LINEE GUIDA FLEBOLINFOLOGICHE IN COLLABORAZIONE CON LA SAF-SEZIONE DI FLEBOLOGIA-SICVE, CON IL CIF-COLLEGIO ITALIANO DI FLEBOLOGIA, CON LA SIAPAV-SOCIETA’ ITALIANA DI ANGIOLOGIA E PATOLOGIA VASCOLARE TASK FORCE G.B.AGUS, G.ARPAIA, P.BONADEO, S. CAMILLI, R. DI MITRI, V.GASBARRO, P.ZAMBONI GENERALITA’ CLASSIFICAZIONE CEAP EPIDEMIOLOGIA WORKLOAD DELLA CHIRURGIA VENOSA IN CHIRURGIA VASCOLARE E SETTING ASSISTENZIALE. ANALISI DEI COSTI INSUFFICIENZAVENOSA CRONICA PERCORSI DIAGNOSTICI PRE-INTRA-POST- OPERATORI e MODELLI EMODINAMICI COME GUIDA ALL’INDICAZIONE TERAPEUTICA CHIRURGIA DELL'INSUFFICIENZA VENOSA SUPERFICIALE CHIRURGIA DEL SISTEMA VENOSO PROFONDO CHIRURGIA DELLE COMPLICANZE: ULCERE VENOSE TROMBOSIVENOSESUPERFICIALI VARICORRAGIE COMPRESSIONE ELASTICA SCLEROTERAPIA POST-OPERATORIA O ALTERNATIVA ALLA CHIRURGIA FARMACOTERAPIA PRE-POST-OPERATORIA TRATTAMENTI INCERTI, NON RACCOMANDABILI, SCONSIGLIABILI TROMBOEMBOLISMO VENOSO IL CHIRURGO VASCOLARE COME ESPERTO DI TEV: TVP. TVS. TROMBOSI AXILLO-SUCCLAVIA IL TEV COME RISCHIO DI COMPLICANZA DELLA CHIRURGIA VASCOLARE APPENDICE. PATOLOGIA LINFEDEMI LINFORREA/LINFOCELE LINFANGITE DEI LINFATICI [N.B. MALFORMAZIONI VENOSE OGGETTO DI ALTRA TASK FORCE] «Note per gli utilizzatori» Le decisioni cliniche sul singolo paziente richiedono l’applicazione delle raccomandazioni, fondate sulle migliori prove scientifiche, alla luce dell’esperienza clinica e di tutte le circostanze di contesto. Il documento è stato redatto considerando gli aggiornamenti 2005-2007, partendo dalle Linee Guida italiane flebolinfologiche pubblicate in versione inglese su International Angiology nel 2005 (vol. 24: 107-68). La durata di prevedibile validità, prima di ulteriori aggiornamenti, tiene conto dei periodici Congressi Mondiali dell’Union International de Phlébologie. Di seguito, la qualifica dei singoli componenti della Task-force: Agus GB: Ordinario di chirurgia vascolare e Direttore dell’Istituto di Chirurgia Vascolare e Angiologia dell’Università di Milano. Arpaia G: Responsabile dell’ Ambulatorio di Angiologia Medica e Diagnostica vascolare non Invasiva, Azienda Ospedaliera “Ospedale Civile” di Vimercate, Milano. Bonadeo P: Dirigente Medico Istituto di Chirurgia Vascolare e Angiologia dell’Università di Milano. Camilli S. : Consultant Chirurgia Vascolare, Roma. Di Mitri R: Professore a contratto Scuola di Specializzazione Chirurgia Vascolare-Università di Pisa. Responsabile Istituto Flebologico Italiano-Ferrara. Gasbarro V: Associato di Chirurgia Generale in U.O. di Chirurgia Vascolare dell’ Università di Ferrara Zamboni P: Associato di Chirurgia Generale e Direttore del Centro Malattie Vascolari dell’ Università di Ferrara d. Non sono dichiarati “Conflitti di Interesse”, salvo rimborsi per la partecipazione a simposi, lezioni e conferenze, da aziende farmaceutiche o biomedicali (cfr modalità dichiarative in : Ministero della Salute. Clinical Evidence, Ed. italiana, 2001, n. 1). PREMESSA L’importanza del capitolo flebologico è emersa in tempi relativamente recenti; e tuttora non è valutata appieno da alcuni settori della chirurgia vascolare italiana ferma quasi alla concezione della monopatologia “vene varicose” appartenente al campo della Patologia Chirurgica come da vecchia trattatistica. Viceversa, sia per dati epidemiologici ad elevato impatto socio-economico, sia per più moderne interpretazioni fisiopatologiche correlate al tradizionale concetto di stasi venosa, ma contestualmente alle più recenti vedute sul danno endoteliale, devono essere considerate con attenzione le conseguenze croniche e acute delle flebopatie. Il singolo segno-sintomo “vene varicose” va infatti sostituito con il raggruppamento di patologia oggi definito Insufficienza Venosa Cronica (IVC) con sua propria classificazione internazionale definita CEAP. Questo comprende inoltre una serie di complicanze le cui sequele rimangono un grave problema sanitario: l’ulcerazione cutanea, la varicorragia, le trombosi venose superficiali (TVS) e/o profonde (TVP), la sindrome post-trombotica (SPT). Le TVS, TVP e SPT, a possibile esito di embolia polmonare (EP) costituiscono unitariamente un secondo vasto raggruppamento di patologia definito TromboEmbolismo Venoso (TEV). Le malformazioni venose sono una circoscritta componente della Flebologia, ricompresa in queste L-G nel più ampio capitolo delle Malformazioni vascolari. Infine, non deve essere dimenticato il piccolo capitolo della Linfologia perché se numericamente minore, tale non è dal punto di vista dell’impatto sul malato e sul difficile management. Sono questi tutti campi di azione dell’angiologo e del chirurgo vascolare; o anche specialista definibile flebologo, nella misura in cui sia più esperto cultore della materia. CLASSIFICAZIONE L’ IVC ha sofferto in passato per la mancanza di precisione nella diagnosi che ha procurato dati contrastanti negli studi sul trattamento di specifiche patologie venose (Widmer, 1978 1 e 2). E’ acquisito oggi che queste divergenze possano essere risolte da una precisa diagnosi e classificazione relativamente ad ogni arto affetto, prima di procedere al trattamento terapeutico. A tale scopo, l'utilizzazione di una singola classificazione universale facilita la comunicazione sull’ IVC e serve da fondamento per una analisi più precisa e scientifica dei trattamenti alternativi (Antignani, 2001). Nel Febbraio 1994 una commissione internazionale dell' American Venous Forum (AVF), istituita appositamente, si è interessata a queste problematiche in occasione di un meeting organizzato dalla Straub Foundation in Maui, Hawaii, Usa. Questa commissione mise a punto un Consensus Document per la classificazione e la stadiazione dell’ IVC chiamata classificazione CEAP perché basata sulle manifestazioni cliniche (C), sui fattori eziologici (E), la distribuzione anatomica (A), le condizioni fisio-patologiche (P). Lo scopo fu quello di fornire una classificazione obiettiva ed esauriente che potesse essere utilizzata in tutto il mondo (Porter, 1985; Myers, 1995; Kistner, 1996; Labropoulos, 1997). La classificazione CEAP è stata pubblicata in 25 riviste e testi in 8 lingue. Tabella 1 Tabella 3 Classificazione anatomica Oggi nella maggior parte delle pubblicazioni in Flebologia è in uso la classificazione CEAP. La necessità di ampliarla e modificarla in seguito alle nuove conoscenze che vengono man mano acquisite in campo flebologico ha portato a successive revisioni parziali. Nel 2000 sono stati pubblicate due modifiche della classificazione CEAP. Un apposito comitato dell'AVF ha presentato un nuovo sistema di valutazione delle malattie venose secondo la loro severità (Rutherford, 2000) ed una Consensus Conference internazionale a Parigi ha proposto una nuova classificazione per le varici recidive dopo interventi chirurgici (Perrin, 2000). Sulla scorta di tali osservazioni è stata organizzata una Consensus Conference sulla ridefinizione della "C" in CEAP durante il 14° Congresso Mondiale della UIP, tenutosi a Roma nei giorni 8-14 Settembre 2001 (Antignani et al, 2001) . I risultati di tale lavoro relativi alla definizione dei termini di comune uso nella CEAP sono riportati nella tabella 4 , che segue. Le definizioni sono essenziali per un corretto e uniforme linguaggio “flebologico” (Allegra, 2003). Riguardo la classificazione CEAP, la classe 4 venne suddivisa in due parti: C4a, comprendente la pigmentazione e l’eczema, e la classe C4b, con lipodermatosclerosi e atrofia bianca, allo scopo di definire più correttamente la severità delle alterazioni trofiche considerando che i segni della classe C4b sono predittivi dello sviluppo di ulcere (Allegra, 2003). Ulteriori contributi hanno proposto di ridefinire i quadri che sottendono la vecchia definizione di varici; e finanche opportuno di distinguere il termine disease da disorder. La terminologia anglosassone di chronic venous disorder permette infatti di includere un più ampio spettro di alterazioni morfologiche e funzionali del sistema venoso, dalle teleangectasie alle ulcere venose, le prime delle quali non sempre risultano malattia-disease, pur presenti frequentemente nella popolazione adulta sana. Il termine insufficiency, peraltro ormai consolidatosi nel tempo, implicherebbe alterazioni funzionali più severe comprendenti l’ edema, le distrofie cutanee e le ulcerazioni (Eklof, 2004) Tabella 4 DEFINIZIONE DEI TERMINI CLINICI DELL’ IVC TELEANGECTASIA Confluenza di venule intradermiche permanentemente dilatate di meno di 1 mm di calibro. Spiegazione: esse dovrebbero essere normalmente visibili da una distanza di 2 metri in buone condizioni di luce. Sinonimi: “spider veins”, “hyphen webs”, “thread veins” VENE RETICOLARI Vene intradermiche bluastre permanentemente dilatate solitamente di diametro da 1 mm a meno di 3 mm. Spiegazione: sono di solito tortuose. Questo esclude vene visibili "normali" nei soggetti con cute trasparente. Sinonimi: vene blu, varici intradermiche, venulectasie. VENE VARICOSE Vene sottocutanee permanentemente dilatate, di 3 mm di diametro o più, in posizione eretta. Spiegazione: le vene varicose sono solitamente tortuose ma anche le vene rettilinee con reflusso possono essere classificate come varicose. Possono essere vene varicose tronculari, tributarie o non safeniche. Sinonimi: varice, varici, varicosità. CORONA FLEBECTASICA Teleangectasie intradermiche a ventaglio localizzate nelle regione laterale e mediale del piede. Spiegazione: il significato e la localizzazione sono controverse e richiedono alcune considerazioni. A volte potrebbe rappresentare il segno iniziale di malattie venose in stadio avanzato. In alternativa si può riscontrare negli arti che presentano semplici teleangectasie in altre sedi. Sinonimi: “flare” malleolare, “flare” della caviglia. EDEMA Incremento percepibile del volume del fluido nel tessuto sottocutaneo identificato dalla formazione di una impronta sotto pressione. Spiegazione: questa definizione include solo l'edema attribuibile alla malattia venosa. L'edema venoso si manifesta di solito nella regione della caviglia ma può estendersi al piede e alla gamba. PIGMENTAZIONE Scurimento pigmentato brunastro della cute che si riscontra di solito nella regione della caviglia ma che può estendersi al piede ed alla gamba. Spiegazione: è una modificazione iniziale della cute. ECZEMA Eruzione eritematosa, vescicolare, essudativa o desquamativa della cute della gamba. Spiegazione: è spesso localizzato vicino a vene varicose, ma può essere riscontrato in qualsiasi zona della gamba. Talvolta può estendersi a tutto il corpo. L'eczema è di solito dovuto a malattie venose croniche e/o alla sensibilizzazione a terapie locali. Sinonimi: dermatite da stasi. LIPODERMATOSCLEROSI Indurimento cronico della cute localizzato, talvolta associato a cicatrizzazione e/o contrattura Spiegazione: è un segno di malattia venosa severa, caratterizzata da infiammazione cronica e fibrosi della cute, del tessuto sottocutaneo e talvolta della fascia. IPODERMITE L'ipodermite viene riferita ad una forma acuta di lipodermatosclerosi. E' caratterizzata da fragilità e diffuso arrossamento della cute dovuto ad infiammazione acuta. Spiegazione: L'assenza di linfoadenite e di febbre differenzia questa condizione dalla erisipela o cellulite. ATROPHIE BLANCHE O ATROFIA BIANCA Area biancastra e atrofica, circoscritta spesso circolare della cute circondata da chiazze di capillari dilatati e talvolta iperpigmentazione. Spiegazione: è un segno di malattia venosa severa. Lesioni cicatriziali di ulcere guarite sono escluse in questa definizione. ULCERE VENOSE Alterazioni croniche della cute che non riescono a guarire spontaneamente, causate da malattie venose croniche. EPIDEMIOLOGIA L’ IVC costituisce una condizione clinica assai rilevante sia dal punto di vista epidemiologico sia per le importanti ripercussioni socio-economiche che ne derivano. Nei Paesi occidentali sono ben note le conseguenze della sua elevata prevalenza, i costi dell’iter diagnostico e del programma terapeutico, le significative perdite in ore lavorative e le ripercussioni sulla qualità di vita (Int TaskForce, 1999; Department, 2003; Carpentier, 2004; Bergan, 2006; Campbell, 2006). La prevalenza attuale dell’IVC a carico degli arti inferiori è del 10-50% nella popolazione adulta maschile e del 50-55% in quella femminile. La malattia varicosa è presente, clinicamente manifesta, nel 10-33% delle donne e nel 10-20% dei maschi adulti (Callam, 1987; Consensus Circulation, 2000; Callam, 1994; Cesarone, 1997; Wienert, 1992; Antignani, 2005). Fra i diversi studi epidemiologici, ai fini di fornire dati di incidenza pura, appaiono di notevole interesse speculativo quelli prospettici. Pochi sono in realtà dedicati all’IVC. Il più citato è il Framingham in cui l’incidenza di varici (comparsa di nuovi casi nell’unità di tempo) è del 2.6% nella donna e dell’1.9% nell’uomo per anno; a due anni le varici colpiscono rispettivamente 39/1000 uomini e 52/1000 donne (Brand, 1998). La correlazione fra prevalenza di varici e età è quasi lineare: il 7-35% e il 20-60% rispettivamente degli uomini e delle donne fra i 35 e i 40 anni; dal 15 al 55% degli uomini e dal 40 al 78% delle donne oltre i 60. Le flebopatie e le varici sono rare nei bambini e negli adolescenti. Tuttavia bambini con familiarità positiva per varici possono sviluppare vene ectasiche ed incontinenti già nell’adolescenza (Consensus Circulation, 2000; Wienert, 1992; Canonico, 1998). Notevoli variazioni circa la prevalenza di varici si osservano negli studi epidemiologici condotti in differenti aree geografiche (Wienert, 1992; Subramanian, 2007; Sam,2007). La trasmissibilità ereditaria dei disturbi venosi è discussa. L’incidenza di varici in persone con o senza fattori ereditari trasmissibili varia dal 44 al 65% in presenza dei suddetti fattori vs il 27-53% in loro assenza (Wienert, 1992). Una predisposizione familiare coesiste nell’85% dei portatori di varici vs il 22% di pazienti senza antecedenti (Scott, 1995). Tuttavia se molti studi dimostrano una “eredità verticale” nessuno al momento ne rivela una “orizzontale” che potrebbe spiegare un modello genetico. L’IVC colpisce prevalentemente il sesso femminile fino alla quinta-sesta decade, successivamente non si notano significative differenza fra i sessi. Globalmente gli studi epidemiologici evidenziano un rapporto uomo/donna di 1:2-3 sebbene l’importante studio di Basilea di Widmer (Widmer, 1978 II) dimostri un rapporto di 1:1. Probabilmente influiscono le differenti metodiche di studio (Wienert, 1992). Numerosi studi epidemiologici correlano l’incidenza delle varici con la gravidanza e con il numero dei parti. Esse variano dal 10 al 63% in donne con figli versus 4-26% in nullipare. Da 1 a 5 gravidanze comportano un’incidenza di malattia varicosa dell’11-42% con progressione lineare con l’aumento dei parti. La correlazione è ancora più evidente se la donna è già affetta da disturbi venosi. Tuttavia non mancano studi che dissentono negando una relazione fra incidenza di varici e numero di gravidanze (Wienert, 1992). La relazione fra varici e peso corporeo è stata esaminata da vari autori. Persone in sovrappeso, specie se di sesso femminile e abitanti in aree civilizzate, soffrono maggiormente di IVC e di malattia varicosa rispetto a soggetti di peso normale, dal 25 ad oltre il 70% (in entrambi i sessi) vs il 16-45% (Wienert, 1992). Le varici si manifestano abitualmente ad entrambi gli arti inferiori, dal 39 al 76% dei casi (Wienert, 1992). L’ipertensione, il fumo di sigaretta, la stipsi non si sono rivelati fattori di rischio statisticamente significativi e correlabili all’IVC. È ampiamente riconosciuto che alcune occupazioni, particolarmente quelle che obbligano ad un prolungato ortostatismo, si associno con maggiore prevalenza di varici anche se una tale correlazione è estremamente difficile da dimostrare sul piano statistico (Callam, 1994; Hobson, 1997). Si è esaminata l’incidenza di varici in soggetti occupati in varie professioni, particolarmente in lavoratori dell’industria. Una positiva associazione tra la stazione eretta e le varici è dimostrata da più autori (Wienert, 1992; Lorenzi, 1986). Risulta inoltre influente la temperatura del luogo di lavoro (Hobson, 1987). I molteplici ed indipendenti indicatori di rischio per la comparsa di varici suggeriscono come una reale prevenzione delle varici sia difficile su singoli indicatori epidemiologici (Fowkes, 2001; Laurikka, 2002). L’edema e la comparsa di lesioni trofiche, l’iperpigmetazione e l’eczema, espressioni di IVC CEAP 4-6 variano dal 3 all’11% della popolazione. Lo sviluppo di nuovi sintomi/anno è circa l’1% per l’edema e lo 0.8% per modeste dermopatie (Consensus Circulation, 2000). D’altra parte sono stati condotti studi epidemiologici che hanno correlato la presenza di sintomi legati all’IVC senza segni obiettivabili corrispondenti alla classe C0 della classificazione CEAP (Allegra, 2006; Antignani, 2005; Langer, 2005) nell’ambito di un più approfondito esame della classe C (Carpentier, 2003) Ulcere venose (U.V.) in fase attiva si ritrovano in circa lo 0.3% della popolazione adulta occidentale e la prevalenza globale di ulcere attive e guarite si attesta sull’1% con sconfinamento oltre il 3% negli ultrasettantenni (Ruckley, 2000; Pina, 2007; MacKenzie, 2003). La guarigione delle U.V. può essere ritardata od ostacolata dall’appartenenza dei pazienti a classi sociali medio-basse. La prognosi delle U.V. è poco favorevole tendendo esse a guarire in tempi lunghi e a recidivare con grande facilità. Il 50-75% ripara in 4-6 mesi mentre il 20% resta aperto a 24 mesi e l’8% a 5 anni. Se in età lavorativa, il 12.5% dei pazienti ha registrato un prepensionamento (Consensus Circulation, 2000; Int TaskForce, 1999; The Alexander House, 1992; Nelzen, 2000; Moffatt, 2006). WORKLOAD DELLA CHIRURGIA VENOSA IN CHIRURGIA VASCOLARE E SETTING ASSISTENZIALE. ANALISI DEI COSTI L’importanza della chirurgia delle varici nei sistemi sanitari occidentali è data dalla frequenza della domanda. Si calcola in generale un fabbisogno di 80.000 interventi nel Regno Unito (MacKenzie, 2002 I), 200 per 100.000 abitanti in Finlandia (Laurikka, 2002), fino a circa 120.000 interventi per anno in Italia (dati dal sistema DRG e stima approssimativa della flebologia privata) e 200.000 per anno in Francia (Banhini, 1998). Il trattamento dell’ IVC inoltre, vede oggi un interesse dilatato all’intero