi accreditati (Myers,
1957; Agrifoglio, 1961; Munn, 1981; Perrin, 1997). Sostanzialmente, tre innovazioni si sono inserite in una tecnica
chirurgica ancora considerata standard, per migliorarne i risultati: l’evoluzione delle tecniche sulla base di nuove
concezioni di anatomia ecografica e fisiopatologiche (Ricci e Caggiati, 1999; Camilli, 1992); l’introduzione e diffusione
di gesti chirurgici semplificati come la flebectomia per miniincisioni (Muller, 1966; Rivlin, 1975; Ricci, Georgiev,
Goldman, 1995); la tecnica stessa dello stripping eseguita in maniere meno invasive come l’invaginazione in anestesia
locale (Van der Stricht, 1963); soprattutto, la pratica dello studio cartografico preoperatorio mediante ecocolordoppler
(Franceschi, 1988; Neglen, 1992; Van Bemmelen, 1989; Welch, 1992). Va rilevata la nascita e la diffusione di nuovi
interventi, talvolta limitati all’ambito dello stesso proponente. Tali interventi, pur assicurando spesso buoni risultati,
necessitano di studi clinici controllati multicentrici e non possono allo stato attuale essere considerati sostitutivi di
tecniche standard, bensì alternativi. Differente è il caso degli interventi chirurgici mini-invasivi quali le tecniche
cosiddette emodinamiche conservative o endovascolari, su basi fisiopatologiche e tecnologiche innovative, che negli
ultimi venti anni hanno passato il vaglio di lunghe sperimentazioni e ormai sono comunemente eseguiti da numerosi
team chirurgici nel panorama internazionale.
L’indicazione chirurgica deve essere approfonditamente discussa, indipendentemente dall’opzione chirurgica scelta. Lo
scopo stesso della chirurgia, la risoluzione totale delle varici, deve essere rivisto all’interno della storia naturale del
quadro patologico di base, rappresentato dall’IVC, con possibilità concreta di comparsa di nuove varici, e dal gravoso
problema delle varici recidive a chirurgia. Il trattamento del paziente portatore di IVC riconosce infatti come principale
obiettivo la risoluzione o il miglioramento del quadro sintomatologico e la prevenzione e terapia delle complicanze.
L’elevazione dell’arto inferiore in posizione di scarico e l’elastocompressione per il controllo dell’edema, oltre alla
medicazione locale in caso di complicanza ulcerativa, sono infatti i fondamenti della terapia conservativa, ma non
correggono il disturbo emodinamico responsabile della flebopatia. Molti progressi sono stati fatti negli ultimi decenni
nella terapia chirurgica delle più severe forme di IVC grazie alla diagnostica non-invasiva per immagini e alla
ultrasonografia. Si possono così distinguere situazioni in cui prevale l’evento ostruttivo da quelle, primarie o secondarie,
in cui il reflusso è l’elemento dominante. Dalla differente presentazione dei quadri clinici ed anatomo-patologici
dipende una strategia chirurgica oggi diversificata, non più indiscriminatamente ed estensivamente ablativa, ma
finalizzata, ove possibile, alla correzione dell’alterata emodinamica venosa e microcircolatoria dell’arto dell’arto
(Weiss, 1988; Agus, 2006 I). Le indicazioni alla chirurgia dell’ IVC si basano pertanto dapprima sulla corretta
interpretazione della sintomatologia e sul quadro clinico realmente correlabili alle varici o alle loro complicanze. Nuovo
outcome è infine da considerarsi la QoL nello specifico campo dell’ IVC (Garratt, 1993; Launois, 1994; Klyscz, 1998;
Howard, 2001). Di seguito, gli aspetti sintomatologici e anatomo-patologici che motivano la scelta chirurgica e che in
parte ricalcano le classi CEAP:
•
•
•
•
•
Presentazione clinica ed aspetto estetico ● Sintomatologia dolorosa
Pesantezza alle gambe ● Facile affaticabilità dell’arto
Trombosi venosa superficiale ● Varicorragia
Iperpigmentazione della caviglia
● Lipodermatosclerosi
Atrofia bianca ● Ulcerazione
Tuttavia molti di questi sintomi e segni possono essere non attribuibili al paziente con IVC, per cui è raccomandabile
un’accurata e specifica anamnesi. Si tenga presente che il 50% dei pazienti con teleangiectasie e varicosità soffre
soltanto di alcuni dei disturbi menzionati, i quali dopo opportuna terapia possono essere eliminati nell’85% dei casi
(Weiss, 1990). D’altra parte secondo altri studi l’eziologia della pesantezza alle gambe, una delle motivazioni più
frequenti per la visita flebologica soprattutto nelle giovani donne, può non dipendere da uno stato varicoso, né può
essere considerata una
sindrome pre-varicosa, essendo invece il risultato dell’associazione tra flebostasi costituzionale, ipertensione venosa e
lipedema (Allegra, 2006; Chardenneau, 1999). La stessa facile affaticabilità o esauribilità funzionale dell’arto inferiore
appartengono al corredo sintomatologico di numerose altre affezioni, quali le artropatie, le neuropatie e le arteriopatie
periferiche per citare le più frequenti. Anche l’ edema declive, segno/sintomo maggiormente correlabile all’IVC
(Langer, 2005), deve essere posto in diagnosi differenziale con epifenomeni di cardiopatie congestizie, con discrasie
ematiche, con dismetabolismi, ecc. Infine possono coesistere con un quadro di IVC, o addirittura prevalere su di essa,
stili di vita incongrui come l’eccesso di peso, la scarsa attività fisica, l’esagerata sedentarietà e i difetti posturali:
situazioni che, se adeguatamente corrette, possono essere sufficienti a rendere inutile, se non controindicato,
l’intervento chirurgico. Alcuni studi sottolineano l’ipotesi che molti sintomi possono avere una causa non venosa e
l’IVC possa essere una comorbidità: in questi casi deve essere considerata la scarsa efficacia dell’intervento chirurgico
al fine del miglioramento della sintomatologia (Bradbury, 1999; O’Leary, 1996).
Raccomandazioni:
Lo scopo della chirurgia dell’IVC superficiale, con o senza varici, è la risoluzione del reflusso patologico e
l’asportazione delle varici e/o la bonifica dell’ulcera a scopo sintomatologico, preventivo o terapeutico del quadro
clinico in atto e delle possibili complicanze, fermo restando il carattere evolutivo dell’IVC. Grado A I a Il
paziente operato necessita di controlli clinici e strumentali nel tempo. Grado A I b La terapia delle varici di vene
collaterali, esistendo valide alternative di tipo medico o scleroterapico, non è esclusivamente chirurgica. Grado B
II a
TECNICHE CHIRURGICHE
Ogni intervento chirurgico per l'IVC superficiale può essere definito a scopo emodinamico, a patto che venga preceduto
da un’appropriata mappa emodinamica venosa mediante Eco-(Color)-Doppler (286; 321; 211). Le tecniche chirurgiche
possono essere raggruppate in tre categorie principali:
•
Tecniche ablative
•
Tecniche conservative
•
Trattamenti endovascolari
1. CHIRURGIA ABLATIVA
La chirurgia ablativa comprende gli interventi di stripping della safena, la crossectomia e la flebectomia.
a) STRIPPING DELLA SAFENA Lo stripping può interessare sia la grande safena (safenectomia interna) che la
piccola safena (safenectomia esterna). Nel primo caso può essere lungo (con asportazione della grande safena dalla
crosse al malleolo tibiale), medio (dalla crosse al terzo medio di gamba), corto (dalla crosse al terzo superiore di
gamba), ultracorto (dalla crosse al terzo inferiore o medio di coscia). Lo stripping ha rappresentato per lungo tempo la
tecnica strandard del trattamento chirurgico delle varici, la più studiata e l’unica che è stata comparata alla scleroterapia
ed alla crossectomia da sola o associata alla scleroterapia. Nei loro riguardi lo stripping si è dimostrato in molti studi
clinici superiore in termini di efficacia in follow-up a distanza (Agrifoglio, 1961; Jacobsen, 1979; Neglén, 1993;
Rutgers, 1994; Sarin, 1994; Bergan, 1996; Dwerryhouse, 1999). Per realizzare questi scopi, sono state descritte varie
tecniche (stripping endovenoso con sonda rigida alla Babcock o con sonda flessibile alla Myers, stripping esovenoso
alla Mayo e derivati) e successivamente altre modalità come lo stripping per invaginazione sec. Keller e Van der
Stricht, stripping sec. Ouvry o sec. Oesch; pervenendo in generale alla scelta di limitare alla coscia lo stripping
safenico, come avanzamento meno invasivo e più rispettoso delle reali condizioni emodinamiche patologiche (Agus,
1998). La prima evidenza della letteratura degli ultimi 15 anni, in contrasto alla chirurgia con stripping lungo
indiscriminato, deriva infatti dalle nuove conoscenze su pattern emodinamici affatto differenti che mostrano
l’inappropriatezza della rimozione di vene funzionalmente sane e utili, in quanto la giunzione safeno-femorale risulta in
circa il 30-50% dei casi
continente e non sono presenti alterazioni proprie del territorio safenico interno nel 15-20% (Goren and Yellin , 1990;
Camilli , 1992; Abu.Own , 1994; Guex , 1995; Myers , 1995; Singh , 1997; Jutley , 2001; Cappelli, 2004; Caggiati,
2006). Altra evidenza, in passato non considerato, la QoL costituisce oggi outcome importante per il paziente
(Andreozzi, 2000; Kurz, 2001). Anche se in generale la tecnica di stripping per sé migliora la QoL, sia in studi
randomizzati con uso di questionari generici come il Q. SF-36 (Blomgren, 2006) o il VAS, o specifici come l’Aberdeen
varicose vein Q.
(Smith, 1999; MacKenzie, 2002), il miglior esito sulla QoL rispetto allo stripping standard deriva dallo stripping corto e
da modalità meno invasive favorenti una riduzione di ematomi e disturbi nervosi post-operatori, oltre che
complessivamente meno costose come con il PIN stripping (Butler, 2000; Durkin 2001). Il dolore postoperatorio e
l’ematoma dopo stripping, solo parzialmente controllati da adeguata compressione elastica, rimangono infatti effetti
collaterali non più accettati dai pazienti, ed è stato proposto da un trial randomizzato e controllato l’uso di anestesia
locale nel canale safenico per tale ragione Nisar, 2006). Non va disconosciuto il rischio di lesioni vascolari iatrogene,
rare ma serie le più gravi (Rudström, 2007); tra queste un elevato numero di complicanze neurologiche, in particolare
per la preparazione della grande safena al malleolo e per lo stripping della piccola safena, come evidenziato da studi
prospettici in tal senso quanto da review e casistiche medico-legali ( Morrison, 2003; Sam, 2004; Wood, 2005;
Giannas, 2006; Akagi, 2007). Lo stripping non è esente, come creduto talvolta, da complicanze trombotiche profonde,
presenti sin oltre il 5% dei casi, seppure apparentemente benigne perché senza complicanza embolica (van Rij, 2004).
Ma è oggi soprattutto criticabile un uso estensivo dello stripping e della connessa crossectomia, cosiddetta allargata,
nella genesi di un alto numero di recidive varicose per l’instaurarsi di nuovi reflussi in sede giunzionale per collaterali
refluenti, cavernomi o neo-angiogenesi, che comporta un alto numero di reinterventi, in particolare con difficoltà
all’inguine, fino al 25% di tutte le procedure effettuate; la cui trattazione è in paragrafo apposito (Hayden, 2001; van
Rij, 2003). La necessità di una maggiore attenzione all’insegnamento ed alla miglior pratica di un intervento come la
legatura/sezione della giunzione safeno-femorale eseguito dalla maggioranza dei chirurghi ad ogni livello di esperienza
è stata recentemente ribadita attraverso strumenti tecnici dedicati per la miglior performance (Pandey, 2006). Non
ultimo deve ricordarsi ancora una volta il risparmio di vene safene in favore del loro utilizzo per bypass coronarici e
vascolari periferici, potendosi talvolta usare per questo scopo anche vene varicose (Melliére, 2007). L’asportazione dei
tronchi safenici infine, può essere associata alle varicectomie di coscia e/o di gamba ed alla sezione-legatura delle
perforanti insufficienti, completando la finalità emodinamica anche attraverso l’exeresi di altre vie di reflusso (Queral,
1997).
b) CROSSECTOMIA SEMPLICE O ASSOCIATA A FLEBECTOMIE La crossectomia semplice consiste nella
deconnessione safeno-femorale o safeno-poplitea, con legatura e sezione di tutte le collaterali della crosse. Essa realizza
documentati risultati funzionali, ma è stata in generale considerata inferiore allo stripping nel trattamento delle varici
(McMullin, 1991; Abu-Own, 1994). La crossectomia associata a flebectomia, nella visione chirurgica definita CHIVA, è
comparabile nei risultati alle tecniche di stripping, solo quando, o perché, preceduta da un accurato studio emodinamico
preoperatorio. Altri autori, al di fuori dell’ ambito CHIVA, erano giunti alle stesse conclusioni (Hammarsten, 1990;
Campanello, 1996; Belcaro, 2002).
c) FLEBECTOMIE Le flebectomie con mini-incisioni, secondo la tecnica nota come di Muller, possono essere attuate
sia come metodo di cura delle varici a sé stante sia come complemento degli altri interventi chirurgici. Questa tecnica
dalle finalità estetiche, oltre che funzionali, si realizza con l’asportazione dei rami insufficienti del circolo superficiale
attraverso incisioni di pochi millimetri, nelle quali vengono introdotti degli strumenti simili ad uncini, che consentono
di portare all’esterno le vene da asportare (Muller, 1966; Rivlin, 1975; Ricci, 1995). In caso di trombosi venosa
superficiale la mini-incisione può essere utilizzata per l’ablazione dei rami varicosi trombizzati o più semplicemente
per la spremitura del materiale trombotico in essi contenuto. La resezione e l’ablazione per via endoscopica di
varicosità mediante elettroresettore venoso e sonda luminosa idroresecante con soluzione tumescente, rappresentano
una tecnica ambulatoriale di recente sviluppo (Spitz, 2000) che tuttavia nell’unico trial prospettico randomizzato
controllato tra flebectomia per transilluminazione e flebectomia convenzionale ha portato a un giudizio favorevole
per sicurezza ed efficacia della nuova tecnica, ma senza mostrare vantaggi in termini di riduzione del dolore (pain
scores senza differenze nei due gruppi); di riduzione del tempo operatorio (senza differenze per varici di grado 1 e 2 e
non statisticamente significative per varici di grado 3); di risultato cosmetico (con risultato obiettivo e di gradimento
simile nei due gruppi); mostrando al contrario una maggior incidenza di ematomi, più alto numero di recidive (21,2%
vs 6,2% della flecbectomia convenzionale) e maggior costo per la procedura disposable (262.00 euro per paziente)
(Aremu 2004) .
Raccomandazioni: E’ importante fare precedere la tecnica ablativa dello stripping da un accurato studio preoperatorio
con Eco-(Color)-Doppler per evitare gli errori diagnostici. Grado A I b
L’ intervento di stripping eseguito con diverse modalità, per efficacia e sicurezza limitato alla coscia (corto), è tuttora da
considerarsi intervento standard da confrontarsi con alternative moderne meno invasive e di maggior gradimento da
parte dei pazienti. Grado A I b I pazienti vanno edotti delle finalità sintomatiche e delle indicazioni circoscritte
dell’intervento di Muller.Grado BII b
2. CHIRURGIA CONSERVATIVA
La finalità della chirurgia conservativa è quella di trattare le varici, mantenendo una safena drenante e non più refluente.
La direzione del flusso safenico potrà essere fisiologica (valvuloplastica esterna safeno-femorale e primo tempo della
strategia CHIVA 2) oppure invertita e diretta verso la cosiddetta perforante di rientro (CHIVA 1). Anche queste tecniche
conservative, per la cui realizzazione è assolutamente necessario lo studio preoperatorio con Eco-(Color)-Doppler,
possono essere associate alla flebectomia sec. Muller.
a) VALVULOPLASTICA ESTERNA SAFENO-FEMORALE
Il razionale del trattamento è basato sull’osservazione istologica che negli stadi iniziali le cuspidi valvolari sono ancora
sane, ma non più continenti per la dilatazione della parete vasale (66). E’ indispensabile la dimostrazione ecografica di
cuspidi mobili e non atrofiche a livello della valvola terminale e/o subterminale della grande safena. La finalità
dell’intervento è quella di ridurre la dilatazione parietale, riaccostando così i foglietti valvolari (Corcos, 1997; Mancini,
1997). A questo scopo si possono usare o delle suture dirette della parete o il cerchiaggio con materiali protesici esterni,
rappresentati attualmente da Dacron o PTFE su anima di nitinolo (In candela, 2000). E’ consigliabile almeno un
controllo con milking maneuvre e/o Doppler intraoperatorio dell’avvenuta continenza. Dopo oltre un decennio di fase
sperimentale, sono ora disponibili risultati favorevoli a lungo termine in studi clinici randomizzati multicentrici, qualora
siano rispettate le indicazioni chirurgiche e di fattibilità della valvuloplastica esterna (Corcos, 2000; Agus, 2001; Lane,
2001).
Raccomandazione: La valvuloplastica esterna della grande safena a livello della valvola terminale e/o sub-terminale,
previa accurata valutazione pre- ed intra-operatoria di fattibilità, rappresenta una valida terapia del reflusso safenico in
circa il 5% dei pazienti con IVC da incontinenza valvolare safeno-femorale. Grado B II a
b)
CORREZIONE EMODINAMICA DELL’ IVC (CHIVA)
CHIVA TIPO 1 La correzione dell’alterazione emodinamica in un unico tempo si realizza quando la perforante di
rientro di un sistema safenico refluente è centrata sul tronco safenico stesso (shunt tipo 1 e alcuni sottotipi di shunt tipo
3). Consiste nella deconnessione safeno-femorale con conservazione delle collaterali della crosse non refluenti e nella
deconnessione dalla safena di tutte le tributarie insufficienti con o senza flebectomia. La perforante di rientro potrà o
meno essere trattata con legatura-sezione della safena al di sotto del suo sbocco, ottenendo così la sua terminalizzazione
(Franceschi, 1988; Bailly, 1995). La buona riuscita emodinamica dell’intervento è data dalla presenza di un flusso
retrogrado.
CHIVA TIPO 2 La correzione dell’alterazione emodinamica in due tempi ha l’obiettivo di trasformare uno shunt di tipo
III in uno shunt di tipo I. Si realizza quando la perforante di rientro di un sistema safenico refluente è centrata su di un
ramo tributario, oppure sulla safena stessa quando è interposto un tratto safenico valvolato tra la perforante e l’origine
della collaterale varicosa (Cappelli, 1996). In questi casi l’esecuzione contemporanea della deconnessione sia della
giunzione
safenofemorale sia delle collaterali varicose realizza un sistema safenico non drenante, con conseguente aumento del
rischio di trombosi safenica o di recidiva a distanza. Il primo tempo della CHIVA 2 consiste nella deconnessione a
raso della parete safenica di detta tributaria e nella sua eventuale flebectomia. Nella maggioranza dei casi tale tempo
realizza un sistema a flusso anterogrado, che può rimenere stabile nel tempo in percentuali variabili riportate in
letteratura. Qualora il sistema sviluppa una perforante di rientro safenico, si passerà al secondo tempo della CHIVA 2,
che consiste negli stessi gesti chirurgici descritti per la CHIVA 1. Attualmente gli interventi CHIVA hanno superato il
follow-up di tre anni in pubblicazioni di evidenza scientifica (Consiglio, 1992; Cappelli, 2000; Zamboni, 2001;
Zamboni, 2003).
Raccomandazione: Gli interventi CHIVA, pur validati da studi randomizzati, rimangono limitati per numero e difficoltà
di riproducibilità. Non deve essere eseguita la procedura CHIVA 2 in safene con calibro superiore ai 10 mm alla coscia,
specialmente se il tratto safenico sottostante all’origine delle collaterali è aplasico/ipoplasico, per ridurre il rischio di
trombosi safenica a crosse aperta. GRADO B I b
3. TRATTAMENTI ENDOVASCOLARI
La rimozione del reflusso safenico o di altri rami venosi si può ottenere sia con mezzi chimici sia con mezzi fisici. Nel
primo caso si parla più propriamente di Scleroterapia. Nel secondo caso si parla di procedure obliterative endovascolari.
Queste utilizzano tecniche relativamente sofisticate, quali la radiofrequenza e la tecnologia laser. Esse offrono ormai
risultati più stabili rispetto all’elettrocauterizzazione del lume safenico, tentata in passato, ma abbandonata perché
soggetta a rapida ricanalizzazione della trombosi ottenuta. I progressi della tecnologia endovascolare hanno infatti ormai
calamitato la giusta attenzione verso nuove metodiche di trattamento dell’IVC. Queste novità paiono ampiamente
apprezzate dai pazienti e le tecniche sono in espansione d’uso e in taluni casi più utilizzate della vecchia tecnica dello
stripping (Almeida, 2006). Con evidenza, esse devono rispettare gli stessi criteri di indicazione chirurgica generale,
considerando le criticità già esposte per la chirurgia ablativa mediante stripping, in particolare valide per rischio di
inappropriatezza anche per l’ablazione fisica. Le procedure endovascolari possono essere associate contestualmente alle
flebectomie per mini-incisione e alla sezione di vene perforanti; oppure tali gesti possono essere rinviati a controlli
successivi, riducendone la necessità (Goldman 2000; Song KH 2003; Monahan DL 2005; Welch 2006 ), o alla
scleroterapia complementare post-operatoria.
a) RADIOFREQUENZA
La procedura, utilizzata dal 1999, può essere praticata in anestesia locale, tumescente o locoregionale (Chandler, 2000;
Goldman, 2000, Manfrini, 2000; Lebard, 2001). L’obliterazione della vena safena viene ottenuta applicando alla parete
energia termica tramite radiofrequenze, che produce una contrazione ed un ispessimento delle fibre collagene
dell’avventizia, provocando così la riduzione del lume fino alla sua completa chiusura. Il corretto posizionamento del
catetere operatore alla giunzione safeno-femorale deve essere verificato con ecocolordoppler. Al controllo
post-operatorio immediato si evidenzia, nei casi favorevoli, la safena trasformata in un cordone solido e contratto. Ad
un anno di distanza uno studio multicentrico osservazionale (Merchant, 2002) riporta su 232 controlli l’ 83,6% di
safene chiuse, il 5,6% di safene ancora aperte ed il 10,8% di safene ricanalizzate. A due anni di distanza i risultati
percentuali su 142 controlli sono analoghi. Tali risultati sono attualmente confortati da studi randomizzati-controllati vs
stripping e da follow-up superiori a 3-4 anni, mantenendo percentuali di obliterazione a 88% (Lurie, 2003; Merchant,
2005; Puggioni, 2005). Non irrilevanti risultano in favore della tecnica studi randomizzati sui benefici valutati sulla
QoL (Rautio, 2002; Lurie, 2003) e sul costo-beneficio (Rautio, 2002) e anche nella chirurgia delle varici recidive della
VGS (Hinchliffe, 2006).
b) TRATTAMENTO LASER
La procedura con l’impiego di laser a diodi tra 808 e 980 nm (o meno frequentemente a neodimio-YAG), viene
praticata in Italia fin dal 1999, con esperienze sporadiche anche anteriori, e più diffusa dopo l’approvazione da parte
della FDA nel 2001 (Agus, 2006 I).
Viene eseguita preferibilmente in anestesia locale, tumescente o tronculare. L’utilizzo dell’ecocolordoppler durante la
procedura deve essere considerato indispensabile per efficacia e sicurezza del risultato. L’obliterazione della vena
grande safena è ottenuta per la contrazione delle fibre collagene della parete vasale, schelettrizzazione endoteliale con
conseguente ispessimento parietale, contrazione del lume e fibrosi della vena, fenomeni ottenuti dall’energia termica
rilasciata dall’attivazione della fibra laser. Attualmente l’indicazione è estesa oltre che alla grande safena, alla vena
piccola safena, a tributarie lineari, e alla vena di Giacomini. Dalle prime presentazioni casistiche al Congresso Mondiale
dell’UIP di Roma-2001, sono comparsi oltre 100 articoli in PubMed. Oltre un quarto di questi, in realtà, è rappresentato
da review in parte solo concettuali, dimostrando peraltro il vasto interesse suscitato internazionalmente. Nei lavori
pubblicati e in particolare nella prima ampia review (Min, 2002; Navarro, 2001; Anastasie, 2003; Perrin, 2004 ),
tralasciando ormai le ricerche cliniche riportate come preliminari, viene messo in evidenza come a distanza di un anno
vi siano percentuali di occlusione della grande safena tra il 94 e il 100%, duratura al 94% a 2 e 3 anni e serie con
follow-up superiore ormai disponibili con numeri casistici di migliaia di casi da ogni parte del mondo, in studi
prospettici controllati, retrospettivi su registri rigidi, di comparazione vs stripping o differenti tecniche endovascolari
(Min, 2003; Creton, 2004; Huang, 2005; Kabnik, 2005; Kabnik 2006; Agus, 2006 II; Puggioni, 2005). Gli effetti
collaterali rappresentati da ecchimosi, secondarie all’anestesia locale, e da bruciore cutaneo transitorio, sono
trascurabili, ancorché frequenti. Più rilevanti le possibili, ma rare pigmentazioni (Mekako, 2007) e le trombosi venose
superficiali, più facilmente riscontrabili vicino al ginocchio, ma definibili più correttamente cordoni indurativi
infiammatori (Puggioni, 2005). Tuttavia, mentre il protocollo di procedura della RFA è standardizzato sin dall’inizio
d’uso, la procedura dell’ELT è risultata alquanto variabile, come è stato osservato nella prima review sulle casistiche
pubblicate in inglese e francese (Perrin, 2004) e solo pochi hanno dichiarato di seguire un preciso protocollo step by
step (Agus, 2006 II). Ne consegue che da un lato vengono infatti usate lunghezze d’onda differenti nell’ uso del diodo
(808, 810, 940, 980 nm) o del Nd-Yag (1064, 1320 nm); dall’altro non è facile standardizzare il rapporto dei parametri
di energia per le variabili spessore (mm)-potenza (W)- tempo (msec)- fluenza (J/cm2). Diverse soluzioni sono state
proposte per una miglior predizione di successo: concomitante interruzione della giunzione safeno-femorale (Corcos,
2005); preferire il rapporto di fluenze J/cm2 (volume-based) piuttosto che J/cm (linear-based) e più alte potenze
(Proebstle, 2006); più basse potenze, ma più lunghe esposizioni (Kaspar, 2007); anestesia locale con maggiore infusione
tumescente per collassare la vena (Kontothanassis, 2007).