arco dell’anno, sia per le variazioni climatiche o microclimatiche da un lato, sia per le nuove conoscenze sulla cronobiologia. Era noto il maggior impegno flebologico nelle stagioni calde ed era stato ipotizzato il rafforzamento delle “vein clinics” anglosassoni in tali stagioni. Tuttavia , da uno studio inglese (Cook, 1995) e dallo studio austriaco SERMO (Schmeiser-Rieder, 1998), confermati in un’esperienza italiana (Agus, 2000), emerge come non vi siano differenze né sintomatologiche né nella decisione di farsi trattare, da parte di differenti gruppi omogenei di pazienti sottoposti a questionario in due diversi periodi dell'anno Le variazioni climatiche in atto – caldi improvvisi in stagioni considerate fredde e viceversa -, e le variazioni microclimatiche – ambienti abitativi o di lavoro surriscaldati d’inverno, lunghi trasferimenti in auto con riscaldamento diretto alle gambe, e viceversa più diffusa vita in ambienti climatizzati con aria condizionata e congrui periodi di vacanza in estate – motivano il dilatarsi del carico di lavoro delle malattie venose croniche. Dalla cronobiologia e cronoepidemiologia ci arrivano inoltre segnali di maggior incidenza di eventi venosi acuti, con insorgenza di trombosi venose più elevata in inverno (gennaio-febbraio), forse correlata ad aspetti metereologici come la pressione atmosferica più bassa (Esquenet, 1997), o più probabilmente emoreologici, comuni anche agli altri due più frequenti eventi cardiovascolari, l’infarto e l’ictus (Manfredini, 1995). La chirurgia del sistema venoso superficiale è dunque responsabile di un notevole carico di lavoro per le strutture operative di chirurgia generale e vascolare e produce liste di attesa ancora oggi significativamente lunghe (Jaffe, 1991; Whiteley, 1996; Harris, 2006; Michaels, 2006; Koh, 2007). Dai dati resi noti dal Ministero della Salute in base alla elaborazione delle SDO (ultimo anno elaborato statisticamente il 2004) e dal Registro SICVE (anno 2005) si evince che il totale degli interventi (DRG 119) eseguiti in Italia per le varici degli arti inferiori, è di 116.013 (di cui 64.736 in regime di DS e 51.277 in regime di RO)(Tabella 5). Tabella 5 - Dati statistici tratti dal sito Web del Ministero della Salute, DRG selezionato: 119 LEGATURA E STRIPPING DI VENE Regime ordinario Riepilogo nazionale Anno 2004 Legenda tipo istituto AO/GD: Aziende ospedaliere e Ospedali a gestione diretta POL/IRCCS/CLASS/ALTRI: Policlinici Universitari, Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, Ospedali classificati, Istituti sanitari privati qualificati presidio USL, Enti di ricerca CC ACCR: Case di cura private accreditate CC N-ACCR: Case di cura private non accreditate Regime ordinario Riepilogo nazionale Anno 2004 Va segnalato che patologia varicosa è ricompresa anche in codificazioni diverse dal DRG 119, per tipologia di intervento chirurgico; o per patologia, come nel caso del trattamento delle ulcere. Su 116.013 interventi del DRG 119 solo 8.535 (pari al lo 0,8% circa) sono stati eseguiti da U.O. di Chirurgia Vascolare con un trend degli stessi in diminuizione rispetto al numero di casi eseguiti gli anni precedenti ( pur essendo aumentato il numero dei centri partecipanti al Registro stesso, SICVEREG). Nonostante tale dato, la patologia venosa rappresenta il 32,6% dell’attività chirurgica totale delle U.O. di Chirurgia Vascolare in Italia, mentre il 61,6% è rappresentato da patologie arteriose; il 3,7% dalle complicanze; l’1,9% dalle patologie artero-venose; e vicino allo 0% la patologia chirurgica dei linfatici. L’analisi di tali dati, distribuiti per Regioni, evidenzia inoltre che circa 3.577 interventi (sempre il solo DRG 119) pari al 41% degli stessi è stato eseguito in una unica Regione: la Lombardia. Per sfatare una convinzione molto diffusa nell’ambiente dei Chirurghi Vascolari , in Italia solo lo 0,7% degli interventi (DRG 119) viene eseguito in regime privatistico . Nella stragande maggioranza dei casi infatti tale intervento viene eseguito in strutture Pubbliche: Ospedali e Università per il 45% e strutture private accreditate nel 55%. E’ evidente quindi che tale patologia pur essendo di dirito compresa fra le prestazioni specialistiche di chirurgia vascolare viene in realta’ eseguita da altri specialisti e il trend è in netto peggioramento . Se a questi dati di semplice natura statistica si aggiungono quelli derivanti dal fatto che una chirurgia “inadeguata” sembra essere responsabile di molti casi di recidiva, nonostante una tecnica chirurgica esente da errori (van Rij,1998; Allegra, 2007), anche se non è ben definibile che cosa si debba intendere per chirurgia adeguata, o appropriata, e inadeguata , o non-appropriata (Jantet, 2000), si può immaginare a quale tipo di considerazioni si può giungere. Analogamente a quanto fatto in passato per la chirurgia arteriosa (Jibawi, 2006) dove si è dimostrato che i migliori risultati si ottengono solo in centri qualificati, alcuni lavori scientifici sembrano confermare gli stessi esiti per la chirurgia flebologica. Resta naturalmente da stabilire quali debbano essere i centri qualificati per professionalità, tecnologia e organizzazione in Flebologia in Italia . Raccomandazioni: La chirurgia flebologica è di diritto una branca della Chirurgia Vascolare, ma con eccellenze al di fuori di questa per numeri e qualità. La Chirurgia Vascolare dovrebbe maggiormente impegnarsi al fine di incidere nei processi di adeguatezza nei percorsi clinico-assistenziali Grado B IV Setting Assistenziale La possibilità clinica, organizzativa ed amministrativa ad effettuare interventi chirurgici o anche procedure diagnostiche e/o terapeutiche invasive e semiinvasive, praticabili senza ricovero e senza necessità di osservazione post-operatoria, in studi medici, ambulatori o strutture protette, in anestesia locale e/o loco-regionale, è sottoposta oggi in Italia a codifica normativa e legislativa attraverso i LEA (G.U. Repubblica Italiana, Febbraio 2002), onde differenziare i tre possibili regimi di effettuazione della chirurgia delle varici: ambulatoriale (A) ; day-surgery (DS); ricovero ordinario (RO) . I Protocolli di Valutazione Appropriatezza (PVA) sono strumenti discendenti dall’ originario protocollo Appropriateness Evaluation Protocol (AEP) per la valutazione di appropriatezza di utilizzo, sviluppato da Gertman e Restuccia nel 1981 (Gertman, 1981). AEP rappresenta il metodo più ampiamente verificato , validato ed usato nei programmi di gestione negli ospedali USA fin dai primi anni 80. Successivamente, un gruppo di lavoro formato da sette Paesi europei (Austria, Francia, Italia, Portogallo, Spagna, Svizzera, Regno Unito) ha verificato, aggiornato e validato il protocollo AEP da cui deriva una versione europea (Lang, 1999). Una versione italiana, chiamata Protocollo di Revisione Utilizzo Ospedale (PRUO), viene impiegata in diverse Regioni italiane (Ufficio MCQ, 2001; Restuccia, 2002). Il PRUO è caratterizzato da aggiunte di sezioni specifiche mirate ad identificare le ragioni di ammissione e degenza non appropriate. Moduli specifici sono necessari per identificare l’ appropriatezza del Ricovero Ordinario piuttosto che in Day Surgery o prestazione Ambulatoriale . I criteri utilizzati per la determinazione del livello assistenziale si dividono in quattro categorie : Comorbilità (presenza di problemi medici concorrenti che pongono il paziente in una situazione di rischio speciale, indipendentemente dal tipo di intervento chirurgico); Complicazioni (la possibilità di insorgenza nel post-operatorio , considerata durata dell’ intervento uguale o superiore a 60 minuti, fattori sociali quali paziente che viva da solo o con indisponibilità ad uso di mezzi di trasporto, grande distanza dalla struttura sanitaria,ecc); Cure intensive (eventuali necessità nel post-operatorio); Criteri straordinari (override) Dalla analisi di questi dati e con questi strumenti è emerso, in questi ultimi anni il concetto di inappropriatezza, nell’ambito dei LEA , del DRG 119 in termini di setting assistenziale. In sostanza l’analisi dei dati statistici elaborati dal Ministero della Salute italiano evidenziano come ancora troppi interventi di questo tipo vengono eseguiti in RO laddove sarebbe più appropriato in termini di governance il ricorso alla DS (Tabella 6 ). La DS sembra oggi , quindi,la più adatta alla maggioranza degli interventi chirurgici per varici, a patto di seguire criteri selettivi precisi: a) la durata delle prestazioni in regime di DS deve essere preferibilmente contenuta entro un’ora; b) i pazienti da avviare a tale regime debbono essere opportunamente selezionati e debbono essere preventivamente informati sul tipo di intervento e/o di trattamento al quale saranno sottoposti, sottoscrivendo un consenso informato personalizzato. Attualmente è dimostrata una soddisfazione dei pazienti alla DS molto vasta, anche se essa non è gradita in percentuali vicine al 25% (Forsdahl, 1997; Campbell, 1998; Balzer, 2001; Sweeney, 2002); c) la selezione deve tener conto delle condizioni generali del paziente e dei fattori logistici e d) familiari;i pazienti che afferiscono ai programmi di chirurgia ambulatoriale e di DS devono essere in buone condizioni generali. I candidati ideali sono quelli classificati nelle classi ASA 1 ed ASA 2. Le urgenze chirurgiche sono escluse dal trattamento secondo tal regimi assistenziali; e) sono applicabili criteri di selezione in base ad età e peso. Con possibili eccezioni l’età massima indicativa è di 75 anni. L’obesità è un fattore di rischio di notevole importanza e tale condizione deve essere attentamente valutata; f) relativamente alla situazione logistica, è preferibile che il luogo di residenza del paziente non sia lontano dalla struttura dove viene praticata la prestazione per consentire un tempestivo intervento in caso di necessità e comunque il tempo di percorrenza dovrebbe essere preferibilmente compreso entro un’ora di viaggio. Ulteriore requisito è rappresentato dalla sicurezza di poter comunicare telefonicamente con la struttura di riferimento; g) tutti i pazienti debbono essere assistiti durante il ricovero da un familiare o persona di fiducia responsabile, opportunamente istruito, in grado di accompagnare a casa il paziente e fornire tutta l’assistenza necessaria, soprattutto nelle prime 24 ore dall’intervento chirurgico; h) la scelta di intervenire in un regime piuttosto che in un altro resta esclusiva responsabilità del medico, il quale potrà scegliere in assoluta libertà, nel rispetto del consenso informato del paziente, basandosi sui principi di scienza e coscienza su cui da sempre si fonda la facoltà di curare; i) la scelta del regime di ricovero più opportuno sarà guidata dall’accertamento delle condizioni cliniche e psicologiche del paziente. Molte delle patologia trattabili in regime ambulatoriale, se di maggiore estensione o complicate, dovranno essere trattate in regime di DS o addirittura in regime di RO; j) si precisa da ultimo che, se un tipo di intervento compare nell’elenco delle prestazioni eseguibili in DS, ciò non deve costituire alcun obbligo ad eseguire il trattamento indicato secondo tale regime assistenziale. k) L’analisi statistica del Ministero della Salute italiano per l’anno 2004 (non esistono dati ufficiali più recenti) evidenzia un trend in miglioramento verso forme di assistenza sanitaria più snelle . In particolare se partiamo dai dati generali si evince che su 12.979.409 ricoveri in totale , 9.096.392 sono stati ordinari (circa 70%) mentre 3.883.017 Day Hospital (circa il 30%) . Tali dati sono ben lontani da quelli ottenuti da altre esperienze come quella USA, dove la percentuale dei ricoveri in Day Hospital raggiunge quasi il 50%, ma testimoniano un trend comunque in miglioramento. Tabella 6 - Dati statistici tratti dal sito Web del Ministero della Salute, DRG selezionato119 LEGATURA E STRIPPING DI VENE Riepilogo regionale Anno 2004 Ricoveri DS Ricoveri Ordinari Se prendiamo in considerazione , più specificatamente i dati disponibili sul DRG 119 si documenta che in quell’anno sono stati eseguiti 116.013 interventi chirurgici , di cui 51.277 (circa il 44%) in RO con una degenza media di 1.90 giorni e 64.736 (55%) in regime di DS con una degenza media di 1.67 giorni. Sicuramente la elaborazione dei dati statistici di questi ultimissimi anni dimostreranno un ulteriore spostamento verso i ricoveri in DS. La tabella 6 (tratta dai dati statistici del Ministero della Salute italiana ) ci offre la possibilità di ulteriori osservazioni: le strutture che hanno recepito meglio lo spostamento del setting assistenziale verso le forme più semplici sono state le strutture private o private accreditate nelle quali la degenza media risulta più bassa rispetto alle altre strutture; solo una quota irrilevante sul totale di questi interventi viene eseguito in regime privatistico, contrariamente alla sensazione comune, per lo 0,07% e solo meno della metà degli interventi viene eseguita in strutture private accreditate. In sostanza questo è un intervento che continua ad essere eseguito prevalentemente in Ospedale o comunque in strutture pubbliche; l’analisi dei dati suddivisi per Regione ci indica come le Regioni del Centro-Nord si sono adeguate meglio è più prontamente, al cambiamento del setting assistenziale, preferendo la DS rispetto al RO, rispetto alle regioni del Centro-Sud e che la degenza media rimane comunque in assoluto più alta in queste regioni rispetto alle prime; -un dato in controtendenza, rispetto ai dati epidemiologici, ci dice inoltre che vengono eseguiti molti più interventi di questo tipo al Centro-Nord rispetto al Centro-Sud evidenziando che esiste ancora un problema di mobilità dei pazienti anche per patologie minori. Lontano dal voler dare delle interpretazioni sommarie all’analisi dei dati, gli stessi però devono farci riflettere sul fatto che in termini di revisione degli standard organizzativi, di remunerazione delle prestazioni , ancora bisogna lavorare alacremente, al fine di eliminare discriminazioni regionali che non hanno più motivo di esistere. Negli ultimi anni si è evidenziato che lo sviluppo della pratica medica e del management ospedaliero nonché la disponibilità di nuove tecnologie sanitarie consentono l'erogazione, in regime ambulatoriale, in totale sicurezza per il paziente e per l'operatore, di una nuova prestazione, affine e alternativa alla precedente, effettuata per via endovascolare con l'utilizzo di tecniche sofisticate (quali il Laser o la Radiofrequenza). Tale possibilità tecnica si è in alcuni casi trasformata , per alcune amministrazioni Regionali, in una occasione per ritoccare le remunerazioni senza che si stabilissero dei criteri oggettivi di tipo organizzativo. L’ambulatorialità è infatti un modello organizzativo più semplice rispetto al RO e alla DS che prescinde dal luogo di esecuzione della prestazione stessa. In sostanza il SSN italiano non è ancora pronto a recepire modelli puramente ambulatoriali (office) quali esistono in altri paesi Europei e negli USA. In Italia al massimo si può accettare il modello di ambulatorialità chirurgica cosidetta protetta cioé eseguita in ambito ospedaliero, ma con setting assistenziale semplificato. In sostanza mentre ancora si cerca di ridurre il numero di RO , dall’altra si introduce la possibilità teorica e pratica di poter erogare la medesima prestazione anche in regime ambulatoriale. Purtroppo mentre per i RO e per quelli in DS sono ormai noti i criteri di selezione universalmente accettati in Italia, per le prestazioni ambulatoriali si rimanda ai requisiti tecnico-amministrativi che ogni Regione adotta per prestazioni ambulatoriali (ma che fanno riferimento alle tradizionali prestazioni ambulatoriali quali quelle di endoscopia, odontoiatriche, ecc e non prendono in considerazione la chirurgia flebologica con le sue numerose varianti di tecniche possibili). In Regioni quali il Veneto, ad esempio con Delibera della Giunta Regionale n°2468 del 1° agosto 2006, si apportavano modifiche e aggiornamento delle tariffe al nomenclatore tariffario per le prestazioni ambulatoriali comprendendo gli interventi per varici degli arti inferiori. In tale Delibera si procedeva a dare anche delle indicazioni più specifiche nel senso che venivano prefissate le percentuali per le tipologie del setting assistenziale, aggiungendo che le procedure endovascolari si dovevano intendere solo procedure con setting assistenziale ambulatoriale a cui ovviamente veniva attribuita una remunerazione più bassa e inadeguata per costo-beneficio complessivo . Al fine di non creare confusione possiamo concludere che il setting ambulatoriale per il trattamento chirurgico delle varici degli arti inferiori si presta bene per le tecniche endovascolari ed esistendo un precedente normativo (Regione Veneto) può considerarsi lecita l’ organizzazione di un tale setting . Per la chirurgia standard (stripping) si può ipotizzare la possibilità di un setting assistenziale ambulatoriale analogo, con requisiti tecnici e organizzativi che ogni Regione deve prime rivedere e codificare e non soltanto dal punto di vista prettamente economico, ma stabilendo quelle regole di comportamento e di sicurezza che non devono mancare anche in una visione di setting semplificato che non può peraltro non avere come protagonista della governance dello stesso il medico specialista. Raccomandazioni: Il setting assistenziale più appropriato per l trattamento chirurgico delle varici degli arti inferiori è rappresentato dalla DS. Grado A Ib La DS dovrebbe essere eseguita in Unità Operative dedicate o Free Stand Unit Grado B III Il trattamento endovascolare delle varici può prevedere un setting assistenziale proprio, laddove le Regioni abbiano provveduto a elaborare criteri di selezione e appropriatezza specifica, congiuntamente agli specialisti. Grado B Ib ANALISI DEI COSTI L’IVC rappresenta un notevole onere per i servizi di prestazione di salute ed un’importante fonte di costo per la società (Ruckley, 1997). Il numero di ore lavorative perse per IVC ogni anno in Inghilterra e Galles è pari a circa 500.000 mentre negli USA (dove 25.000.000 di persone sono portatori di varici, 2.500.000 di IVC e 500.000 di ulcere venose attive) è di 2.000.000. Dati desunti dal servizio sanitario pubblico brasiliano dimostrano che fra le 50 malattie più frequentemente citate come causa di assenteismo dal lavoro e regolarmente riconosciute sul piano finanziario col rimborso, l’IVC è al a 14° posto essendo la 32 causa di inabilità permanente (Consensus, 2000). I costi annuali per la gestione dell’IVC, sicuramente in difetto, sono stimati in 290 milioni di Sterline, 2.241.000.000 di € in Francia, 1.237.326.000 di € in Germania, 845.956.400 di € in Italia e 103.614.400 di € in Spagna. Inoltre viene stimato che per i principali Paesi europei la Comunità Europea stanzi l’1.5-2% dell’intero budget sanitario del 1992 esulando dai cosi indiretti dovuti all’invalidità (Intern Task Force, 1999; Ruckley, 1997 ). Il costo annuale per la cura delle U.V. in UK è di circa 400-600.000.000 di Sterline (40.000.000 per il solo materiale di medicazione), oltre 1 bilione di Dollari negli USA (300.000.000 di Dollari solo per le cure domiciliari), 204.520.000 € in Germania e 32.940.000 di € in Svezia mentre in Francia il trattamento di un’ulcera comporta una spesa media di 36.000 € all’anno (Consensus, 2000). In Italia si effettuano circa 291.000 visite/anno per lesioni ulcerative con prescrizioni nel 95% dei casi e onere pari a 125.499.026 € all’anno (IMS, 1997). Complessivamente il costo diretto ed indiretto dell’IVC è di circa 1.000 miliardi di € per ogni Stato europeo di cui si disponga di maggiori dati (UK, Francia, Germania) (Consensus, 2000;, Nel zen, 2000). Sistema DRG e tendenze nella remunerazione della chirurgia venosa I DRG nascono in ambiente accademico nella seconda metà degli anni '70. Lo stato americano del New Jersey, preoccupato dell' enorme variabilità dei costi da ospedale ad ospedale, anche per il trattamento di casi simili, commissionò all' Università di Yale una ricerca per mettere a punto un sistema di controllo dell' efficienza degli ospedali. A seguito della legge di riforma 502/517 del 1992/93, si decise nel 1994 anche in Italia di adottare la decima versione dei DRG (HCFA-DRG-10.0) per il pagamento a prestazione dei ricoveri ospedalieri. Per comprendere meglio pero’ il funzionamento e la complessita’ e diversita’ dei calcoli in base ai DRG è necessario conoscere ulteriori dettagli. Come noto, per ogni DRG esiste un valore di soglia, espresso in giornate, che esprime il valore oltre il quale un caso è considerato fuori soglia (o outlier). Si definisce fuori soglia per durata di degenza un ricovero la cui durata di degenza si discosti in maniera statisticamente significativa da quella dell'insieme degli altri pazienti che presentano caratteristiche cliniche simili. Per ciascun DRG è indicato un valore soglia che individua la durata di degenza (espressa in giornate), oltre la quale si applica una remunerazione aggiuntiva, corrispondente al costo marginale sostenuto dall'ospedale quando il paziente supera il valore soglia del DRG di appartenenza. Questo rimborso viene definito mediante una cifra corrisposta “a giornata” per il numero di giornate eccedenti la soglia. Inoltre, gli ospedali erogano prestazioni assistenziali di vario livello, intensità e durata in base alla tipologia dei pazienti ricoverati. La produzione di differenti tipi di casi, con diversi livelli di complessità, rappresenta la casistica globale dell'ospedale. Il case-mix costituisce appunto l'espressione di questa casistica. Sulla base di determinati requisiti sono state definite quattro classi di ospedali pubblici, equiparati ai pubblici e privati accreditati per acuti: Classe A – Strutture ospedaliere di ricovero per acuti che possiedono almeno due dei requisiti indicati; Classe B - Strutture ospedaliere di ricovero per acuti che possiedono almeno uno dei requisiti indicati ovvero siano monospecialistici con riferimento ad una delle alte specialità ex DM 29.01.1992, ovvero siano strutture pubbliche di riferimento provinciale; Classe C - Strutture ospedaliere di ricovero per acuti che non possiedono alcuno dei requisiti indicati, ma dispongono di almeno 120 posti letto, ovvero non abbiano 120 posti letto ma svolgano istituzionalmente attività di didattica o di ricerca ovvero siano monospecialistici, ovvero sede di Pronto Soccorso, ovvero 2° livello per l’assistenza perinatale; Classe D – le altre strutture, comprese quelle nelle quali l’attività per acuti sia minima parte rispetto all’attività di riabilitazione e di lungodegenza post acuzie. Queste premesse, ricordate solo in parte, sono indispensabili per la comprensione della enorme variabilità esistente sul territorio nazionale, relativo alle remunerazioni delle prestazioni. Se date le premesse il panorama diventa intellegibile ciò non significa che sia condivisibile. Se prestazioni chirurgiche semplici vengono eseguite in strutture molto dispendiose (data la loro complessità, ecc) il SSN e il SSR dovrebbero impedire a tali strutture di eseguire cose “semplici” a tariffe proibitive o metterle nelle condizioni di poter adeguare il setting assistenziale (day surgery/ambulatorialità) al fine di poter risparmiare risorse. Il 119 è un DRG con elevato rischio di inappropriatezza per l’ampio ricorso al RO poiché in Italia , nella realta’ dei fatti, non esiste una capillare diffusione delle cosidette free stand Unit di Day Surgery. Solo tali strutture possono garantire uno standard appropriato dal punto di vista tecnico-organizzativo delle prestazioni . Quindi neanche la riduzione tariffaria può o deve rappresentare una soluzione dei problemi della Sanità. Le attuali tariffe di rimborso del DRG 119 (tranne casi eccezionali di alcune Regioni che avendo abbassato oltro ogni limite, le stesse, non fanno altro che incrementare il fenomeno della mobilità passiva) sono piu’ che adeguate dal punto di vista generale. Il problema è la distribuzione delle risorse, nell’ambito di questo calcolo, che invece di premiare la professionalità dello specialista, la migliore organizzazione di un sistema rispetto all’altro, appiattisce gli stessi sui costi di gestione delle strutture che come sappiamo lasciano a desiderare su tutto il territorio nazionale. Fino agli anni ’90 comunque quasi nessuno si è posto il problema dei costi e delle tariffe, soprattutto in ambito flebologico, fino a quando nel panorama tecnologico non hanno fatto la comparsa le cosidette tecniche endovascolari (Laser, Radiofrequenza, Scleromousse). Secondo l’assioma per cui, a parita’ di diagnosi principale, ciò che determina il DRG finale è la procedura utilizzata, è intuitivo che il DRG finale, utilizzando tali nuove metodiche, non può essere il 119 (generato dalla legatura e stripping ). Il primo vero problema è quindi che attualmente in Italia , pur utilizzando una classificazione , giunta alla 19.a revisione, mancano le voci specifiche per classificare tali nuove procedure e quindi manca il sistema di calcolo di un nuovo DRG che tenga di conto del costo delle tecnologie, ma anche del diverso setting assistenziale che le stesse potenzialmente possono offrire. Da ciò può nascere un uso e abuso di un diverso DRG quale il 479 che meglio di ogni altro però ricostruisce le specifiche di un intervento endovascolare e le reazioni di varie Regioni che in maniera arbitraria ne impediscono l’utilizzo o lo stravolgono nei suoi contenuti. Se solo tutte le Regioni eseguissero una analisi dei costi che tenga presente l’aumento degli stessi giustificata dall’utilizzo di apparecchiature, materiali e Know-how, ma la diminuizione relativa alla possibilità di un setting assistenziale più semplice (ambulatorialità), una più rapida ripresa del paziente alla sua vita di relazione, ecc; ecco che tutte le problematiche sarebbero risolte. Non è la tecnologia che costa, ma la presunzione di volerla applicare con le stesse modalità tecnico-amministrative; con gli stessi setting assistenziali di una chirurgia invasiva e in strutture non competitive e conservatrici . Tutto ciò oltre a determinare un grave problema di politica economica determina un problema di ingiustizia sociale poiché non a tutti i cittadini viene offerta la possibilità di poter essere curati nel modo migliore creando quei flussi ingiustificati di pazienti da una Regine all’altra che influiscono non di poco nei bilanci economici delle singole Regioni. PERCORSI DIAGNOSTICI PRE- INTRA- POST- OPERATORI MODELLI EMODINAMICI COME GUIDA ALL’INDICAZIONE TERAPEUTICA La diagnostica non invasiva delle malattie venose è stata sviluppata per lo screening, la quantificazione del danno e lo studio emodinamico. I medici generalisti e gli specialisti devono conoscere – con diversi gradi di competenza – il significato dei vari test vascolari e le loro indicazioni e limitazioni, così da limitare al massimo l’uso di test invasivi e costosi (Nicolaides, 1987; Struckman, 1985; Christopoulos, 1987). Le malattie venose presentano una maggiore difficoltà di valutazione rispetto alle malattie arteriose e richiedono pertanto una buona esperienza ed una valutazione più accurata. Per tali motivi i test venosi risultano maggiormente operatore-dipendenti e richiedono una competenza specifica clinica soprattutto per la valutazione dell’IVC. L’ IVC è sempre il risultato di un ostacolo al deflusso tissutale sia esso imputato ad ostruzione oppure ad una riduzione della frammentazione dinamica della colonna di pressione superficiale e/o profonda, sostenuta da un incontinenza valvolare (generante il reflusso) o da un disfunzionamento primario della pompa osteo-muscolo-articolare (Franceschi, 2003). L’obiettivo dell’esame clinico e strumentale è rilevare quale fra tali condizione sia presente. Va ricercata inoltre la localizzazione anatomica dell’alterazione e quantificato il reflusso e/o l’ostruzione. Sono disponibili molti test, semplici, rapidi ed efficaci per costo-beneficio. Le procedure diagnostiche, riportate di seguito in forma sintetica, rispecchiano quanto pubblicato nelle “Procedure Operative per Indagini Diagnostiche Vascolari" prodotte dalla Società Italiana di Diagnostica Vascolare e utilizzate anche dal Collegio Italiano di Flebologia (SIDV, 2000). INDAGINI UTILIZZABILI • Ultrasonografiche: Doppler C.W. Eco-Doppler (duplex) Eco(color)Doppler (ECD) • Imaging Radiografico angio TC angio - RM pletismografiche fotopletismografia quantitativa flebografia Lo scopo dell’esame è l’accertamento di un reflusso oppure di una trombosi venosa superficiale e/o profonda. Nei due casi l’ iter diagnostico e procedure sono differenti. Il circolo venoso profondo deve essere sempre valutato. Accertamento di un reflusso L’indagine utilizzata può essere una di quelle sopra indicate. Le metodiche di prima scelta sono quelle ultrasonografiche o la fotopletismografia; i due tipi di indagine devono essere considerati complementari piuttosto che alternativi. L’esame Doppler con ultrasuoni permette di dimostrare la presenza di un reflusso, identificare la sua origine e seguire l’asse di reflusso in senso cranio-distale. Strumentazione: Si utilizza per il Doppler C.W. una sonda da 8 MHz, per l’eco-Doppler una sonda lineare da 5-10 MHz STUDIO DI UN DISTRETTO REFLUENTE La continenza delle valvole deve essere analizzata in ortostatismo sviluppando un gradiente retrogrado (contrario all’orientamento dei piani valvolari) transvalvolare. I gradienti retrogradi possono essere di due tipi: 1) IPERPRESSIVO, come quello sviluppato durante la manovra di Valsalva 2) GRAVITAZIONALE in quanto sfrutta il peso della colonna ematica una volta mobilizzata verso l’alto. La mobilizzazione della colonna può avvenire a) in modo STATICO mediante il test di COMPRESSIONE/RILASCIAMENTO (C/R) o SQUEEZING TEST (TEST STATICI) b) in modo DINAMICO mediante l’attivazione della pompa muscolare • • • • Test di Parana Test di Oscillazione Test del Sollevamento sulla punta dei piedi Test della dorsiflessione delle dita PROCEDURA L’esame viene eseguito con il paziente in ortostatismo. La mano destra dell’esaminatore tiene la sonda che viene posta all’origine della vena grande o piccola safena. La mano sinistra esegue delle brevi manovre di compressione e successivo rilasciamento sulla stessa vena in sede distale. Questa manovra è essenziale per il Doppler C.W. per poter centrare con la sonda l’insonorizzazione del vaso da studiare, in quanto non “vede” la struttura. Dopo aver centrato la sonda sulla vena, si cominciano ad eseguire le varie manovre analizzando le concordanze o le discordanze tra le stesse. Significato delle varie manovre La presenza di un reflusso, sviluppato da un gradiente retrogrado transvalvolare, viene segnalata dalla comparsa di un flusso invertito per una durata superiore a 0.5 sec che è indice sempre di insufficienza della valvola. Manovra di Valsalva Il gradiente iperpressivo prodotto durante la manovra di Valsalva si trasmette in distalità indipendentemente dalla continenza dei piani valvolare situati prossimalmente. Questo è possibile grazie all’inerzia di chiusura dei piani valvolari stessi, permettendo così il passaggio dell’onda di pressione la cui velocità di propagazione è nettamente superiore a quella del flusso ematico. Il Valsalva pertanto innesca sempre una trasmissione in distalità di un’onda di pressione. Quando è presente un’incontinenza valvolare tra i vari distretti o compartimenti, per esempio tra la rete profonda e quella superficiale, all’onda di pressione si associa la comparsa di un reflusso transcompartimentale. I passaggi di compartimento (tra rete profonda e rete superficiale, tra sistema safenico e collaterali) che risultano incontinente al Valsalva sono definiti punti di fuga. La valutazione della corretta esecuzione del Valsalva è data dalla comparsa di un flusso anterogrado cioè di una ripresa del flusso una volta cessata la manovra. Ciò dimostra che il carico ipertensivo, cioè il blocco al flusso fisiologico anterogrado, è stato realizzato. Manovra di COMPRESSIONE/RILASCIAMENTO e TEST DINAMICI In presenza di un’incontinenza valvolare, il reflusso è determinato dal ritorno della colonna ematica verso il basso in rapporto al suo peso, una volta che è stata mobilizzata verso l’alto da una manovra di compressione (test statico) o tramite la contrazione muscolare (fase sistolica del test dinamico). E’ fondamentale il concetto generale per cui un reflusso in un vaso incontinente si può realizzare solo se all’applicazione di un gradiente retrogrado è presente un “rientro” del sistema stesso verso un compartimento contiguo a pressione inferiore. L’abbassamento pressorio è realizzato tramite la chiusura dei piani valvolari (frazionamento dinamico della colonna di pressione). Vedi ad esempio il reflusso nella rete superficiale con rientro nella rete venosa profonda.(Franceschi, 2003). Tale affermazione può essere verificata sistematicamente in tutti i pazienti. Infatti la chiusura, mediante una compressione digitale del rientro del reflusso, per esempio quello safenico, condiziona la sua scomparsa ai vari test, soprattutto a quelli gravitazionali. Da notare che i test dinamici, attivando le pompe muscolo-articolari, mobilizzeranno molto più sangue a livello profondo che non il test di compressione/rilasciamento, specialmente in polpacci di grosse dimensioni. Avremo pertanto una maggior frammentazione della colonna idrostatica profonda, tramite la chiusura dei piani valvolari, con conseguente abbassamento pressorio e quindi sviluppo, in caso di incontinenza della rete superficiale, di un gradiente di rientro molto più elevato rispetto a quello sviluppato dal test C/R. I test dinamici saranno pertanto molto più efficaci del test di C/R per il rilievo di reflussi nei casi dubbi. I test gravitazionali evidenzieranno pertanto l’incontinenza valvolare distalmente rispetto alla posizione del campione doppler senza fornire alcuna informazione sul funzionamento del piano valvolare soprastante. Pertanto, se vogliamo studiare una valvola in particolare, dobbiamo posizionare il campione doppler della sonda sul versante prossimale della valvola, per esempio sul versante femorale, se vogliano analizzare la valvola safenica terminale. Nel caso di una incontinenza safenica con continenza della valvola terminale della giunzione safeno-femorale, avremo, a livello dell’arco safenico, un Valsalva negativo (eccetto il caso di un concomitante shunt pelvico) con un test di C/R positivo . Il test di C/R diventerà negativo quando sarà posizionato sul versante femorale della valvola terminale. Riassumendo possiamo dire che mentre i test gravitazionali evidenziano un’incontinenza valvolare in senso lato, la positività del Valsalva dimostra che tale incontinenza si associa a punti di fuga, cioè a passaggi di compartimento incontinenti. Pertanto non sempre un’incontinenza degli assi venosi si associa a punti di fuga (vedi il caso della valvola terminale continente), in tal caso avremo reflussi gravitazionali ma Valsalva negativi. .(Cappelli, 2004; Cappelli, 2006). Da quanto sopra analizzato emergono due considerazioni: 1) I vari test usati comunemente in modo equivalente per la diagnostica dell’incontinenza valvolare non lo sono affatto, essendo ciascuno di essi in rapporto ad eventi emodinamici specifici. 