In sintesi, per entrambe le procedure, non è stata valutata ancora appieno una serie di incognite: a) Le casistiche.
Non sono ancora molte quelle che hanno superato 5 anni per un follow-up ottimale dei pazienti trattati.
b)
L’obliterazione della safena si ottiene a distanza di sicurezza dall’ostio (2 cm, ma è diffuso il criterio di
rapportarsi alla inserzione della vena epigastrica superficiale). Rimane di conseguenza pervio un piccolo “cul di
sacco” terminale, nel quale si drenano le collaterali della crosse defluenti dalla pelvi, contrariamente a quanto si
realizza con l’intervento di crossectomia standard. Secondo diverse valutazioni, le procedure obliterative che
mantengono questa situazione emodinamica finale, senza trauma da incisione chirurgica della zona, sembrano
essere favorevoli nell’evitare le recidive della giunzione (Chandler, 2000; Gorny, 2001; Bergan, 2005 ).
c)
Per quanto riguarda il rapporto costo-beneficio, l’unità di controllo prevede una spesa iniziale
significativa, mentre i cateteri sono costosi solo per la RFA, che tuttavia in una ricerca randomizzata su un numero
limitato di pazienti (Rautio, 2002) ha evidenziato come la RFA pur costando il doppio dell’intervento chirurgico
tradizionale di stripping , abbia un buon costo-beneficio per i pazienti e la società; mentre il kit di trattamento laser
costa meno, indipendentemente dalla possibilità impropria di riuso delle fibre sterilizzabili e quindi riutilizzabili,
ma con rischi di inefficacia, insicurezza e malpractice per le normative vigenti su device disposable, con evidenze
dimostrate sul deterioramento dopo autoclave.
Raccomandazione: Entrambe le procedure obliterative endovascolari possono essere ora considerate validate dalla letteratura
scientifica internazionale e da un uso sempre più comune e alternativo allo stripping. Grado B I b Devono essere tuttavia
ancora considerate come procedure in fase di validazione clinica a distanza superiore ai cinque anni, su grandi numeri
casistici. Devono essere praticate in Centri flebologici accreditati e dotati di strumentazione dedicata, dopo un necessario
periodo di apprendimento.
4. CHIRURGIA DELLE VENE PERFORANTI
Le vene perforanti assicurano la comunicazione attraverso l’aponeurosi muscolare tra le vene del sistema superficiale e
le vene del sistema profondo. In numero variabile da 80 a 140 per arto inferiore, hanno un diametro che non supera i
due millimetri e sono provviste di una valvola che si localizza di norma nel tratto sotto-aponeurotico.
L’identificazione di vene perforanti di gamba incontinenti è oggetto di controversie. Se l’ecodoppler sembra l’indagine
più affidabile, la metodologia dell’esame resta controversa (Bishop, 1991; Sarin, 1992). E’ certo che un reflusso della
durata superiore ad 1 secondo con un calibro della perforante superiore ai 2 mm. debba essere considerato patologico.
Il rapporto tra grado di severità della IVC e vene perforanti incontinenti è determinato dal numero di perforanti
interessate e soprattutto dalla associazione di più sistemi venosi patologici (Labropoulos, 1994; Myers, 1995).
L’eliminazione delle perforanti incontinenti in associazione con la bonifica delle vene varicose e del reflusso safenico
nel trattamento dei pazienti con grave insufficienza venosa cronica costituisce un approccio terapeutico importante nel
trattamento dei disturbi trofici della cute (Jugenheimer, 1992). L’indicazione al trattamento chirurgico è elettiva in
pazienti con perforanti incontinenti di gamba e con ulcera attiva o chiusa (classe C5-C6 CEAP), mentre il trattamento
delle perforanti da insufficienza superficiale viene riservato ai pazienti sintomatici con distrofie cutanee (classe C4
della CEAP) (Whiteley, 1998). Si distinguono due modalità di trattamento chirurgico delle vene perforanti:
a) il soprafasciale ed il sottofasciale con la metodica tradizionale;
b) il sottofasciale con la metodica endoscopica. I risultati del trattamento con la metodica tradizionale (tecnica di Linton,
Cockett, Felder, De Palma) non si discostano tra le varie tecniche utilizzate, con una percentuale di recidiva ulcerosa che
oscilla tra il 9 e il 16,7% con un follow-up variabile dai 5 ai 10 anni (Danza, 1991; De Palma, 1996). Il trattamento
endoscopico delle perforanti, prevede sia un mono accesso (trocar unico) sia un doppio accesso chirurgico (trocar
operatore ed ottica). Numerosi studi hanno dimostrato la comparsa di recidiva ulcerosa a 5 anni di follow-up in una
percentuale sino al10% (Bergan, 1996; Perik, 1997; Whiteley, 1998). Molti Autori hanno associato il trattamento
chirurgico endoscopico alla bonifica del sistema venoso superficiale incontinente (Rodhes, 1998; Pigot, 1999) con una
percentuale di recidive ulcerose simile a 5 anni di follow-up, anche se in uno studio multicentrico che valutava la
chirurgia endoscopica contro la chirurgia endoscopica e bonifica del sistema superficiale si osservò a due anni di
follow-up una minore percentuale di recidiva ulcerosa nel secondo gruppo (Gloviczki, 1999). Per la sua minore
invasività, per il ridotto numero di complicanze post-operatorie e per la possibilità di agire lontano dalla sede
dell’ulcerazione, è stato sostenuto il vantaggio della tecnica endoscopica rispetto al trattamento tradizionale delle
perforanti (Nelzen, 2000), anche se oggi questa tecnica è sottoposta a critiche per eccesso di indicazioni. Recenti
orientamenti e le ultime review raccomandano infatti cautela nella chirurgia delle perforanti (Karla, 2002; Mendes,
2003; Van Neer, 2003; Recek, 2006), che peraltro possono risultare importanti nella comparsa di recidive e di severità
dell’ IVC (Delis, 2004; van Rij, 2005; Labropoulos, 2006).
Raccomandazioni:
Nei pazienti con sindrome post-trombotica il trattamento delle vene perforanti incontinenti, sia esso effettuato con
scleroterapia o con tecnica chirurgica tradizionale o endoscopica, riveste un ruolo centrale. Grado B II a Nelle varici
essenziali si deve distinguere il ruolo emodinamico delle vene perforanti di coscia (perforanti di Dodd) e della
perforante di Boyd. Quando sono incontinenti, esse vanno sempre interrotte. Per le restanti perforanti di gamba
occorre tener conto dell’aspetto clinico associato all’aspetto strumentale e una subalternità alla correzione del reflusso
lungo appare consigliabile. Grado C III
5. VARICI RECIDIVE
Per varici recidive si intendono le varici che compaiono dopo terapia chirurgica e non le residue alla stessa (Perrin,
2000). La chirurgia delle varici degli arti inferiori è una chirurgia semplice solo in apparenza, essendo assai
numerose le insidie. La dimostrazione di tale affermazione è l’alta percentuale di recidive riportata dalla letteratura
internazionale (Larson, 1974; Elbaz, 1977; Agus, 1982; Rutherford, 1990; Labropoulos, 1996; Botta, 2001) anche
quando apparentemente risulti dopo chirurgia correttamente eseguita (Allegra, 2007). L’interpretazione di tali
casistiche non è però sempre omogenea a causa della etereogenicità del reclutamento e del diverso percorso
diagnostico terapeutico. Le cause di recidiva più frequenti sono:
1. Errata strategia diagnostica e di appropriatezza terapeutica Il risultato a lungo termine della chirurgia delle varici è
legato ad una corretta diagnosi. Solo l’esatta individuazione delle cause emodinamiche delle vene varicose permette di
programmare un appropriato iter terapeutico (Bradbuty, 1993). Al concetto di “radicalità chirurgica”, intesa come
estirpazione anatomica della safena con tutte le sue collaterali
e di tutti i gozzi varicosi, che ha caratterizzato la chirurgia delle varici per quasi un secolo, si è sostituito definitivamente
quello di “radicalità emodinamica”, intesa come eliminazione di tutti i difetti emodinamici che sono alla base della
formazione delle varici e degli altri segni e sintomi dell’ IVC (i reflussi). Per rendere riproducibili nel tempo tali
situazioni, è nata da più di un decennio la cartografia emodinamica preoperatoria (Franceschi, 1988), una sorta di carta
geografica delle varici e dei difetti circolatori venosi degli arti inferiori, che ha contraddistinto non solo l’intervento
CHIVA, ma anche tutta la chirurgia venosa. Un uso non corretto di tali nozioni, soprattutto su base anatomica, può
essere causa di recidive.
2. Errori tecnici Numerosi lavori dimostrano in modo inconfutabile l'importanza degli errori nella esecuzione degli
interventi, spesso piuttosto grossolani, e non solo nelle casistiche più datate (Haegher, 1967; Crane, 1979; Agus, 1982;
Marques, 1987; Tong, 1995). Le varici recidive sembrerebbero più frequenti dopo chirurgia dei reflussi post-trombotici
(Allegra, 2007). Tra i motivi, che possono indurre in errore durante un intervento per varici degli arti inferiori,
certamente il più importante è stato considerato per lungo tempo essere la grande variabilità anatomica della giunzione
safeno-femorale, che può portare il chirurgo a lasciare in sede alcune collaterali, fonte della recidiva. Oggi, in relazione
alle nuove vedute sulla giunzione safeno-femorale trattata con criteri emodinamici dagli interventi endovascolari e dalla
stessa CHIVA, il valore della crossectomia cosiddetta “radicale” èstato messo in discussione. La terapia delle varici
recidive può essere nuovamente di tipo chirurgico con approccio inguinale laterale sottofasciale, per non incorrere nelle
difficoltà tecniche legate alla sclerosi cicatriziale (Li, 1975; Belardi, 1994; Botta, 2001), qualora sia documentato
all’Eco-(Color)-Doppler un moncone safenico lungo con una o più collaterali refluenti (Royle, 1981). In prospettiva
dovrà essere considerato l’ uso selettivo di imaging come la flebo-RM (Koizumi, 2007).
In tutti quei casi in cui non sia indicato il trattamento chirurgico o in alternativa ad esso, può essere utilizzato il
trattamento medico farmacologico e compressivo, in considerazione dei ridotti benefici della chirurgia delle recidive
sulla QoL (MacKenzie, 2002 I). Le nuove tecniche endovascolari quali la RFA o l’ELT possono tuttavia essere
utilmente impiegate ((Hinchliffe, 2006);
o la scleroterapia, oggi più efficace grazie alla tecnica con schiuma (Creton, 2007; O’Hare, 2007);
Raccomandazioni:
Ferma restando la possibilità di recidiva delle varici quale evoluzione dell’ IVC, al fine di porre rimedio al ripresentarsi
delle varici è necessaria una corretta diagnosi ben ottenibile con gli ultrasuoni (esami di I e II livello), riservando a rari
casi particolari (III livello) la flebografia selettiva o nuove metodiche di imaging (flebo-RM), onde ridurre al massimo
l’errore. Grado B III
CHIRURGIA DEL SISTEMA VENOSO PROFONDO
Insufficienza venosa profonda cronica
La patogenesi della insufficienza venosa profonda cronica (IVPC) può essere costituita da ostacolo al deflusso venoso
proveniente dagli arti inferiori e dalla pelvi - in caso di sindrome post-trombotica (SPT), in caso di stenosi non
trombotica di vene di grosso calibro o sindrome di May-Turner -, oppure da reflusso primario in stazione eretta - nella
insufficienza venosa profonda primaria (IVPP), nei rari casi di ipogenesia o agenesia valvolare o di altre anomalie
anatomiche - o infine da reflusso secondario - nella SPT tardiva, dopo ricanalizzazione parziale o comunque
danneggiamento dell’apparato valvolare -. Sul piano della fisiopatologia l’IVPC fa parte dell’ IVC, caratterizzata dalla
ipertensione venosa periferica, aggravata dalla stazione eretta in ragione della gravità, che condiziona una serie di
alterazioni a carico del microcircolo con edema interstiziale, ipossia tessutale e danni conseguenti. L’IVPC si manifesta
con una sintomatologia variabile a seconda della patogenesi, della localizzazione del difetto funzionale, dell’epoca di
insorgenza di esso. La diagnosi si avvale di tecniche diagnostiche raccomandate. Per la visualizzazione e localizzazione
del difetto vascolare sono utili soprattutto l’ecodoppler e la flebografia discendente per l’arto inferiore, l’angio-TC per il
tratto iliocavale; mentre per la valutazione emodinamica sono utili la misurazione della pressione venosa distale, la
pletismografia ad aria, la fotopletismografia. La valutazione e l’interpretazione dei risultati strumentali non è del tutto
univoca tra i vari AA, tuttavia si è raggiunto un certo accordo circa i parametri emodinamici da utilizzare nel porre
l’indicazione al trattamento medico-chirurgico “aggressivo”. Essi sono:
Pressione venosa deambulatoria > 40 mmHg;
Tempo di Riempimento Venoso (TRV) < 12 sec;
Indice di Reflusso Venoso (VRI) > 0,5-1,0 sec;
d. Reflusso venoso di III-IV grado alla flebografia discendente (Kistner, 1986). La terapia è conservativa, basata
soprattutto sulla elastocompressione. Nei casi lievi, e comunque nella maggioranza di quelli trattati in stadio precoce,
essa risulta efficace. In casi più gravi, o ribelli alla terapia conservativa, si possono attuare procedure
medico-chirurgiche atte ad eliminare o ridurre la causa ostruttiva o il reflusso valvolare.
Indicazioni chirurgiche: sono poco frequenti e ciò per diverse ragioni. In primo luogo, nella maggioranza dei casi il
trattamento conservativo, e in particolare l’elastocompressione, fornisce risultati soddisfacenti e con una qualità di vita
accettabile. Di conseguenza, la compressione elastica va sempre proposta ed attuata nel paziente con IVPC come primo
approccio terapeutico, controllandone nel tempo la corretta applicazione e l’efficacia, e apportando eventuali modifiche
a seconda della necessità. Pertanto, salvo casi particolari, il trattamento chirurgico deve essere proposto solo dopo il
fallimento del trattamento conservativo. In secondo luogo, l’indicazione all’intervento chirurgico deve essere posta in
base alla gravità complessiva del quadro clinico dell’IVC e non già soltanto sui parametri strumentali. L’intervento può
essere proposto in caso di ulcerazione in atto o recidivante (CEAP C5-C6), soprattutto se in presenza di IVPP, ma
eventualmente anche secondaria a SPT, in caso di claudicatio venosa, in caso di varici polirecidive. Procedure
medico-chirurgiche: possono essere di ricanalizzazione e quindi correttive dell’ostruzione, oppure di correzione del
reflusso venoso.
Le procedure di ricanalizzazione attualmente disponibili sono:
a) la trombolisi farmacologica e meccanica. La trombolisi, con infusione protratta di Urokinasi, è accettata come
efficace nella trombosi acuta e recenti esperienze suggeriscono di associarla a procedure endovascolari (vedi sotto
b-c) come alternativa alla terapia anticoagulante di lunga durata (Jackson, 2005; Schwarzbach, 2005). Peraltro, essa si
dimostra utile anche nella trombosi cronica, soprattutto se somministrata mediante catetere posizionato intra-trombo,
eventualmente associata all’uso del trombolizzatore e aspiratore meccanico, sotto la guida degli ultrasuoni percutanei
(Kwak, 2005) o intravascolari (IVUS). Il trombolizzatore consente di accelerare il risultato, mentre l’IVUS facilita il
monitoraggio dell’infusione e consente una migliore valutazione della parete venosa. Si avvantaggiano della
trombolisi soprattutto le trombosi subacute (ma anche quelle croniche) del tratto ilio-cavale, sia per il grosso calibro e
la centralità dei vasi sia perché la ricanalizzazione del segmento venoso lo rende disponibile per l’angioplastica e lo
stenting.
b) l’angioplastica endoluminale con catetere a palloncino. I progressi nello strumentario endovascolare oggi disponibile
hanno consentito l’accumulo e il vaglio di una consistente casistica. A causa della tenacia del tessuto iperplastico o
cicatriziale di parete, sono preferiti palloni ad alta pressione (12 atm e oltre) ed eventualmente una predilatazione con
palloni taglienti (cutting balloon). I risultati in termini di efficacia e di sicurezza sono definiti favorevoli dalla
maggioranza degli AA. La procedura si è dimostrata efficace nel trattamento di stenosi e ostruzioni soprattutto di vasi
centrali (vene anonime, cava superiore e inferiore, iliache), in casi che non sarebbero stati trattabili in altro modo (per
scompenso di circolo, neoplasie avanzate, emodialisi cronica).
c) il posizionamento di stent metallico. In molti casi l’angioplastica non dà un risultato stabile, a causa del ritorno
elastico della parete (recoiling) o per la presenza di compressione estrinseca al vaso. Si può allora posizionare uno stent
metallico per mantenere il lume vasale pervio. Data la frequente tenacia della parete, si dà preferenza a stent
autoespandibili, ad elevata forza radiale. E’ tuttavia da considerare che lo stent posizionato in una sede soggetta a
frequente compressione o deformazione può andare incontro a rottura meccanica. Sono descritti casi di migrazione
dello stent (Mullens, 2006).
d) Il bypass venoso. Il bypass femoro-femorale crociato eseguito con la dislocazione della safena autologa (sec.
Palma), è intervento considerato efficace per alleviare una ostruzione iliaca monolaterale. Alcuni AA. associano la
confezione di fistola a-v per aumentarne la portata e ridurre il rischio di trombosi post-operatoria, ma questa pratica non
ha dimostrato efficacia univoca (Jost, 2001). Minore efficacia hanno dimostrato i bypass femoro-iliaco-cavali o
femoro-renali, i quali oltretutto comportano una notevole invasività chirurgica.
Le procedure antireflusso venoso attualmente disponibili sono:
e) La valvuloplastica. Il rationale per questo trattamento si basa sul reperto istopatologico che, in stadio iniziale, le
cuspidi valvolari sono ancora sane, seppure allungate e incontinenti a causa della dilatazione del bulbo valvolare.
L’obiettivo è quello di riportare le cuspidi valvolari a contatto tra loro. E’ necessario quindi visualizzare
ecograficamente che le cuspidi siano mobili e non atrofiche nel sito da sottoporre a intervento riparativo (vena femorale
superficiale, vena poplitea, valvola terminale e pre-terminale della grande safena). L’intervento consiste nel
rimodellamento della valvola venosa o dei suoi elementi costitutivi. Questo può essere ottenuto plissettando
direttamente le cuspidi stesse, o suturando la parete venosa,
o avvolgendola con un manicotto protesico (in Dacron o PTFE, senza o con un sostegno metallico) di appropriato
diametro. La ritrovata continenza dovrebbe essere testata intra-operatoriamente mediante milking manouvre o
ultrasuoni o entrambi. Dopo oltre 10 anni di sperimentazione clinica, questo approccio ha dato risultati incoraggianti
ove siano stati rispettati i criteri di indicazione chirurgica e di fattibilità tecnica. Si distinguono varie tecniche di
valvuloplastica:
1.
valvuloplastica interna, che comporta la venotomia e la riparazione dall’interno,
mediante plissettatura delle cuspidi valvolari allungate o prolassate (sec. una delle tecniche
proposte) (Kistner, 1968; Raju, 2000; Sottiurai, 1988). Con la corretta indicazione, l’intervento
è tecnicamente fattibile e con risultati positivi sulla vena femorale superficiale o vene di
diametro maggiore ma non è generalmente applicabile alle vene safene, sia a causa
del piccolo diametro che dello spasmo conseguente alla manipolazione chirurgica.
2.
valvuloplastica esterna (diretta), che non comporta la venotomia, ma la riparazione si esegue
dall’esterno, mediante una sutura continua longitudinale lungo le pareti intercommissurali (sec. Kistner), che
tende a realizzare un accorciamento “alla cieca” delle cuspidi valvolari e anche una riduzione del diametro
valvolare (Raju, 2000).
3.
valvuloplastica esterna (indiretta), che non comporta la venotomia ma la riparazione si ottiene mediante la
riduzione della circonferenza del bulbo valvolare per costringere le cuspidi valvolari ad un migliore contatto tra
loro. L’obiettivo si ottiene applicando attorno alla vena un manicotto (banding) costituito da una benderella di
materiale sintetico (di solito PTFE o Dacron-Silicone) suturato successivamente su un lato, in modo da ridurre in
modo permanente la circonferenza e quindi il diametro della valvola e modificarne comunque la sezione assiale,
per la lunghezza di circa un centimetro. L’intervento è applicabile, seppure con maggiore difficoltà tecnica, anche
alle vene safene (Ik Kim, 1999; Belcaro, 2000; Yamaki, 2001). Attualmente in Italia non sono in commercio
devices specifici per il banding valvolare e il chirurgo dovrà confezionarlo artigianalmente.
Nella esecuzione della valvuloplastica, di notevole aiuto risulta l’angioscopia diretta con strumenti di piccolo diametro
(circa 3 mm), anche se essa aumenta la complessità dell’operazione (Welch, 1992). I risultati della valvuloplastica sono
riferiti buoni o ottimi nel 75-80% dei casi trattati, anche a distanza di tempo, con scarsa incidenza di trombosi precoce e
di incontinenza tardiva (Raju, 1992; Tripathi, 2004). I risultati migliorano in caso di valvuloplastica in sedi multiple o di
associazione alla valvuloplastica interna del manicotto protesico perivenoso (Us, 2007; Rosales, 2006). Tuttavia,
essendo le serie riportate in letteratura per la maggior parte esigue e non prospettiche, la stratificazione della casistica
non standardizzata, le tecniche chirurgiche diverse fra loro, non è ancora possibile esprimere su di esse un documentato
giudizio di efficacia (Hardy, 2004). Dal momento che questo tipo di intervento può essere efficace solo quando la
valvola presenta cuspidi valvolari mobili e riparabili, esso raramente è realizzabile nella SPT. In questi casi, se la vena
già trombosata e ricanalizzata non appare troppo danneggiata all’Eco-Doppler e/o alla flebografia (ispessimento
parietale importante, presenza di ricanalizzazioni multiple), si può ricorrere anche ad altri tipi di intervento: la
trasposizione venosa o il trapianto di segmento venoso valvolato, oppure le procedure mininvasive a-b-c (vedi sopra).
f) La trasposizione venosa. Rappresenta l’intervento di seconda scelta. Per la sua realizzazione è necessario che una
vena “parallela” con valvole incontinenti possa essere messa “in serie” nel circuito venoso a monte di una valvola
continente. Il vaso “parallelo” più frequentemente utilizzabile è la vena femorale superficiale. Questa può essere
suturata alla vena femorale profonda o alla safena interna, se esse presentano una valvola terminale continente. Questa
tecnica offre il vantaggio di richiedere una sola anastomosi, ma sfortunatamente non sempre è attuabile o per eccesso di
distanza anatomica o per assenza di valvola continente nel vaso di approdo.
g) Il trapianto di segmento venoso valvolato. L’intervento consiste nell’interporre a livello del circolo venoso profondo
incontinente un segmento venoso che comprenda una o due valvole funzionanti. Il prelievo viene solitamente eseguito
sulla vena axillo-omerale, meno frequentemente sulla vena grande safena o sulla vena femorale superficiale
controlaterale. La scelta del sito ove interporre il segmento valvolato dipende dalla mappa del reflusso venoso e dalla
qualità della vena ricevente. I siti più spesso utilizzati sono la parte terminale della vena femorale superficiale e la vena
poplitea. Peraltro, la vena poplitea è spesso sede di alterazioni parietali ed endoluminali che possono rendere inefficace
l’intervento in quella sede e, inoltre, l’eventuale ostruzione del trapianto non viene bene tollerata. La frequenza della
trombosi post-operatoria nei trapianti è più frequente che nelle trasposizioni ed ancora di più che nelle valvuloplastiche
(Raju, 1988). Secondo alcuni si verifica una progressiva degradazione valvolare, per dilatazione della vena trasposta
(Raju, 1992). Questo giustificherebbe l’artificio tecnico, proposto da alcuni Autori, di posizionare un manicotto intorno
al segmento trapiantato.
h) SEPS In associazione alla chirurgia del sistema superficiale, la legatura selettiva sottofasciale delle perforanti di
gamba per via endoscopica (SEPS) ha dimostrato di essere efficace. Questo si evince da uno studio cooperativo,
multicentrico,
controllato, retrospettivo su 832 pazienti (ma prospettico e randomizzato su 92 di essi) (Tawes, 2003) e da uno
prospettico su 53 SEPS consecutive (Ting, 2006).
i) Altri interventi. Altri interventi sono stati proposti ed attuati nel trattamento dell’IVPC: intervento di Psathakis,
impianto di protesi valvolare eterologa criopreservata (Dalsing, 1999; Gomez-Jorge, 2000; Pavcnik, 2004), creazione
di neo-valvola autologa (Maleti, 2006), ed altri. Essi non hanno trovato un consenso o una diffusione sufficiente per
una valutazione critica, oppure sono stati abbandonati. Essi vengono eseguiti da singoli operatori in centri
specializzati e sono generalmente riservati a casi molto particolari.
Sindromi da reflusso profondo degli arti inferiori
In caso di insufficienza venosa profonda primaria (IVPP), se questa è lieve la cura del reflusso superficiale può portare
notevole beneficio e anche abolire il reflusso nella vena femorale. Al contrario, in caso di reflusso severo e veloce, con
sintomatologia clinica grave (CEAP C5-C6) e non dominabile con la terapia conservativa, l’intervento di
valvuloplastica a livello della vena femorale superficiale deve essere considerato. In questi casi, la percentuale di
recidiva dell’ulcera dopo terapia conservativa è alta in assenza di correzione del reflusso profondo, mentre i risultati
ottenuti dai Centri che hanno praticato questo tipo di chirurgia sono buoni e duraturi. L’intervento può essere proposto
anche in caso di SPT (Akesson, 1999; Maleti, 2006).