2) Il doppler CW, essendo “cieco” non permette una diagnosi emodinamica accurata, anche se usando la combinazione delle varie manovre possiamo comunque trarre indicazioni su quali sono i più probabili quadri emodinamici possibili. L’esame eco(color)Doppler è più facile da interpretare rispetto all’esame Doppler C.W. e fornisce delle ulteriori indicazioni connesse alla morfologia della grande safena, come il diametro della stessa, il calibro e la continenza valvolare delle collaterali ostiali e di eventuali safene accessorie, una visualizzazione ottimale della valvola ostiale e pre-ostiale (Antignani, 1998; Bernstein, 1993). Nella valutazione del reflusso nella piccola safena l’ eco(color)Doppler permettte di studiare l’anatomia vascolare del poplite, la sede esatta di origine dalla vena poplitea piuttosto che una origine alta della safena dalla vena femorale superficiale, la continenza della vena di Giacomini, un ’origine del reflusso da perforante poplitea. L’eco (color) Doppler fornisce inoltre informazioni morfologiche permettendo di ricostruire l’anatomia vascolare, il diametro dei vasi, permettendo di studiare in modo accurato la mappa emodinamica pre-operatoria e le possibili recidive post chirurgia o post scleroterapia. La dimostrazione di un reflusso da una perforante incontinente è invece accurata con l’eco(color) Doppler, poco precisa con il Doppler C.W. che non dovrebbe più essere utilizzato a questo scopo. L’esame ultrasonoro permette di studiare il singolo asse superficiale o profondo, identificandolo in base alla diversa sede anatomica e permette di dimostrare in modo completo l’origine e l’asse del reflusso. Il limite dell’esame ultrasonoro è legato proprio alla sua valutazione selettiva e distrettuale che male si presta a studiare in maniera globale e funzionale la rilevanza del danno causato dal singolo reflusso sul ritorno venoso (Guias, 1998). L’esame fotopletismografico (PPG) quantitativo computerizzato eseguito con il test della pompa venosa, per esempio con le manovre di estensione dorsale dell’articolazione tibio-tarsica, valuta invece l’efficacia funzionale globale della pompa muscolare e la continenza valvolare degli assi venosi (Blazek, 1996; Schultz-Ehrenburg, 1994). La pletismografia venosa consente di valutare la funzionalità venosa globale misurando i cambiamenti del volume di sangue venoso nella gamba. Queste misurazioni possono essere effettuate con una delle tre tecniche pletismografiche oggi in uso: la fotopletismografia/reografia a luce riflessa (PPG/RLR), la pletismografia strain gauge (estensimetrica, SGP) e la pletismografia ad aria (APG) (Nicolaides, 1991; Consensus, 2000). La PPG/RLR utilizza fotosensore fissato sulla cute che misura il riempimento del plesso venoso cutaneo (Nicolaides, 1987); la SPG utilizza sensore estensimetrico (laccio conduttore elastico) che misura i cambiamenti della circonferenza della gamba nel punto dove è applicato (Strukman, 1985), mentre il sensore della APG è un gambaletto gonfiabile che misura i cambiamenti del volume venoso totale della gamba (Christopoulos, 1987). Effettuando misurazioni in diverse posizioni e con diverse manovre, si possono valutare i seguenti parametri: 1) deflusso venoso (rallentato se presente una occlusione venosa); 2) reflusso venoso totale (grado di incontinenza valvolare); 3) efficacia della pompa muscolovenosa del polpaccio (grado di svuotamento venoso durante l’esercizio muscolare e velocità di riempimento venoso dopo la fine dell’esercizio). L’esame può essere eseguito prima e dopo la occlusione venosa superficiale, ottenibile con uno o più lacci per isolare il reflusso superficiale e prevedere il risultato di un intervento di asportazione safenica sulla funzione del ritorno venoso. Il miglior laccio e’ un manicotto alto 3cm, gonfiato a 100mmHg. Il vantaggio della PPG è quello di poter ottenere un dato quantitativo in secondi (il tempo di riempimento venoso o “venous refilling time”) che descrive in maniera globale la eventuale compromissione funzionale del ritorno venoso secondaria a reflusso venoso. Strumentazione: fotopletismografo computerizzato quantitativo. PROCEDURA L’indagine quantitativa permette un aggiustamento automatico del segnale basale ( basato sulla elaborazione del segnale ) e valuta in modo più preciso i parametri connessi al tempo di riempimento dopo test della pompa muscolare e i parametri connessi all’ampiezza del segnale. Il sensore viene fissato circa 8 cm al di sopra del malleolo interno con un anello biadesivo. Il paziente è seduto e rilassato con i piedi ben poggiati a terra. Tronco-cosce e cosce-gambe devono formare tra loro un angolo di circa 110°. Il test della pompa muscolare è quello più frequentemente utilizzato e richiede l’esecuzione di 8 estensioni dorsali dell’articolazione tibio-tarsica in 16 secondi. Alla fine dell’esercizio il paziente resta immobile e rilassato per 30 secondi. Gli apparecchi più moderni sono programmati; emettono dei segnali sonori sia per eseguire le estensioni dorsali del piede che per delimitare il periodo di riempimento. Il parametro di valutazione è il tempo di riempimento venoso o “ venous refilling time” (To ) espresso in secondi. Si distinguono 4 classi: -normale To > 24 secondi -insufficienza di pompa grado 1 leggera To da 24 a 20 secondi • “ “ grado 2 moderata To da 19 a 10 secondi • “ “ grado 3 severa To < 10 secondi Esiste un secondo parametro di valutazione negli apparecchi computerizzati, la potenza della pompa venosa ( Vo ) che non è ancora sufficientemente standardizzata e che quindi non va considerato nella refertazione. Nella pratica clinica la pletismografia venosa ha le seguenti applicazioni: a) Quantificare e documentare il grado di compromissione delle diverse funzioni venose (ostruzione, reflusso) e seguirle nel tempo; b) Quantificare il contributo delle vene superficiali e profonde e predire gli effetti emodinamici della chirurgia delle vene superficiali; c) Studiare e documentare gli effetti emodinamici delle diverse operazioni chirurgiche e validare le nuove tecniche operatorie. Va tenuto presente un limite della PPG: può essere difficile differenziare un reflusso venoso superficiale da un reflusso profondo e/o da un reflusso in perforanti incontinenti. La flebografia con iniezione in una vena del piede non viene più eseguita per valutare un reflusso venoso, sostituita dall’esame ECD. Lo studio flebografico dovrebbe essere riservato a pazienti con precedenti trombosi venose profonde o precedenti interventi, con recidive ad incerta etiologia (tecnica chirurgica ignota) e nei pazienti con reperto ultrasonografico dubbio. Ancor più raramente viene utilizzata oggi la varicografia per lo studio delle recidive post-chirurgia o postscleroterapia, specie a livello del cavo popliteo o di perforanti incontinenti, in particolare se plurime. L’imaging radiologico (secondo livello richiesto dallo specialista) completa lo studio ultrasonografico nella determinazione della sede e della natura della lesione, e nella valutazione della patologia, soprattutto a carico del circolo profondo. Indicata l’angio-RM soprattutto nello studio delle angiodisplasie, è attualmente in via di sostituzione dell'angiografia (Devulder, 1998; Schultz-Ehrenburg, 1994; Koizumi, 2007). Indagini sulla microcircolazione -Laser-Doppler -Capillaroscopia -Microlinfografia -Pressioni interstiziali -Misurazione pressioni parziali O2 e CO2 Raccomandazioni L’esame ultrasonoro permette di dimostrare la presenza di un reflusso, identificare la sua origine e seguire l’asse di reflusso in senso cranio-caudale . Grado A Accanto alla clinica, per lo screening dell’IVC, l’esame di primo livello deve essere considerato il Doppler CW Grado B Le metodiche Eco-Doppler ed Eco(color)Doppler sono da riservarsi alla definizione della localizzazione e della morfologia del problema e come esame pre-operatorio. Grado A La Flebografia andrebbe presa in considerazione solo in un ridotto numero di pazienti portatori di anomalie anatomiche, malformazioni o quando vi sia indicazione ad un intervento sul sistema venoso profondo. Grado B Le pletismografie devono essere considerate test aggiuntivi di tipo quantitativo. Grado B Le indagini rivolte allo studio della microcircolazione hanno indicazioni selettive e prevalentemente di ricerca. Grado C QUALITA’ DELLA VITA NELLA VALUTAZIONE DELL’IVC Sono ormai numerose le basi per considerare la Quality of Life (QoL) tra gli outcome terapeutici anche nell’IVC (Garrat, 1993; Lamping, 1997; Consensus Statement, 2000; Andreozzi, 2000; Andreozzi, 2005). Il metodo di misurazione generica, considerato gold standard negli USA ed in Europa, è il Q. SF-36 (Short Form Health Survey) MOS (Medical Outcomes Study), di cui viene spesso usata in flebologia la forma semplificata SF-12 (Ware, 1994; Stewart, 1992). Specifici questionari per l’IVC (CVIQ1 e CVIQ2; Aberdeen Q.) sono stati sviluppati a partire dal 1992 con risultati sotto questo aspetto sorprendenti per una malattia spesso sottostimata dalla categoria medica: l’IVC interferisce profondamente con la vita di ogni giorno del paziente e risulta enfatizzato l’impatto dell’IVC sulle capacità locomotorie quanto l’efficacia della farmacoterapia (Garratt, 1993; Launois, 1994 ; Klyscz , 1998). Meno chiara risulta la necessità di usare questionari specifici per la valutazione dell’impatto delle ulcere venose rispetto a strumenti generici come il Q. SF-12 e altri (Iglesias, 2005). La valutazione di trial randomizzati controllati e con verifica della QoL sugli esiti della chirurgia risulta complessa (Solomon, 1995). Peraltro sono comparse successivamente numerose esperienze sia per la rivalutazione dello stripping (MacKenzie, 2002 II; Durkin 2001; Blomgren, 2006) che di nuove tecniche chirurgiche sull’IVC come la legatura endoscopica delle perforanti mediante SEPS (Nelzen, 2000), la valvuloplastica (Agus, 2001) e le tecniche endovascolari (Rautio, 2002; Lurie, 2003; Agus, 2006 II). Raccomandazioni: L’analisi dei parametri clinici di valutazione della qualità di vita dovrebbe utilizzare criteri psicometrici standard per riproducibilità, validità e accettabilità. I forms SF-36 MOS e NPH (Nottingham Health Profile) si sono dimostrati di rilievo scientifico, ma la loro utilità sull’IVC viene considerata superata da Questionnaires specifici. Grado B Ib TRATTAMENTO CHIRURGICO TRATTAMENTO CHIRURGICO DELL'INSUFFICIENZA VENOSA SUPERFICIALE GENERALITÀ E INDICAZIONI Le basi del trattamento chirurgico delle varici degli arti inferiori sono stabilite da un secolo con gli interventi eseguiti nel 1905 da Keller (stripping per invaginazione), nel 1906 da Mayo (stripping extraluminale) e nel 1907 da Babcock (stripping endoluminale con sonda rigida) e sono tuttora valide grazie all’uso in decine e decine di migliaia di interventi praticati e “validati dall’esperienza comune” e successivamente da studi accreditati (Myers, 1957; Agrifoglio, 1961; Munn, 1981; Perrin, 1997). Sostanzialmente, tre innovazioni si sono inserite in una tecnica chirurgica ancora considerata standard, per migliorarne i risultati: l’evoluzione delle tecniche sulla base di nuove concezioni di anatomia ecografica e fisiopatologiche (Ricci e Caggiati, 1999; Camilli, 1992); l’introduzione e diffusione di gesti chirurgici semplificati come la flebectomia per miniincisioni (Muller, 1966; Rivlin, 1975; Ricci, Georgiev, Goldman, 1995); la tecnica stessa dello stripping eseguita in maniere meno invasive come l’invaginazione in anestesia locale (Van der Stricht, 1963); soprattutto, la pratica dello studio cartografico preoperatorio mediante ecocolordoppler (Franceschi, 1988; Neglen, 1992; Van Bemmelen, 1989; Welch, 1992). Va rilevata la nascita e la diffusione di nuovi interventi, talvolta limitati all’ambito dello stesso proponente. Tali interventi, pur assicurando spesso buoni risultati, necessitano di studi clinici controllati multicentrici e non possono allo stato attuale essere considerati sostitutivi di tecniche standard, bensì alternativi. Differente è il caso degli interventi chirurgici mini-invasivi quali le tecniche cosiddette emodinamiche conservative o endovascolari, su basi fisiopatologiche e tecnologiche innovative, che negli ultimi venti anni hanno passato il vaglio di lunghe sperimentazioni e ormai sono comunemente eseguiti da numerosi team chirurgici nel panorama internazionale. L’indicazione chirurgica deve essere approfonditamente discussa, indipendentemente dall’opzione chirurgica scelta. Lo scopo stesso della chirurgia, la risoluzione totale delle varici, deve essere rivisto all’interno della storia naturale del quadro patologico di base, rappresentato dall’IVC, con possibilità concreta di comparsa di nuove varici, e dal gravoso problema delle varici recidive a chirurgia. Il trattamento del paziente portatore di IVC riconosce infatti come principale obiettivo la risoluzione o il miglioramento del quadro sintomatologico e la prevenzione e terapia delle complicanze. L’elevazione dell’arto inferiore in posizione di scarico e l’elastocompressione per il controllo dell’edema, oltre alla medicazione locale in caso di complicanza ulcerativa, sono infatti i fondamenti della terapia conservativa, ma non correggono il disturbo emodinamico responsabile della flebopatia. Molti progressi sono stati fatti negli ultimi decenni nella terapia chirurgica delle più severe forme di IVC grazie alla diagnostica non-invasiva per immagini e alla ultrasonografia. Si possono così distinguere situazioni in cui prevale l’evento ostruttivo da quelle, primarie o secondarie, in cui il reflusso è l’elemento dominante. Dalla differente presentazione dei quadri clinici ed anatomo-patologici dipende una strategia chirurgica oggi diversificata, non più indiscriminatamente ed estensivamente ablativa, ma finalizzata, ove possibile, alla correzione dell’alterata emodinamica venosa e microcircolatoria dell’arto dell’arto (Weiss, 1988; Agus, 2006 I). Le indicazioni alla chirurgia dell’ IVC si basano pertanto dapprima sulla corretta interpretazione della sintomatologia e sul quadro clinico realmente correlabili alle varici o alle loro complicanze. Nuovo outcome è infine da considerarsi la QoL nello specifico campo dell’ IVC (Garratt, 1993; Launois, 1994; Klyscz, 1998; Howard, 2001). Di seguito, gli aspetti sintomatologici e anatomo-patologici che motivano la scelta chirurgica e che in parte ricalcano le classi CEAP: • • • • • Presentazione clinica ed aspetto estetico ● Sintomatologia dolorosa Pesantezza alle gambe ● Facile affaticabilità dell’arto Trombosi venosa superficiale ● Varicorragia Iperpigmentazione della caviglia ● Lipodermatosclerosi Atrofia bianca ● Ulcerazione Tuttavia molti di questi sintomi e segni possono essere non attribuibili al paziente con IVC, per cui è raccomandabile un’accurata e specifica anamnesi. Si tenga presente che il 50% dei pazienti con teleangiectasie e varicosità soffre soltanto di alcuni dei disturbi menzionati, i quali dopo opportuna terapia possono essere eliminati nell’85% dei casi (Weiss, 1990). D’altra parte secondo altri studi l’eziologia della pesantezza alle gambe, una delle motivazioni più frequenti per la visita flebologica soprattutto nelle giovani donne, può non dipendere da uno stato varicoso, né può essere considerata una sindrome pre-varicosa, essendo invece il risultato dell’associazione tra flebostasi costituzionale, ipertensione venosa e lipedema (Allegra, 2006; Chardenneau, 1999). La stessa facile affaticabilità o esauribilità funzionale dell’arto inferiore appartengono al corredo sintomatologico di numerose altre affezioni, quali le artropatie, le neuropatie e le arteriopatie periferiche per citare le più frequenti. Anche l’ edema declive, segno/sintomo maggiormente correlabile all’IVC (Langer, 2005), deve essere posto in diagnosi differenziale con epifenomeni di cardiopatie congestizie, con discrasie ematiche, con dismetabolismi, ecc. Infine possono coesistere con un quadro di IVC, o addirittura prevalere su di essa, stili di vita incongrui come l’eccesso di peso, la scarsa attività fisica, l’esagerata sedentarietà e i difetti posturali: situazioni che, se adeguatamente corrette, possono essere sufficienti a rendere inutile, se non controindicato, l’intervento chirurgico. Alcuni studi sottolineano l’ipotesi che molti sintomi possono avere una causa non venosa e l’IVC possa essere una comorbidità: in questi casi deve essere considerata la scarsa efficacia dell’intervento chirurgico al fine del miglioramento della sintomatologia (Bradbury, 1999; O’Leary, 1996). Raccomandazioni: Lo scopo della chirurgia dell’IVC superficiale, con o senza varici, è la risoluzione del reflusso patologico e l’asportazione delle varici e/o la bonifica dell’ulcera a scopo sintomatologico, preventivo o terapeutico del quadro clinico in atto e delle possibili complicanze, fermo restando il carattere evolutivo dell’IVC. Grado A I a Il paziente operato necessita di controlli clinici e strumentali nel tempo. Grado A I b La terapia delle varici di vene collaterali, esistendo valide alternative di tipo medico o scleroterapico, non è esclusivamente chirurgica. Grado B II a TECNICHE CHIRURGICHE Ogni intervento chirurgico per l'IVC superficiale può essere definito a scopo emodinamico, a patto che venga preceduto da un’appropriata mappa emodinamica venosa mediante Eco-(Color)-Doppler (286; 321; 211). Le tecniche chirurgiche possono essere raggruppate in tre categorie principali: • Tecniche ablative • Tecniche conservative • Trattamenti endovascolari 1. CHIRURGIA ABLATIVA La chirurgia ablativa comprende gli interventi di stripping della safena, la crossectomia e la flebectomia. a) STRIPPING DELLA SAFENA Lo stripping può interessare sia la grande safena (safenectomia interna) che la piccola safena (safenectomia esterna). Nel primo caso può essere lungo (con asportazione della grande safena dalla crosse al malleolo tibiale), medio (dalla crosse al terzo medio di gamba), corto (dalla crosse al terzo superiore di gamba), ultracorto (dalla crosse al terzo inferiore o medio di coscia). Lo stripping ha rappresentato per lungo tempo la tecnica strandard del trattamento chirurgico delle varici, la più studiata e l’unica che è stata comparata alla scleroterapia ed alla crossectomia da sola o associata alla scleroterapia. Nei loro riguardi lo stripping si è dimostrato in molti studi clinici superiore in termini di efficacia in follow-up a distanza (Agrifoglio, 1961; Jacobsen, 1979; Neglén, 1993; Rutgers, 1994; Sarin, 1994; Bergan, 1996; Dwerryhouse, 1999). Per realizzare questi scopi, sono state descritte varie tecniche (stripping endovenoso con sonda rigida alla Babcock o con sonda flessibile alla Myers, stripping esovenoso alla Mayo e derivati) e successivamente altre modalità come lo stripping per invaginazione sec. Keller e Van der Stricht, stripping sec. Ouvry o sec. Oesch; pervenendo in generale alla scelta di limitare alla coscia lo stripping safenico, come avanzamento meno invasivo e più rispettoso delle reali condizioni emodinamiche patologiche (Agus, 1998). La prima evidenza della letteratura degli ultimi 15 anni, in contrasto alla chirurgia con stripping lungo indiscriminato, deriva infatti dalle nuove conoscenze su pattern emodinamici affatto differenti che mostrano l’inappropriatezza della rimozione di vene funzionalmente sane e utili, in quanto la giunzione safeno-femorale risulta in circa il 30-50% dei casi continente e non sono presenti alterazioni proprie del territorio safenico interno nel 15-20% (Goren and Yellin , 1990; Camilli , 1992; Abu.Own , 1994; Guex , 1995; Myers , 1995; Singh , 1997; Jutley , 2001; Cappelli, 2004; Caggiati, 2006). Altra evidenza, in passato non considerato, la QoL costituisce oggi outcome importante per il paziente (Andreozzi, 2000; Kurz, 2001). Anche se in generale la tecnica di stripping per sé migliora la QoL, sia in studi randomizzati con uso di questionari generici come il Q. SF-36 (Blomgren, 2006) o il VAS, o specifici come l’Aberdeen varicose vein Q. (Smith, 1999; MacKenzie, 2002), il miglior esito sulla QoL rispetto allo stripping standard deriva dallo stripping corto e da modalità meno invasive favorenti una riduzione di ematomi e disturbi nervosi post-operatori, oltre che complessivamente meno costose come con il PIN stripping (Butler, 2000; Durkin 2001). Il dolore postoperatorio e l’ematoma dopo stripping, solo parzialmente controllati da adeguata compressione elastica, rimangono infatti effetti collaterali non più accettati dai pazienti, ed è stato proposto da un trial randomizzato e controllato l’uso di anestesia locale nel canale safenico per tale ragione Nisar, 2006). Non va disconosciuto il rischio di lesioni vascolari iatrogene, rare ma serie le più gravi (Rudström, 2007); tra queste un elevato numero di complicanze neurologiche, in particolare per la preparazione della grande safena al malleolo e per lo stripping della piccola safena, come evidenziato da studi prospettici in tal senso quanto da review e casistiche medico-legali ( Morrison, 2003; Sam, 2004; Wood, 2005; Giannas, 2006; Akagi, 2007). Lo stripping non è esente, come creduto talvolta, da complicanze trombotiche profonde, presenti sin oltre il 5% dei casi, seppure apparentemente benigne perché senza complicanza embolica (van Rij, 2004). Ma è oggi soprattutto criticabile un uso estensivo dello stripping e della connessa crossectomia, cosiddetta allargata, nella genesi di un alto numero di recidive varicose per l’instaurarsi di nuovi reflussi in sede giunzionale per collaterali refluenti, cavernomi o neo-angiogenesi, che comporta un alto numero di reinterventi, in particolare con difficoltà all’inguine, fino al 25% di tutte le procedure effettuate; la cui trattazione è in paragrafo apposito (Hayden, 2001; van Rij, 2003). La necessità di una maggiore attenzione all’insegnamento ed alla miglior pratica di un intervento come la legatura/sezione della giunzione safeno-femorale eseguito dalla maggioranza dei chirurghi ad ogni livello di esperienza è stata recentemente ribadita attraverso strumenti tecnici dedicati per la miglior performance (Pandey, 2006). Non ultimo deve ricordarsi ancora una volta il risparmio di vene safene in favore del loro utilizzo per bypass coronarici e vascolari periferici, potendosi talvolta usare per questo scopo anche vene varicose (Melliére, 2007). L’asportazione dei tronchi safenici infine, può essere associata alle varicectomie di coscia e/o di gamba ed alla sezione-legatura delle perforanti insufficienti, completando la finalità emodinamica anche attraverso l’exeresi di altre vie di reflusso (Queral, 1997). b) CROSSECTOMIA SEMPLICE O ASSOCIATA A FLEBECTOMIE La crossectomia semplice consiste nella deconnessione safeno-femorale o safeno-poplitea, con legatura e sezione di tutte le collaterali della crosse. Essa realizza documentati risultati funzionali, ma è stata in generale considerata inferiore allo stripping nel trattamento delle varici (McMullin, 1991; Abu-Own, 1994). La crossectomia associata a flebectomia, nella visione chirurgica definita CHIVA, è comparabile nei risultati alle tecniche di stripping, solo quando, o perché, preceduta da un accurato studio emodinamico preoperatorio. Altri autori, al di fuori dell’ ambito CHIVA, erano giunti alle stesse conclusioni (Hammarsten, 1990; Campanello, 1996; Belcaro, 2002). c) FLEBECTOMIE Le flebectomie con mini-incisioni, secondo la tecnica nota come di Muller, possono essere attuate sia come metodo di cura delle varici a sé stante sia come complemento degli altri interventi chirurgici. Questa tecnica dalle finalità estetiche, oltre che funzionali, si realizza con l’asportazione dei rami insufficienti del circolo superficiale attraverso incisioni di pochi millimetri, nelle quali vengono introdotti degli strumenti simili ad uncini, che consentono di portare all’esterno le vene da asportare (Muller, 1966; Rivlin, 1975; Ricci, 1995). In caso di trombosi venosa superficiale la mini-incisione può essere utilizzata per l’ablazione dei rami varicosi trombizzati o più semplicemente per la spremitura del materiale trombotico in essi contenuto. La resezione e l’ablazione per via endoscopica di varicosità mediante elettroresettore venoso e sonda luminosa idroresecante con soluzione tumescente, rappresentano una tecnica ambulatoriale di recente sviluppo (Spitz, 2000) che tuttavia nell’unico trial prospettico randomizzato controllato tra flebectomia per transilluminazione e flebectomia convenzionale ha portato a un giudizio favorevole per sicurezza ed efficacia della nuova tecnica, ma senza mostrare vantaggi in termini di riduzione del dolore (pain scores senza differenze nei due gruppi); di riduzione del tempo operatorio (senza differenze per varici di grado 1 e 2 e non statisticamente significative per varici di grado 3); di risultato cosmetico (con risultato obiettivo e di gradimento simile nei due gruppi); mostrando al contrario una maggior incidenza di ematomi, più alto numero di recidive (21,2% vs 6,2% della flecbectomia convenzionale) e maggior costo per la procedura disposable (262.00 euro per paziente) (Aremu 2004) . Raccomandazioni: E’ importante fare precedere la tecnica ablativa dello stripping da un accurato studio preoperatorio con Eco-(Color)-Doppler per evitare gli errori diagnostici. Grado A I b L’ intervento di stripping eseguito con diverse modalità, per efficacia e sicurezza limitato alla coscia (corto), è tuttora da considerarsi intervento standard da confrontarsi con alternative moderne meno invasive e di maggior gradimento da parte dei pazienti. Grado A I b I pazienti vanno edotti delle finalità sintomatiche e delle indicazioni circoscritte dell’intervento di Muller.Grado BII b 2. CHIRURGIA CONSERVATIVA La finalità della chirurgia conservativa è quella di trattare le varici, mantenendo una safena drenante e non più refluente. La direzione del flusso safenico potrà essere fisiologica (valvuloplastica esterna safeno-femorale e primo tempo della strategia CHIVA 2) oppure invertita e diretta verso la cosiddetta perforante di rientro (CHIVA 1). Anche queste tecniche conservative, per la cui realizzazione è assolutamente necessario lo studio preoperatorio con Eco-(Color)-Doppler, possono essere associate alla flebectomia sec. Muller. a) VALVULOPLASTICA ESTERNA SAFENO-FEMORALE Il razionale del trattamento è basato sull’osservazione istologica che negli stadi iniziali le cuspidi valvolari sono ancora sane, ma non più continenti per la dilatazione della parete vasale (66). E’ indispensabile la dimostrazione ecografica di cuspidi mobili e non atrofiche a livello della valvola terminale e/o subterminale della grande safena. La finalità dell’intervento è quella di ridurre la dilatazione parietale, riaccostando così i foglietti valvolari (Corcos, 1997; Mancini, 1997). A questo scopo si possono usare o delle suture dirette della parete o il cerchiaggio con materiali protesici esterni, rappresentati attualmente da Dacron o PTFE su anima di nitinolo (In candela, 2000). E’ consigliabile almeno un controllo con milking maneuvre e/o Doppler intraoperatorio dell’avvenuta continenza. Dopo oltre un decennio di fase sperimentale, sono ora disponibili risultati favorevoli a lungo termine in studi clinici randomizzati multicentrici, qualora siano rispettate le indicazioni chirurgiche e di fattibilità della valvuloplastica esterna (Corcos, 2000; Agus, 2001; Lane, 2001). Raccomandazione: La valvuloplastica esterna della grande safena a livello della valvola terminale e/o sub-terminale, previa accurata valutazione pre- ed intra-operatoria di fattibilità, rappresenta una valida terapia del reflusso safenico in circa il 5% dei pazienti con IVC da incontinenza valvolare safeno-femorale. Grado B II a b) CORREZIONE EMODINAMICA DELL’ IVC (CHIVA) CHIVA TIPO 1 La correzione dell’alterazione emodinamica in un unico tempo si realizza quando la perforante di rientro di un sistema safenico refluente è centrata sul tronco safenico stesso (shunt tipo 1 e alcuni sottotipi di shunt tipo 3). Consiste nella deconnessione safeno-femorale con conservazione delle collaterali della crosse non refluenti e nella deconnessione dalla safena di tutte le tributarie insufficienti con o senza flebectomia. La perforante di rientro potrà o meno essere trattata con legatura-sezione della safena al di sotto del suo sbocco, ottenendo così la sua terminalizzazione (Franceschi, 1988; Bailly, 1995). La buona riuscita emodinamica dell’intervento è data dalla presenza di un flusso retrogrado. CHIVA TIPO 2 La correzione dell’alterazione emodinamica in due tempi ha l’obiettivo di trasformare uno shunt di tipo III in uno shunt di tipo I. Si realizza quando la perforante di rientro di un sistema safenico refluente è centrata su di un ramo tributario, oppure sulla safena stessa quando è interposto un tratto safenico valvolato tra la perforante e l’origine della collaterale varicosa (Cappelli, 1996). In questi casi l’esecuzione contemporanea della deconnessione sia della giunzione safenofemorale sia delle collaterali varicose realizza un sistema safenico non drenante, con conseguente aumento del rischio di trombosi safenica o di recidiva a distanza. Il primo tempo della CHIVA 2 consiste nella deconnessione a raso della parete safenica di detta tributaria e nella sua eventuale flebectomia. Nella maggioranza dei casi tale tempo realizza un sistema a flusso anterogrado, che può rimenere stabile nel tempo in percentuali variabili riportate in letteratura. Qualora il sistema sviluppa una perforante di rientro safenico, si passerà al secondo tempo della CHIVA 2, che consiste negli stessi gesti chirurgici descritti per la CHIVA 1. Attualmente gli interventi CHIVA hanno superato il follow-up di tre anni in pubblicazioni di evidenza scientifica (Consiglio, 1992; Cappelli, 2000; Zamboni, 2001; Zamboni, 2003). Raccomandazione: Gli interventi CHIVA, pur validati da studi randomizzati, rimangono limitati per numero e difficoltà di riproducibilità. Non deve essere eseguita la procedura CHIVA 2 in safene con calibro superiore ai 10 mm alla coscia, specialmente se il tratto safenico sottostante all’origine delle collaterali è aplasico/ipoplasico, per ridurre il rischio di trombosi safenica a crosse aperta. GRADO B I b 3. TRATTAMENTI ENDOVASCOLARI La rimozione del reflusso safenico o di altri rami venosi si può ottenere sia con mezzi chimici sia con mezzi fisici. Nel primo caso si parla più propriamente di Scleroterapia. Nel secondo caso si parla di procedure obliterative endovascolari. Queste utilizzano tecniche relativamente sofisticate, quali la radiofrequenza e la tecnologia laser. Esse offrono ormai risultati più stabili rispetto all’elettrocauterizzazione del lume safenico, tentata in passato, ma abbandonata perché soggetta a rapida ricanalizzazione della trombosi ottenuta. I progressi della tecnologia endovascolare hanno infatti ormai calamitato la giusta attenzione verso nuove metodiche di trattamento dell’IVC. Queste novità paiono ampiamente apprezzate dai pazienti e le tecniche sono in espansione d’uso e in taluni casi più utilizzate della vecchia tecnica dello stripping (Almeida, 2006). Con evidenza, esse devono rispettare gli stessi criteri di indicazione chirurgica generale, considerando le criticità già esposte per la chirurgia ablativa mediante stripping, in particolare valide per rischio di inappropriatezza anche per l’ablazione fisica. Le procedure endovascolari possono essere associate contestualmente alle flebectomie per mini-incisione e alla sezione di vene perforanti; oppure tali gesti possono essere rinviati a controlli successivi, riducendone la necessità (Goldman 2000; Song KH 2003; Monahan DL 2005; Welch 2006 ), o alla scleroterapia complementare post-operatoria. a) RADIOFREQUENZA La procedura, utilizzata dal 1999, può essere praticata in anestesia locale, tumescente o locoregionale (Chandler, 2000; Goldman, 2000, Manfrini, 2000; Lebard, 2001). L’obliterazione della vena safena viene ottenuta applicando alla parete energia termica tramite radiofrequenze, che produce una contrazione ed un ispessimento delle fibre collagene dell’avventizia, provocando così la riduzione del lume fino alla sua completa chiusura. Il corretto posizionamento del catetere operatore alla giunzione safeno-femorale deve essere verificato con ecocolordoppler. Al controllo post-operatorio immediato si evidenzia, nei casi favorevoli, la safena trasformata in un cordone solido e contratto. Ad un anno di distanza uno studio multicentrico osservazionale (Merchant, 2002) riporta su 232 controlli l’ 83,6% di safene chiuse, il 5,6% di safene ancora aperte ed il 10,8% di safene ricanalizzate. A due anni di distanza i risultati percentuali su 142 controlli sono analoghi. Tali risultati sono attualmente confortati da studi randomizzati-controllati vs stripping e da follow-up superiori a 3-4 anni, mantenendo percentuali di obliterazione a 88% (Lurie, 2003; Merchant, 2005; Puggioni, 2005). Non irrilevanti risultano in favore della tecnica studi randomizzati sui benefici valutati sulla QoL (Rautio, 2002; Lurie, 2003) e sul costo-beneficio (Rautio, 2002) e anche nella chirurgia delle varici recidive della VGS (Hinchliffe, 2006). b) TRATTAMENTO LASER La procedura con l’impiego di laser a diodi tra 808 e 980 nm (o meno frequentemente a neodimio-YAG), viene praticata in Italia fin dal 1999, con esperienze sporadiche anche anteriori, e più diffusa dopo l’approvazione da parte della FDA nel 2001 (Agus, 2006 I). Viene eseguita preferibilmente in anestesia locale, tumescente o tronculare. L’utilizzo dell’ecocolordoppler durante la procedura deve essere considerato indispensabile per efficacia e sicurezza del risultato. L’obliterazione della vena grande safena è ottenuta per la contrazione delle fibre collagene della parete vasale, schelettrizzazione endoteliale con conseguente ispessimento parietale, contrazione del lume e fibrosi della vena, fenomeni ottenuti dall’energia termica rilasciata dall’attivazione della fibra laser. Attualmente l’indicazione è estesa oltre che alla grande safena, alla vena piccola safena, a tributarie lineari, e alla vena di Giacomini. Dalle prime presentazioni casistiche al Congresso Mondiale dell’UIP di Roma-2001, sono comparsi oltre 100 articoli in PubMed. Oltre un quarto di questi, in realtà, è rappresentato da review in parte solo concettuali, dimostrando peraltro il vasto interesse suscitato internazionalmente. Nei lavori pubblicati e in particolare nella prima ampia review (Min, 2002; Navarro, 2001; Anastasie, 2003; Perrin, 2004 ), tralasciando ormai le ricerche cliniche riportate come preliminari, viene messo in evidenza come a distanza di un anno vi siano percentuali di occlusione della grande safena tra il 94 e il 100%, duratura al 94% a 2 e 3 anni e serie con follow-up superiore ormai disponibili con numeri casistici di migliaia di casi da ogni parte del mondo, in studi prospettici controllati, retrospettivi su registri rigidi, di comparazione vs stripping o differenti tecniche endovascolari (Min, 2003; Creton, 2004; Huang, 2005; Kabnik, 2005; Kabnik 2006; Agus, 2006 II; Puggioni, 2005). Gli effetti collaterali rappresentati da ecchimosi, secondarie all’anestesia locale, e da bruciore cutaneo transitorio, sono trascurabili, ancorché frequenti. Più rilevanti le possibili, ma rare pigmentazioni (Mekako, 2007) e le trombosi venose superficiali, più facilmente riscontrabili vicino al ginocchio, ma definibili più correttamente cordoni indurativi infiammatori (Puggioni, 2005). Tuttavia, mentre il protocollo di procedura della RFA è standardizzato sin dall’inizio d’uso, la procedura dell’ELT è risultata alquanto variabile, come è stato osservato nella prima review sulle casistiche pubblicate in inglese e francese (Perrin, 2004) e solo pochi hanno dichiarato di seguire un preciso protocollo step by step (Agus, 2006 II). Ne consegue che da un lato vengono infatti usate lunghezze d’onda differenti nell’ uso del diodo (808, 810, 940, 980 nm) o del Nd-Yag (1064, 1320 nm); dall’altro non è facile standardizzare il rapporto dei parametri di energia per le variabili spessore (mm)-potenza (W)- tempo (msec)- fluenza (J/cm2). Diverse soluzioni sono state proposte per una miglior predizione di successo: concomitante interruzione della giunzione safeno-femorale (Corcos, 2005); preferire il rapporto di fluenze J/cm2 (volume-based) piuttosto che J/cm (linear-based) e più alte potenze (Proebstle, 2006); più basse potenze, ma più lunghe esposizioni (Kaspar, 2007); anestesia locale con maggiore infusione tumescente per collassare la vena (Kontothanassis, 2007). In sintesi, per entrambe le procedure, non è stata valutata ancora appieno una serie di incognite: a) Le casistiche. Non sono ancora molte quelle che hanno superato 5 anni per un follow-up ottimale dei pazienti trattati. b) L’obliterazione della safena si ottiene a distanza di sicurezza dall’ostio (2 cm, ma è diffuso il criterio di rapportarsi alla inserzione della vena epigastrica superficiale). Rimane di conseguenza pervio un piccolo “cul di sacco” terminale, nel quale si drenano le collaterali della crosse defluenti dalla pelvi, contrariamente a quanto si realizza con l’intervento di crossectomia standard. Secondo diverse valutazioni, le procedure obliterative che mantengono questa situazione emodinamica finale, senza trauma da incisione chirurgica della zona, sembrano essere favorevoli nell’evitare le recidive della giunzione (Chandler, 2000; Gorny, 2001; Bergan, 2005 ). c) Per quanto riguarda il rapporto costo-beneficio, l’unità di controllo prevede una spesa iniziale significativa, mentre i cateteri sono costosi solo per la RFA, che tuttavia in una ricerca randomizzata su un numero limitato di pazienti (Rautio, 2002) ha evidenziato come la RFA pur costando il doppio dell’intervento chirurgico tradizionale di stripping , abbia un buon costo-beneficio per i pazienti e la società; mentre il kit di trattamento laser costa meno, indipendentemente dalla possibilità impropria di riuso delle fibre sterilizzabili e quindi riutilizzabili, ma con rischi di inefficacia, insicurezza e malpractice per le normative vigenti su device disposable, con evidenze dimostrate sul deterioramento dopo autoclave. Raccomandazione: Entrambe le procedure obliterative endovascolari possono essere ora considerate validate dalla letteratura scientifica internazionale e da un uso sempre più comune e alternativo allo stripping. Grado B I b Devono essere tuttavia ancora considerate come procedure in fase di validazione clinica a distanza superiore ai cinque anni, su grandi numeri casistici. Devono essere praticate in Centri flebologici accreditati e dotati di strumentazione dedicata, dopo un necessario periodo di apprendimento. 