Indicazioni. Prima di porre l’indicazione chirurgica, è obbligatoria una accurata valutazione dei reflussi e della loro
correlazione e responsabilità nella sintomatologia. Sono pertanto da eseguire: l’esame clinico, l’esame Ecodoppler, la
classificazione CEAP, i test emodinamici, la flebografia discendente. Questo esame, eseguito con manovra di Valsalva,
consente di verificare il grado del reflusso (sec. Kistner), di perfezionare la mappa dei reflussi complessivi, di
visualizzare le valvole potenzialmente recuperabili. Varie esperienze documentano una riduzione della IVPP dopo
trattamento del reflusso nel sistema superficiale (Ting, 2006), ma è anche dimostrato da uno studio randomizzato
(Wang, 2006) un migliore risultato complessivo con la cura di entrambi i sistemi contemporaneamente (Sakuda, 2002),
con differenza statistica anche < 0.05 (Zhang, 2004).
Terapia. Se l’indicazione chirurgica è confermata, si può optare per una della tecniche di valvuloplastica sopra elencate
oppure una combinazione di esse. I risultati sono attestati positivi nel 70-80% dei casi (Masuda, 1994). In una
revisione di 423 interventi di ricostruzione valvolare in casi di IVPP e di SPT, eseguita con varie tecniche e controllati
con Ecodoppler, fu redatta la seguente graduatoria in ordine alla durata nel tempo (follow-up 1-12 anni) ed alla efficacia
dei metodi chirurgici: a) valvuloplastica interna; b) valvuloplastica esterna con manicotto protesico; c) valvuloplastica
esterna con sutura diretta; d) trapianto venoso. Una sorpresa fu l’eccezionale efficacia della valvuloplastica eseguita
sulle vene tibiali posteriori; non fu invece osservata nessuna differenza significativa in ordine alla recidiva dell’ulcera
(Raju, 1996). Tuttavia, è da considerare che i risultati migliori sembrano essere quelli della valvuloplastica interna
associata al banding esterno (Tripathi, 2004; Us, 2007) e alla molteplicità delle valvole riparate (Rosales, 2006).
D’altro canto, il banding eseguito isolatamente risulta essere intervento più semplice e rapido, gravato da minori
complicazioni, e comunque efficace (Cavilli, 1994). Peraltro, sulle varie tecniche chirurgiche di valvuloplastica non è
ancora possibile esprimere un generale e documentato giudizio di efficacia (Hardy, 2004). Attualmente in Italia non
sono in commercio devices specifici per il banding valvolare e il chirurgo dovrà confezionarlo artigianalmente; questo
rappresenta una evidente limitazione oggettiva.
Raccomandazioni:
L’intervento antireflusso di valvuloplastica nella IVPP risulta efficace e sicuro nel 75-80% dei casi. Nessuna delle
tecniche ha dimostrato di essere sicuramente superiore alle altre. A tutt’oggi, non è raccomandabile l'uso estensivo
di questi interventi chirurgici. Essi vanno riservati a pazienti selezionati ed eseguiti in strutture o da specialisti con
specifiche competenze. Grado C III
Sindromi ostruttive degli arti inferiori e dell’asse ilio-cavale
In caso di ostruzione permanente e stabilizzata dei tronchi venosi profondi si instaura la sindrome post-trombotica
(SPT), detta in passato post-flebitica, caratterizzata inizialmente da una sindrome esclusivamente ostruttiva. Questa
diviene meno grave con l’andare del tempo, a mano a mano che si realizza la ricanalizzazione del vaso e/o lo sviluppo
di un circolo collaterale di compenso; peraltro, a causa di questo, seppure la sindrome ostruttiva va riducendosi, si
sviluppa progressivamente una sindrome da reflusso, per devalvulazione della vena colpita. Così entrambe,
sommandosi, comportano un aumento della ipertensione venosa in stazione eretta e il peggioramento progressivo della
sintomatologia clinica da IVC. Sono descritte sindromi ostruttive sia a livello sotto- che sopra-inguinale.
Fermo restando che la terapia conservativa (terapia anticoagulante ed elastocompressione), protratta e ben condotta,
rappresenta il cardine della prevenzione delle recidive trombotiche e dell’aggravamento evolutivo della SPT, scopo
della terapia chirurgica in questi casi è quello di ricreare una via di ritorno venoso emodinamicamente efficace e, nei
limiti del possibile, una riduzione del reflusso secondario alla ricanalizzazione.
Indicazioni. I criteri clinici e strumentali che suggeriscono l’indicazione chirurgica sono quelli già descritti a
giustificazione del trattamento medico-chirurgico “aggressivo” e preliminari al trattamento delle IVPP. Un esame
aggiuntivo utile può essere la misurazione bilaterale cruenta della pressione venosa femorale (Nicolaides, 1981). Nei
casi con sintomi addominali riconducibili a una SPT pelvica, la circolazione venosa pelvica dovrebbe essere investigata
routinariamente; infatti i casi accertati e trattati mediante posizionamento di stent hanno avuto buon risultato clinico
(Blättler, 1999). In conclusione, un intervento sarà proponibile a pazienti con IVC grave (CEAP C5-C6) o con
claudicazione venosa, in cui la terapia conservativa correttamente eseguita non abbia avuto efficacia, nei quali la causa
ostruttiva sia situata in un vaso di grosso calibro e sia potenzialmente correggibile (Healey , 2006; Delis, 2007). Altra
indicazione è ravvisata nelle stenosi di anastomosi venose dopo trapianto di fegato o di rene (Borsa, 1999) e nella
sindrome di Budd-Chiari (Wu T Wang, 2002; de Riele, 2006).
Terapia. Nelle ostruzioni iliache unilaterali, anche non recenti, la trombolisi, la tromboaspirazione, l’angioplastica e
stenting sono risultate tecniche affidabili, abbastanza efficaci e relativamente mininvasive (Juhan, 2001; Raju, 2002;
Kwak, 2005). In casi di ostruzione di vene profonde associata a reflusso superficiale, uno studio comparativo propone di
combinare il trattamento dei due sistemi contemporaneamente (Neglén, 2006). L’intervento di bypass crociato con
safena autologa (sec. Palma) trova una indicazione subalterna; peraltro, le buone condizioni anatomiche della grande
safena sono essenziali per la sua esecuzione, ed essa deve avere un diametro non inferiore a 5 mm e il gradiente di
pressione tra i due lati deve essere superiore a 4 mmHg in posizione supina e a 8 mmHg in posizione eretta. Se queste
condizioni non si realizzano, si può ripiegare su un bypass sovrapubico con protesi alloplastica in PTFE armato,
eventualmente associato al confezionamento di una fistola a-v. Infine, in soggetti giovani o in attività lavorativa o con
sintomatologia molto invalidante, una ostruzione iliaco-cavale unilaterale fortemente sintomatica può essere curata
realizzando un bypass femoro- o iliaco-cavale (Alimi, 1997) o anche, in casi molto particolari, un bypass femoro-renale.
Nelle ostruzioni iliaco-cavali bilaterali, solo eccezionalmente è giustificabile l’indicazione ad un bypass femoro-cavale.
E’ abbastanza frequente osservare che l’arteria iliaca comune destra comprime la vena iliaca comune sinistra contro il
corpo vertebrale, situato posteriormente, provocando una stenosi anche del 50%, pur in assenza di sintomi (Kibbe,
2004), ma nella sindrome di May-Thurner la stenosi a carico dell’asse venoso sinistro è serrata ed emodinamicamente
significativa. La stenosi può comportare la riduzione del diametro antero-posteriore della vena a soli 3-4 mm, essendo
normale un diametro di circa 11 mm (Oguzkurt, 2005). In questi casi, la conferma diagnostica mediante angio-TC e/o
ultrasuoni endovascolari suggerisce l’indicazione all’angioplastica dilatativa e al posizionamento di uno stent metallico
(Forauer, 2002). Questa indicazione deriva anche dal fatto che la stenosi può essere progressiva ed è stata riconosciuta
essere un fattore di rischio della TVP acuta omolaterale (Negl’en, 2003; Raju, 2006; Kim, 2006). E’ interessante inoltre
l’esperienza di alcuni AA. che hanno posizionato stent o filtri cavali sulla la guida degli ultrasuoni, piuttosto che della
tradizionale fluoroscopia (Zhang, 1999).
Raccomandazioni:
La prevenzione della SPT consiste nella prevenzione della TVP. La prevenzione delle sequele della SPT consiste
nella elastocompressione adeguata, protratta per almeno due anni.
Grado A
La terapia della SPT è prevalentemente conservativa; a fronte del suo fallimento, in casi gravi e selezionati, sono indicati
interventi chirurgici sul sistema venoso superficiale e profondo o propri dell'ulcerazione. Grado B In caso di stenosi di
vene centrali (cava inferiore, iliaca comune ed esterna), gli interventi endovascolari sono generalmente efficaci e a basso
rischio. Essi consentono di mantenere o migliorare la funzione degli organi correlati.
Grado B
Sindromi ostruttive dell’asse anonima-cava superiore
La sindrome è caratterizzata da ostacolo al deflusso verso il cuore del sangue venoso delle regioni superiori
del soma, soprattutto il cranio e gli arti superiori. La patogenesi è generalmente la compressione estrinseca
(tumori infiltranti o benigni, aumento volumetrico o dislocazione di organi vicini) oppure la
steno-ostruzione dei vasi centrali (trombosi, iperplasia miointimale). Tra le cause della steno-ostruzione,
una sta diventando di più frequente osservazione: il cateterismo venoso centrale cronico (per applicazione
di catetere-elettrodo per pacemaker, accesso di emodialisi, cateterismo infusionale nutritivo o terapeutico)
(Korkeila, 2007). Una stenosi non emodinamica e non significativa in condizioni normali, può diventare
rapidamente emodinamica e sintomatica se a monte di essa è attiva una fistola a-v ad alta portata, ad es. per emodialisi
cronica. La sintomatologia è variegata, caratterizzata da ipertensione venosa nei territori coinvolti dall’ostacolo al
deflusso venoso, da edema e cianosi del territorio correlato; la gravità dei sintomi dipende dalla rapidità di formazione
dell’ostacolo, dalla centralità di esso, dalla portata del flusso che la vena è chiamata a veicolare (Agarwal, 2007). La
diagnosi si avvale dell’esame clinico, dell’ecodoppler, dell’angio-TC, dell’angiografia - eventualmente associata a
manovre dinamiche per mettere in evidenza particolari dettagli funzionali. Per quanto riguarda l’Ecodoppler, il rilievo
nel segmento stenotico di una velocità di picco di 2,5 volte maggiore che nei segmenti normali omologhi è indicativa di
stenosi significativa (Labropoulos, 2007). Indicazione ad un trattamento aggressivo deriva dalla gravità della
sintomatologia clinica (vedi sopra), dal rischio delle complicanze tromboemboliche, dalla inefficacia o precarietà
dell’accesso vascolare per emodialisi. Terapia : consiste generalmente nella angioplastica percutanea e nella
applicazione di stent metallici, con il supporto della fluoroscopia o anche degli ultrasuoni endovascolari (IVUS), ma
viene suggerito un approccio multimodale (Sajid, 2007). L’intervento può essere eseguito anche in pazienti pediatrici
(Ing, 1998). Nelle stenosi estrinseche di natura benigna, i risultati sono riferiti ottimi o buoni (Petersen, 1999). La
facilità della recidiva e la necessità di monitorare il sito trattato e di reintervenire su di esso, certamente limita ma non
inficia l’efficacia del trattamento in quanto molte casistiche riportano, anche a distanza, una pervietà secondaria ottima
o vicina al 100% (Oderich, 2000; Aytekin, 2004; Bornak, 2003, Rajan, 2007). La pervietà a distanza dello stenting
primario non risulta superiore a quella della PTA isolata (Bakken, 2007). E’ da tenere presente la possibilità di
complicanze, ad es. la formazione di pseudoaneurisma aortico causato dalla penetrazione di uno stent posizionato
originariamente nella cava superiore (Warshauer, 2007).
Raccomandazioni: In caso di stenosi di vene centrali (anonima, cava superiore), gli interventi endovascolari sono
generalmente efficaci e a basso rischio. Essi consentono di mantenere o migliorare la funzione degli organi correlati e
di prolungare l’utilizzabilità degli accessi vascolari per emodialisi. Generalmente, essi non sono risolutivi poiché
frequentemente gravati da stenosi recidiva e dalla necessità di interventi iterativi.
Grado C III
COMPRESSIONE ELASTICA
GENERALITA’ La terapia compressiva è fondamentale per il trattamento dell’ IVC degli arti inferiori nelle varie
espressioni cliniche, con non meno pari dignità della terapia farmacologica per i suoi effetti su diametri vascolari,
sull’emodinamica venosa, sulla pressione idrostatica dei grossi vasi superficiali e profondi, sulla microcircolazione,
sulla coagulazione e la fibrinolisi, sui fluidi interstiziali e sulla riduzione dell’edema (Agus LG, 2000 e 2003; ). La
compressione dei vasi venosi viene ottenuta mediante la applicazione di bende -o fasce- a lungo, medio e corto
allungamento, e calze elastiche nelle varie conformazioni e taglie vengono utilizzate nelle varie situazioni in funzione
delle necessità terapeutiche con una certa prevalenza delle fasciature per il trattamento delle situazioni acute e delle
calze per le croniche (Agus LG, 2000). Dal punto di vista funzionale si distingue tra contenzione, esercitata da tutori
rigidi che si oppongono passivamente alla espansione del segmento di arto cui sono applicati, con elevate pressioni da
“lavoro” durante la deambulazione e pressoché nulle pressioni a riposo, e compressione, caratterizzata dalla pressione
attiva e permanente sull’arto sia durante il lavoro che a riposo con scarse variazioni della stessa, caratteristica di fasce o
bende e calze elastiche. Nel primo caso il tutore potrà essere indossato anche durante il riposo, nel secondo solo durante
il giorno in relazione alla attività muscolare (Mollard, 1997). Nell’uno e nell’altro caso la mobilizzazione del paziente è
determinante e parte integrante del trattamento stesso (Agus LG, 2000). Caso a parte rappresentano le calze
antitromboemboliche che per conformazione e profilo di compressione trovano applicazione in caso di
immobilizzazione prolungata con lo scopo di incrementare la velocità di flusso nel sistema venoso profondo per la
prevenzione della Trombosi Venosa Profonda, indossate 24 ore/24. La terapia compressiva trova quindi applicazione in
tutte le fasi della malattia venosa cronica sia superficiale che profonda: dalla cosiddetta insufficienza venosa funzionale,
classe 0/1 della classificazione CEAP (Eklof, 2004), alla malattia varicosa (CEAP 2), dalle fasi di riacutizzazione (IVC
“scompensata” – CEAP 4) all’ulcera venosa in fase acuta e per la prevenzione della sua recidiva (CEAP 5/6). Dalle
Trombosi Venose Profonde (TVP), alle Superficiali (TVS), alla Sindrome Post-Trombotica (SPT) (Ramelet, 2002). Le
modalità di contenzione/compressione ed il livello della stessa saranno graduati secondo il livello di espressione clinica
della malattia.
essendo ad oggi adottata a livello comunitario una normativa di riferimento (Agus LG,
2003), in Italia la maggior parte dei tutori elastici in commercio seguono la normativa
In Europa la quantificazione dei livelli di compressione si rifà a normative nazionali non
RAL-GZ 387 (RAL, 2002), riferimento per il Sistema Sanitario tedesco, la cui ultima revisione risale al Settembre
2002, che affida a due Istituti autorizzati, l’uno in Germania e l’altro in Svizzera, la verifica di qualità.
La tabella di riferimento è la seguente: Classe Compressione in mm di Hg 1a
18-21 2a 23-32 3a 34-46 4a >49
Iniziano peraltro ad essere disponibili anche tutori prodotti secondo la normativa francese NF
G 30-102 B (ASQUAL, 2002), del tutto simile alla precedente per norme e severità, che
prevede ancora quattro classi di compressione, ma con valori inferiori:
Classe Compressione in mm di Hg 1a 9.8 15 2a 15-20.3 3a 20.3-36 4a >36
COMPRESSIONE dopo CHIRURGIA VENOSA e SCLEROTERAPIA L’atto chirurgico è momento fondamentale nel
continuum del trattamento dell’IVC , finalizzato, ove possibile, alla correzione dell’alterata emodinamica venosa e
microcircolatoria dell’arto (Agus LG, 2003). La storia clinica del paziente non si può considerare esaurita con la
prescrizione di un trattamento medico, di una calza elastica o con l’esecuzione di un atto chirurgico. L’IVC è malattia
evolutiva con importanti implicazioni sulla qualità della vita e macro e microeconomiche, basti pensare agli enormi
costi sociali – calcolati in 1000 miliardi di €/anno per i maggiori Stati dell’Unione Europea - ed al disagio familiare per
l’assistenza di anziani affetti per esempio da ulcera da stasi venosa cronica (Andreozzi, 2005; Agus LG, 2003). La
compressione è provvedimento complementare all’atto chirurgico ed i suoi obiettivi sono (Agus LG, 2003):
•
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•
•
•
La prevenzione del sanguinamento e delle ecchimosi
La riduzione delle pigmentazioni cutanee
La riduzione dell’edema post-operatorio
La prevenzione di TVP e TVS oltre che di Embolia Polmonare
La riduzione della sintomatologia dolorosa post-intervento
La prevenzione delle recidive varicose
Nel caso della scleroterapia si aggiungono gli effetti favorenti l’occlusione del vaso e la prevenzione delle
ricanalizzazioni, mentre del tutto recentemente l’introduzione delle tecniche di occlusione endovascolare mediante
radiofrequenza o laser hanno aperto nuovi campi di applicazione e di studio.
Chirurgia
Compressione pre-chirurgia
La compressione nel periodo precedente l’atto chirurgico, oltre che commisurata al trattamento della patologia di base,
è rivolta alla riduzione dell’edema a ridurre eventuali turbe trofiche o infiammatorie (Cornu-Thenard, 2006).
Compressione in corso di chirurgia
In assenza di particolari situazioni di rischio tromboembolico relative al singolo paziente non vi è indicazione all’uso
routinario di profilassi antitrombotica farmacologica in chirurgia vascolare venosa, da considerarsi a basso/medio
rischio rispetto all’età del paziente - < a 40 anni basso rischio; > a 40 medio rischio – (Geerts, 2004). La
compressione con calza ATE potrebbe essere indicata sull’arto controlaterale per l’eventuale prevenzione di TVP in
casi selezionati (Partsch, 2003). La mobilizzazione precoce “aggressiva” e l’uso di calze di tipo ATE eventualmente
associate a terapia eparinica nei casi a rischio moderato o superiore sono considerati provvedimenti adeguati (Geerts,
2004; Howard, 2004).
Compressione post-chirurgia
La sua applicazione dovrebbe essere sistematica utilizzando bende o calze secondo la necessità clinica e proposta per le
prime settimane dal trattamento (Perrin 1999). Vi sarebbe una lieve superiorità del bendaggio a compressione elevata
rispetto alla calza per la riduzione del sanguinamento post-operatorio, anche nel caso di flebectomia ambulatoriale
secondo Muller (Neumann 1998). La sintomatologia dolorosa e le parestesie sono ben controllate da una compressione
elastica con calze con livelli di compressione 15 mmHg alla caviglia applicate dopo i primi giorni (Agus LG, 2003;
Cornu-Thenard, 2006; Partsch, 2003).
Sono disponibili pochi studi relativi a confronti tra diversi metodi e/o tempi di compressione post-chirurgia. Uno studio
prospettico multicentrico eseguito su pazienti candidati a chirurgia tradizionale per flebopatie C2 – C6 avviati a tre
trattamenti compressivi post-operatori differenti secondo la normativa francese NF G 30-102 B (ASQUAL, 2002), sulla
base della scelta degli sperimentatori (calze sovrapposte di 2 classe francese per 48h seguite da calza di 2 classe per un
mese; calza di 2 classe + eventuale benda sovrapposta per 8 giorni 24h/24; calza 2 classe per 36h seguita da calza 2
classe durante il giorno per 4 giorni), ha confermato la equivalenza e la migliore compliance per il trattamento meno
aggressivo (Pittaluga, 2004).
La compressione post-chirurgia eserciterebbe la massima efficacia antiedemigena e contrastante la formazione di edemi
ed ematomi entro la prima settimana dall’intervento (Raraty, 1999; Bond, 1999; Biswas, 2007). Successivamente il
disconfort e le limitazioni al movimento causerebbero una elevata percentuale di abbandoni del trattamento e non
influenzerebbero in maniera maggiormente favorevole il processo di guarigione e la comparsa di eventuali complicanze
(Biswas, 2007), ma l’indossare una calza nell’anno successivo ridurrebbe dal 71 al 6% le recidive varicose ( Travers,
1994) Non vi sarebbe una maggiore efficacia confrontando i risultati a breve termine di fasciature con bende adesive,
fasciature con bende elastiche o calze elastiche sterili applicate sul tavolo operatorio. Le fasce adesive consentirebbero
di ridurre i costi assistenziali non essendo necessario sostituirle nella prima settimana (Raraty, 1999), ma una calza
elastica sterile applicata al tavolo operatorio darebbe maggiori garanzie sulla compressione trasmessa non essendovi
necessità di addestramento da parte del personale alla applicazione di fasciature. Nella pratica clinica i risultati di una
inchiesta effettuata nei primi anni ’90 tra medici portoghesi ( Menezes, 1992) avevano già dimostrato una estremamente
diffusa attitudine alla prescrizione di una compressione post-chirurgia della varici (superiore all’80%). Questo
atteggiamento si conferma in una recentissima indagine che ha coinvolto 280 chirurghi di lingua francese dediti alla
chirurgia venosa (vascolari e non) che hanno risposto ad un questionario dedicato alla terapia compressiva (su 675 cui il
questionario è stato inviato). Il 97.1% prescrive regolarmente una compressione, il 67,3 associata ad un trattamento
farmacologico (Rastel, 2004). Il 100% dei flebologi italiani considerano indispensabile la compressione nell’immediato
post-operatorio con netta prevalenza per l’uso di fasciature elastiche nelle prime ore e delle calze alla dimissione
(Bisacci, 2005).
Raccomandazioni:
Non vi sono evidenze circa l’opportunità di una compressione elettiva in fase pre-chirurgica. Un trattamento
compressivo dovrebbe far parte del corredo terapeutico del paziente flebopatico indipendentemente dal momento
chirurgico programmato.
GRADO B IV Vi è indicazione al trattamento compressivo post-chirurgia venosa.
GRADO B Ib Nella pratica clinica sembra affermarsi con maggiore frequenza l’utilizzo di fasciature elastiche nelle
prime 24-72 ore dopo l’intervento seguite da compressione con calza elastica di 1-2 classe nelle settimane
successive.GRADO B I b
Compressione dopo trattamenti endovascolari
La obliterazione delle vene varicose mediante la applicazione di trattamenti endovascolari utilizzanti radiofrequenze e
luce laser è stata recentemente introdotta nel bagaglio terapeutico (Perrin, 2004; Agus, 2006). Anche nel caso di queste
procedure molti Autori prevedono la applicazione di calze di con compressione alla caviglia variabile da 15 a 30 mm
Hg con applicazione di compresse o di una compressione eccentrica lungo il tragitto della vena grande safena trattata
(Lebard 2001; Navarro, 2001; Anastasie, 2003). La applicazione di una compressione sarebbe in grado di ridurre segni e
sintomi di IVC dopo chirurgia endovascolare. Mancano i risultati di studi di tipo comparativo per queste metodiche (
Partsch, 2003).
Raccomandazioni:
La mancanza di trial randomizzati circa l’utilizzo di mezzi di compressione dopo terapia endovascolare venosa non
consente di dare sicure indicazioni circa il tipo e le modalità di prescrizione della stessa, pur in considerazione della
probabile utilità. GRADO B II a
Compressione dopo scleroterapia
La compressione applicata dopo scleroterapia ha lo scopo di ridurre il calibro delle vene trattate, di ridurre le
ricanalizzazioni, di ridurre i fenomeni infiammatori locali e le iperpigmentazioni cutanee (Cornu-Thenard, 2006). Il
livello di compressione deve essere “tanto più importante e prolungato (da 3 a 6 settimane o più), quanto più grandi e
diffuse sono le varici da trattare” (Agus LG, 2003). IL livello di compressione elevato - 30/40 mmHg - per ottenere il
collabimento del vaso. Pressioni inferiori potrebbero infatti consentire il permanere di “occhielli” incontinenti ai lati dei
lembi valvolari favorendo così la ricanalizzazione (Van Cleef, 1993). La compressione può essere esercitata sia
mediante bende con compressioni eccentriche al di sopra delle vene trattate che mediante gambaletti (Cornu-Thenard,
2006). L’utilizzazione di tecniche di ecosclerosi con mousse non modificherebbe sostanzialmente queste indicazioni
(Tessari , 2001).
Un’indagine effettuata mediante un questionario a più di 600 membri della Vascular Society of Great Britain and
Ireland evidenzia che l’80% dei chirurghi intervistati applica una fasciatura dopo il trattamento di ecosclerosi con
“mousse”, il 90% fa seguire a questa la prescrizione di una calza elastica (di 2 classe doi compressione nel 64% dei
casi) ( O’Hare, 2007).
Raccomandazioni:
La compressione dopo scleroterapia sembra migliorare il risultato del trattamento sull’occlusione del vaso. Può essere
esercitata con compressione eccentrica sul vaso trattato trattenuta in sede con fasciature o calze elastiche o
tradizionalmente con gli stessi presidi. La mancanza di studi randomizzati non consente di dare indicazioni sui livelli
di compressione. GRADO B III
SCLEROTERAPIA
Generalità
La scleroterapia consiste nella obliterazione chimica delle varici. Allo scopo, nelle varici viene iniettata una sostanza
istolesiva (liquido sclerosante) che danneggia l’endotelio provocando spasmo, trombosi ed una reazione infiammattoria
reattiva che nelle intenzioni del flebologo deve portare alla stenosi, fibrosi e obliterazione permanente della vena.
L’obliterazione iniziale delle vene si ottiene in oltre 80% dei casi, ma in seguito una parte delle vene sclerosate si
ricanalizza.
Studi strumentali su singole vene
Dagli studi con controllo Doppler o ecografico risulta che la grande safena viene obliterata nel 81-91%, ma dopo 4 -6
mesi risulta ricanalizzata nel 14% e 33% dei casi (Grondin, 1997; Schadeck, 1997), dopo un anno nel 17-35% dei
casi (Vin, 1990; Schultz-Ehrenburg, 1984), dopo due anni nel 33%, 60% e 80% (Isaacs, 1997; Gongolo, 1991;
Bishop, 1991), dopo 3 anni nel 48% (Schultz-Ehrenburg, 1984) e dopo 5 anni nel 22% (Ferrara, 2002). Simili risultati
si sono ottenuti anche sulla piccola safena, obliterata inizialmente nell’ 87% dei casi (Grondin, 1997), ma dopo 2 anni
ricanalizzata nel 33% dei casi (Isaacs, 1997), mentre dopo 5 anni le ricanalizzazioni sono state del 27% quando la
vena poplitea era continente con varici primitive e 77% quando anche la vena poplitea era incontinente con varici
secondarie (Schultz-Ehrenburg, 1992). Per quanto riguarda i rami varicosi collaterali, nell’unico studio disponibile a due
anni le ricanalizzazioni sono state di 26% (Isaacs, 1997). Le safene ricanalizzate necessitano ulteriori trattamenti a
distanza di tempo che può variare da un mese ad un anno. Con questi ulteriori trattamenti la grande safena è rimasta
obliterata dopo 2 anni nel 86% dei casi (Spano, 2002), dopo 3 anni nel 98% dei casi (McDonagh, 2002) e dopo 5 anni
nel 80% (Cabrera, 2001), mentre la piccola safena dopo 2 anni è risultata obliterata nel 90% (Spano, 2002) e dopo 3
anni nel 100% dei casi (McDonagh, 2002).
Studi clinici generali
Dal 1966 al 1984 sono stati condotti quattro studi prospettici randomizzati con controllo clinico dei risultati. Questi
studi hanno dimostrato che all’inizio i risultati della scleroterapia sono paragonabili a quelli dell’asportazione
chirurgica, ma con il tempo le recidive della scleroterapia sono nettamente superiori. Nello studio di Doran dopo 2 anni
i risultati della scleroterapia e la chirurgia si equivalevano (Doran, 1975),. Nello studio di Chant e Beresford dopo 3 e
5 anni le recidive della scleroterapia erano rispettivamente 22% e 40%, rispetto a 14% e 24% della chirurgia (Chant,
1972; Beresford, 1978). Nello studio di Hobbs dopo 1, 5 e 10 anni le recidive della scleroterapia erano rispettivamente
8%, 57% e 90% , rispetto a 6%, 25% e 34% della chirurgia (Hobbs, 1982). Nello studio di Jacobsen dopo 3 anni le
recidive erano 63% , rispetto al 10% della chirurgia (Jacobsen, 1979).
Studi con controllo clinico e strumentale
Nello studio di Einarsson dopo 5 anni le recidive erano 74% , rispetto a 10% della chirurgia. In questo studio i risultati
sono stati controllati anche con misurazione strumentale di parametri emodinamici (volumetria del piede), ed anche con
questo criterio i risultati della chirurgia sono stati migliori (Einarson, 1993).
Terapia chirurgica-scleroterapica combinata
Nel 1973-1975 tre editoriali sul British Medical Journal e Lancet (Editorial BMJ, 1973; Editorial BMJ 1975; Editorial
Lancet, 1975), proponevano come ottimale, sia dal punto di vista dei risultati che da quello del rapporto costo/efficacia,
la terapia combinata, che prevede l’interruzione chirurgica per la giunzione safenofemorale, e la scleroterapia per le
rimanenti varici. Messa alla prova però, la terapia combinata è risultata più efficace della sola scleroterapia, ma pur
sempre meno efficace rispetto alla rimozione chirurgica delle varici. Questo era già stato dimostrato negli anni ‘50 con
studio retrospettivo: a 5 anni, 70% di recidive con la terapia combinata rispetto a 30% con quella chirurgica (Lofgren,
1958). Nello studio prospettico di Jacobsen le recidive a 3 anni sono state del 35% con la terapia combinata, 63% con la
sola scleroterapia e 10% con la sola chirurgia (Jacobsen, 1979). Nello studio di Neglén con la terapia combinata, alla
fine del trattamento 21% dei pazienti avevano varici residue, mentre dopo 5 anni le recidive erano 84%. La volumetria
del piede, normalizzata subito dopo il trattamento, deteriorava già dopo 1 anno e dopo 5 anni tornava ai valori
pre-trattamento (Neglén, 1986). Nello studio di Rutgers dopo tre anni le recidive erano 61% con la legatura e
scleroterapia e 39% con lo stripping e flebectomia, mentre al Doppler vi era reflusso safenico in 46% dei pazienti del
primo gruppo e 15% del secondo. Questo è l’unico studio nel quale gli insuccessi clinici della scleroterapia (61%) erano
più numerosi del numero di safene ricanalizzate al Doppler (46%) (Rutgers, 1994). Occorre tenere presente infatti che
in tutti gli altri studi, la metà circa dei casi con ricanalizzazione accertata strumentalmente risultavano comunque
migliorati sul piano clinico. Inoltre, gli insuccessi obiettivi della scleroterapia sono mitigati parzialmente dal fatto che la
valutazione soggettiva (dei pazienti) è stata invariabilmente migliore di quella oggettiva del chirurgo.
Valutazione dell’evidenza
Nonostante si prestino ad alcune critiche, gli studi finora pubblicati, di cui 6 prospettici e randomizzati (Doran, 1975;
Chant, 1972; Beresford, 1978; Hobbs, 1984; Jacobsen, 1979; Einarsson, 1993; Rutgers, 1994), uno retrospettivo
(Lofgren, 1958) ed uno prospettico controllato (Neglén, 1986), hanno dato risultati univoci senza eccezione e
dimostrano perciò in modo definitivo la superiorità della asportazione chirurgica rispetto alla scleroterapia e la terapia
combinata, quanto meno per le varici accompagnate da incontinenza del tronco della grande safena.
Indicazioni
La elevata percentuale di ricanalizzazioni e recidive pongono la scleroterapia in posizione subalterna e non alternativa
alla chirurgia. Questo significa che la scleroterapia diventa la terapia di scelta sostanzialmente nei casi dove la
chirurgia è improponibile (perché difficile, con risultati incerti o ad elevato rischio), oppure su richiesta specifica del
paziente (che deve essere informato sui risultati, complicanze, vantaggi e svantaggi della scleroterapia rispetto alla
chirurgia, e viceversa). La scleroterapia è stata introdotta in Francia nel 1853; i primi tentativi di elaborare “linee-guida”
sono del 1996 a cura di una Consensus Conference Internazionale promossa dalla American Academy of Dermatology
(Guidelines Dermatol, 1996) e dell’American Venous Forum (AVF, 1996). Solo l’ AVF in realtà ha formulato in modo
specifico le indicazioni alla scleroterapia, e condivise in Italia dal Collegio Italiano di Flebologia. Tali indicazioni
comprendono: 1) teleangiectasie 2) varici di piccolo diametro (1-3mm) 3) vene residue dopo l’intervento chirurgico
(quelle che il chirurgo ha deciso di non operare) 4) varici recidivanti dopo intervento chirurgico (se originano da una
perforante di diametro <4mm) 5) varici nelle malformazioni venose (tipo Klippel-Trenaunay) per le quali non è
proponibile intervento chirurgico 6) terapia d’urgenza dell’emorragia da rottura di varice (varicorragia) 7) perforanti di
diametro <4mm 8) varici attorno all’ulcera. Come si vede da questo elenco, la scleroterapia è un metodo importante ed
indispensabile per il trattamento ottimale di un ampio spettro di varici, dalle teleangiectasie (che non sono un problema
solo estetico, ma possono causare patologia cutanea ed emorragia anche grave) a quelle nelle forme gravi ed invalidanti
di IVC, come la lipodermatosclerosi, l’ulcera da stasi e le malformazioni venose congenite.
Controindicazioni
Le controindicazioni alla scleroterapia comprendono l’allergia al mezzo sclerosante, malattie sistemiche gravi
scompensate, trombosi venosa profonda recente, infezione locale o sistemica, edema non riducibile dell’arto inferiore,
paziente immobilizzato, ischemia critica dell’arto inferiore. E’ consigliata cautela nei pazienti con anamnesi di TVP
recidivante, stato accertato di trombofilia oppure in terapia estroprogestinica e durante la gravidanza, pur non essendo
ciascuna di queste controindicazione in assoluto.
Tecnica
Come ogni lavoro manuale la scleroterapia richiede apprendistato. Le diverse tecniche attualmente in uso derivano dalle
tre scuole classiche europee di Tournay (Tournay, 1980), Sigg (Sigg, 1976) e Fegan (Fegan, 1967), descritte in due testi
disponibili in lingua italiana (Tournay, 1984 Ed It.; Mariani, 1996; Goldman, 1991 Ed It.).
Il tipo e concentrazione del liquido sclerosante variano a seconda del tipo di varice e sono riportate nella tabella .
Tabella : I più comuni farmaci sclerosanti. Indicazioni e concentrazioni (non compresa la forma in schiuma).
Farmaco Tipo di varice e concentrazione raccomandata
Glicerina cromata
Salicilato di sodio
Polidocanolo
Tetradecilsolfato
di sodio
Iodio/ioduro di
sodio
Teleangiectasie
Varici reticolari
72%
8%
0,25-0,5%
0,1-0,2%
12%
1%
0,2-0,3%
-
Piccole-medie
varici
20%
1-2%
1-2%
Grosse varici
Tronchi safenici
-
-
3-4%
3%
3-4%
3%
2%
2-4%
4-8-12%
Le iniezioni vengono praticate in più sedute, distanziate da pochi giorni a poche settimane una dall’altra, aGrado
seconda
B della
III
tecnica personale. Gli scopi della terapia si ottengono meglio, e con meno effetti indesiderati, se immediatamente dopo
delle perforanti indipendentemente dal loro diametro, e della piccola safena.
le iniezioni sulle vene iniettate e sulla gamba vengono applicate delle compressioni mediante spessori, bendaggi adesivi
Non esiste standardizzazione della tecnica, delle concentrazioni e quantità degli agenti sclerosanti.
o mobili, o con tutori elasto-compressivi (calze) (Weiss, 1999). Tali compressioni sono tanto più importanti e prolungate
La3compressione
il risultato
della terapia
sclerosante.
(da
a 6 settimane migliora
o più), quanto
più grandi
e diffuse
sono le varici da trattare. In alcuni casi - per esempioGrado
variciB III
grandi,Ridotto
gambetono
con venoso
tendenza all’edema - la compressione è indispensabile. Ulteriori approfondimenti rientrano nel
capitolo
della compressione. Il confronto tra diverse tecniche è stato oggetto di una revisione sistematica da parte della
- Emoconcentrazione
Cochrane
collaboration (Tisi, 2002), dalla quale però non emergono dati tali da modificare le raccomandazioni
- Depressione
del reflusso
venoarteriolare
formulate
nelle presenti
linee-guida.
In particolare risulta che il tipo di sclerosante non influisce significativamente sui
- Disturbo
della vasomozione
risultati
della scleroterapia,
e questo conferma i dati istologici e della microscopia elettronica che hanno dimostrano che
- Aumento
dellaproducono
permeabilità
capillare
diversi
sclerosanti
lo stesso
tipo di lesione parietale (Mancini, 1991). La maggiore efficacia dell’iniezione
Edema
sclerosante sotto guida ecografica (ecoscleroterapia), seppure non del tutto validata, ha apportato un ulteriore
- Cuffia di (Grondin,
fibrina pericapillare
avanzamento
1997).
- Ridotta fibrinolisi
- Aumento del plasminogeno plasmatico
Alterazioniindella
reologia leucocitaria ed
Scleroterapia
schiuma
- eritrocitaria
L’iniezione
di sostanze sclerosanti sotto forma di schiuma (mousse o foam), sotto controllo ecografico, ha dimostrato in
- Attivazione
tempi
più recenti leucocitaria
buona efficacia per la chiusura di tronchi safenici (Wollmann, 2004). Il ruolo italiano nello studio e
Microtrombosi
capillare
diffusione della tecnica
è risultato rilevante (Tessari, 2001; Cavezzi, 2002; Frullini , 2002). La metodica può essere
Stasi
del
microcircolo
classificata come un’emulsione di schiuma a macro-, mini- e micro-bolle, possibili con liquidi di tipo detergente
- Ridotto drenaggio
linfatico
(polidocanolo
o tetradecil
solfato di sodio) (Monfreux, 1997; Cabrera, 2000; Cabrera, 2001). Questa composizione
Grado A
migliora il contatto superficiale della sostanza sulla parete del vaso e l’effetto sclerosante dipendente dalla
concentrazione
sostanza
dentro la vena e non nella siringa. Variabili importanti assumono pertanto la presenza di
compressione della
pneumatica
intermittente
una
e la durata
di tempo
di esposizione.
Tali caratteristiche prodotte dalla schiuma
siaconcentrazione
le eparine, ENFminima
a bassaeffettiva
dose o EBPM,
a partire
dal giorno
dopo l’intervento.
Grado B
permettono
pertantodiuna
minore
concentrazione
per ottenere
un miglior
effettodella
scleroterapico.
Pur a fronte di vincoli
La combinazione
EBPM
e compressione
graduata
è risultata
più efficace
sola compressione.
Gradoche
B
rendono la tecnica operatore-dipendente, la relativa facilità ed il basso costo ne stanno sviluppando un impiego sempre
più largo in campo internazionale. Essa è usabile inoltre in combinazione con la chirurgia sia per varici primarie
(Bountouroglou, 2006) che recidive (Creton, 2007). Il principale problema della terapia sclerosante, proiettato nel tempo,
rimane l’elevata incidenza di ricanalizzazioni retrograde delle vene trattate, soprattutto in follow-up a lungo termine in
grossi trochi safenici e se in condizioni emodinamiche poco favorevoli. I primi risultati sono stati estremamente
promettenti, ma sono necessari gruppi di pazienti più numerosi con più ampio follow-up. Risultati più recenti segnalano
sull’alto numero di ricanalizzazioni con successo primario nel 52,4%, successo secondario dopo altro trattamento con
obliterazione nel 76,8% (Myers, 2007). La prima Consensus Conference Internazionale specifica sulla scleroterapia con
schiuma, tenutasi a Tegernsee – D nell’aprile del 2003, ha prodotto raccomandazioni sull’ uso, efficacia ed effetti
collaterali (Breu, 2004). A questa è seguita la 2^ Consensus, sempre a Tegernsee-D, aprile 2006 (Breu, 2007), e altre
occasioni in Congressi Internazionali che confermerebbero la nuova via aperta (Sclerotherapy-Kyoto, 2007). Anche tra i
chirurghi vascolari la scleroterapia con schiuma va affermandosi come emerge da un’indagine della Vascular Society of
Great Britain and Ireland, che la vede usata dal 25% dei membri (O’Hare, 2007) e dal Simposio via Internet su (Bergan,
2007).
Raccomandazioni:
L’asportazione chirurgica è superiore alla scleroterapia per quanto attiene alle varici che originano da incontinenza
della grande safena. La tecnica della scleromousse sta tuttavia modificando tale indicazione in assoluto. Grado A I a
Si possono condividere in linea generale le indicazioni dell’AVF, rimanendo aperte le indicazioni alla scleroterapia
Teleangiectasie
Varici reticolari
Piccole-medie
Grosse varici
Tronchi safenici
varici
Glicerina cromata 72%
Salicilato di sodio 8%
12%
20%
Polidocanolo
0,25-0,5%
1%
1-2%
3-4%
3-4%
Tetradecilsolfato
0,1-0,2%
0,2-0,3%
1-2%
3%
3%
FARMACOTERAPIA
PRE-E POST-OPERATORIA
di sodio
Iodio/ioduro di
2%
2-4%
4-8-12%
Lasodio
farmacoterapia dell’IVC si è sviluppata negli ultimi 50 anni. Sino ad allora poteva apparire sorprendente che non
esistessero apporti clinici o sperimentali che perseguissero l’intento di studiare i problemi del tono e della contrattilità
delle vene nonché della pressione venosa in rapporto coi problemi terapeutici. I farmaci del sistema venoso furono
Grado B III
dapprima chiamati flebotonici in relazione al più ipotizzato meccanismo d’azione sul tono venoso e fondamentalmente
delle perforanti
indipendentemente
dal loro diametro,
e della
piccola safena.
impiegati
finora per
il trattamento sintomatico
e di conforto
al paziente
con IVC (Agence Medicament Française, 1996).
I farmaci
flebotropi,
nella più moderna
accezione
targets
d’azione (Tab.), sono
Non esiste
standardizzazione
della tecnica,
dellecomprendente
concentrazionimolteplici
e quantitàpotenziali
degli agenti
sclerosanti.
prodotti
d’origine naturale,
e prodotti
taluni con più principi attivi associati per migliorarne
La compressione
miglioraseminaturale
il risultato della
terapiasintetici,
sclerosante.
Grado B III
l’efficacia. La maggiore parte di questi prodotti appartiene alla famiglia dei flavonoidi che è ricca di 600-800 sostanze
Ridotto tono venoso
ben
- identificate e che sono raggruppate da Geissman e Hinreiner sotto il nome di flavonoidi, polifenoli vegetali con una
struttura
chimica del flavone cui nel 1955, per decisione della Accademia delle Scienze di New York, venne dato il
- Emoconcentrazione
nome
“ Bioflavonoidi
“.
- Depressione
del reflusso
venoarteriolare
- Disturbo della vasomozione
- Aumento della permeabilità capillare
-Tabella
Edema
fisiopatologici
venosi influenzati dalla farmacoterapia.
- Processi
Cuffia di
fibrina pericapillare
- Ridotta fibrinolisi Teleangiectasie
Varici reticolari
Piccole-medie
- Aumento del plasminogeno plasmatico
varici
Alterazioni
della
reologia
leucocitaria
ed
Glicerina cromata 72%
- eritrocitaria
Salicilato
di
sodio
8%
12%
20%
- Attivazione leucocitaria
Polidocanolo
0,25-0,5%
1%
1-2%
- Microtrombosi capillare
Tetradecilsolfato
0,1-0,2%
0,2-0,3%
1-2%
- Stasi del microcircolo
di
sodio
- Ridotto drenaggio linfatico
Iodio/ioduro di
2%
sodio
compressione pneumatica intermittente
Grosse varici
Tronchi safenici
-
-
3-4%
3%
3-4%
3%
2-4%
4-8-12%
Grado A
sia le eparine, ENF a bassa dose o EBPM, a partire dal giorno dopo l’intervento.
Grado B
Grado
BB
III
La combinazione di EBPM e compressione graduata è risultata più efficace della sola compressione.
Grado
delle perforanti indipendentemente dal loro diametro, e della piccola safena.
Non esiste standardizzazione della tecnica, delle concentrazioni e quantità degli agenti sclerosanti.
La compressione migliora il risultato della terapia sclerosante.
Grado B III
Indipendentemente
dal
meccanismo
d’azione
di
diversa
natura,
ma
caratterizzato
dalla
proprietà
di
attivare
il
ritorno
Ridotto tono venoso
venoso
- e linfatico, numerose sono le evidenze per una strategia terapeutica di scelta con farmaci flebotropi nell’IVC in
cui la
non sia indicata, non sia possibile o possa essere coadiuvata dalla farmacoterapia (Coleridge Smith,
- chirurgia
Emoconcentrazione
1994;
Merlen, 1985;
1992; Zaragoza, 1998). I farmaci flebotropi largamente commercializzati e prescritti
- Depressione
delNicolaides,
reflusso venoarteriolare
in Italia,
Francia,della
Germania
ed in generale in Europa, risultano meno utilizzati nell’area anglosassone e scandinava in
- Disturbo
vasomozione
base- adAumento
una presunta
dellascarsezza
permeabilità
di dati
capillare
pubblicati in passato. Tale limite è oggi superato dalle nuove metodologie di
studio.
- Edema
Gli effetti dei farmaci flebotropi sui parametri fisiologici quali tono venoso, emodinamica venosa, permeabilità
- Cuffia
di fibrina
pericapillare
capillare
e drenaggio
linfatico,
possono essere valutati con vari metodi della diagnostica flebologica preferibilmente non
- Ridotta
fibrinolisi
inasiva
(Consensus
St, 2000), tuttavia il principale strumento per la valutazione degli effetti clinici di un farmaco
- Aumento
plasmatico
flebotropo
è datodel
dalplasminogeno
trial clinico ben
condotto con soddisfacenti requisiti su base clinica, scientifica ed etica (Good Cl
Alterazioni
leucocitaria edpossibilmente doppio-cieco, con adeguata forza per provare a rispondere
Pract, 1990).
Il trialdella
devereologia
essere randomizzato,
- eritrocitaria
a domande
ben definite che corrispondano allo stato di malattia: la recente classificazione CEAP permette l’uso del
- Attivazione
medesimo
sistema aleucocitaria
score dei quadri clinici prima e dopo trattamento. Devono essere considerati i sintomi, i segni e la
- L’efficacia
Microtrombosi
QoL.
su talicapillare
differenti outcome può essere ottenuta da farmaci che pur a diversa struttura chimica hanno la
- indicazione
Stasi del microcircolo
stessa
clinica.
- Ridotto drenaggio linfatico
Grado A
compressione pneumatica intermittente
sia le eparine, ENF a bassa dose o EBPM, a partire dal giorno dopo l’intervento.
Grado B
La combinazione di EBPM e compressione graduata è risultata più efficace della sola compressione.
Grado B
La classificazione ATC definisce i farmaci flebotropi come “vasoprotettori”, distinguendo una terapia antivaricosa
topica dall’uso di “sostanze capillaroprotettrici” prevalentemente a base di bioflavonoidi. L’efficacia clinica sui sintomi
(senso di peso, dolore, parestesie, sensazione di caldo e bruciore, crampi notturni, ecc) è da sempre comprovata da livelli
di evidenza III, IV, V, ma sono oggi disponibili studi di livello I-II su specifici farmaci. Tra i bioflavonoidi, studi
randomizzati e in doppio cieco sono riferibili alla diosmina (Dominguez, 1992; Gilly, 1994; Ramelet, 2003); ai rutosidi
(Poynard, 1994; Vin, 1994; Petruzzellis, 2002; Belcaro, 2002); all’escina (Zuccarelli, 1993); agli antocianosidi del
mirtillo (Allegra, 1986); tra le molecole di sintesi al calcio dobesilato (Widmer, 1990). Un’azione flebotropa ben
dimostrata in classe di farmaci differenti dai flavonoidi risulta per il ruscus aculeatus (Vanhoutte, 1991; Vanscheidt,
2002), per la centella asiatica (Allegra, 1987; Cesarone, 2001) ed il mesoglicano (Arosio, 2001). L’efficacia clinica sul
principale segno, l’edema, è mostrata da diversi agenti protettivi con effetti sulla microcircolazione attraverso
l’abbassamento della permeabilità endoteliale; un ridotto rilasciamento di enzimi lisosomiali e sostanze infiammatorie;
l’inibizione di radicali liberi e la ridotta adesione di globuli bianchi (Consensus St, 1996; Diehm, 1996; Markwardt,
1996). Ulteriorio evidenze per un ruolo fondamentale dell’infiammazione nel determinismo dei danni sia di parete che
valvolari nell’IVC confermano l’uitilità del trattamento farmacologico (Nicolaides , 2005; Pascarella, 2005 ). Un
miglioramento dei parametri di QoL, misurato con questionari validati è stato rilevato dopo somministrazione di
Diosmina micronizzata in pazienti portatori di IVC (Launois, 1994; Jantet, 2002) e di Oxerutina in uno studio
randomizzato (Cesarone, 2006). Nell'ultimo decennio si è meglio evidenziato il rapporto tra macro- e microcircolazione
specie nei quadri più severi di IVC: era già noto il rapporto tra reflussi e ipertensione venosa quale causa di un danno a
livello capillare (Wenner, 1980; Fagrell, 1982; Takase, 2000). Molteplici studi di base e sull’uomo hanno confermato
l’effetto microcircolatorio di alcuni farmaci flebotropi sui parametri microcircolatori compromessi nella IVC (Allegra,
1995; Guilhou, 1992; Guilhou, 1997 I; Guilhou, 1997 II; Launois, 1994; Boineau-Geniaux, 1988; Glinski, 1999). Sulle
suddette premesse sono stati introdotti in clinica una serie di farmaci la cui utilità clinica non sempre e non del tutto è
stata evidenziata da sufficienti studi clinici di adeguata forza. Essi vengono usati come coadiuvanti il trattamento dell'
IVC severa (stadi 4/5/6 CEAP) e compresi nella classificazione ATC nel raggruppamento BO1, Antitrombotici, ed in
alcuni casi nel CO4/CO1E, Vasodilatatori , per la loro azione sulle alterazioni endoteliali ed emoreologiche, sulla
presenza di micro trombi e sull'effetto barriera all'ossigeno. Tra i fibrinolitici sono documentati gli effetti dell'urokinasi
(Ehrly, 1989; Partsch, 1991); azione profibrinolitica hanno i glicosaminoglicani quali il sulodexide, particolarmente
studiato in tempi recenti per le classi più severe dell’ IVC e le loro complicanze (Harenberg, 1998; Scondotto, 1999;
Coccheri, 2002; Errichi, 2004) e l' eparansolfato (Allegra, 1993); il defibrotide (Cesarone, 1997) Tra i vasodilatatori
sono ben documentati gli effetti della pentossifillina (Colgan, 1990; Weitgasser 1983; Falanga, 1999) e della
prostaglandina E1 (Rudofsky, 1989), entrambi nel trattamento delle ulcere. Ancora per il solo trattamento coadiuvante la
guarigione delle ulcere è stata posta l'unica indicazione all'antiaggregazione piastrinica nell'IVC con ASA (Layton,
1994). Le problematiche relative alla scarsità di letteratura “di qualità” riguardante i farmaci flebotropi sone state
evidenziate in recenti revisioni. Un gruppo di esperti riunitisi nel corso della 13^ Conferenza Europea della società di
Emoreologia Clinica (Siena 2005) ha individuato solo 83 studi meritevoli, anche se alcune sostanze non vennero prese
in considerazione (Diosmina-esperidina 24; calcio dobesilato 9; oxerutina 8; Ginkgo Biloba 7; troxerutina 6; Horse
Chesnut extract 5; centella asiatica e naftazone 2; diosmina e troxerutina+coumarina 1) ( Ramelet, 2005).