4. CHIRURGIA DELLE VENE PERFORANTI Le vene perforanti assicurano la comunicazione attraverso l’aponeurosi muscolare tra le vene del sistema superficiale e le vene del sistema profondo. In numero variabile da 80 a 140 per arto inferiore, hanno un diametro che non supera i due millimetri e sono provviste di una valvola che si localizza di norma nel tratto sotto-aponeurotico. L’identificazione di vene perforanti di gamba incontinenti è oggetto di controversie. Se l’ecodoppler sembra l’indagine più affidabile, la metodologia dell’esame resta controversa (Bishop, 1991; Sarin, 1992). E’ certo che un reflusso della durata superiore ad 1 secondo con un calibro della perforante superiore ai 2 mm. debba essere considerato patologico. Il rapporto tra grado di severità della IVC e vene perforanti incontinenti è determinato dal numero di perforanti interessate e soprattutto dalla associazione di più sistemi venosi patologici (Labropoulos, 1994; Myers, 1995). L’eliminazione delle perforanti incontinenti in associazione con la bonifica delle vene varicose e del reflusso safenico nel trattamento dei pazienti con grave insufficienza venosa cronica costituisce un approccio terapeutico importante nel trattamento dei disturbi trofici della cute (Jugenheimer, 1992). L’indicazione al trattamento chirurgico è elettiva in pazienti con perforanti incontinenti di gamba e con ulcera attiva o chiusa (classe C5-C6 CEAP), mentre il trattamento delle perforanti da insufficienza superficiale viene riservato ai pazienti sintomatici con distrofie cutanee (classe C4 della CEAP) (Whiteley, 1998). Si distinguono due modalità di trattamento chirurgico delle vene perforanti: a) il soprafasciale ed il sottofasciale con la metodica tradizionale; b) il sottofasciale con la metodica endoscopica. I risultati del trattamento con la metodica tradizionale (tecnica di Linton, Cockett, Felder, De Palma) non si discostano tra le varie tecniche utilizzate, con una percentuale di recidiva ulcerosa che oscilla tra il 9 e il 16,7% con un follow-up variabile dai 5 ai 10 anni (Danza, 1991; De Palma, 1996). Il trattamento endoscopico delle perforanti, prevede sia un mono accesso (trocar unico) sia un doppio accesso chirurgico (trocar operatore ed ottica). Numerosi studi hanno dimostrato la comparsa di recidiva ulcerosa a 5 anni di follow-up in una percentuale sino al10% (Bergan, 1996; Perik, 1997; Whiteley, 1998). Molti Autori hanno associato il trattamento chirurgico endoscopico alla bonifica del sistema venoso superficiale incontinente (Rodhes, 1998; Pigot, 1999) con una percentuale di recidive ulcerose simile a 5 anni di follow-up, anche se in uno studio multicentrico che valutava la chirurgia endoscopica contro la chirurgia endoscopica e bonifica del sistema superficiale si osservò a due anni di follow-up una minore percentuale di recidiva ulcerosa nel secondo gruppo (Gloviczki, 1999). Per la sua minore invasività, per il ridotto numero di complicanze post-operatorie e per la possibilità di agire lontano dalla sede dell’ulcerazione, è stato sostenuto il vantaggio della tecnica endoscopica rispetto al trattamento tradizionale delle perforanti (Nelzen, 2000), anche se oggi questa tecnica è sottoposta a critiche per eccesso di indicazioni. Recenti orientamenti e le ultime review raccomandano infatti cautela nella chirurgia delle perforanti (Karla, 2002; Mendes, 2003; Van Neer, 2003; Recek, 2006), che peraltro possono risultare importanti nella comparsa di recidive e di severità dell’ IVC (Delis, 2004; van Rij, 2005; Labropoulos, 2006). Raccomandazioni: Nei pazienti con sindrome post-trombotica il trattamento delle vene perforanti incontinenti, sia esso effettuato con scleroterapia o con tecnica chirurgica tradizionale o endoscopica, riveste un ruolo centrale. Grado B II a Nelle varici essenziali si deve distinguere il ruolo emodinamico delle vene perforanti di coscia (perforanti di Dodd) e della perforante di Boyd. Quando sono incontinenti, esse vanno sempre interrotte. Per le restanti perforanti di gamba occorre tener conto dell’aspetto clinico associato all’aspetto strumentale e una subalternità alla correzione del reflusso lungo appare consigliabile. Grado C III 5. VARICI RECIDIVE Per varici recidive si intendono le varici che compaiono dopo terapia chirurgica e non le residue alla stessa (Perrin, 2000). La chirurgia delle varici degli arti inferiori è una chirurgia semplice solo in apparenza, essendo assai numerose le insidie. La dimostrazione di tale affermazione è l’alta percentuale di recidive riportata dalla letteratura internazionale (Larson, 1974; Elbaz, 1977; Agus, 1982; Rutherford, 1990; Labropoulos, 1996; Botta, 2001) anche quando apparentemente risulti dopo chirurgia correttamente eseguita (Allegra, 2007). L’interpretazione di tali casistiche non è però sempre omogenea a causa della etereogenicità del reclutamento e del diverso percorso diagnostico terapeutico. Le cause di recidiva più frequenti sono: 1. Errata strategia diagnostica e di appropriatezza terapeutica Il risultato a lungo termine della chirurgia delle varici è legato ad una corretta diagnosi. Solo l’esatta individuazione delle cause emodinamiche delle vene varicose permette di programmare un appropriato iter terapeutico (Bradbuty, 1993). Al concetto di “radicalità chirurgica”, intesa come estirpazione anatomica della safena con tutte le sue collaterali e di tutti i gozzi varicosi, che ha caratterizzato la chirurgia delle varici per quasi un secolo, si è sostituito definitivamente quello di “radicalità emodinamica”, intesa come eliminazione di tutti i difetti emodinamici che sono alla base della formazione delle varici e degli altri segni e sintomi dell’ IVC (i reflussi). Per rendere riproducibili nel tempo tali situazioni, è nata da più di un decennio la cartografia emodinamica preoperatoria (Franceschi, 1988), una sorta di carta geografica delle varici e dei difetti circolatori venosi degli arti inferiori, che ha contraddistinto non solo l’intervento CHIVA, ma anche tutta la chirurgia venosa. Un uso non corretto di tali nozioni, soprattutto su base anatomica, può essere causa di recidive. 2. Errori tecnici Numerosi lavori dimostrano in modo inconfutabile l'importanza degli errori nella esecuzione degli interventi, spesso piuttosto grossolani, e non solo nelle casistiche più datate (Haegher, 1967; Crane, 1979; Agus, 1982; Marques, 1987; Tong, 1995). Le varici recidive sembrerebbero più frequenti dopo chirurgia dei reflussi post-trombotici (Allegra, 2007). Tra i motivi, che possono indurre in errore durante un intervento per varici degli arti inferiori, certamente il più importante è stato considerato per lungo tempo essere la grande variabilità anatomica della giunzione safeno-femorale, che può portare il chirurgo a lasciare in sede alcune collaterali, fonte della recidiva. Oggi, in relazione alle nuove vedute sulla giunzione safeno-femorale trattata con criteri emodinamici dagli interventi endovascolari e dalla stessa CHIVA, il valore della crossectomia cosiddetta “radicale” èstato messo in discussione. La terapia delle varici recidive può essere nuovamente di tipo chirurgico con approccio inguinale laterale sottofasciale, per non incorrere nelle difficoltà tecniche legate alla sclerosi cicatriziale (Li, 1975; Belardi, 1994; Botta, 2001), qualora sia documentato all’Eco-(Color)-Doppler un moncone safenico lungo con una o più collaterali refluenti (Royle, 1981). In prospettiva dovrà essere considerato l’ uso selettivo di imaging come la flebo-RM (Koizumi, 2007). In tutti quei casi in cui non sia indicato il trattamento chirurgico o in alternativa ad esso, può essere utilizzato il trattamento medico farmacologico e compressivo, in considerazione dei ridotti benefici della chirurgia delle recidive sulla QoL (MacKenzie, 2002 I). Le nuove tecniche endovascolari quali la RFA o l’ELT possono tuttavia essere utilmente impiegate ((Hinchliffe, 2006); o la scleroterapia, oggi più efficace grazie alla tecnica con schiuma (Creton, 2007; O’Hare, 2007); Raccomandazioni: Ferma restando la possibilità di recidiva delle varici quale evoluzione dell’ IVC, al fine di porre rimedio al ripresentarsi delle varici è necessaria una corretta diagnosi ben ottenibile con gli ultrasuoni (esami di I e II livello), riservando a rari casi particolari (III livello) la flebografia selettiva o nuove metodiche di imaging (flebo-RM), onde ridurre al massimo l’errore. Grado B III CHIRURGIA DEL SISTEMA VENOSO PROFONDO Insufficienza venosa profonda cronica La patogenesi della insufficienza venosa profonda cronica (IVPC) può essere costituita da ostacolo al deflusso venoso proveniente dagli arti inferiori e dalla pelvi - in caso di sindrome post-trombotica (SPT), in caso di stenosi non trombotica di vene di grosso calibro o sindrome di May-Turner -, oppure da reflusso primario in stazione eretta - nella insufficienza venosa profonda primaria (IVPP), nei rari casi di ipogenesia o agenesia valvolare o di altre anomalie anatomiche - o infine da reflusso secondario - nella SPT tardiva, dopo ricanalizzazione parziale o comunque danneggiamento dell’apparato valvolare -. Sul piano della fisiopatologia l’IVPC fa parte dell’ IVC, caratterizzata dalla ipertensione venosa periferica, aggravata dalla stazione eretta in ragione della gravità, che condiziona una serie di alterazioni a carico del microcircolo con edema interstiziale, ipossia tessutale e danni conseguenti. L’IVPC si manifesta con una sintomatologia variabile a seconda della patogenesi, della localizzazione del difetto funzionale, dell’epoca di insorgenza di esso. La diagnosi si avvale di tecniche diagnostiche raccomandate. Per la visualizzazione e localizzazione del difetto vascolare sono utili soprattutto l’ecodoppler e la flebografia discendente per l’arto inferiore, l’angio-TC per il tratto iliocavale; mentre per la valutazione emodinamica sono utili la misurazione della pressione venosa distale, la pletismografia ad aria, la fotopletismografia. La valutazione e l’interpretazione dei risultati strumentali non è del tutto univoca tra i vari AA, tuttavia si è raggiunto un certo accordo circa i parametri emodinamici da utilizzare nel porre l’indicazione al trattamento medico-chirurgico “aggressivo”. Essi sono: Pressione venosa deambulatoria > 40 mmHg; Tempo di Riempimento Venoso (TRV) < 12 sec; Indice di Reflusso Venoso (VRI) > 0,5-1,0 sec; d. Reflusso venoso di III-IV grado alla flebografia discendente (Kistner, 1986). La terapia è conservativa, basata soprattutto sulla elastocompressione. Nei casi lievi, e comunque nella maggioranza di quelli trattati in stadio precoce, essa risulta efficace. In casi più gravi, o ribelli alla terapia conservativa, si possono attuare procedure medico-chirurgiche atte ad eliminare o ridurre la causa ostruttiva o il reflusso valvolare. Indicazioni chirurgiche: sono poco frequenti e ciò per diverse ragioni. In primo luogo, nella maggioranza dei casi il trattamento conservativo, e in particolare l’elastocompressione, fornisce risultati soddisfacenti e con una qualità di vita accettabile. Di conseguenza, la compressione elastica va sempre proposta ed attuata nel paziente con IVPC come primo approccio terapeutico, controllandone nel tempo la corretta applicazione e l’efficacia, e apportando eventuali modifiche a seconda della necessità. Pertanto, salvo casi particolari, il trattamento chirurgico deve essere proposto solo dopo il fallimento del trattamento conservativo. In secondo luogo, l’indicazione all’intervento chirurgico deve essere posta in base alla gravità complessiva del quadro clinico dell’IVC e non già soltanto sui parametri strumentali. L’intervento può essere proposto in caso di ulcerazione in atto o recidivante (CEAP C5-C6), soprattutto se in presenza di IVPP, ma eventualmente anche secondaria a SPT, in caso di claudicatio venosa, in caso di varici polirecidive. Procedure medico-chirurgiche: possono essere di ricanalizzazione e quindi correttive dell’ostruzione, oppure di correzione del reflusso venoso. Le procedure di ricanalizzazione attualmente disponibili sono: a) la trombolisi farmacologica e meccanica. La trombolisi, con infusione protratta di Urokinasi, è accettata come efficace nella trombosi acuta e recenti esperienze suggeriscono di associarla a procedure endovascolari (vedi sotto b-c) come alternativa alla terapia anticoagulante di lunga durata (Jackson, 2005; Schwarzbach, 2005). Peraltro, essa si dimostra utile anche nella trombosi cronica, soprattutto se somministrata mediante catetere posizionato intra-trombo, eventualmente associata all’uso del trombolizzatore e aspiratore meccanico, sotto la guida degli ultrasuoni percutanei (Kwak, 2005) o intravascolari (IVUS). Il trombolizzatore consente di accelerare il risultato, mentre l’IVUS facilita il monitoraggio dell’infusione e consente una migliore valutazione della parete venosa. Si avvantaggiano della trombolisi soprattutto le trombosi subacute (ma anche quelle croniche) del tratto ilio-cavale, sia per il grosso calibro e la centralità dei vasi sia perché la ricanalizzazione del segmento venoso lo rende disponibile per l’angioplastica e lo stenting. b) l’angioplastica endoluminale con catetere a palloncino. I progressi nello strumentario endovascolare oggi disponibile hanno consentito l’accumulo e il vaglio di una consistente casistica. A causa della tenacia del tessuto iperplastico o cicatriziale di parete, sono preferiti palloni ad alta pressione (12 atm e oltre) ed eventualmente una predilatazione con palloni taglienti (cutting balloon). I risultati in termini di efficacia e di sicurezza sono definiti favorevoli dalla maggioranza degli AA. La procedura si è dimostrata efficace nel trattamento di stenosi e ostruzioni soprattutto di vasi centrali (vene anonime, cava superiore e inferiore, iliache), in casi che non sarebbero stati trattabili in altro modo (per scompenso di circolo, neoplasie avanzate, emodialisi cronica). c) il posizionamento di stent metallico. In molti casi l’angioplastica non dà un risultato stabile, a causa del ritorno elastico della parete (recoiling) o per la presenza di compressione estrinseca al vaso. Si può allora posizionare uno stent metallico per mantenere il lume vasale pervio. Data la frequente tenacia della parete, si dà preferenza a stent autoespandibili, ad elevata forza radiale. E’ tuttavia da considerare che lo stent posizionato in una sede soggetta a frequente compressione o deformazione può andare incontro a rottura meccanica. Sono descritti casi di migrazione dello stent (Mullens, 2006). d) Il bypass venoso. Il bypass femoro-femorale crociato eseguito con la dislocazione della safena autologa (sec. Palma), è intervento considerato efficace per alleviare una ostruzione iliaca monolaterale. Alcuni AA. associano la confezione di fistola a-v per aumentarne la portata e ridurre il rischio di trombosi post-operatoria, ma questa pratica non ha dimostrato efficacia univoca (Jost, 2001). Minore efficacia hanno dimostrato i bypass femoro-iliaco-cavali o femoro-renali, i quali oltretutto comportano una notevole invasività chirurgica. Le procedure antireflusso venoso attualmente disponibili sono: e) La valvuloplastica. Il rationale per questo trattamento si basa sul reperto istopatologico che, in stadio iniziale, le cuspidi valvolari sono ancora sane, seppure allungate e incontinenti a causa della dilatazione del bulbo valvolare. L’obiettivo è quello di riportare le cuspidi valvolari a contatto tra loro. E’ necessario quindi visualizzare ecograficamente che le cuspidi siano mobili e non atrofiche nel sito da sottoporre a intervento riparativo (vena femorale superficiale, vena poplitea, valvola terminale e pre-terminale della grande safena). L’intervento consiste nel rimodellamento della valvola venosa o dei suoi elementi costitutivi. Questo può essere ottenuto plissettando direttamente le cuspidi stesse, o suturando la parete venosa, o avvolgendola con un manicotto protesico (in Dacron o PTFE, senza o con un sostegno metallico) di appropriato diametro. La ritrovata continenza dovrebbe essere testata intra-operatoriamente mediante milking manouvre o ultrasuoni o entrambi. Dopo oltre 10 anni di sperimentazione clinica, questo approccio ha dato risultati incoraggianti ove siano stati rispettati i criteri di indicazione chirurgica e di fattibilità tecnica. Si distinguono varie tecniche di valvuloplastica: 1. valvuloplastica interna, che comporta la venotomia e la riparazione dall’interno, mediante plissettatura delle cuspidi valvolari allungate o prolassate (sec. una delle tecniche proposte) (Kistner, 1968; Raju, 2000; Sottiurai, 1988). Con la corretta indicazione, l’intervento è tecnicamente fattibile e con risultati positivi sulla vena femorale superficiale o vene di diametro maggiore ma non è generalmente applicabile alle vene safene, sia a causa del piccolo diametro che dello spasmo conseguente alla manipolazione chirurgica. 2. valvuloplastica esterna (diretta), che non comporta la venotomia, ma la riparazione si esegue dall’esterno, mediante una sutura continua longitudinale lungo le pareti intercommissurali (sec. Kistner), che tende a realizzare un accorciamento “alla cieca” delle cuspidi valvolari e anche una riduzione del diametro valvolare (Raju, 2000). 