Considerazioni simili emergono dalle recenti review della Cochrane Collaboration riguardanti i “Phlebotonics” e gli
“Horse Chestnuts extracts”. Nel primo caso sono stati individuati 110 trials randomizzati, ma solamente 44 sono stati poi
ammessi all’analisi (rutosidi, diosmina, calcio dobesilato, centella, estratti di pino marittimo, vite rossa, aminaftone). Nel
secondo 29 di cui 17 analizzati. In tutti i casi si conclude per una possibile efficacia sintomatica dei flebotonici e
sull’azione sull’ edema, ma si sottolinea l’estrema disomogeneità dei dati e della terminologia, nonché la necessità di
studi clinici randomizzati di adeguata numerosità (Pittler, 2007; Martinez, 2007)
Raccomandazioni:
Sono numerose le evidenze per una strategia terapeutica di scelta con farmaci flebotropi nell’IVC quando la chirurgia
non sia indicata, non sia possibile o possa essere coadiuvata dalla farmacoterapia. L’uso dei farmaci flebotropi trova la
sua indicazione clinica sui sintomi soggettivi e funzionali dell’IVC (stancabilità, crampi notturni, gambe irrequiete,
pesantezza, tensione) e sull’edema. Grado B Ib
TRATTAMENTI INCERTI, NON RACCOMANDABILI, SCONSIGLIABILI
Integratori Alimentari
Da qualche anno in Italia sono state introdotte “sostanze” cui viene attribuita nella etichettatura una non specifica azione
capillarotropa e/o venotropa. Essendo la più parte di questi prodotti composti da flavonoidi estrattivi, si è creata una
confusione nella classe medica e nella clientela acquirente tra farmaci estrattivi a base di flavonoidi, fitoterapici, prodotti
di erboristeria e alimenti o integratori alimentari. Per meglio chiarire le differenze connesse alla diversa nomenclatura,
ricorderemo qui appresso le definizioni secondo il Ministero della Salute Italiano e le diverse situazioni di
commercializzazione nell’ambito della UE (Giachetti, 2003).
FARMACO: ogni sostanza o composizione presentata come aventi proprietà curative o profilattiche delle malattie
umane o animali, nonché ogni sostanza o composizione da somministrare all’uomo o all’animale allo scopo di stabilire
una diagnosi medica o di ripristinare, correggere o modificare funzioni organiche dell’uomo o dell’animale. Per
sostanza si intende qualsiasi materia di origine umana o animale o vegetale di origine chimica, sia naturale che di
trasformazione o di sintesi. I prodotti fitoterapici e di erboristeria qualora obbediscano alle normative di registrazione
con autorizzazione alla commercializzazione in vigore per i Farmaci, possono rientrare di diritto nella classe dei “
Farmaci “(Dgls n. 178 29-051991 con successive variazioni e integrazioni della EC Council Regulation, EC, n°
2309/93 22 Luglio 1993, Council regulation, EC, n° 297/95 del 10 Febraio 1995, Commission regulation, EC, n°
541-542-1662/95 del 10 Marzo e del 7 Luglio 1995, Commission regulation, EC, n° 2141/96 del 7 Novembre 1996,
Regulation n° 141/2000 del Parlamento Europeo del 16 Dicembre 2000, Commission regulation, EC, n° 847/2000 del
27 Aprile 2000 ). PRODOTTO ERBORISTICO: non esiste legislativamente in Italia nessuna definizione del
prodotto erboristico che può essere quindi commercializzato come : alimento, integratore alimentare, farmaco,
cosmetico. Ognuna di queste definizioni possiede modalità proprie di produzione, di autorizzazione alla
commercializzazione, di confezionamento. C’è attualmente in esame una proposta di Legge n° 4380 sull’erboristeria
che all’articolo 2 comma 1 ne stabilisce il confezionamento, la nomenclatura, i principi attivi e l’utilizzo, in linea con la
definizione EU di prodotti di erboristeria e fitofarmaci. (CPMP/QWP/2819/00 : “Note for guidance on quality of herbal
medicinal products CPMP/CVMP Luglio 2000). ALIMENTO E INTEGRATORI ALIMENTARI: non esiste un
articolo di Legge che definisca l’alimento. Una definizione di ciò che non può essere è desunta dall’articolo 2 del
Decreto Legislativo n° 109 del 27-01-1992 in materia di pubblicità : “ l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei
prodotti alimentari non devono essere tali da indurre ad attribuire al prodotto proprietà atte a prevenire, curare o guarire
malattie umane ne accennare a tali proprietà che non possiede “ Gli integratori alimentari sono assoggettati al decreto
legislativo del 27-01-1992 n° 111, attuazione della direttiva EC 89/398/EC e alla Direttiva 2002/46/EC del Parlamento
Europeo del 10 giugno 2002. Per tale motivo il Ministero della Salute italiano sottopone dal 2002 ad una azione di
controllo la produzione e l’indicazione d’uso “salutistico” priva di finalità proprie del medicinale quale quella
terapeutica (Ministero della Salute G.U., circolare 18 Luglio 2002 n°3).
Da questa breve disamina si deduce chiaramente che sia i prodotti di erboristeria che i fitofarmaci qualora obbediscano
alle normative di registrazione in vigore per i farmaci, possono essere considerati tali e prescritti dal Medico secondo le
usuali procedure che prevedono conoscenza di effetti terapeutici, interazioni, eventi avversi (Pagni; Gentile; Marcon,
2006; Ministero Salute, 2003). Vengono chiaramente esclusi gli integratori alimentari. Rimangono ancora peraltro
numerosi dubbi circa la effettiva efficacia di questi trattamenti, per i quali le evidenze cliniche sono scarse o
anedottiche in assenza di studi clinici randomizzati. Alcune evidenze relative ad efficacia sulla riduzione dell’edema di
origine venosa sono rilevabili per estratti di ippocastano (Ippocastano: http/www.farmacovigilanza.com) e per gli
estratti di “vite rossa” che avrebbero dimostrato efficacia su parametri di attività microcircolatoria (laser-doppler flow,
TcpO2 ) e sulla circonferenza dell’arto (Kalus, 2004; Kiesewetter, 2000), ma il piccolo numero degli studi, la scarsa
numerosità dei campioni e la mancanza di reviews non consentono di trarre conclusioni definitive sulla loro efficacia
(Gentile). Ad eccezione delle sostanze ricompresse nella Classificazione ATC, non esistono al momento attuale
evidenze cliniche di efficacia farmacologica nell’ IVC per altri prodotti fitoterapici e di erboristeria in commercio
Raccomandazioni: In assenza di normative precise e di evidenze di efficacia terapeutica, oltre che di assenza di
effetti avversi ed interazioni farmacologiche, non si può raccomandare la prescrizione di questi prodotti, a
valenza di co-adiutori fisiologici e non curativi. GRADO D VI
OSSIGENO-OZONOTERAPIA; CARBOSSITERAPIA; OSSIGENOTERAPIA IPERBARICA
Un certo attivismo clinico e mediatico di alcune Società Scientifiche italiane dedicate a monoterapie ad indicazioni
non verificate o non del tutto verificate in campo flebologico – da cui non sono esenti anche particolari tecniche
chirurgiche –, richiedono un giudizio e parole di cautela sulla loro diffusione incontrollata.
Ossigeno-ozonoterapia: l’ozono dissolve facilmente nel sangue ed eseciterebbe una potente azione antiossidante
favorendo la cessione di ossigeno da parte dei globuli rossi, la produzione di interleuchine, interferone, TGF da parte dei
globuli bianchi e numerosi altri effetti metabolici. Le applicazioni cliniche proposte sono numerosissime, eccessive e
comprendenti anche la medicina estetica e la flebologia, per varici e panniculopatie (Di Paolo, 2004). Carbossiterapia:
la somministrazione per via percutanea/sottocutanea di CO2 determinerebbe un aumento della velocità del flusso
ematico tessutale locale ed un aumento dell’angiogenesi che influenzerebbero la perfusione microcircolatoria,
vasodilatazione e lipolisi. Le indicazioni in angiologia sarebbero secondo i proponenti numerose sia sul versante
arterioso che venoso (IVC e ulcere da stasi venosa, panniculopatie). Altrettannto numerose le controindicazioni (Brandi,
2001; Varlaro). Ossigenoterapia iperbarica: La OTI si basa sulle leggi della fisica che regolano l’assorbimento e la
diffusione dei gas nei tessuti. La somministrazione massiva di ossigeno, realizzata in camera iperbarica di 2,5-2,8 bar
(condizioni a –15 m di profondità sotto il livello del mare), determina uno stato di iperossia cui la cellula reagisce dopo
3-9 ore (Padgaonkar, 2004), modulando le funzioni redox cellulari (tioredossina ossidasi, ecc) e stimolando
l’ossidazione glutatione dipendente, particolarmente attiva contro talune specie batteriche, ad esempio le
pseudomonacee (Ran, 2003). Per le ulcere prevalentemente venose la letteratura fa riferimento essenzialmente a un
unico studio prospettico, randomizzato, in doppio cieco (Hammarlund, 1994) su ulcere croniche degli arti inferiori in
pazienti non diabetici. Nei pazienti trattati con OTI, dopo sei settimane dall’inclusione, l’area della lesione era ridotta
del 35,7 ± 17%, mentre nel gruppo controllo la riduzione era solo del 2,7 ± 11%. L’Undersea and Hyperbaric Medical
Society ritiene che l’OTI nelle ulcere venose sia appropriata solo in casi accuratamente selezionati, dopo valutazione
chirurgica e previo appropriato debridment del fondo della lesione, con l’obiettivo di favorire la granulazione in
preparazione alla eventuale chirurgia plastica (Fedmeier, 2003). Usata oggi nelle ulcere prevalentemente di tipo
ischemico e diabetico, particolarmente con sovrainfezione (Brustia, 2006), la OTI non appare giustificata nel
trattamento delle più comuni ulcere flebostatiche, come peraltro emerge dalla linee-guida congiunte SIMSI, SIAARTI,
ANCIP 2007.
Raccomandazioni: In assenza di studi clinici che ne avvalorino l’efficacia terapeutica per il trattamento dell’IVC nei vari
stadi e di evidenza di assenza di effetti collaterali, la prescrizione di queste procedure terapeutiche non può essere
raccomandata.
GRADO D VI
CHIRURGIA DELLE COMPLICANZE
ULCERE VENOSE
L’ulcera da stasi venosa è una lesione cutanea cronica che non tende alla guarigione spontanea, che non riepitelizza
prima di 6 settimane e che recidiva con elevata frequenza. Alcune definizioni escludono le ulcere del piede, altre
comprendono tutte quelle a carico dell’arto inferiore.
Le ulcere venose dell’arto inferiore rappresentano il 75% di tutte le lesioni trofiche a carico di questo distretto (Fowkes,
2001). Si ritiene che l’IVC, benché sia stata meno studiata ed abbia ricevuto meno attenzione dell’insufficienza
arteriosa cronica, colpisca la popolazione adulta in misura 10 volte superiore (O’Donnell, 1988). Nonostante ciò la cura
dell’ulcera venosa è spesso trascurata o è del tutto inadeguata. Molti pazienti vanno avanti e camminano per mesi o
addirittura per anni con l’ulcera ricoperta da medicazioni locali, senza che venga minimamente corretta l’insufficienza
venosa che ne sta alla base (Consensus Alexander House, 1992; Gohel, 2005). La terapia delle ulcere venose si fonda
sulla conoscenza dei meccanismi fisiopatologici che entrano in gioco nel determinismo dell’ulcera. Tali meccanismi
non sono più basati esclusivamente sulle nozioni di emodinamica macrovascolare, ma coinvolgono l’unità
microcircolatoria ed il laboratorio endoteliale. Nella programmazione terapeutica, nel monitoraggio e nel follow-up
delle ulcere venose è indispensabile un adeguato studio ecocolordoppler e/o pletismografico dei modelli emodinamici
potenzialmente correggibili. (Gohel, 2007; Kulkarni, 2007; Magnusson, 2006). Poiché l’ulcera venosa rappresenta una
condizione cronica caratterizzata dalla lenta riparazione e dalla tendenza a recidivare, obiettivo della terapia è non
soltanto la guarigione, ma anche e soprattutto la prevenzione della recidiva (Gillies, 1996). Allo stesso tempo è di
fondamentale importanza migliorare lo stato psicologico del paziente, sia per l’accettazione e la collaborazione nel
programma terapeutico, sia per la stessa QoL (Iglesias, 2005).
La terapia di un’ulcera venosa può coinvolgere uno o più dei seguenti trattamenti
•
trattamento di base • terapia farmacologica
•
compressione • medicazione topica
•
chirurgia
• scleroterapia
•
altre terapie • misure generali
Chirurgia
La chirurgia dell’ulcera venosa non è da considerarsi né in esclusiva né in alternativa, ma complementare al trattamento
conservativo (van Gent, 2006). La terapia chirurgica dell’ulcera persegue due obiettivi fondamentali: a)la correzione
dell’alterazione emodinamica di base (Perrin, 2005). b)la copertura dell’ulcera mediante innesti cutanei allo scopo di
ridurre i tempi di guarigione. La scelta della procedura più idonea deve sempre essere preceduta da un accurato studio
morfologico ed emodinamico del sistema venoso sia superficiale che profondo con le abituali metodiche diagnostiche (
Coleridge Smith, 2001). Si ritiene comunemente che in pazienti con ulcera varicosa la chirurgia del sistema venoso
superficiale offra ottimi risultati, riducendo i tempi di guarigione e le recidive a distanza, specialmente in assenza di
alterazioni del sistema venoso profondo (Ruckley, 1996; Zamboni, 2003; Barwell, 2004; Obermayer, 2006). Più
deludenti sono i risultati della chirurgia in caso di ulcere post-trombotiche (Kistner, 1997; Allegra, 2007). Circa il ruolo
delle vene perforanti nell’insufficienza venosa cronica, è certo che il loro trattamento è stato migliorato dallo sviluppo
della tecnica di legatura sottofasciale per via endoscopica. (Bergan, 1996). Tuttavia, dopo risultati precoci ottimi, il
fallimento della guarigione dell’ulcera o la recidiva è compresa in un range percentuale che va dal 2,5 al 22%. (Pierik,
1997; Gloviczki, 1999; O’Donnell, 1999). Un limite della tecnica è inoltre la difficoltà di accedere alle perforanti
perimalleolari. In uno studio è stato osservato che il 50% delle perforanti incontinenti risultano entro i 10 cm dal suolo,
identificate pre-operatoriamente con ECD, non vengono trattate dalla tecnica endoscopica. (Pierik, 1997). Inoltre la
tecnica endoscopica confrontata con quella aperta per un follow-up di circa quattro anni, pur dimostrando una ridotta
morbilità, non ha fatto rilevare differenze statisticamente significative in termini di guarigione delle ulcere (Sybrandy,
2001). La correzione totale dell’insufficienza delle vene superficiali e delle vene perforanti dovrebbe essere sempre
effettuata, prima di considerare interventi sul circolo venoso profondo (Iafrati, 2002). Le valvuloplastiche, i trapianti di
valvola venosa e gli interventi di trasposizione venosa dovrebbero essere lasciati come ultima risorsa. Si tratta di
procedure da lungo tempo in fase di sviluppo, le quali vanno prese in considerazione esclusivamente in centri
specializzati e nell’ambito di studi clinici controllati. (Consensus Alexander House, 1992). Per quanto riguarda gli
innesti cutanei, in letteratura non si ritrovano prove completamente sufficienti dei loro effetti sulla guarigione stabile
delle ulcere venose. Essi possono essere attuati con varie metodiche, di cui si riportano i riferimenti d’origine:
•
meshed split skin grafting (Lofgren, 1965)
•
pinch grafting (Poskitt, 1987) • omotrapianto di cheratinociti umani
coltivati in vitro (De Luca, 1992);
•
trapianto di lembi liberi con segmenti venosi valvolati, previa ulcerectomia e legature di
perforanti insufficienti (Dunn, 1994);
•
shave therapy , cioè ulcerectomia, rimozione del tessuto lipodermatosclerotico ed innesto in
meshed (Schmeller, 1996).
I risultati migliori si ottengono con la tecnica del meshed grafting, mentre sono in fase di revisione critica gli innesti di
cheratinociti umani e dei sostituti della cute umana, non essendovi attualmente dei lavori che ne dimostrino l’efficacia
nelle recidive a distanza (Moneta, 1999). L’ impiego della cute artificiale e/o di equivalenti cutanei sembra
promettente nel favorire una rigenerazione tessutale (Prystowsky, 2000; Bello, 2002).
Raccomandazioni:
La terapia delle ulcere venose è un problema vastissimo, ma non risolto, essendo queste lesioni lente nella riparazione
e facilmente recidivanti. La terapia conservativa ha un ruolo importante in prima istanza, ma si è rivelata inefficace
nella prevenzione delle recidive a distanza, se non supportata in molti casi dalla correzione chirurgica della turba
emodinamica, la quale dà buoni risultati solo in caso di insufficienza isolata del sistema venoso superficiale. Grado
BIb
TROMBOSI VENOSE SUPERFICIALI
La tromboflebite superficiale, meglio definita oggi in trombosi venosa superficiale (TVS) è considerata una malattia
benigna, in assenza di rischio trombofilico, generalmente quale comune complicanza delle vene varicose (Edwards,
1938; Guex, 1996). Tuttavia può evolvere in embolia polmonare ed esser fatale ( Gjöres, 1962). Forse per tale motivo la
letteratura sull’argomento è incentrata quasi unicamente sugli aspetti chirurgici del trattamento: la crossectomia
safenofemorale con o senza trombectomia (Lofgren, 1981). In realtà la chirurgia si rende necessaria solo in presenza di
tromboflebiti ascendenti oggi ben identificabili mediante eco-Doppler (Lohr, 1992; Cesarone, 2007). In casi appropriati
l'incisione e la spremitura dei coagoli in anestesia locale può essere raccomandata per influenzare l'evoluzione e la
sintomatologia.
In anni recenti è stata evidenziata una controversa concomitanza di TVP occulte in corso di TVS (Bergqvist , 1985;
Jorgensen,1993; Bounameaux H, 1997 ). Nella maggioranza delle tromboflebiti varicose o non, viceversa, a fianco della
terapia farmacologica (antiinfiammatoria/eparinica),la compressione elastica sempre unita alla deambulazione trova la
prima indicazione al trattamento ed alla prevenzione dell’estensione (Fischer, 1910). Nonostante tale pratica, comune e
consolidata, non sono disponibili studi recenti e controllati su modalità di compressione e risultati. Entrambe le
possibilità, di compressione mediante bendaggio (adesivo poco elastico) tipo Unna con ossido di Zn. (od anche con
ittiolo) o calza elastica, sono diffuse.
Diversi comportamenti medici o chirurgici sono invocati per la localizzazione sotto il ginocchio, benigna, o sopra,
potenzialmente ascendente (Murgia, 1999; Cesarone, 2007).
Raccomandazioni: I pazienti con trombosi venose superficiali hanno sempre indicazione alla compressione e
deambulazione e appare raccomandabile lo studio eco-doppler sia del circolo superficiale che profondo Grado C III
Sono necessari ulteriori studi per rispondere ad aspetti non verificati quali la scelta del tipo di compressione e una più
diffusa profilassi con eparine . La chirurgia si rende necessaria solo in presenza di TVS ascendenti Grado C III
VARICORRAGIE
La possibilità di insorgenza di una emorragia da varici (varicorragia), e finanche da teleangectasie, è un’evenienza non
rara, specie nella popolazione anziana e non è sufficientemente considerata (Evans 1973; Agus 1988). Essa può
verificarsi in tre maniere, spontanea, secondaria a trauma diretto o tangenziale, sottocutanea, e può recidivare. La
varicorragia può portare fino alla morte (Evans 1973) perché vi è poca educazione nei pazienti con IVC sui
comportamenti da intraprendersi nel caso. Essi sono assai semplici, con la necessità di porre immediatamente l’arto in
posizione declive, senza lacci, comprimendo direttamente il punto di emorragia se possibile con benda elastica (Wallois
1982). I provvedimenti medici sono tuttavia differenti a seconda dello specialista a cui pervenga l’osservazione
dell’evento acuto o subacuto. Spesso in PS viene effettuata sutura chirurgica del punto di emorragia; lo specialista
vascolare attua invece bendaggio elasto-adesivo con immediata o successiva scleroterapia dei vasi afferenti tale punto
(Agus 1988; Tretbar 1996). Uno studio randomizzato sui due tipi di trattamento ha dimostrato per il gruppo sottoposto a
scleroterapia-compressione un tempo di guarigione di 7 giorni e nessuna recidiva a un anno; nel gruppo sottoposto a
sutura chirurgica un tempo di guarigione di 14 giorni e una recidiva nel 23% (Labas 2007).
Raccomandazioni:
La terapia della varicorragia non deve essere sottostimata. Essa può essere recidivante e fatale. La terapia
comportamentale ha un ruolo importante in prima istanza, ma è necessario trattare la causa con scleroterapiacompressione che fornisce migliori risultati della semplice sutura. Grado B I b
TROMBOEMBOLISMO VENOSO
IL CHIRURGO VASCOLARE COME ESPERTO DI TEV
TVP E TVS
Le Linee Guida elaborate dalla Unione Internazionale di Angiologia (IUA) e pubblicate nel marzo 1997 su International
Angiology (Nicolaides, 1997), costituiscono il riferimento obbligato per Linee Guida nazionali, necessariamente
integrate dall’ originaria Consensus Conference dell’ NIH a Bethesda, USA, nel 1986, e da quanto emerso in
acquisizioni successive (Geerts, 2001; Geerts, 2004). Le Società scientifiche vascolari italiane si sono dotate di Linee
Guida proprie dal 2000 (SIAPAV, 2000; CIF, 2000; SICVE, 2001). Oggi possono essere considerate di riferimento
quelle stesse dell’ IUA revisionate e pubblicate sempre su International Angiology nel 2006 (Nicolaides, 2006). E’
possibile pertanto, qui, ricordare unicamente quali siano le popolazioni a rischio che possono vedere il chirurgo
vascolare interpellato quale esperto per la profilassi e la terapia, quest’ultima selettivamente anche chirurgica. Devono
essere considerate le seguenti popolazioni a rischio: a) pazienti chirurgici: chirurgia generale, urologica, ginecologica,
neurochirurgica, ortopedica, traumatologica, laparoscopica e la stessa chirurgia vascolare. b) pazienti con affezioni
mediche: IMA, ictus ischemico ed emorragico, pazienti di medicina generale e pazienti immobilizzati per diverse cause.
Le categorie di rischio di Tromboembolismo Venoso (TEV)
La conoscenza dei fattori di rischio consente di classificare i pazienti in base alla probabilità di sviluppare un evento
tromboembolico venoso (Heit, 2000). Il criterio principale sul quale basare la scelta tra i diversi mezzi di profilassi
farmacologici e/o meccanici è il grado di rischio complessivo del singolo paziente. Tale grado è dato dall’interazione
tra livello di rischio oggettivo legato alla specifica condizione clinica chirurgica e medica, e condizioni individuali che
incrementano il rischio (età, obesità, neoplasie, pregresso tromboembolismo venoso, varici e condizioni trombofiliche
congenite o acquisite). Nel caso della chirurgia, il rischio è inoltre influenzato dalla durata dell’intervento, dal tipo di
anestesia, dalla immobilità pre e postoperatoria, dal grado di idratazione e da eventuali sepsi. In base a tali criteri è
possibile suddividere i pazienti in classi di rischio basso, moderato, alto e, discutibilmente, anche con una quarta
categoria di rischio definito “molto alto”nell’esperienza nordamericana.
Pazienti medici
I pazienti “non chirurgici” rappresentano una eterogenea ed ampia categoria di soggetti che comprende i pazienti con
infarto miocardico acuto, con ictus cerebrale (ischemico o emorragico), con neoplasie e con una serie di malattie
internistiche che vanno dallo scompenso cardiaco fino alle malattie respiratorie croniche ed alle malattie infettive, fino a
condizioni di immobilità degli arti inferiori da svariate cause, che possono essere a rischio di TEV. Non si dispone di
dati altrettanto accurati come in chirurgia, circa la reale frequenza di TEV in ciascuna delle elencate categorie di rischio,
anche se sul piano epidemiologico è oggi evidente che la maggioranza delle TVP e TVS si riscontra in tali pazienti.
Analogamente, sono piuttosto carenti i dati sull’efficacia dei presidi antitrombotici che sono stati considerati
prevalentemente per la chirurgia generale ed ortopedica. Nonostante ciò i dati disponibili suggeriscono che la profilassi
con eparine, possa determinare una riduzione del rischio relativo di incidenza delle TVP anche nei pazienti medici.
Diversamente che in Chirurgia, nel paziente medico mancano studi sull’efficacia della profilassi meccanica con calze
elastiche a compressione graduata o compressione pneumatica intermittente, seppure recenti studi vadano in tale
direzione. Tutti i pazienti medici dovrebbero essere classificati in base al rischio tromboembolico ed una profilassi
dovrebbe essere attuata nei pazienti a rischio moderato e alto.
La stasi venosa come rischio vascolare di base
Dovrebbe essere largamente accettato che la stasi sia il maggior fattore in causa nelle TVP. Numerosi sono stati gli studi
negli ultimi decenni che supportano questo punto come cruciale nella triade di Vichow: in studi autoptici (Gibbs,1957);
radiograficamente (Almen e Nylander, 1968); con misure del flusso venoso femorale (Clark e Cotton, 1968); con
tecniche radioisotopiche (Nicolaides e Kakkar; 1971); con ultrasuoni peroperatori sulla dilatazione venosa (Comerota,
1989). Ciò confermerebbe la rilevanza dello specialista vascolare nell’affronto del problema del TEV, ma come noto, la
ricerca e l’interesse di categorie di specialisti diversi ha spostato l’attenzione su aspetti coagulativi, talvolta neppure
particolarmente incidenti sul piano epidemiologico, come nel caso delle trombofilie. Specularmente, tarda ancora la
diffusione della conoscenze e del valore dell’ antistasi. E’ infatti tuttora spesso diffusa
l’ idea che il paziente con TVP o a rischio di embolia polmonare debba essere tenuto immobilizzato a letto, dogma di
certo da superare. Nell’ allettamento medico o chirurgico vi è abolizione dei riflessi posturali, ipotrofia muscolare,
comparsa di megavene, rallentamento del flusso sanguigno. Fin dal 1988 si poté dimostrare come la mobilizzazione
immediata in presenza di TVP comportasse il 51% di miglioramenti e solo l’ 1% di peggioramenti; e successivamente
tale strategia è stata convalidata sulla base della triade terapeutica mobilizzazione-compressione-EBPM (Schulman,
1988; Partsch, 2003; Trujillo-Santos, 2005). Vecchi e nuovi fattori di rischio legati proprio alla stasi, a parte altri
singoli fattori predisponenti più di carattere individuale, sono convincenti per tale comportamento.