3. valvuloplastica esterna (indiretta), che non comporta la venotomia ma la riparazione si ottiene mediante la riduzione della circonferenza del bulbo valvolare per costringere le cuspidi valvolari ad un migliore contatto tra loro. L’obiettivo si ottiene applicando attorno alla vena un manicotto (banding) costituito da una benderella di materiale sintetico (di solito PTFE o Dacron-Silicone) suturato successivamente su un lato, in modo da ridurre in modo permanente la circonferenza e quindi il diametro della valvola e modificarne comunque la sezione assiale, per la lunghezza di circa un centimetro. L’intervento è applicabile, seppure con maggiore difficoltà tecnica, anche alle vene safene (Ik Kim, 1999; Belcaro, 2000; Yamaki, 2001). Attualmente in Italia non sono in commercio devices specifici per il banding valvolare e il chirurgo dovrà confezionarlo artigianalmente. Nella esecuzione della valvuloplastica, di notevole aiuto risulta l’angioscopia diretta con strumenti di piccolo diametro (circa 3 mm), anche se essa aumenta la complessità dell’operazione (Welch, 1992). I risultati della valvuloplastica sono riferiti buoni o ottimi nel 75-80% dei casi trattati, anche a distanza di tempo, con scarsa incidenza di trombosi precoce e di incontinenza tardiva (Raju, 1992; Tripathi, 2004). I risultati migliorano in caso di valvuloplastica in sedi multiple o di associazione alla valvuloplastica interna del manicotto protesico perivenoso (Us, 2007; Rosales, 2006). Tuttavia, essendo le serie riportate in letteratura per la maggior parte esigue e non prospettiche, la stratificazione della casistica non standardizzata, le tecniche chirurgiche diverse fra loro, non è ancora possibile esprimere su di esse un documentato giudizio di efficacia (Hardy, 2004). Dal momento che questo tipo di intervento può essere efficace solo quando la valvola presenta cuspidi valvolari mobili e riparabili, esso raramente è realizzabile nella SPT. In questi casi, se la vena già trombosata e ricanalizzata non appare troppo danneggiata all’Eco-Doppler e/o alla flebografia (ispessimento parietale importante, presenza di ricanalizzazioni multiple), si può ricorrere anche ad altri tipi di intervento: la trasposizione venosa o il trapianto di segmento venoso valvolato, oppure le procedure mininvasive a-b-c (vedi sopra). f) La trasposizione venosa. Rappresenta l’intervento di seconda scelta. Per la sua realizzazione è necessario che una vena “parallela” con valvole incontinenti possa essere messa “in serie” nel circuito venoso a monte di una valvola continente. Il vaso “parallelo” più frequentemente utilizzabile è la vena femorale superficiale. Questa può essere suturata alla vena femorale profonda o alla safena interna, se esse presentano una valvola terminale continente. Questa tecnica offre il vantaggio di richiedere una sola anastomosi, ma sfortunatamente non sempre è attuabile o per eccesso di distanza anatomica o per assenza di valvola continente nel vaso di approdo. g) Il trapianto di segmento venoso valvolato. L’intervento consiste nell’interporre a livello del circolo venoso profondo incontinente un segmento venoso che comprenda una o due valvole funzionanti. Il prelievo viene solitamente eseguito sulla vena axillo-omerale, meno frequentemente sulla vena grande safena o sulla vena femorale superficiale controlaterale. La scelta del sito ove interporre il segmento valvolato dipende dalla mappa del reflusso venoso e dalla qualità della vena ricevente. I siti più spesso utilizzati sono la parte terminale della vena femorale superficiale e la vena poplitea. Peraltro, la vena poplitea è spesso sede di alterazioni parietali ed endoluminali che possono rendere inefficace l’intervento in quella sede e, inoltre, l’eventuale ostruzione del trapianto non viene bene tollerata. La frequenza della trombosi post-operatoria nei trapianti è più frequente che nelle trasposizioni ed ancora di più che nelle valvuloplastiche (Raju, 1988). Secondo alcuni si verifica una progressiva degradazione valvolare, per dilatazione della vena trasposta (Raju, 1992). Questo giustificherebbe l’artificio tecnico, proposto da alcuni Autori, di posizionare un manicotto intorno al segmento trapiantato. h) SEPS In associazione alla chirurgia del sistema superficiale, la legatura selettiva sottofasciale delle perforanti di gamba per via endoscopica (SEPS) ha dimostrato di essere efficace. Questo si evince da uno studio cooperativo, multicentrico, controllato, retrospettivo su 832 pazienti (ma prospettico e randomizzato su 92 di essi) (Tawes, 2003) e da uno prospettico su 53 SEPS consecutive (Ting, 2006). i) Altri interventi. Altri interventi sono stati proposti ed attuati nel trattamento dell’IVPC: intervento di Psathakis, impianto di protesi valvolare eterologa criopreservata (Dalsing, 1999; Gomez-Jorge, 2000; Pavcnik, 2004), creazione di neo-valvola autologa (Maleti, 2006), ed altri. Essi non hanno trovato un consenso o una diffusione sufficiente per una valutazione critica, oppure sono stati abbandonati. Essi vengono eseguiti da singoli operatori in centri specializzati e sono generalmente riservati a casi molto particolari. Sindromi da reflusso profondo degli arti inferiori In caso di insufficienza venosa profonda primaria (IVPP), se questa è lieve la cura del reflusso superficiale può portare notevole beneficio e anche abolire il reflusso nella vena femorale. Al contrario, in caso di reflusso severo e veloce, con sintomatologia clinica grave (CEAP C5-C6) e non dominabile con la terapia conservativa, l’intervento di valvuloplastica a livello della vena femorale superficiale deve essere considerato. In questi casi, la percentuale di recidiva dell’ulcera dopo terapia conservativa è alta in assenza di correzione del reflusso profondo, mentre i risultati ottenuti dai Centri che hanno praticato questo tipo di chirurgia sono buoni e duraturi. L’intervento può essere proposto anche in caso di SPT (Akesson, 1999; Maleti, 2006). Indicazioni. Prima di porre l’indicazione chirurgica, è obbligatoria una accurata valutazione dei reflussi e della loro correlazione e responsabilità nella sintomatologia. Sono pertanto da eseguire: l’esame clinico, l’esame Ecodoppler, la classificazione CEAP, i test emodinamici, la flebografia discendente. Questo esame, eseguito con manovra di Valsalva, consente di verificare il grado del reflusso (sec. Kistner), di perfezionare la mappa dei reflussi complessivi, di visualizzare le valvole potenzialmente recuperabili. Varie esperienze documentano una riduzione della IVPP dopo trattamento del reflusso nel sistema superficiale (Ting, 2006), ma è anche dimostrato da uno studio randomizzato (Wang, 2006) un migliore risultato complessivo con la cura di entrambi i sistemi contemporaneamente (Sakuda, 2002), con differenza statistica anche < 0.05 (Zhang, 2004). Terapia. Se l’indicazione chirurgica è confermata, si può optare per una della tecniche di valvuloplastica sopra elencate oppure una combinazione di esse. I risultati sono attestati positivi nel 70-80% dei casi (Masuda, 1994). In una revisione di 423 interventi di ricostruzione valvolare in casi di IVPP e di SPT, eseguita con varie tecniche e controllati con Ecodoppler, fu redatta la seguente graduatoria in ordine alla durata nel tempo (follow-up 1-12 anni) ed alla efficacia dei metodi chirurgici: a) valvuloplastica interna; b) valvuloplastica esterna con manicotto protesico; c) valvuloplastica esterna con sutura diretta; d) trapianto venoso. Una sorpresa fu l’eccezionale efficacia della valvuloplastica eseguita sulle vene tibiali posteriori; non fu invece osservata nessuna differenza significativa in ordine alla recidiva dell’ulcera (Raju, 1996). Tuttavia, è da considerare che i risultati migliori sembrano essere quelli della valvuloplastica interna associata al banding esterno (Tripathi, 2004; Us, 2007) e alla molteplicità delle valvole riparate (Rosales, 2006). D’altro canto, il banding eseguito isolatamente risulta essere intervento più semplice e rapido, gravato da minori complicazioni, e comunque efficace (Cavilli, 1994). Peraltro, sulle varie tecniche chirurgiche di valvuloplastica non è ancora possibile esprimere un generale e documentato giudizio di efficacia (Hardy, 2004). Attualmente in Italia non sono in commercio devices specifici per il banding valvolare e il chirurgo dovrà confezionarlo artigianalmente; questo rappresenta una evidente limitazione oggettiva. Raccomandazioni: L’intervento antireflusso di valvuloplastica nella IVPP risulta efficace e sicuro nel 75-80% dei casi. Nessuna delle tecniche ha dimostrato di essere sicuramente superiore alle altre. A tutt’oggi, non è raccomandabile l'uso estensivo di questi interventi chirurgici. Essi vanno riservati a pazienti selezionati ed eseguiti in strutture o da specialisti con specifiche competenze. Grado C III Sindromi ostruttive degli arti inferiori e dell’asse ilio-cavale In caso di ostruzione permanente e stabilizzata dei tronchi venosi profondi si instaura la sindrome post-trombotica (SPT), detta in passato post-flebitica, caratterizzata inizialmente da una sindrome esclusivamente ostruttiva. Questa diviene meno grave con l’andare del tempo, a mano a mano che si realizza la ricanalizzazione del vaso e/o lo sviluppo di un circolo collaterale di compenso; peraltro, a causa di questo, seppure la sindrome ostruttiva va riducendosi, si sviluppa progressivamente una sindrome da reflusso, per devalvulazione della vena colpita. Così entrambe, sommandosi, comportano un aumento della ipertensione venosa in stazione eretta e il peggioramento progressivo della sintomatologia clinica da IVC. Sono descritte sindromi ostruttive sia a livello sotto- che sopra-inguinale. Fermo restando che la terapia conservativa (terapia anticoagulante ed elastocompressione), protratta e ben condotta, rappresenta il cardine della prevenzione delle recidive trombotiche e dell’aggravamento evolutivo della SPT, scopo della terapia chirurgica in questi casi è quello di ricreare una via di ritorno venoso emodinamicamente efficace e, nei limiti del possibile, una riduzione del reflusso secondario alla ricanalizzazione. Indicazioni. I criteri clinici e strumentali che suggeriscono l’indicazione chirurgica sono quelli già descritti a giustificazione del trattamento medico-chirurgico “aggressivo” e preliminari al trattamento delle IVPP. Un esame aggiuntivo utile può essere la misurazione bilaterale cruenta della pressione venosa femorale (Nicolaides, 1981). Nei casi con sintomi addominali riconducibili a una SPT pelvica, la circolazione venosa pelvica dovrebbe essere investigata routinariamente; infatti i casi accertati e trattati mediante posizionamento di stent hanno avuto buon risultato clinico (Blättler, 1999). In conclusione, un intervento sarà proponibile a pazienti con IVC grave (CEAP C5-C6) o con claudicazione venosa, in cui la terapia conservativa correttamente eseguita non abbia avuto efficacia, nei quali la causa ostruttiva sia situata in un vaso di grosso calibro e sia potenzialmente correggibile (Healey , 2006; Delis, 2007). Altra indicazione è ravvisata nelle stenosi di anastomosi venose dopo trapianto di fegato o di rene (Borsa, 1999) e nella sindrome di Budd-Chiari (Wu T Wang, 2002; de Riele, 2006). Terapia. Nelle ostruzioni iliache unilaterali, anche non recenti, la trombolisi, la tromboaspirazione, l’angioplastica e stenting sono risultate tecniche affidabili, abbastanza efficaci e relativamente mininvasive (Juhan, 2001; Raju, 2002; Kwak, 2005). In casi di ostruzione di vene profonde associata a reflusso superficiale, uno studio comparativo propone di combinare il trattamento dei due sistemi contemporaneamente (Neglén, 2006). L’intervento di bypass crociato con safena autologa (sec. Palma) trova una indicazione subalterna; peraltro, le buone condizioni anatomiche della grande safena sono essenziali per la sua esecuzione, ed essa deve avere un diametro non inferiore a 5 mm e il gradiente di pressione tra i due lati deve essere superiore a 4 mmHg in posizione supina e a 8 mmHg in posizione eretta. Se queste condizioni non si realizzano, si può ripiegare su un bypass sovrapubico con protesi alloplastica in PTFE armato, eventualmente associato al confezionamento di una fistola a-v. Infine, in soggetti giovani o in attività lavorativa o con sintomatologia molto invalidante, una ostruzione iliaco-cavale unilaterale fortemente sintomatica può essere curata realizzando un bypass femoro- o iliaco-cavale (Alimi, 1997) o anche, in casi molto particolari, un bypass femoro-renale. Nelle ostruzioni iliaco-cavali bilaterali, solo eccezionalmente è giustificabile l’indicazione ad un bypass femoro-cavale. E’ abbastanza frequente osservare che l’arteria iliaca comune destra comprime la vena iliaca comune sinistra contro il corpo vertebrale, situato posteriormente, provocando una stenosi anche del 50%, pur in assenza di sintomi (Kibbe, 2004), ma nella sindrome di May-Thurner la stenosi a carico dell’asse venoso sinistro è serrata ed emodinamicamente significativa. La stenosi può comportare la riduzione del diametro antero-posteriore della vena a soli 3-4 mm, essendo normale un diametro di circa 11 mm (Oguzkurt, 2005). In questi casi, la conferma diagnostica mediante angio-TC e/o ultrasuoni endovascolari suggerisce l’indicazione all’angioplastica dilatativa e al posizionamento di uno stent metallico (Forauer, 2002). Questa indicazione deriva anche dal fatto che la stenosi può essere progressiva ed è stata riconosciuta essere un fattore di rischio della TVP acuta omolaterale (Negl’en, 2003; Raju, 2006; Kim, 2006). E’ interessante inoltre l’esperienza di alcuni AA. che hanno posizionato stent o filtri cavali sulla la guida degli ultrasuoni, piuttosto che della tradizionale fluoroscopia (Zhang, 1999). Raccomandazioni: La prevenzione della SPT consiste nella prevenzione della TVP. La prevenzione delle sequele della SPT consiste nella elastocompressione adeguata, protratta per almeno due anni. Grado A La terapia della SPT è prevalentemente conservativa; a fronte del suo fallimento, in casi gravi e selezionati, sono indicati interventi chirurgici sul sistema venoso superficiale e profondo o propri dell'ulcerazione. Grado B In caso di stenosi di vene centrali (cava inferiore, iliaca comune ed esterna), gli interventi endovascolari sono generalmente efficaci e a basso rischio. Essi consentono di mantenere o migliorare la funzione degli organi correlati. Grado B Sindromi ostruttive dell’asse anonima-cava superiore La sindrome è caratterizzata da ostacolo al deflusso verso il cuore del sangue venoso delle regioni superiori del soma, soprattutto il cranio e gli arti superiori. La patogenesi è generalmente la compressione estrinseca (tumori infiltranti o benigni, aumento volumetrico o dislocazione di organi vicini) oppure la steno-ostruzione dei vasi centrali (trombosi, iperplasia miointimale). Tra le cause della steno-ostruzione, una sta diventando di più frequente osservazione: il cateterismo venoso centrale cronico (per applicazione di catetere-elettrodo per pacemaker, accesso di emodialisi, cateterismo infusionale nutritivo o terapeutico) (Korkeila, 2007). Una stenosi non emodinamica e non significativa in condizioni normali, può diventare rapidamente emodinamica e sintomatica se a monte di essa è attiva una fistola a-v ad alta portata, ad es. per emodialisi cronica. La sintomatologia è variegata, caratterizzata da ipertensione venosa nei territori coinvolti dall’ostacolo al deflusso venoso, da edema e cianosi del territorio correlato; la gravità dei sintomi dipende dalla rapidità di formazione dell’ostacolo, dalla centralità di esso, dalla portata del flusso che la vena è chiamata a veicolare (Agarwal, 2007). La diagnosi si avvale dell’esame clinico, dell’ecodoppler, dell’angio-TC, dell’angiografia - eventualmente associata a manovre dinamiche per mettere in evidenza particolari dettagli funzionali. Per quanto riguarda l’Ecodoppler, il rilievo nel segmento stenotico di una velocità di picco di 2,5 volte maggiore che nei segmenti normali omologhi è indicativa di stenosi significativa (Labropoulos, 2007). Indicazione ad un trattamento aggressivo deriva dalla gravità della sintomatologia clinica (vedi sopra), dal rischio delle complicanze tromboemboliche, dalla inefficacia o precarietà dell’accesso vascolare per emodialisi. Terapia : consiste generalmente nella angioplastica percutanea e nella applicazione di stent metallici, con il supporto della fluoroscopia o anche degli ultrasuoni endovascolari (IVUS), ma viene suggerito un approccio multimodale (Sajid, 2007). L’intervento può essere eseguito anche in pazienti pediatrici (Ing, 1998). Nelle stenosi estrinseche di natura benigna, i risultati sono riferiti ottimi o buoni (Petersen, 1999). La facilità della recidiva e la necessità di monitorare il sito trattato e di reintervenire su di esso, certamente limita ma non inficia l’efficacia del trattamento in quanto molte casistiche riportano, anche a distanza, una pervietà secondaria ottima o vicina al 100% (Oderich, 2000; Aytekin, 2004; Bornak, 2003, Rajan, 2007). La pervietà a distanza dello stenting primario non risulta superiore a quella della PTA isolata (Bakken, 2007). E’ da tenere presente la possibilità di complicanze, ad es. la formazione di pseudoaneurisma aortico causato dalla penetrazione di uno stent posizionato originariamente nella cava superiore (Warshauer, 2007). Raccomandazioni: In caso di stenosi di vene centrali (anonima, cava superiore), gli interventi endovascolari sono generalmente efficaci e a basso rischio. Essi consentono di mantenere o migliorare la funzione degli organi correlati e di prolungare l’utilizzabilità degli accessi vascolari per emodialisi. Generalmente, essi non sono risolutivi poiché frequentemente gravati da stenosi recidiva e dalla necessità di interventi iterativi. Grado C III COMPRESSIONE ELASTICA GENERALITA’ La terapia compressiva è fondamentale per il trattamento dell’ IVC degli arti inferiori nelle varie espressioni cliniche, con non meno pari dignità della terapia farmacologica per i suoi effetti su diametri vascolari, sull’emodinamica venosa, sulla pressione idrostatica dei grossi vasi superficiali e profondi, sulla microcircolazione, sulla coagulazione e la fibrinolisi, sui fluidi interstiziali e sulla riduzione dell’edema (Agus LG, 2000 e 2003; ). La compressione dei vasi venosi viene ottenuta mediante la applicazione di bende -o fasce- a lungo, medio e corto allungamento, e calze elastiche nelle varie conformazioni e taglie vengono utilizzate nelle varie situazioni in funzione delle necessità terapeutiche con una certa prevalenza delle fasciature per il trattamento delle situazioni acute e delle calze per le croniche (Agus LG, 2000). Dal punto di vista funzionale si distingue tra contenzione, esercitata da tutori rigidi che si oppongono passivamente alla espansione del segmento di arto cui sono applicati, con elevate pressioni da “lavoro” durante la deambulazione e pressoché nulle pressioni a riposo, e compressione, caratterizzata dalla pressione attiva e permanente sull’arto sia durante il lavoro