Raccomandazioni:
Piani di profilassi dovrebbero essere preordinati da ogni reparto di chirurgia. Tali piani dovrebbero prevedere, con le
irrinunciabili misure generali di profilassi (idratazione adeguata, mobilizzazione precoce, limitazione temporale per
quanto possibile di posizioni o dispositivi che facilitano la stasi), mezzi di profilassi meccanica (calze, bendaggi,
compressione pneumatica intermittente) e la ricerca ragionata di fattori ematologici di trombofilia quando i dati clinici e
anamnestici lo suggeriscano.
Pazienti chirurgici a basso rischio
I dati disponibili sono insufficienti per dare precise raccomandazioni; sulla base del rapporto rischio/beneficio ed
estrapolando da studi su pazienti a rischio moderato, sembra di pratica comune la mobilizzazione precoce e il
mantenimento di idratazione adeguata, oltre ad eventuale utilizzo di calze a compressione graduata. Grado C Pazienti
chirurgici a rischio moderato
Sono raccomandati mezzi farmacologici quali eparina non frazionata o eparina a basso peso molecolare per tutti i
pazienti a rischio moderato.
Pazienti chirurgici a rischio elevato e molto elevato
La profilassi utilizzata per i pazienti a rischio moderato, deve essere applicata a tutti i pazienti ad alto rischio. Grado A
Potrebbe essere ritenuta potenzialmente più efficace la combinazione dei singoli mezzi farmacologici, quali l’eparina
non frazionata a basso dosaggio o l’eparina a basso peso molecolare, con metodi meccanici di profilassi quali la
compressione pneumatica intermittente o le calze a compressione graduata. Grado B La profilassi dovrebbe essere
praticata nelle donne in terapia estroprogestinica contraccettiva, se l’assunzione non è stata interrotta da almeno 4-6
settimane prima dell’intervento. Il vantaggio dell’interruzione della contraccezione va soppesato con il rischio di una
nuova gravidanza. Grado C Le misure di profilassi di tipo meccanico, in alternativa ai mezzi farmacologici, devono
essere prese in considerazione nei pazienti ad alto rischio emorragico, sia da disordini coagulativi sia per motivi inerenti
alle procedure chirurgiche.
Grado C
Nei pazienti sottoposti ad interventi di neurochirurgia intracranica, sono raccomandati sia i mezzi meccanici come la
Teleangiectasie
Varici reticolari
Piccole-medie
varici
20%
1-2%
1-2%
Grosse varici
Tronchi safenici
Glicerina cromata 72%
Salicilato di sodio 8%
12%
Polidocanolo
0,25-0,5%
1%
3-4%
3-4%
TERAPIA
DELLA TVP
Tetradecilsolfato
0,1-0,2%
0,2-0,3%
3%
3%
di sodio
Considerazioni
generali
Iodio/ioduro
di
2%
2-4%
4-8-12%
L’ideale
terapeutico
del- TEV, con il quale indurre la rapida ricanalizzazione
del lume
vasale trombizzato,
impedire il
sodio di frammenti e/o dell’intera massa trombotica e garantire l’integrità valvolare, non è ancora stato raggiunto.
distacco
Con gli attuali mezzi terapeutici è possibile ostacolare l’estensione della trombosi, ridurre l’edema dell’arto cui consegue
l’incremento della pressione compartimentale con conseguente probabile evoluzione in phlegmasia, gangrena
venosa
Grado
B IIIe
perdita
dell’arto,
ridurre
le
recidive
trombotiche
e
le
EP,
limitare
la
SPT
preservando
la
funzionalità
valvolare
e
il
delle perforanti indipendentemente dal loro diametro, e della piccola safena.
deflusso venoso. In ordine alla gestione terapeutica delle TVP, la prassi più largamente sperimentata in passato
Non esiste standardizzazione della tecnica, delle concentrazioni e quantità degli agenti sclerosanti.
prevedeva l’ospedalizzazione del paziente e la somministrazione di eparina per via endovenosa con una prima dose in
La compressione
migliora il risultato
della terapia
sclerosante.
B III
bolo,
seguita dal proseguimento
della terapia
per infusione
venosa continua. E’ necessario il ricovero ed ilGrado
monitoraggio
frequente
del livello
di anticoagulazione quando si segua questa strategia terapeutica. Per l’aggiustamento dei dosaggi
Ridotto
tono venoso
dell’eparina
non frazionata sia ev che sc sono stati proposti normogrammi (Cruickshank, 1991; Raschke, 1993)
- Emoconcentrazione
- Depressione del reflusso venoarteriolare
All’utilizzo
didella
Eparina
non frazionata (ENF) ev e/o sotto cute, che può trovare indicazione d’uso quando è necessario il
- Disturbo
vasomozione
monitoraggio
laboratoristico
dell’effetto
- Aumento della permeabilità
capillareanticoagulante, come nei pazienti con peso corporeo molto basso o molto
- Edema
- Cuffia di fibrina pericapillare
- Ridotta fibrinolisi
- Aumento del plasminogeno plasmatico
Alterazioni della reologia leucocitaria ed
- eritrocitaria
- Attivazione leucocitaria
elevato o con insufficienza renale di grado medio-severo, oggi si pone come alternativa sempre più diffusa l’utilizzo
di una delle Eparine a basso peso molecolare (EBPM) disponibili e somministrabili per via sottocutanea, a dosaggio
aggiustato in base al peso corporeo. Al di là dei vantaggi pratici rispetto all’ENF somministrata e.v., le EBPM hanno
comportato una riduzione di mortalità e complicanze nel paziente con TVP (forse limitata ai pazienti neoplastici con
TEV) e questo dato fa preferire le EBPM all’ENF (Dolovich, 2000)
La terapia anticoagulante orale può essere iniziata il primo giorno di terapia eparinica o successivamente, a meno non
sia prevista una procedura medica o chirurgica tipo trombolisi o inserimento di filtro cavale o in presenza di pazienti
politraumatizzati o in situazioni potenzialmente emorragiche. La durata della somministrazione eparinica , sia ENF o
EBPM, non va prolungata oltre i cinque-sette giorni (in caso di massiva TVP femoro-iliaca o iliaco-cavale o di TVP alla
quale coesista una EP non massiva, qualcuno suggerisce di protrarre la terapia fino a 10 giorni). Ciò consente di
ridurre il ricovero ospedaliero e conseguentemente comporta un significativo risparmio. E’ da sottolineare che
l’embricatura della terapia anticoagulante orale con quella eparinica non deve essere inferiore a 4-5 giorni. La
somministrazione di eparina potrà essere interrotta quando i valori di INR siano superiori a 2 per almeno due giorni
consecutivi.(Hyers, 2001). La terapia iniziale con eparina si rende necessaria per l’inaccettabile probabilità di recidive
correlata alla terapia iniziale con anticoagulanti orali (Brandjes, 1992). La terapia con anticoagulante orale, o, in
presenza di controindicazioni a tale terapia, con EBPM o con ENF a dosaggio terapeutico, dovrebbe essere proseguita
per 3 – 6 mesi nei pazienti al primo episodio con condizione a rischio transitorio e per almeno 6-12 mesi nei pazienti al
primo episodio tromboembolico idiopatico. (Durac, 1997; Campbell, 2007).
Raccomandazioni:
L’anticoagulazione deve essere iniziata con EBPM sottocute, a dosaggio aggiustato sulla base del peso corporeo o con
ENF a dosaggio aggiustato endovena o sottocute. Grado A Il potenziale vantaggio in termini di ridotta mortalità dei
pazienti trattati con EBPM rispetto all’ENF e.v. e la superiore maneggevolezza delle EBPM fa preferire queste ultime
all’ENF. Grado B Nel caso di impiego di ENF si raccomanda di raggiungere un aPTT compreso nell’intervallo
terapeutico (1,5-2,5 volte il tempo di controllo, ovvero del tempo di aPTT del paziente prelevato prima dell’inizio della
terapia, equivalente ad un livello di eparinemia di 0,2-0,4 U/ml.), utilizzando uno dei nomogrammi per l’aggiustamento
della posologia della eparina sia somministrata endovena che sottocute. Grado A Il trattamento eparinico iniziale
dovrebbe essere proseguito per almeno cinque giorni e la terapia con anticoagulanti orali dovrebbe essere sovrapposta
all’eparina fino a quando (in genere 4 – 6 giorni) l’INR del paziente si mantiene nell’intervallo terapeutico (2,0-3,0) per
almeno due giorni. Grado A La terapia con anticoagulante orale, o, in presenza di controindicazioni a tale terapia, con
EBPM o con ENF a dosaggio terapeutico, dovrebbe essere proseguita per 3 – 6 mesi nei pazienti al primo episodio con
condizione a rischio transitorio e per almeno 6-12 mesi nei pazienti al primo episodio tromboembolico idiopatico.
Grado A In pazienti con recidive o con condizione trombofilica persistente quale neoplasia, deficit di ATIII e positività
per anticorpi anti fosfolipidi o altra condizione trombofilica “forte” quale l’omozigosi per il fattore V Leiden, peraltro
molto rare, o per l’associazione di più condizioni trombofiliche, la terapia dovrebbe essere proseguita per almeno 1 anno
o oltre , ma non è stata definita la durata ottimale.
Grado C
Trattamento domiciliare della TVP
Sin dai primi trial clinici randomizzati, le EBPM possono essere considerate sostitutive dell’ENF endovena nel
trattamento domiciliare del TEV, almeno limitatamente ai pazienti conTVP prossimali non complicate ed a basso rischio
emorragico (Koopman, 1996; Levine, 1996). Gli schemi terapeutici proposti prevedono la terapia iniziale con EBPM a
dosi fisse pro peso e l’inizio rapido (anche contemporaneo in assenza di controindicazioni) della terapia con
anticoagulanti orali. Uno degli argomenti a favore del trattamento domiciliare della TVP con EBPM sottocute è la non
necessità di monitoraggio di laboratorio ad accezione della conta piastrinica. Restano comunque discordi i pareri sul
trattamento iniziale della TVP in regime extraospedaliero poichè, a fronte della riduzione dei costi legata alla non
ospedalizzazione, si deve prevedere una gestione domiciliare di non sempre semplice realizzazione, sia in ordine al
monitoraggio delle condizioni cliniche che alla corretta somministrazione ed alla continuità e facilità di connessione con
strutture di riferimenti (Partsch, 2001). Per il trattamento extraospedaliero è raccomandabile l’adozione di condizioni
minime per la dimissione precoce quali quelle suggerite dalle Linee Guida internazionali citate:
•
Paziente in condizioni stabili con indici vitali normali
•
Basso rischio emorragico
•
Assenza di insufficienza renale grave
•
Possibilità di somministrazione di EBPM o anticoagulanti orali con monitoraggio appropriato
•
Possibilità di sorveglianza clinica al fine di identificare tempestivamente recidive trombotiche o
complicanze emorragiche
Terapia trombolitica
Il ruolo di questa categoria di farmaci ha precise indicazioni per le condizioni più gravi (Verhaeghe, 2004).
Elastocompressione
La terapia compressiva è da considerare indispensabile nel trattamento della TVP. Per le generalità si rimanda al
relativo capitolo delle Linee-Guida per il trattamento dell’IVC ed alle Linee guida specifiche (Agus, 2000; Partsch,
2003; Cornu-Thénard, 2006; Mariani, 2006).
Trombectomia chirurgica
Numerose review e lavori anche recenti confermano l’indicazione alla trombectomia chirurgica in casi selezionati, ed in
particolare nelle TVP ischemizzanti e nelle trombosi iliaco-cavali flottanti, in caso di insuccesso del trattamento
farmacologico. I buoni risultati stanno favorendo numerose esperienze di trombolisi meccanica percutanea, per le quali
mancano ancora dati sufficienti per poter esprimere raccomandazioni a riguardo (Juhan, 1997).
Filtri cavali
Il posizionamento di un filtro cavale prevede una diagnosi accertata di TVP e l’esecuzione preventiva di una cavografia
inferiore per valutare la sede dello sbocco delle vene renali, la pervietà della cava ed il suo calibro; quest’ultimo dato è
indispensabile nella scelta del tipo di filtro per un corretto ancoraggio alle pareti cavali. Sono attualmente disponibili
filtri definitivi che non possono essere rimossi e temporanei, da rimuovere entro 7 giorni. Al momento sono disponibili
oltre ai filtri definitivi, dispositivi temporanei che possono essere rimossi entro 2 – 3 settimane e filtri permanenti ma
muniti di un dispositivo che ne consente ma non ne garantisce la rimozione entro un ampio spazio temporale (anche
superiore ai 6 mesi). Tali dispositivi potrebbero ampliare le indicazioni a tale procedura, ma non sono ancora
disponibili studi adeguati. Indicazioni Le indicazioni comunemente accettate al posizionamento di un filtro cavale sono
le seguenti:
•
TVP prossimale recente, anche senza EP e controindicazione assoluta alla terapia anticoagulante;
•
complicanze da terapia anticoagulante ben condotta;
•
inefficacia (EP ricorrenti e/o progressione della TVP) di terapia anticoagulante ben condotta. Per altre
indicazioni, quali malattia tromboembolica con ridotta riserva cardiopolmonare, embolia polmonare cronica non trattata,
trombo flottante in vena cava esistono pareri discordanti per mancanza di dati certi. Pazienti con storia pregressa di
malattia tromboembolica e programma di intervento chirurgico addomino-pelvico, donne gravide con TVP prossimale e
rischio embolico al parto, pazienti con trauma agli arti inferiori e al bacino, o casi di immobilità prolungata con severa
ipertensione polmonare scarsamente compensata, o altre situazioni alto rischio sia embolico che emorragico, possono
trarre beneficio da un filtro a scopo profilattico. In questi casi un filtro temporaneo può rappresentare una alternativa
alla terapia anticoagulante, in caso di controindicazione o fallimento di questa. Quando possibile, il filtro temporaneo
deve essere preferito nei pazienti in giovane età, in considerazione della possibile insorgenza di complicanze a lungo
termine associate alla permanenza in sede dei filtri cavali definitivi. Uno studio multicentrico randomizzato
(Decousus, 2000) ha posto in evidenza il fatto che i filtri cavali non controllano efficacemente la malattia
tromboembolica in assenza di terapia anticoagulante associata. In questo studio la superiorità iniziale del filtro (minor
eventi embolici) è risultata controbilanciata nel lungo periodo (2 anni) da una maggior incidenza di recidive
trombotiche agli arti inferiori, possibilmente riferibili alla trombizzazione del filtro stesso. I filtri cavali sono
dispositivi validi e semplici da impiantare, ma non rappresentano una protezione aggiuntiva nei pazienti con malattia
tromboembolica che possono essere trattati efficacemente con terapia anticoagulante (Kaufman, 1995)).
Raccomandazione:
I filtri cavali sono da prendere in considerazione solo in presenza di inefficacia o impossibilità della terapia
anticoagulante. In caso di pazienti con storia pregressa di TEV e programma di intervento chirurgico
addomino-pelvico, donne gravide con TVP prossimale e rischio embolico al parto, in pazienti politraumatizzati, o casi
di condizioni ad alto rischio tromboembolico in pazienti con severa ipertensione polmonare scarsamente compensata, o
di trombo flottante in cava, le indicazioni andranno bilanciate individualmente.
Grado C
TVS
Vedi in parte dell’ IVC, seppure non unicamente riscontrabili come complicanza delle varici.
TROMBOSI VENOSA AXILLO-SUCCLAVIA
La trombosi venosa axillo-succlavia, o sindrome di Paget-Von Schroetter, è un'evenienza relativamente rara costituendo
circa il 2% di tutte le manifestazioni trombotiche venose. Tale limitata frequenza, rispetto all'arto inferiore, viene
giustificata dalla migliore attività fibrinolitica endoteliale, dal minor numero di valvole delle vene dell'arto superiore e
dal maggiore esercizio muscolare delle vene dell'arto superiore. Lo sviluppo delle tecniche diagnostiche ed in particolare
l'esame ultrasonografico (US) con prove dinamiche hanno tuttavia dimostrato che nell'80% dei casi il principale fattore
etiopatogenetico è il trauma cronico da compressione estrinseca costoclavicolare. E' indubbia l'importanza della diagnosi
precoce, sia nelle forme precliniche da compressione intermittente per adottare un corretto trattamento preventivo, sia
nelle forme da trombosi acuta per limitare il rischio elevato di embolie polmonari valutato dal 12 al 17% dei casi e la
comparsa di una sindrome post-trombotica più o meno gravemente invalidante che si presenta nel 60 - 85% dei pazienti
non adeguatamente trattati . Altra causa di incidenza elevata si osserva nei portatori di cateteri venosi centrali. La
diagnosi clinica è in genere più agevole che per le trombosi venose degli arti inferiori, ma la diagnosi ultrasonografica
(nelle modalità CUS e eco-color-Doppler) costituisce l'esame di prima scelta con elevati valori di sensibilità e specificità
(Prandoni, 1997). La flebografia dinamica (esame di seconda scelta) ha un ruolo di conferma diagnostica in casi dubbi o
per necessità di dettaglio anatomico finalizzato ad un planning chirurgico e per monitorare l'effetto di una terapia
trombolitica. L'attuale tendenza terapeutica prevede l'uso di farmaci trombolitici in un primo tempo e la resezione della I
costa ottenuta la ricanalizzazione nei casi riferibili a sindrome dello stretto toracico. Sono proposte inoltre differenti
terapie dai vari autori sulla cui efficacia sussistono tuttora controversie, non esistendo studi randomizzati che dimostrino
la superiorità del trattamento litico ed endovascolare a distanza.
Trombolisi
La trombolisi viene considerata efficace se eseguita nei primi 7-8 giorni dall'insorgenza (Rutherford, 1998). Il farmaco
più utilizzato è l'UK. E' possibile infondere il farmaco nella vena afferente (trombolisi loco-regionale), oppure con
cateterismo della vena ascellare all'interno del trombo (trombolisi intra-trombotica, con infusione in pompa o con
tecnica pulse-spray) (Palombo, 1993). Non esiste dimostrazione di superiorità di una tecnica rispetto all'altra; tuttavia è
esperienza comune che la trombolisi intratrombotica è più rapida e più completa. E' in genere consigliato un successivo
trattamento anticoagulante per 3 mesi.
Terapia anticoagulante
Nei pazienti con trombosi da oltre 1 settimana o con controindicazioni alla fibrinolisi (come nelle trombosi associate a
neoplasie), il trattamento anticoagulante (eparina seguita da anticoagulante orale) è generalmente indicato per 3 mesi.
Nei pazienti con trombosi da catetere , questo va rimosso, se possibile.
Tecniche combinate e terapia chirurgica
Qualora la trombosi fosse molto estesa è possibile un trattamento combinato chirurgico, endovascolare e farmacologico
(Machleder, 1993; Kalman, 1998), oppure una trombolisi meccanica (Henry, 1997). In caso di trombosi residua si può
proporre l'esecuzione di un bypass venoso quando possibile con la trasposizione di un capo della giugulare esterna
(Pegis, 1997). In caso di trombosi secondaria a sindrome dello stretto toracico, risolto il problema venoso, può essere
indicata una resezione della I costa. Residui trombotici parietali, stenosi da flebosclerosi o sepimenti intravascolari
possono essere risolti per via endovascolare con PTA ed eventuale applicazione di stent (Cohen, 1996). Prima
dell'applicazione dello stent è solitamente necessario risolvere la compressione costo-clavicolare, altrimenti la pinza
ossea potrebbe portare alla rottura dello stent stesso (Meier, 1996). La riabilitazione ed un corretto allenamento potranno
sostituire l'atto chirurgico in caso di compressione lieve o di trombosi residua, ma generalmente sono indicati per
riportare il paziente ed in particolare l'atleta agonista il più rapidamente possibile alla normale attività dopo l'intervento
di costectomia. In ogni caso è giustificato un periodo di ginnastica rieducativa da 3 a 6 mesi secondo programmi
consolidati.
Raccomandazioni:
•
Gli US costituiscono l'esame di prima scelta per la diagnosi di trombosi venosa axillo-succlavia Grado A
•
La flebografia trova indicazione nei casi dubbi e quando si intenda effettuare una terapia trombolitica. Lo
studio dinamico dello stretto toracico va eseguito a trombosi risolta.
•
La trombolisi (loco-regionale o con cateterismo) è indicata nelle trombosi recenti (< 8 giorni) nelle seguenti
situazioni: trombosi da sforzo, pazienti giovani, necessità di recupero funzionale completo dell'arto Grado C
•
Tutti i pazienti vanno sottoposti a terapia anticoagulante preferibilmente per 3 mesi Nei casi di trombosi da
compressione costo-clavicolare, risolta dalla trombolisi, la terapia anticoagulante dovrebbe essere protratta fino alla
risoluzione chirurgica della compressione. Grado C
•
Nelle trombosi secondarie a catetere, se possibile, esso va rimosso.
IL TEV COME RISCHIO DI COMPLICANZA DELLA CHIRURGIA VASCOLARE
La chirurgia vascolare è interessata dal rischio di TEV post-operatoria in percentuale significativamente minore
rispetto ad altre chirurgie. La 7° Conferenza ACCP considera la chirurgia vascolare a basso rischio, sconsigliando la
profilassi addizionale rispetto alla sola mobilizzazione precoce (Grado 2B); e riservando l’ENF o le EBPM a pazienti
con fattori di rischio addizionali (Grado 1 C+) (1).
La compressione elastica è da considerarsi altrettanto fondamentale nella profilassi del TEV, particolarmente nei
pazienti a scarsa o difficile mobilizzazione e in concomitanza di IVC. Essa è associata, come profilassi antitrombotica,
alla mobilizzazione immediata soprattutto dopo chirurgia delle varici. Linee-guida e Documenti di consenso dell’
ultimo decennio hanno diffusamente affrontato i benefici della compressione e una review di 9 studi randomizzati e
controllati sull’ efficacia della calza elastica da sola e in associazione ad altri metodi, ne codificano l’uso (2, 3, 4, 5).
Per tipi e modalità di compressione si rimanda al relativo capitolo delle Linee-guida per il trattamento dell’IVC.
Anche la chirurgia vascolare arteriosa è interessata dal rischio di TVP e possibili EP, indipendentemente dal tempo di
clampaggio, dalle dosi di eparinizzazione intraoperatoria, dalle perdite ematiche, dal tipo di trasfusione o reintegro di
liquidi, dall’uso di solfato di protamina, ma come rischio minore che non ha riproposto di recente l’attenzione al
problema.
In chirurgia aortica, in particolare quella degli aneurismi, l’incidenza di TEV tuttavia risultava abbastanza rilevante,
riscontrandosi in review della letteratura tra il 2 ed il 40% dei casi, con percentuali del 18% in studio prospettico con
controllo flebografico post-operatorio (6); interessando fino al 6% anche il trattamento endovascolare degli aneurismi
aortici (7). In chirurgia arteriosa periferica, il tipico quadro di edema che può comparire nei giorni seguenti l’intervento
di rivascolarizzazione diretta di un arto inferiore, in apparenza riconducibile all'iperemia reattiva che si attua nel territorio
di irrorazione di un'arteria precedentemente ostruita e successivamente rivascolarizzata, indipendentemente dalla tecnica
impiegata, può viceversa essere indicatore di prognosi sfavorevole, quale edema premonitore di TVP. La TVP dopo
rivascolarizzazione femoro-poplitea è stata calcolata tra il 5 e 43% . Il Consensus Statement dell’ International Union of
Angiology-IUA considera tali incidenze dell’ordine del 18% per la chirurgia addominale e del 15% per le ricostruzioni
periferiche (8). E' stato però dimostrato come la profilassi con EBPM riduca il rischio al 3-4%, fino allo 0,9% e 0,7%
rispettivamente per la chirurgia aortica e periferica (9, 10, 11).
Per workload della chirurgia vascolare, su basi epidemiologiche, si analizza più diffusamente qui il rischio vero
o presunto di TEV dopo chirurgia venosa. Lo stripping safenico (tuttora l’intervento maggiormente praticato)
appartiene alla categoria della chirurgia minore.
Tuttavia, non individuando il rischio personale per TEV, con controllo dei fattori di rischio trombotico individuale,
recentemente sono emersi dati di casistica medico-legale per episodi di TVP anche mortali, verosimilmente nello 0,2%
per TVP e 0,02% per EP, ma fino a 5,3% di casi di TVP post-operatorie in uno studio prospettico con controllo
ecocolordoppler post-operatorio, pur in meno della metà sintomatiche e nessun caso di EP; l’obesità e l’uso di
contraccettivi orali non risultarono fattori di rischio dopo chirurgia delle varici (12).
La letteratura specifica ha affrontato nell’ultimo decennio il problema sia dal punto di vista di effettiva possibilità
dell’evento, che dal punto di vista di costo-beneficio delle varie modalità di profilassi. Uno studio sull’atteggiamento
della Vascular Surgical Society of Great Britain and Ireland al proposito, informa che solo il 29% dei chirurghi
considera la chirurgia delle varici quale possibile rischio di TVP e solo il 12% usa abitualmente una profilassi eparinica
post-operatoria (13). Nello stesso Regno Unito, d’altronde, la casistica medico-legale per TEV post-chirurgia delle
varici risulta esigua, con 8 casi su 349 notificati per questa patologia in un decennio (14). Uno studio prospettico su
pazienti sottoposti a stripping safenico in day surgery, con controllo ecocolordoppler post-operatorio, ha dimostrato la
sola necessità di calza elastica e movimento quale profilassi della TVP e d’altronde come i casi di TEV possano
verificarsi in qualunque giorno dopo l’intervento fino a 34 giorni dopo, vanificando il vantaggio di una profilassi
limitata a soli 4 giorni per ridurre disagi e rischi al paziente, nonché costi sociali eccessivi per i sistemi sanitari nazionali
(15). Uno studio retrospettivo con uso di profilassi post-operatoria con varie eparine in due gruppi di pazienti con e
senza controllo ecografico post-operatorio, conferma anch’esso come il rischio di TEV nella chirurgia delle varici sia
estremamente basso, non dissimile da quello della popolazione generale della stessa età e sesso (16).
Un ampio studio francese dal titolo emblematico “Serve davvero prescrivere gli anticoagulanti dopo la chirurgia delle
varici ?”, ha considerato oltre 4200 interventi chirurgici dal gennaio 1995 al dicembre 2002, nei quali è stato riscontrato
solo 0,40 % di TVP sintomatiche con una sola EP (0,002 %) enfatizzando l’inutilità della profilassi farmacologica
sistematica nella maggioranza dei casi operati ed il costo di milioni di euro per anno con l’uso inutile di eparina, senza
diminuire il rischio trombotico (17).
Deve essere anche considerato come l’uso delle odierne EBPM sia relativamente sicuro, ma non esente da complicanze
emorragiche da minime (ematomi in sede di iniezione o sedi chirurgiche) a più severe (come la trombocitopenia [18] o
l’ematoma del canale vertebrale dopo anestesia spinale, sebbene le linee guida anestesiologiche rassicurino su questo
aspetto [19]). Nell’analisi rischio-beneficio, e costo-beneficio, Mildner riporta il 40% di complicanze post-chirurgiche
con l’utilizzo di eparina come profilassi farmacologica post-operatoria vs il 7% senza eparina (20). Il rischio TEV, già di
per se basso in chirurgia standard delle varici, è stato parzialmente adombrato per la nuova
chirurgia endovascolare venosa in due pubblicazioni (21, 22). Ha peraltro risposto a questo presunto rischio trombotico
dei trattamenti con radiofrequenze o Laser il dibattito internazionale (23, 24, 25) e la più vasta esperienza casistica, con
eventualità di TEV da 0 a 0,5% (26, 27).
Le evidenze emerse sono riassumibili: a) un limitato screening per coagulopatia è indicato in caso di anamnesi familiare
o personale di TEV; b) in pazienti con i comuni fattori di rischio per TEV, specie se associati, è opportuna la EBPM; c)
il posizionamento del catetere guida deve avvenire sotto controllo ecografico sistematico e possibilmente evitando la
sua introduzione in vena femorale; d) la punta della fibra Laser o del catetere di RF sarà mantenuta sotto l’ afferenza
della vena epigastrica superficiale, ricordando che eventuali spostamenti dell’ arto quali flessione del ginocchio o
abduzione dell’ anca possono spingere la fibra in vena femorale; e) l’anestesia è già determinante come profilassi: l’
anestesia locale per tumescenza, da un lato permette la mobilizzazione immediata, dall’ altro assicura che la vena
safena sia collassata sulla fibra vicino alla giunzione safenica; f) infine, le rare complicanze trombotiche riferite
possono essere attribuite ad insufficiente learning curve.
Raccomandazioni: La mobilizzazione precoce e l’uso di compressione post-operatoria devono essere considerati i
capisaldi sufficienti della profilassi antitrombotica in chirurgia delle varici. Grado B I b
Sottoporre ad una terapia inutile, costosa ed anche non del tutto sicura, il 99.8% di tutti i pazienti sottoposti a chirurgia
delle varici presenterebbe un NNT di pazienti da trattare eccessivo perché si abbia un reale beneficio terapeutico in un
solo paziente. Non vi sono pertanto evidenze per efficacia e costo per un uso routinario di ENF o EBPM.
Grado A I b
L’ENF o le EBPM sono da riservarsi in chirurgia delle varici a pazienti con fattori di rischio addizionali Grado B I b e
routinariamente in chirurgia vascolare arteriosa Grado A I b
APPENDICE. PATOLOGIA DEI LINFATICI
LINFEDEMA
Considerazioni generali
Il linfedema è una malattia cronica, frustrante per il paziente e per il medico. Questa patologia è causata da un
difetto del sistema linfatico a cui segue un accumulo di linfa nello spazio interstiziale, che in un primo momento si
localizza prevalentemente a livello sovrafasciale e successivamente a tutto il tessuto sottocutaneo.
La prima funzione del sistema linfatico è quella di rimuovere dallo spazio interstiziale le grosse molecole, l’acqua e di
permettere un turn-over alle cellule del sistema linfatico (Bergan, 1996).
L’insufficienza linfatica dal punto di vista fisiopatologico viene suddivisa in insufficienza di tipo dinamico e meccanico.
L’insufficienza dinamica (o insufficienza ad alta portata) è presente nel caso di un sistema linfatico integro che deve
far fronte ad un carico proteico maggiore che supera le sue capacità di portata.
L’insufficienza meccanica (o insufficienza a bassa portata) deriva da un danno primitivo o secondario del sistema
linfatico, con carico proteico normale (Földi, 1983).
Le proteine stimolano l’arrivo dei mastociti e dei granulociti neutrofili istaurando un processo di granulazione
aspecifico che nel tempo volgerà a fibrosi dell’interstizio con un sovvertimento strutturale.
EPIDEMIOLOGIA
I dati ricavabili dalla Letteratura internazionale, corrispondenti a quelli ufficiali e ormai datati dell'Organizzazione
Mondiale della Sanità (1994), riportano un'incidenza del linfedema nel mondo pari a 140 milioni di casi (circa una
persona ogni 20). Quasi la metà dei linfedemi è di origine primaria, caratterizzati da una base congenita. Altri 40
milioni sono di origine parassitaria (le forme più frequenti sono rappresentate dall'infestazione da Filaria Bancrofti),
particolarmnete presenti nelle aree tropicali e subtropicali (India, Brasile, Sud-Africa) ( Gypong, 1996). Altri 20 milioni
sono post-chirurgici e specialmente secondari al trattamento del carcinoma mammario. Gli altri 10 milioni sono
essenzialmente causati da problemi funzionali di sovraccarico del circolo linfatico (particolarmente, in esiti di
flebotrombosi profonda dell'arto inferiore ed anche nella c.d. sindrome di Mayall, da iperstomia artero-venosa per
iperlinfogenesi).
Da studi epidemiologici nazionali che vedono implicato in maniera non rara lo stesso medico di medicina generale (
Michelini, 1998; Visintin, 2003 ), i linfedemi primari risultano più frequenti rispetto ai secondari. La localizzazione agli
arti superiori riconosce quasi sempre la natura secondaria, mentre agli arti inferiori si riscontrano per lo più linfedemi
primari. Il sesso più interessato è quello femminile e l'età più colpita corrisponde alla III-IV decade di vita. L'incidenza
della linfangite, clinicamente più o meno manifesta, come complicanza della linfostasi, è molto elevata (praticamente
nella quasi totalità dei casi), a tal punto da richiedere un trattamento antibiotico protratto, sia a scopo terapeutico che
profilattico. Dal punto di vista eziopatogenetico, per quanto concerne gli arti superiori, si è trattato nella stragrande
maggioranza dei casi di una ipodisplasia linfonodale ascellare. Anche i casi di linfedema scatenati da episodi di
linfangite o da eventi traumatici hanno presentato alle indagini diagnostiche specifiche una condizione di ipoplasia
linfatico-linfonodale responsabile della particolare predisposizione dell'arto colpito alla comparsa di una stasi linfatica.
In quasi tutti i linfedemi primari degli arti inferiori abbiamo potuto constatare la presenza di alterazioni
linfangioadenodisplasiche con ipoplasia e fibrosclerosi linfonodale inguino-crurale nel 93% dei casi e con reflusso
gravitazionale linfatico-chiloso, anche ai genitali esterni, per incontinenza valvolare dei collettori ectasici ed insufficienti
nel restante 7%. La manifestazione clinica di tali forme di linfedema è stata più frequentemente spontanea, senza causa
apparente, ed in alcuni casi, invece, conseguente a linfangiti o trauma. Linfedemi di origine secondaria sono stati
diagnosticati nel 43% dei pazienti. Per quanto riguarda la localizzazione agli arti superiori, si è quasi sempre (98%)
trattati di forme secondarie a linfoadenectomia ascellare e/o radioterapia per il trattamento del carcinoma mammario,
mentre nel 2% dei casi, il linfedema all'arto superiore è stato conseguenza dell'asportazione di lipomi in sede ascellare,
di biopsie linfonodali ascellari o di radioterapia axillo-sovraclaveare per linfoma. Agli arti inferiori, il riscontro più
frequente è stato il linfedema secondario al trattamento del carcinoma della cervice uterina (46%), quindi, i linfedemi
conseguenti ad interventi urologici (39%) di tipo oncologico (carcinoma prostatico, penieno, seminoma testicolare), al
trattamento di melanomi (6%), linfoma di Hodgkin (3%) ed anche all'asportazione di lipomi della coscia (3%), ad
interventi per varici (2%) e per ernia inguinale o crurale (1%).
Un altro dato importante scaturito dalla valutazione di circa 200 donne affette da linfedema dell'arto superiore
secondario a trattamento per carcinoma mammario è quello della comparsa del linfedema nel 20-25% delle donne
sottoposte a mastectomia o quadrantectomia con linfoadenectomia ascellare, sino al 35% con l'associazione della
radioterapia. Tali dati corrispondono a quelli trovati nella Letteratura internazionale. Ma, soprattutto, è opportuno
sottolineare l'importanza, data l'elevata incidenza del linfedema secondario, delle possibilità di prevenzione della
patologia linfostatica, sia in termini di diagnosi precoce che di trattamento tempestivo. Tutto ciò non solo in
considerazione dei pesanti risvolti psicologico-sociali e dell'invalidità fisica correlati a tale patologia, ma anche della
possibilità di prevenzione delle gravi e frequenti complicanze linfangitiche e, specialmente, del probabile, seppur raro,
impianto di un linfangiosarcoma su un linfedema secondario.
PREVENZIONE
Il linfedema primario è una condizione clinica ad esordio improvviso, perciò imprevedibile. Al contrario di quello
secondario, che è clinicamente ipotizzabile anche se non è possibile prevedere il momento dell’esordio.Le proposte di
prevenzione finora effettuate da vari esperti del settore in tutto il mondo, riguardano esclusivamente il linfedema
secondario e sono prevalentemente indirizzate al chirurgo operatore, (tipo di incisione, tecnica chirurgica, conservazione
dell’integrità delle zone di drenaggio linfatico di maggior importanza per l’arto), o all’oncologo (allestire una
radioterapia moderatamente aggressiva, se possibile). Le possibilità di prevenzione del linfedema secondario al
trattamento di tumori maligni mediante chirurgia e/o radioterapia vengono offerte oggi, soprattutto, dalla
linfoscintigrafia, che consente di studiare, preliminarmente all’intervento per la patologia tumorale, oppure subito dopo,
l’assetto anatomo-funzionale del circolo linfatico dell’arto superiore omolaterale. Sarebbe così possibile individuare
categorie di pazienti a rischio (basso, medio ed elevato) per la comparsa del linfedema secondario. A questi pazienti
potrebbero opportunamente, così, essere applicati in prima istanza, e non tardivamente, i provvedimenti terapeutici da
caso a caso ritenuti più idonei, a seconda dell’entità del danno individuato a carico del circolo linfatico ( Campisi, 1998;
Boccardo, 2000).
Raccomandazioni:
Esistono oggi concrete possibilità di prevenzione del linfedema dell’arto superiore secondario al trattamento di un
carcinoma mammario, applicando un protocollo di prevenzione basato sia su criteri clinici che sull’esame
linfoscintigrafico. Grado B
DIAGNOSI
Per una adeguata terapia è indispensabile una diagnosi precisa del linfedema. Nella maggior parte dei pazienti, sulla
base dell’anamnesi e dell’esame obiettivo, si può agevolmente porre diagnosi di linfedema: edema generalmente di
consistenza aumentata, a seconda della maggiore o minore componente tissutale fibrosclerotica, presenza del segno
della fovea, anche negli stadi più precoci della malattia, presenza del segno di Stemmer (non plicabilità della cute alla
base del 2° dito del piede), lesioni distrofiche cutanee (sequele post-linfangitiche, ipercheratosi, verrucosi linfostatica,
linforrea, chilorrea, ecc.), frequenti complicanze dermato-linfangio-adenitiche (DLA). Utile, inoltre, la valutazione delle
stazioni linfonodali, per evidenziare l’associazione o meno di linfoadenopatie acute o croniche.
In alcuni casi, inoltre, la presenza di condizioni sovrapposte quali l’obesità patologica, l’insufficienza venosa, il trauma
più o meno evidente e ricorrenti infezioni possono complicare il quadro clinico. Inoltre, nel considerare l’origine di un
linfedema uni o bilaterale delle estremità, specialmente negli adulti, è necessario prendere anche in considerazione
l’eventualità di una causa tumorale. Per tutte queste ragioni prima di inoltrarsi nel trattamento del linfedema, è
assolutamente indispensabile un valutazione diagnostica completa ed integrata. L’associazione di altre condizioni
patologiche, quali l’insufficienza cardiaca congestizia, l’ipertensione arteriosa e patologie cerebrovascolari, compreso
l’ictus, possono a loro volta influenzare l’iter terapeutico.
Valutazione strumentale La Linfoscintigrafia è l’esame di prima scelta per la definizione diagnostica dell’edema, per
confermarne la natura linfostatica, per l’individuazione della causa (da ostacolo o da reflusso), per valutare l’estensione
della malattia (dermal back flow), la compromissione maggiore o minore del circolo linfatico profondo rispetto a quello
superficiale, il drenaggio attraverso le stazioni linfonodali. Utile, pertanto, lo studio della circolazione linfatica sia
superficiale che profonda, mediante l’opportuna iniezione del tracciante nelle sedi specifiche di drenaggio dei due
sistemi. L’esame non è invasivo, facilmente ripetibile, eseguibile anche in età neonatale. Consente, infine, di individuare
la linfostasi, ancora clinicamente non manifesta, svolgendo così un ruolo fondamentale nella prevenzione del linfedema
secondario. Utile, infine, lo studio nel follow-up dei diversi metodi terapeutici del linfedema e, in particolare, delle
tecniche di microchirurgia linfatica ( Mariani, 1998; Pecking, 1998).
La Linfografia rappresenta modernamente un’indagine indispensabile per lo studio delle complesse patologie congenite
o acquisite dei vasi chiliferi, della cisterna chyli e del dotto toracico. Viene più modernamente eseguita in sala
operatoria, in anestesia locale e con preparazione dei vasi linfatici mediante tecnica microchirurgica (Bruna, 1996;
Partsch, 1998).L’Ecografia, la TC e la RM rappresentano strumenti diagnostici utili per la definizione delle complesse
sindromi in cui si associano quadri di angiodisplasia e linfedema, oltre che per lo studio della eventuale natura organica
ostruttiva del linfedema secondario a malattia tumorale. In particolare, per i linfedemi degli arti, l’Ecografia ad alta
risoluzione (sonde lineari da 10-14 MHz) evidenzia l’incremento degli spessori sopra e sottofasciali basali e la
riduzione dello stesso dopo trattamento. Evidenzia altresì il grado di compressibilità tissutale e le caratteristiche
ecogeniche diverse a seconda della prevalente componente idrica o fibrotica tissutale. Utile, a questo proposito, ai fini
del monitoraggio del trattamento ed ai fini prognostici. Un ulteriore apporto della metodica è rappresentato dalla
possibilità di individuare gli spessori muscolari sottofasciali consentendo di mirare l’intervento terapeutico atto ad
ottimizzare il trofismo muscolare stesso.La Linfangio-RM, in particolare, eseguita con la metodica di sottrazione del
tessuto adiposo, può fornire informazioni importanti nei quadri avanzati di natura ostruttiva, in cui le vie linfatiche si
presentano dilatate e ripiene di linfa.Indispensabile è lo studio della circolazione venosa mediante Eco-Color-Doppler
(indagine costantemente impiegata nella valutazione strumentale di un arto edematoso), Fleboscintigrafia e Flebografia
(se necessarie sulla base dell’esame eco-Doppler).
Anche lo studio della circolazione arteriosa può rendersi indispensabile nei quadri di panangiodisplasia con associato
linfedema. In questi casi, oltre all’esame Eco-Color-Doppler, può essere utile lo studio arteriografico digitale. La
Linfografia indiretta, la Microlinfografia fluoresceinica, il Test linfocromico di Houdack - Mc Master, la misurazione del
flusso e delle pressioni linfatiche e il Laser-Doppler possono fornire utili informazioni sulle condizioni anatomiche e
funzionali, oltre che della microcircolazione sanguigna (Laser-Doppler), anche dei linfatici iniziali e dei collettori
linfatici, ma la loro utilità clinica è limitata.
Studio genetico Si sta cominciando ad utilizzare in maniera concreta gli esami genetici per la definizione di un numero
limitato di sindromi ereditarie specifiche con mutazioni genetiche distinte, quali quella del linfedema-distichiasi ed alcune
forme della malattia di Milroy. Si ritiene che, in futuro, questo tipo di esame, associato a descrizioni fenotipiche accurate,
possa diventare di routine per la classificazione delle sindromi linfangiodisplsiche familiari e altre alterazioni
congenite-dismorfogenetiche caratterizzate da linfedema, linfangectasia e linfangiomatosi. Studi recenti hanno
evidenziato la associazione tra linfedema ed alterazioni dei cromosomi 5, 16, 18 e 21.
Esame bioptico In presenza di linfedema periferico di lunga durata, si dovrebbe prestare la massima cautela prima di
asportare linfonodi regionali ingrossati, dal momento che raramente le informazioni istologiche che se ne ricavano sono
effettivamente utili, mentre tali manovre potrebbero aggravare significativamente l’edema periferico. La biopsia con ago
aspirato e successivo esame citologico condotto da un patologo esperto offre una valida alternativa nel caso di sospetta
neoplasia maligna.
Raccomandazioni: il primo livello diagnostico è rappresentato dalla linfoscintigrafia, dall’Ecografia ad alta risoluzione e
dall’Ecocolordoppler; il secondo livello, dall’ecografia, TC, RM, linfografia; il terzo livello, flebografia, arteriografia,
genetica, biopsia.
Grado A
CLASSIFICAZIONE
Numerose sono state le classificazioni proposte per inquadrare i linfedemi , questi vengono generalmente suddivisi in
primari o congeniti e acquisiti o secondari.
I linfedemi primari sono ulteriormente distinti in connatali, cioè presenti già alla nascita, oppure a manifestazione
precoce, se compaiono prima dei 35 anni, o tardiva, se si manifestano dopo i 35 anni. Tra i connatali si distinguono le
forme sporadiche da quelle eredo-familiari, che per lo più possono essere inquadrate in sindromi malformative più o
meno complesse, correlate o meno a specifiche alterazioni genetiche. Nel termine displasia si include: agenesia,
ipoplasia , iperplasia, fibrosi, linfangiomatosi, amartomatosi, insufficienza valvolare.
I linfedemi secondari possono essere distinti in post-chirurgici, post-attinici, post-traumatici, post-linfangitici e
parassitari.
Classificazione CEAP-L
Questo nuovo criterio classificativi nasce da un gruppo di ricerca tutto italiano e sta avendo grandi consensi nel mondo
linfologico internazionale (Gasbarro, 2004). Nell’inquadramento clinico del linfedema, esiste da tempo la necessità di
disporre di un metodo classificativo che possa raccogliere una serie di informazioni fondamentali sull’entità e sulla
evoluzione clinica della malattia utilizzando un linguaggio comune e di facile applicabilità clinica. La classificazione
C.E.A.P. – L. si pone come obiettivo quello di standardizzare con sigle le casistiche cliniche, al fine di poter creare
gruppi di pazienti statisticamente più omogenei. La diagnostica clinica e strumentale del linfedema, ha subito negli
ultimi una certa standardizzazione, questo ha permesso di inquadrare con la clinica e pochi esami strumentali quali la
linfoscintigrafia e l’ecografia dei tessuti molli, il paziente con linfedema. Lo scopo di questa classificazione è di avere
dei riferimenti che rappresenti il lessico comune per ogni specialista che si occupi di linfedema..Questa classificazione,
è stata divisa in varie sezioni: C. (Clinica), E. (Eziologia), A. (Anatomica), P. (fisioPatologica), L’aggiunta della lettera
L è semplicemente per differenziarla da quella sull’insufficienza venosa cronica.
Clinica (C0-C4). La classificazione clinica è basata sul segno clinico maggiormente obiettivabile in questi pazienti,
ovvero l’edema, ed in base al suo comportamento si definiscono 5 classi. Nello stadio C0 non sono visibili segni i segni
della malattia (fasi iniziali dell’edema linfatico). Lo stadio C 1 si riferisce a quelle condizioni cliniche in cui la dimensione
dell’edema è variabile durante il giorno e recede con il riposo notturno. Lo stadio C2 è riservato a quegli edemi persistenti
a prescindere dal riposo (edemi fissi). Gli stadi C 3 e C4 sono riservati a quelle particolari condizioni cliniche in cui il
paziente con linfedema presenta ulcerazioni (C3: chiuse; C4 attive). La classificazione è completata da un parametro
soggettivo per distinguere il paziente asintomatico (A) e quello sintomatico (S). I sintomi considerati per definire la
sintomaticità sono: il dolore, i crampi, la sensazione di gambe pesanti, le parestesie, la sensazione di freddo dell’arto, ma
anche altri sintomi correlati con la patologia linfatica. Il trattamento terapeutico può modificare i segni clinici e i sintomi,
di conseguenza l’arto deve essere riclassificato dopo il trattamento. In questo capitolo consideriamo anche altri aspetti
clinici importanti quali il grading dell’estensione dell’edema e l’associazione di altri segni clinici quali la linfangite ed
essudazione. L’estensione anatomo-topografica dell’edema rappresenta un parametro clinico importantissimo,
certamente è da considerare tra i maggiori indicatori prognostici . In questa fase della valutazione clinica, può essere di
valido aiuto l’utilizzo dell’ecografia dei tessuti molli per meglio valutare l’estensione dell’edema. Se il paziente non ha
avuto fenomeni di linfangite si definisce L0, se ha avuto da 1 a 3 episodi di linfangite, L1; se ha avuto più di 3 episodi di
linfangite, L2. La presenza di essudazione definisce un superamento della barriera di contenimento cutanea e dunque un
eccessivo accumulo di linfa. Se non è presente essudazione si definisce E 0, in caso di lieve essudazione “a goccia” si
parla di E1; nel caso in cui la trasudazione è abbondante, ovvero la cute sembra completamente bagnata si parla di E 2. A
seguito della Clinica si riporta la parte funzionale perché il grado di deficit funzionale fa parte integrante dell’esame
clinico del paziente. La particolarità della C.E.A.P-L è l’introduzione di criteri di valutazione del grado di disabilità del
paziente affetto da linfedema..
Classificazione Eziologica (Ec, Es) La classificazione eziologia considera due tipi di alterazioni del sistema linfatico:
congenite (Ec) e acquisite o secondarie (Es). I problemi congeniti possono essere diagnosticati alla nascita o riconosciuti
più tardi. I problemi secondari originano da un danno acquisito dimostrabile del sistema linfatico, ad esempio da filariasi,
da radioterapia di stazioni linfonodali, da pregresso trauma dell’arto , ecc.
Classificazione Anatomica (As, Ap - N) Ha lo scopo di precisare le strutture anatomiche coinvolte nella malattia. I
linfatici negli arti inferiori si dividono in superficiali (AS) e profondi (AP). I linfatici superficiali (AS) hanno un
decorso a livello mediale e laterale. I mediali
(M) seguono il decorso della vena grande safena; i laterali (L), la parte laterale della rete dorsale del piede e dai vasi
plantari, si portano lateralmente alla gamba ed alla coscia dove si portano verso i collettori mediali. I linfatici profondi
(AP), satelliti dei vasi profondi, seguono le arterie tibiali e femoro-iliaci, dando origine, con i collettori pelvici e
addominali, al dotto toracico. I linfatici superficiali (AS) dell’arto superiore originano dalle dita e dal palmo della mano
e, all’avambraccio, si
identificano in collettori esterni (E), Interni (I) e mediani (Me). I linfatici esterni si confluiscono nei linfonodi
epitrocleari, gli altri proseguono il loro decorso ascendente percorrendo il lato anteromediale (M) del braccio. I linfatici
profondi (AP) dell’arto superiore provengono dalle masse muscolari, dalle ossa e dal periostio, raggiungono il cavo
ascellare seguendo, come le vene, il decorso delle arterie e per lo più sono due per ciascuna arteria; così abbiamo dei
linfatici ulnari (U), radiali (R) e brachiali (B). Come i linfatici superficiali, tutti i linfatici profondi sboccano nei
linfonodi del cavo ascellare. A questo aspetto si associa lo stato delle stazioni linfonodali ( N).
Le sedi a livello dell’arto inferiore vengono espresse con le seguenti sigle: N PO : Poplitei; NIN : Inguinali; NIL : Iliaci;
NLA: lomboaortici. A carico dell’arto superiore con: NEP: epitrocleari; NAS : ascellari: e infine i pelvici con NPE.
I linfonodi ascellari (NAS) ricevono, come linfatici afferenti quelli dei linfonodi epitrocleari (N EP), i linfatici superficiali e
profondi dell’arto superiore, quelli superficiali della metà sopraombelicale del tronco, i linfatici superficiali della nuca e
quelli della mammella. La classificazione prende in considerazione anche la caratteristiche morfologiche dei linfonodi
evidenziabili con la linfoscintigrafia e con l’ecografia dei tessuti molli.
Questi possono essere definiti nella norma (N0), ipoplasici (N1 ), o aplasici (N2). Un dato di estrema importanza nella
valutazione prognostico è lo studio ecotomografico del tessuto sottocutaneo degli arti. Questo può essere nella norma
(nelle prime fasi evolutive della malattia (S0), può essere visibile l’edema in forma diffusa o localizzata (falde linfatiche)
(S1), e può predominare la componente fibrotica (S2).
Classificazione FisioPatologica (Pa, Pi, Po, Pr, Ps) Basandosi sulle numerose classificazioni che ripercorrono
sinteticamente i momenti fisiopatologici salienti alla base del linfedema abbiamo 5 gruppi. P a: agenesia-ipoplasia
(assenza strumentale di linfatici o scarsa rappresentazione) P i: iperplasia (maggiore rappresentazione di linfatici. In
questo caso si associa spesso patologia da reflusso valvolare) P o: ostruzione (da parassiti, neoplasia, iatrogena,
radioterapia, …) Pr: reflusso (patologia primitiva valvolare) P s: sovraccarico (classificazione di Foldi – Stadio da deficit
dinamico). L’ecografia associata alla linfoscintigrafia ci permette di definire il livello fisiopatologico del linfedema
dell’arto interessato. L’ostruzione od il reflusso ad esempio possono essere definite in base alle sedi interessate
maggiormente.
Punteggio di Gravità Alla classificazione vera e propria si è affiancato un metodo di punteggio di gravità della malattia.
Per stabilire il punteggio di gravità complessivo si associa un punteggio di gravità anatomica (quanti arti e segmenti
anatomici sono interessati) ed un punteggio di gravità clinica (gravità dell’edema, sintomaticità e grado di disabilità
funzionale).
Nel caso di un paziente con linfedema postmastectomia dell’arto superiore sinistro (punto 1), con classe Clinica 2 (punti
2 ), con distribuzione anatomica mano-avambraccio-braccio (punti 3 ), con disabilità moderata (punti 2), sintomatico
(punti 1), avremo un indice di gravità complessiva di 9 punti.
Raccomandazioni:
Nei linfedemi secondari, in particolare per le forme post-traumatiche, post-linfangitiche, ma anche per quelle
conseguenti a chirurgia e/o radioterapia, si riscontra quasi sempre una predisposizione costituzionale (displasia linfatica
e/o linfonodale congenita). Grado B
TRATTAMENTO
La terapia del linfedema periferico viene suddivisa in metodologie conservative e chirurgiche.
a) Fisioterapia
La Terapia fisica combinata (Combined Physical Therapy – CPT) ( Foldi, 1993), consta generalmente di un programma
di trattamento in due fasi: la prima fase prevede la cura della pelle, linfodrenaggio manuale, una serie di esercizi di
ginnastica ed elastocompressione normalmente applicata con bendaggi multistrato. La seconda fase, che va iniziata non
appena completata la fase 1, con l’obiettivo di mantenere ed ottimizzare i risultati ottenuti nella fase 1, comprende la cura
della pelle, l’elastocompressione per mezzo di tutore (calza o bracciale) a basso grado di elasticità, la ginnastica per il
recupero funzionale del o degli arti e ripetute sedute di linfodrenaggio manuale a seconda dei singoli casi. Condizioni
essenziali per la riuscita del protocollo fisico combinato sono la disponibilità di personale medico, infermieristico e di
fisioterapisti adeguatamente formati su tale metodica terapeutica (Leduc, 1980).
L’elastocompressione, se non applicata adeguatamente, può essere inutile ed anche dannosa. Per la cura a lungo termine,
è indispensabile che vengano prescritti tutori per l’elastocompressione (se necessario, anche realizzati su misura) per il
mantenimento dei risultati ottenuti dopo CPT. La Pressoterapia a pressione uniforme peristaltico-sequenziale, solitamente
consiste in un programma di 3 fasi: trattamento delle stazioni linfonodali prossimali dell’arto, per la preparazione delle
stesse e per evitarne l’ingorgo (possibile causa di fibrosi reattiva); terapia compressiva a pressioni adeguate a seconda
dello stadio clinico della malattia; applicazione di un tutore elastico (calza, bracciale o bendaggio multistrato). Il
Linfodrenaggio manuale viene eseguito per lo più seguendo le metodiche classiche delle scuole tedesca e belga. A
seconda dei casi le diverse tecniche di linfodrenaggio manuale possono essere combinate. Non deve essere praticato in
modo eccessivamente vigoroso per evitare possibili danni alle strutture linfatico-linfonodali. In alcune regioni corporee
rappresenta l’unico presidio terapeutico fisico applicabile (es.: volto, regioni genitali). Il Bendaggio dell’arto affetto,
viene effettuato con materiali fondamentalmente anelatici o ipo-elastici, avvolti attorno all’arto in assenza di trazione, in
multistrato. Questo determina una riduzione della filtrazione capillare, sposta i liquidi extracellulari, incrementa e stimola
il trasporto linfatico, migliora la pompa venosa, riduce la fibrosclerosi (Badger, 2004)
Raccomandazioni: l’uso a lungo termine del bendaggio elastico multistrato rappresenta una componente efficace e
fondamentale nella terapia decongestionante . Grado B
b) Terapia farmacologica
La farmacoterapia prevede l’utilizzo dei benzopironi, che danno un incremento tono capillare, una diminuzione della
permeabilità capillarealle proteine, in aumento numerico dei macrofagi, una attivazione della loro attività proteolitica, la
stimolazione attività propulsiva del linfangione e l’inibizione della sintesi delle prostaglandine e dei leucotrieni. La
cumarina agisce direttamene sulle fasi della flogosi, in particola modo sul macrofago accelerando se usata in
maniera continua la degradazione proteica attivando l’assorbimento extralinfatico (Casley-Smith, 1968). I benzopironi
vengono utilizzati in tutte le fasi del linfedema sia esso di natura primitiva o secondaria. Recenti studi hanno dimostrato
un alta tossicità a livello epatico della cumarina sintetica ad alti dosaggi in corso di trattamento del linfedema
secondario (Agence du medicament France, 1996).
Le Cumarine naturali, da somministrare a dosaggi di 8 mg/die per 60 giorni, hanno dimostrato una efficacia terapeutica
nel miglioramento della sintomatologia soggettiva, del recupero funzionale dell’arto linfedematoso, riduzione della
consistenza dell’edema, potenziamento della riduzione del volume in eccesso ottenuta dopo trattamento fisico e/o
microchirurgico, senza determinare alcun effetto tossico sul fegato.
Una review del 2006 della Cochrane Collaboration ha analizzato 15 trial su farmaci di uso comune vs placebo nei
pazienti con linfedemi (Oxerutina, Diosmina/Esperidina, Curarina/Troxerutina e Curarina) e ha concluso che, alla luce
di questi trial, a tutt’oggi, non si possono trarre dati certi circa l’efficacia di questi farmaci nel trattamento del linfedema.
Gli antibiotici vengono utilizzati in fase acuta (terapia per lo streptococco B-emolitico), per il trattamento delle
dermato-linfangio-adeniti (DLA), e a scopo preventivo per la profilassi degli episodi di linfangite acuta (penicillina ad
azione protratta). Gli antimicotici sono indicati per il trattamento delle infezioni fungine delle estremità (fluconazolo,
ecc.). La dietilcarbamazina trova impiego per l’eliminazione della microfilaria dal circolo sanguigno nei pazienti affetti
da linfedema su base parassitaria e per i portatori sani. I diuretici sono usati solitamente a basso dosaggio e per brevi
periodi di trattamento, in particolare nei quadri di linfedema associato a flebedema o altre patologie quali cardiopatie,
nefropatie, ascite, patologie dei vasi chiliferi, ecc. Non rimuovendo la componente proteica interstiziale dell’edema, non
si rivelano etiologici ma esclusivamente sintomatici.
Le proteasi sono in grado di ridurre le macromolecole proteiche interstiziali a macromolecole, più facilmente riassorbibili
e trasportabili dal sistema linfatico. La dieta: in pazienti obesi, la riduzione dell’apporto calorico, in associazione ad un
idoneo programma di attività fisica, ha una sua specifica efficacia nella riduzione del volume dell’arto linfedematoso.
Non è stata dimostrata la validità di un apporto limitato di liquidi. Nelle sindromi con reflusso chioso, una dieta a basso
contenuto di lipidi e con l’assunzione esclusivamente di trigliceridi a catena media (medium chain triglicerides – MCT),
che vengono assorbiti attraverso il circolo portale, non andando a sovraccaricare il sistema dei vasi chiliferi, è risultata
estremamente efficace, anche in età pediatrica. Esiste, pertanto, una vasta gamma di principi terapeutici farmacologici. La
scelta è basata sugli aspetti etiopatogenetici e fisiopatologici di ciascun tipo di linfedema.
Raccomandazioni: A tutt’oggi non esiste un farmaco ideale per il trattamento dei linfedemi .
Grado B
Raccomandazioni: E’ importante utilizzare le diverse metodiche terapeutiche non chirurgiche in modo combinato ed
integrato, a seconda del singolo caso e dello stadio clinico del linfedema, personalizzando il tipo di trattamento in ogni
singolo caso clinico.
Grado B
Trattamento chirurgico
Le tecniche chirurgiche impiegate in passato per la cura dei linfedemi miravano alla riduzione volumetrica degli arti
mediante interventi di tipo demolitivo-resettivo (cutolipofascectomia, linfangectomia totale superficiale, intervento di
Thompson, ecc.). Si trattava, pertanto, di soluzioni di natura sintomatica non etiologiche che, non rimuovevano la causa
dell’ostruzione al flusso linfatico, fornivano una temporanea riduzione dell’edema, attraverso lunghi periodi di degenza
ospedaliera, frequenti infezioni e ritardate guarigioni delle ferite, perdita della sensibilità, edema residuo e ingravescente
della caviglia e del piede, ampie cicatrici retraenti deturpanti. La Linfoliposuzione permette la rimozione di falde
linfatiche con una buona diminuzione del 50% dell’edema ad un anno ed è caratterizzata, rispetto alle altre metodiche,
da una minore invasività.(Gasbarro, 2003).
Gli interventi di tipo fisiologico o derivativo prevedono un ripristino del normale flusso linfatico attraverso la creazione
di anastomosi linfatico-venose, linfatico-venoso-linfatiche, e trapianti di linfatici autologhi con anastomosi linfolinfatica.
L’avvento della chirurgia derivativa ha consentito di studiare e realizzare soluzioni terapeutiche funzionali e causali del
linfedema con lo scopo di drenare il flusso linfatico o di ricostruire le vie linfatiche ove ostruite o mancanti mediante
tecniche fini, riparatrici, intervenendo direttamente sulle strutture linfatiche stesse. Le tecniche microchirurgiche
ricostruttive consentono di ripristinare una continuità di flusso del circolo linfatico, superando la sede del blocco
anastomizzando direttamente i vasi linfatici afferenti ed efferenti o mediante l’impianto di segmenti autologhi linfatici o
venosi tra i collettori a valle e a monte dell’ostacolo. Le indicazioni alle varie tecniche di Microchirurgia Linfatica si
basano sulla presenza di un valido gradiente pressorio linfatico-venoso nell’arto interessato. Nei casi in cui alla patologia
linfostatica si associ un'insufficienza venosa (situazione di prevalente riscontro agli arti inferiori: varici, ipertensione
venosa, incontinenza valvolare), le metodiche derivative sono controindicate, mentre devono essere impiegate le tecniche
microchirurgiche ricostruttive. Le anastomosi linfatico-venose hanno in un primo momento riscontrato gran successo
nell’ambiente linfologico ma la loro efficacia a lungo termine è risultata essere dubbia, in quanto non si riesce a ben
documentare la pervietà a distanza dell’anastomosi, comunque in alcune casistiche il miglioramento ad un anno è stato
del 74% dei casi trattati. (Zhu,1987; Campisi, 1999).
Raccomandazioni: Le procedure microchirurgiche sembrano essere vantaggiose soprattutto negli stadi più precoci della
malattia. L’efficacia a lungo termine delle anastomosi linfatico-venose risulta dipendere essenzialmente dal rigore della
tecnica microchirurgica adottata (indispensabile è l’impiego del microscopio operatore) e dallo stadio della patologia.
Grado B
Raccomandazioni: Attualmente la migliore indicazione per un intervento chirurgico di tipo escissionale è la
compromissione funzionale dell’arto dovuta all’eccessivo linfedema refrattario al trattamento conservativo. I migliori
risultati si sono ottenuti con l’associazione della linfoliposuzione con l’intervento di Homans modificato, benché le
casistiche a livello internazionale siano esigue. Non ci sono studi multicentrici che dimostrino la reale efficacia degli
interventi derivativi. La terapia chirurgica dev’essere eseguita in strutture altamente specializzate con esperienza
specifica. Grado C
QUALITA’ DELLA VITA
Nel nostro paese la maggior parte della terapia del linfedema è affidata alla gestione di diversi operatori medici:
angiologi, medici estetici, fisiatri,chirurghi generali, vascolari, plastici, microchirurghi che sono portati a vedere il
problema ognuno dalla propria angolazione. Ciò produce un confuso approccio terapeutico e quindi una non buona
qualità di vita. Il linfedema primario e, tra i secondari, i linfedemi conseguenti a trattamenti chirurgici per cancro,
soprattutto della mammella, rappresentano delle condizioni di riferimento per comprenderne le ripercussioni sulla qualità
di vita del paziente (Casley-Smith 1997). Recenti indagini in proposito concordano sul fatto che il paziente è più
preoccupato della differenza di volume tra i due arti che non della sintomatologia. (Bross,1999). Inoltre è l’edema della
mano che in maggior misura aggrava psicologicamente la paziente rispetto all’edema dell’intero braccio suscettibile di
essere “nascosto”. Nel corso di linfedema post-mastectomia l’arto gonfio può rappresentare una vera e propria disabilità
sia per movimenti macroscopici come lavarsi, pettinarsi, indossare una camicia, lavare i piatti, sia per azioni più fini
come allacciarsi una collana o scrivere, sia per altre attività od hobbies come stirare, trasportare pesi, praticare il
giardinaggio, etc. La qualità di vita del paziente con linfedema dipende da una diagnosi precoce, dall’informazione e da
una terapia il più adeguata possibile alle sue esigenze. L’assenza di centri dedicati al trattamento del linfedema, la scarsità
delle scuole e dei corsi di preparazione in campo linfologico, l’alto costo delle terapie e la loro durata “ad vitam”e
condizioni specifiche, rappresentate essenzialmente dalla compliance del paziente, rendono difficoltoso perseguire
buoni risultati. E’ possibile affermare che l’approvazione e la consapevolezza del paziente rappresentano circa il 40%
del successo della strategia terapeutica. Il danno estetico (asimmetria degli arti), il danno funzionale (inadeguatezza o
perdita di alcune funzioni ) e l’alterazione della vita di relazione ( imbarazzo nel rapporto col proprio partner o
nell’ambiente di lavoro) rappresentano i cardini della reazione emotiva alla malattia. L’accettazione del trattamento nelle
sue varie proposte rimane a volte un ostacolo per il linfologo: il DLM e la PT sono i trattamenti preferiti nonostante
debbano essere effettuati a cadenza costante; al contrario il bendaggio o la compressione, insostituibili se ben allestiti ed
adeguatamente indossati mal tollerati e mal accettati per l’aggravio estetico, perché costringono il paziente a rendere
evidente la malattia e per la necessità di essere indossati quotidianamente sia durante il riposo che nella pratica di esercizi
specifici (ginnastica decongestionante). Nella compliance del paziente con linfedema riveste un ruolo fondamentale
l’ambiente sociale e familiare che circonda il malato. Il sostegno psicologico e la sollecitazione all’autoterapia da parte
dei parenti devono associarsi alla partecipazione attiva alla cura dell’arto malato (DLM, bendaggio, assistenza alla GD)
da sotto la guida e l’insegnamento del medico linfologo. (Casley-Smith 1986, 1997; Oliva 1996; Alliot 1997; Bross,1999)
Raccomandazioni: La diagnosi di linfedema deve essere il più possibile precoce e considerare i fattori patogenetici che lo
hanno determinato. E’necessario verificare se sianio stati effettuati trattamenti adeguati in precedenza. E’consigliabile
una strategia terapeutica mirata e personalizzata allo stadio clinico e alle esigenze del paziente.Grado B
LINFORRAGIA O LINFORREA
Dopo un trauma, o interventi vascolari ricostruttivi o dopo interventi per patologia neoplastica, può essere inevitabile la
lesione del sistema linfatico. I vasi linfatici, di solito, decorrono paralleli alle corrispondenti arterie e vene e le principali
stazioni linfonodali sono in stretta vicinanza dei vasi principali. Comunque, i linfatici legati o sezionati hanno una
notevole capacità di rigenerarsi e riprendere il normale trasporto della linfa. La lesione linfatica spesso guarisce
spontaneamente e provoca scarsa o nulla morbilità. Al contrario, a volte, l’interruzione dei vasi linfatici durante la
dissezione chirurgica può provocare una fistola linfatica (linforragia) o un linfocele. Data la ricca rete di vasi linfatici
presente a livello del triangolo di Scarpa, all’angolo giugulo-succlavio, al cavo ascellare, la fistola linfatica è proprio in
queste sedi che è più frequente. Importanti fattori favorenti la linforragia sono la mancata legatura o cauterizzazione di
linfatici sezionati ed il mancato avvicinamento degli strati tessutali al momento della chiusura della ferita. La linforragia
si verifica più spesso in pazienti defedati o diabetici, le cui ferite hanno scarso tendenza alla guarigione. Altre possibili
cause sono la mobilizzazione eccessivamente precoce dell’arto, l’infezione dell’arto operato o del piede, il reintervento
ed il posizionamento di una protesi sintetica a livello inguinale (Kalman, 1991).
DIAGNOSI
La fuoriuscita persistente di liquido giallo chiaro da un’incisione o dal punto di inserzione del drenaggio, stabilisce la
diagnosi. Se la fistola si sviluppa entro alcuni giorni o settimane dall’intervento, è raro che sia necessaria una
linfoscintigrafia per confermare che il liquido è di origine linfatica. Se la linforragia si verifica alcuni mesi od anni dopo
la ricostruzione vascolare, la linfoscintigrafia può essere utile. Tuttavia in questi pazienti si devono eseguire la
tomografia computerizzata e la scintigrafia con leucociti marcati per escludere l’infezione di una sottostante protesi
vascolare.
TRATTAMENTO
Una diagnosi ed un trattamento precoci della linforragia sono importanti per evitare lunghi periodi di ospedalizzazione e
ritardo di cicatrizzazione della ferita. Diversi studi hanno inoltre riportato un rischio, ridotto ma certo, di infezione della
ferita da persistente linforragia (Kwaan, 1979). Nei primi giorni in questi pazienti è indicato un trattamento conservativo.
Questo comprende la medicazione locale della ferita, la somministrazione di antibiotici per via sistemica, il bendaggio
compressivo ed il riposo a letto con sollevamento dell’arto per ridurre il flusso linfatico Recentemente è stato proposto
l’uso di somatostatina e octeotride dopo chirurgia oncologica al fine di ridurre la quantità di linfa prodotta e i risultati
ottenuti sono certamente interessanti ( Carcoforo, 2003; Suver, 2004). Altra ipotesi di trattamento e quella proposta da
autori che hanno utilizzato un sistema a pressione negativa con buoni risultati (Abai, 2007). Qualora la fistola continui
ad essere ad alta portata malgrado la terapia conservativa di wound therapy, occorre eseguire la chiusura chirurgica con
copertura mediante flap muscolare (Shermak, 2005).
LINFOCELE
Un linfocele è una raccolta localizzata di linfa. Subito dopo il danno della rete linfatica la linfa si raccoglie tra i piani
tessutali. A meno che non si riassorba spontaneamente o venga drenata attraverso una fistola cutanea, si può sviluppare
una pseudo-capsula. Contrariamente al seroma, un linfocele ha, di solito, una connessione ben definita con uno o più
vasi linfatici. Per questa ragione la linfoscintigrafia può facilmente evidenziare un linfocele.
Linfocele inguinale
Come accade per la fistola linfatica, la sede più frequente del linfocele successivo ad una ricostruzione vascolare è
l’inguine. Molti linfoceli si sviluppano precocemente nel post-operatorio, ma possono rendersi evidenti anche più tardi,
nel follow-up. Linfoceli di ampie dimensioni possono provocare fastidio, dolore ed edema della gamba. La diagnosi
differenziale va posta con l’ematoma, il seroma e l’infezione della ferita. La presenza di una cisti morbida, a contenuto
liquido ed il drenaggio intermittente di linfa chiara attraverso una fistola conferma la diagnosi di linfocele. L’esame
ultrasonografico è utile per distinguere un ematoma denso e solido da un linfocele cistico. Se il linfocele si sviluppa
alcune settimane od alcuni mesi dopo l’intervento è bene eseguire una tomografia computerizzata. Questa è utile per
escludere l’infezione protesica o per identificare un linfocele retroperitoneale esteso all’inguine. Linfoceli di piccole
dimensioni possono essere controllati perché possono riassorbirsi spontaneamente. Qualora questo non avvenisse, i
linfoceli sintomatici possono essere trattati mediante scleroterapia. Nei pazienti con linfoceli sintomatici che tendono ad
aumentare di diemensioni, o in quei pazienti con linfoceli in stretta vicinanza di una protesi sintetica, è consigliabile un
intervento precoce per ridurre il rischio d’infezione protesica. Il linfocele viene escisso ed il peduncolo linfatico viene
legato o suturato a sopraggitto. Utile l’uso di colle di fibrina. La ferita viene chiusa in più strati dopo aver applicato un
drenaggio in aspirazione.
Linfocele retroperitoneale
I linfoceli retroperitoneali sintomatici sono rari. I sintomi più comuni sono la distensione addominale, nausea e dolore
addominale, mentre il reperto più frequente è quello di una massa addominale o localizzata al fianco. Sebbene i segni ed i
sintomi possano svilupparsi precocemente, in quasi la metà dei casi il linfocele viene individuato uno o alcuni giorni
dopo l’intervento. Nei pazienti con segni e sintomi di linfocele retroperitoneale si deve eseguire una tomografia
computerizzata. Frequente risulta una comunicazione tra linfocele inguinale e linfocele retroperitoneale. Se si sospetta
la presenza di un’infezione si deve eseguire anche una scintigrafia con leucociti marcati, a meno che la tomografia
computerizzata non abbia già confermato la presenza d’infezione protesica. La linfoscintigrafia può essere diagnostica
per un linfocele retroperitoneale e dovrebbe fare una diagnosi differenziale con il seroma periprotesico. Tuttavia una
linfoscintigrafia positiva per un linfocele non esclude l’infezione protesica.
In pazienti con un piccolo linfocele retroperitoneale asintomatico è giustificato un controllo con esami ultrasonografici
ripetuti o con una tomografia computerizzata. Se il linfocele aumenta di dimensioni o provoca compressione delle
strutture adiacenti, si esegue un’aspirazione con con ago TC- guidata o eco-guidata e contemporanea scleroterapia con
etanolo o acido acetico(Adani, 2005; Akhan, 2007) . Qualora l’aspirazione ripetuta non ha successo si deve prendere in
considerazione la revisione chirugica.
LINFANGITI
Il sistema linfatico è sempre coinvolto quando si determina un processo flogistico di qualsiasi natura. Esso può essere
sede di flogosi e di propagazione della stessa ed è specificatamente a questi casi che ci si riferisce quando si parla di
linfangiti. Più precisamente la risposta del sistema linfatico deve rappresentare il momento prevalente della
sintomatologia e della propagazione del processo morboso. Esistono forme primitive e secondarie in relazione
all’eziopatogenesi. Clinicamente vengono descritte due forme: linfangiti acute e linfangiti croniche. I germi responsabili
sono vari e spesso in associazione: stafilococchi, streptococchi, pneumococchi, colibacilli etc. Le condizioni favorenti
l’infezione sono costituite da particolari situazioni cutanee e sottocutanee quali ferite, foruncoli, celluliti, dermatiti in
genere, tricofizie, oltre a condizioni generali particolari quali cachessia, deficit immunitari e situazioni
anatomo-funzionali linfatiche particolari.
Linfangiti acute
Le linfangiti acute si distinguono in tre forme: reticolari, tronculari e profonde. -Linfangiti reticolari: (Linfangite
erisipeloide): nella forma reticolare, forma simile all’erisipela, prevale un arrossamento cutaneo diffuso, accompagnato
da edema, dolorabilità alla compressione e comparsa di un reticolo non confluente costituito da vasi linfatici interessati. Il
grado dell’edema risente della conformazione anatomica dell’area interessata dal processo flogistico. L’insorgenza delle
linfangiti reticolari è molto rapida sia come comparsa delle manifestazioni cutanee, accompagnate da stato febbrile ed
ipertermia locale, sia come reattività linfonodale regionale. L’iter del processo flogistico generalmente si compie e quindi
si attenua nell’arco di due settimane. La diagnosi differenziale in modo particolare va fatta con le forme erisipelatoidi in
cui si ha una rezione cutanea più estesa e nettamente demarcata senza una costante reazione linfonodale. -Linfangiti
tronculari: le linfangiti tronculari sono caratterizzate dalla comparsa di strie dermiche di colore rosso, dolenti, rilevate con
decorso rettilineo corrispondente a quello dei collettori linfatici. Anche in queste forme si osserva una reazione
linfonodale satellite precoce e stato febbrile che può assumere carattere intermittente. L’infiltrato flogistico perivasale è
importante e favorisce il progredire della patologia. Complicanze suppurative possono manifestarsi sia localmente, sia
lungo il decorso dei collettori linfatici, sia a distanza come ascessi metastatici. Altre complicanze sono rappresentate da
flebiti, borsiti e linfedemi.
- Linfangiti profonde: le linfangiti profonde sono più rare delle precedenti, soprattutto come forme primitive senza
contemporaneo e concomitante interessamento venoso. Si manifestano con dolore sia spontaneo sia evocato dalla
palpazione lungo il decorso dei fasci vascolari dell’arto interessato, accompagnato da reazioni febbrili di tipo settico.
Anche in queste forme si possono avere complicanze suppurative locali e a distanza. La diagnosi differenziali delle
linfangiti tronculari e delle linfangiti profonde va fatta con le forme tromboflebitiche. Nelle linfangiti è consigliabile il
riposo con arto in scarico senza immobilizzazione. La terapia farmacologia si basa sulla copertura antibiotica
preferibilmente mirata. È consigliabile l’uso di antiflogistici, antiedemigeni, di una attenta e corretta toilette locale e
periferica, oltre a farmaci, quali l’eparina, per la prevenzione di ulteriori complicanze vascolari. La terapia chirurgica è
indicata nelle complicanze purulente più o meno circoscritte, locali e a distanza.
Linfangiti croniche
Le manifestazioni flogistiche croniche a carico del sistema linfatico possono essere sostenute da agenti specifici come ad
esempio il bacillo di Koch o forme parassitarie quale la filaria. Vanno inoltre considerate gli stessi germi, in forma
attenuata, alla base delle linfangiti acute. La sintomatologia preponderante riguarda in genere l’agente causale mentre il
fenomeno linfangitico riveste un ruolo secondario. Va inoltre considerata la tendenza all’alternarsi di fasi quasi silenti ad
episodi acuti, e l’evoluzione clinica obiettiva in quadri molto eterogenei secondo il grado di proliferazione connettivale
più o meno abbondante, e della compromissione del sistema linfatico. La terapia deve essere indirizzata alla rimozione
dell’agente causale, prolungata nel tempo onde evitare recidive per le manifestazioni secondarie cronicizzate,
avvalendosi delle varie terapie fisiche riabilitative, di contenzione elastica e farmacologche. La terapia chirurgica si
limita alle complicanze, alle manifestazioni secondarie costituite dai linfo-flebedemi, e si avvale delle stesse tecniche
utilizzate per i linfedemi.