che a riposo con scarse variazioni della stessa, caratteristica di fasce o bende e calze elastiche. Nel primo caso il tutore potrà essere indossato anche durante il riposo, nel secondo solo durante il giorno in relazione alla attività muscolare (Mollard, 1997). Nell’uno e nell’altro caso la mobilizzazione del paziente è determinante e parte integrante del trattamento stesso (Agus LG, 2000). Caso a parte rappresentano le calze antitromboemboliche che per conformazione e profilo di compressione trovano applicazione in caso di immobilizzazione prolungata con lo scopo di incrementare la velocità di flusso nel sistema venoso profondo per la prevenzione della Trombosi Venosa Profonda, indossate 24 ore/24. La terapia compressiva trova quindi applicazione in tutte le fasi della malattia venosa cronica sia superficiale che profonda: dalla cosiddetta insufficienza venosa funzionale, classe 0/1 della classificazione CEAP (Eklof, 2004), alla malattia varicosa (CEAP 2), dalle fasi di riacutizzazione (IVC “scompensata” – CEAP 4) all’ulcera venosa in fase acuta e per la prevenzione della sua recidiva (CEAP 5/6). Dalle Trombosi Venose Profonde (TVP), alle Superficiali (TVS), alla Sindrome Post-Trombotica (SPT) (Ramelet, 2002). Le modalità di contenzione/compressione ed il livello della stessa saranno graduati secondo il livello di espressione clinica della malattia. essendo ad oggi adottata a livello comunitario una normativa di riferimento (Agus LG, 2003), in Italia la maggior parte dei tutori elastici in commercio seguono la normativa In Europa la quantificazione dei livelli di compressione si rifà a normative nazionali non RAL-GZ 387 (RAL, 2002), riferimento per il Sistema Sanitario tedesco, la cui ultima revisione risale al Settembre 2002, che affida a due Istituti autorizzati, l’uno in Germania e l’altro in Svizzera, la verifica di qualità. La tabella di riferimento è la seguente: Classe Compressione in mm di Hg 1a 18-21 2a 23-32 3a 34-46 4a >49 Iniziano peraltro ad essere disponibili anche tutori prodotti secondo la normativa francese NF G 30-102 B (ASQUAL, 2002), del tutto simile alla precedente per norme e severità, che prevede ancora quattro classi di compressione, ma con valori inferiori: Classe Compressione in mm di Hg 1a 9.8 15 2a 15-20.3 3a 20.3-36 4a >36 COMPRESSIONE dopo CHIRURGIA VENOSA e SCLEROTERAPIA L’atto chirurgico è momento fondamentale nel continuum del trattamento dell’IVC , finalizzato, ove possibile, alla correzione dell’alterata emodinamica venosa e microcircolatoria dell’arto (Agus LG, 2003). La storia clinica del paziente non si può considerare esaurita con la prescrizione di un trattamento medico, di una calza elastica o con l’esecuzione di un atto chirurgico. L’IVC è malattia evolutiva con importanti implicazioni sulla qualità della vita e macro e microeconomiche, basti pensare agli enormi costi sociali – calcolati in 1000 miliardi di €/anno per i maggiori Stati dell’Unione Europea - ed al disagio familiare per l’assistenza di anziani affetti per esempio da ulcera da stasi venosa cronica (Andreozzi, 2005; Agus LG, 2003). La compressione è provvedimento complementare all’atto chirurgico ed i suoi obiettivi sono (Agus LG, 2003): • • • • • • La prevenzione del sanguinamento e delle ecchimosi La riduzione delle pigmentazioni cutanee La riduzione dell’edema post-operatorio La prevenzione di TVP e TVS oltre che di Embolia Polmonare La riduzione della sintomatologia dolorosa post-intervento La prevenzione delle recidive varicose Nel caso della scleroterapia si aggiungono gli effetti favorenti l’occlusione del vaso e la prevenzione delle ricanalizzazioni, mentre del tutto recentemente l’introduzione delle tecniche di occlusione endovascolare mediante radiofrequenza o laser hanno aperto nuovi campi di applicazione e di studio. Chirurgia Compressione pre-chirurgia La compressione nel periodo precedente l’atto chirurgico, oltre che commisurata al trattamento della patologia di base, è rivolta alla riduzione dell’edema a ridurre eventuali turbe trofiche o infiammatorie (Cornu-Thenard, 2006). Compressione in corso di chirurgia In assenza di particolari situazioni di rischio tromboembolico relative al singolo paziente non vi è indicazione all’uso routinario di profilassi antitrombotica farmacologica in chirurgia vascolare venosa, da considerarsi a basso/medio rischio rispetto all’età del paziente - < a 40 anni basso rischio; > a 40 medio rischio – (Geerts, 2004). La compressione con calza ATE potrebbe essere indicata sull’arto controlaterale per l’eventuale prevenzione di TVP in casi selezionati (Partsch, 2003). La mobilizzazione precoce “aggressiva” e l’uso di calze di tipo ATE eventualmente associate a terapia eparinica nei casi a rischio moderato o superiore sono considerati provvedimenti adeguati (Geerts, 2004; Howard, 2004). Compressione post-chirurgia La sua applicazione dovrebbe essere sistematica utilizzando bende o calze secondo la necessità clinica e proposta per le prime settimane dal trattamento (Perrin 1999). Vi sarebbe una lieve superiorità del bendaggio a compressione elevata rispetto alla calza per la riduzione del sanguinamento post-operatorio, anche nel caso di flebectomia ambulatoriale secondo Muller (Neumann 1998). La sintomatologia dolorosa e le parestesie sono ben controllate da una compressione elastica con calze con livelli di compressione 15 mmHg alla caviglia applicate dopo i primi giorni (Agus LG, 2003; Cornu-Thenard, 2006; Partsch, 2003). Sono disponibili pochi studi relativi a confronti tra diversi metodi e/o tempi di compressione post-chirurgia. Uno studio prospettico multicentrico eseguito su pazienti candidati a chirurgia tradizionale per flebopatie C2 – C6 avviati a tre trattamenti compressivi post-operatori differenti secondo la normativa francese NF G 30-102 B (ASQUAL, 2002), sulla base della scelta degli sperimentatori (calze sovrapposte di 2 classe francese per 48h seguite da calza di 2 classe per un mese; calza di 2 classe + eventuale benda sovrapposta per 8 giorni 24h/24; calza 2 classe per 36h seguita da calza 2 classe durante il giorno per 4 giorni), ha confermato la equivalenza e la migliore compliance per il trattamento meno aggressivo (Pittaluga, 2004). La compressione post-chirurgia eserciterebbe la massima efficacia antiedemigena e contrastante la formazione di edemi ed ematomi entro la prima settimana dall’intervento (Raraty, 1999; Bond, 1999; Biswas, 2007). Successivamente il disconfort e le limitazioni al movimento causerebbero una elevata percentuale di abbandoni del trattamento e non influenzerebbero in maniera maggiormente favorevole il processo di guarigione e la comparsa di eventuali complicanze (Biswas, 2007), ma l’indossare una calza nell’anno successivo ridurrebbe dal 71 al 6% le recidive varicose ( Travers, 1994) Non vi sarebbe una maggiore efficacia confrontando i risultati a breve termine di fasciature con bende adesive, fasciature con bende elastiche o calze elastiche sterili applicate sul tavolo operatorio. Le fasce adesive consentirebbero di ridurre i costi assistenziali non essendo necessario sostituirle nella prima settimana (Raraty, 1999), ma una calza elastica sterile applicata al tavolo operatorio darebbe maggiori garanzie sulla compressione trasmessa non essendovi necessità di addestramento da parte del personale alla applicazione di fasciature. Nella pratica clinica i risultati di una inchiesta effettuata nei primi anni ’90 tra medici portoghesi ( Menezes, 1992) avevano già dimostrato una estremamente diffusa attitudine alla prescrizione di una compressione post-chirurgia della varici (superiore all’80%). Questo atteggiamento si conferma in una recentissima indagine che ha coinvolto 280 chirurghi di lingua francese dediti alla chirurgia venosa (vascolari e non) che hanno risposto ad un questionario dedicato alla terapia compressiva (su 675 cui il questionario è stato inviato). Il 97.1% prescrive regolarmente una compressione, il 67,3 associata ad un trattamento farmacologico (Rastel, 2004). Il 100% dei flebologi italiani considerano indispensabile la compressione nell’immediato post-operatorio con netta prevalenza per l’uso di fasciature elastiche nelle prime ore e delle calze alla dimissione (Bisacci, 2005). Raccomandazioni: Non vi sono evidenze circa l’opportunità di una compressione elettiva in fase pre-chirurgica. Un trattamento compressivo dovrebbe far parte del corredo terapeutico del paziente flebopatico indipendentemente dal momento chirurgico programmato. GRADO B IV Vi è indicazione al trattamento compressivo post-chirurgia venosa. GRADO B Ib Nella pratica clinica sembra affermarsi con maggiore frequenza l’utilizzo di fasciature elastiche nelle prime 24-72 ore dopo l’intervento seguite da compressione con calza elastica di 1-2 classe nelle settimane successive.GRADO B I b Compressione dopo trattamenti endovascolari La obliterazione delle vene varicose mediante la applicazione di trattamenti endovascolari utilizzanti radiofrequenze e luce laser è stata recentemente introdotta nel bagaglio terapeutico (Perrin, 2004; Agus, 2006). Anche nel caso di queste procedure molti Autori prevedono la applicazione di calze di con compressione alla caviglia variabile da 15 a 30 mm Hg con applicazione di compresse o di una compressione eccentrica lungo il tragitto della vena grande safena trattata (Lebard 2001; Navarro, 2001; Anastasie, 2003). La applicazione di una compressione sarebbe in grado di ridurre segni e sintomi di IVC dopo chirurgia endovascolare. Mancano i risultati di studi di tipo comparativo per queste metodiche ( Partsch, 2003). Raccomandazioni: La mancanza di trial randomizzati circa l’utilizzo di mezzi di compressione dopo terapia endovascolare venosa non consente di dare sicure indicazioni circa il tipo e le modalità di prescrizione della stessa, pur in considerazione della probabile utilità. GRADO B II a Compressione dopo scleroterapia La compressione applicata dopo scleroterapia ha lo scopo di ridurre il calibro delle vene trattate, di ridurre le ricanalizzazioni, di ridurre i fenomeni infiammatori locali e le iperpigmentazioni cutanee (Cornu-Thenard, 2006). Il livello di compressione deve essere “tanto più importante e prolungato (da 3 a 6 settimane o più), quanto più grandi e diffuse sono le varici da trattare” (Agus LG, 2003). IL livello di compressione elevato - 30/40 mmHg - per ottenere il collabimento del vaso. Pressioni inferiori potrebbero infatti consentire il permanere di “occhielli” incontinenti ai lati dei lembi valvolari favorendo così la ricanalizzazione (Van Cleef, 1993). La compressione può essere esercitata sia mediante bende con compressioni eccentriche al di sopra delle vene trattate che mediante gambaletti (Cornu-Thenard, 2006). L’utilizzazione di tecniche di ecosclerosi con mousse non modificherebbe sostanzialmente queste indicazioni (Tessari , 2001). Un’indagine effettuata mediante un questionario a più di 600 membri della Vascular Society of Great Britain and Ireland evidenzia che l’80% dei chirurghi intervistati applica una fasciatura dopo il trattamento di ecosclerosi con “mousse”, il 90% fa seguire a questa la prescrizione di una calza elastica (di 2 classe doi compressione nel 64% dei casi) ( O’Hare, 2007). Raccomandazioni: La compressione dopo scleroterapia sembra migliorare il risultato del trattamento sull’occlusione del vaso. Può essere esercitata con compressione eccentrica sul vaso trattato trattenuta in sede con fasciature o calze elastiche o tradizionalmente con gli stessi presidi. La mancanza di studi randomizzati non consente di dare indicazioni sui livelli di compressione. GRADO B III SCLEROTERAPIA Generalità La scleroterapia consiste nella obliterazione chimica delle varici. Allo scopo, nelle varici viene iniettata una sostanza istolesiva (liquido sclerosante) che danneggia l’endotelio provocando spasmo, trombosi ed una reazione infiammattoria reattiva che nelle intenzioni del flebologo deve portare alla stenosi, fibrosi e obliterazione permanente della vena. L’obliterazione iniziale delle vene si ottiene in oltre 80% dei casi, ma in seguito una parte delle vene sclerosate si ricanalizza. Studi strumentali su singole vene Dagli studi con controllo Doppler o ecografico risulta che la grande safena viene obliterata nel 81-91%, ma dopo 4 -6 mesi risulta ricanalizzata nel 14% e 33% dei casi (Grondin, 1997; Schadeck, 1997), dopo un anno nel 17-35% dei casi (Vin, 1990; Schultz-Ehrenburg, 1984), dopo due anni nel 33%, 60% e 80% (Isaacs, 1997; Gongolo, 1991; Bishop, 1991), dopo 3 anni nel 48% (Schultz-Ehrenburg, 1984) e dopo 5 anni nel 22% (Ferrara, 2002). Simili risultati si sono ottenuti anche sulla piccola safena, obliterata inizialmente nell’ 87% dei casi (Grondin, 1997), ma dopo 2 anni ricanalizzata nel 33% dei casi (Isaacs, 1997), mentre dopo 5 anni le ricanalizzazioni sono state del 27% quando la vena poplitea era continente con varici primitive e 77% quando anche la vena poplitea era incontinente con varici secondarie (Schultz-Ehrenburg, 1992). Per quanto riguarda i rami varicosi collaterali, nell’unico studio disponibile a due anni le ricanalizzazioni sono state di 26% (Isaacs, 1997). Le safene ricanalizzate necessitano ulteriori trattamenti a distanza di tempo che può variare da un mese ad un anno. Con questi ulteriori trattamenti la grande safena è rimasta obliterata dopo 2 anni nel 86% dei casi (Spano, 2002), dopo 3 anni nel 98% dei casi (McDonagh, 2002) e dopo 5 anni nel 80% (Cabrera, 2001), mentre la piccola safena dopo 2 anni è risultata obliterata nel 90% (Spano, 2002) e dopo 3 anni nel 100% dei casi (McDonagh, 2002). Studi clinici generali Dal 1966 al 1984 sono stati condotti quattro studi prospettici randomizzati con controllo clinico dei risultati. Questi studi hanno dimostrato che all’inizio i risultati della scleroterapia sono paragonabili a quelli dell’asportazione chirurgica, ma con il tempo le recidive della scleroterapia sono nettamente superiori. Nello studio di Doran dopo 2 anni i risultati della scleroterapia e la chirurgia si equivalevano (Doran, 1975),. Nello studio di Chant e Beresford dopo 3 e 5 anni le recidive della scleroterapia erano rispettivamente 22% e 40%, rispetto a 14% e 24% della chirurgia (Chant, 1972; Beresford, 1978). Nello studio di Hobbs dopo 1, 5 e 10 anni le recidive della scleroterapia erano rispettivamente 8%, 57% e 90% , rispetto a 6%, 25% e 34% della chirurgia (Hobbs, 1982). Nello studio di Jacobsen dopo 3 anni le recidive erano 63% , rispetto al 10% della chirurgia (Jacobsen, 1979). Studi con controllo clinico e strumentale Nello studio di Einarsson dopo 5 anni le recidive erano 74% , rispetto a 10% della chirurgia. In questo studio i risultati sono stati controllati anche con misurazione strumentale di parametri emodinamici (volumetria del piede), ed anche con questo criterio i risultati della chirurgia sono stati migliori (Einarson, 1993). Terapia chirurgica-scleroterapica combinata Nel 1973-1975 tre editoriali sul British Medical Journal e Lancet (Editorial BMJ, 1973; Editorial BMJ 1975; Editorial Lancet, 1975), proponevano come ottimale, sia dal punto di vista dei risultati che da quello del rapporto costo/efficacia, la terapia combinata, che prevede l’interruzione chirurgica per la giunzione safenofemorale, e la scleroterapia per le rimanenti varici. Messa alla prova però, la terapia combinata è risultata più efficace della sola scleroterapia, ma pur sempre meno efficace rispetto alla rimozione chirurgica delle varici. Questo era già stato dimostrato negli anni ‘50 con studio retrospettivo: a 5 anni, 70% di recidive con la terapia combinata rispetto a 30% con quella chirurgica (Lofgren, 1958). Nello studio prospettico di Jacobsen le recidive a 3 anni sono state del 35% con la terapia combinata, 63% con la sola scleroterapia e 10% con la sola chirurgia (Jacobsen, 1979). Nello studio di Neglén con la terapia combinata, alla fine del trattamento 21% dei pazienti avevano varici residue, mentre dopo 5 anni le recidive erano 84%. La volumetria del piede, normalizzata subito dopo il trattamento, deteriorava già dopo 1 anno e dopo 5 anni tornava ai valori pre-trattamento (Neglén, 1986). Nello studio di Rutgers dopo tre anni le recidive erano 61% con la legatura e scleroterapia e 39% con lo stripping e flebectomia, mentre al Doppler vi era reflusso safenico in 46% dei pazienti del primo gruppo e 15% del secondo. Questo è l’unico studio nel quale gli insuccessi clinici della scleroterapia (61%) erano più numerosi del numero di safene ricanalizzate al Doppler (46%) (Rutgers, 1994). Occorre tenere presente infatti che in tutti gli altri studi, la metà circa dei casi con ricanalizzazione accertata strumentalmente risultavano comunque migliorati sul piano clinico. Inoltre, gli insuccessi obiettivi della scleroterapia sono mitigati parzialmente dal fatto che la valutazione soggettiva (dei pazienti) è stata invariabilmente migliore di quella oggettiva del chirurgo. Valutazione dell’evidenza Nonostante si prestino ad alcune critiche, gli studi finora pubblicati, di cui 6 prospettici e randomizzati (Doran, 1975; Chant, 1972; Beresford, 1978; Hobbs, 1984; Jacobsen, 1979; Einarsson, 1993; Rutgers, 1994), uno retrospettivo (Lofgren, 1958) ed uno prospettico controllato (Neglén, 1986), hanno dato risultati univoci senza eccezione e dimostrano perciò in modo definitivo la superiorità della asportazione chirurgica rispetto alla scleroterapia e la terapia combinata, quanto meno per le varici accompagnate da incontinenza del tronco della grande safena. Indicazioni La elevata percentuale di ricanalizzazioni e recidive pongono la scleroterapia in posizione subalterna e non alternativa alla chirurgia. Questo significa che la scleroterapia diventa la terapia di scelta sostanzialmente nei casi dove la chirurgia è improponibile (perché difficile, con risultati incerti o ad elevato rischio), oppure su richiesta specifica del paziente (che deve essere informato sui risultati, complicanze, vantaggi e svantaggi della scleroterapia rispetto alla chirurgia, e viceversa). La scleroterapia è stata introdotta in Francia nel 1853; i primi tentativi di elaborare “linee-guida” sono del 1996 a cura di una Consensus Conference Internazionale promossa dalla American Academy of Dermatology (Guidelines Dermatol, 1996) e dell’American Venous Forum (AVF, 1996). Solo l’ AVF in realtà ha formulato in modo specifico le indicazioni alla scleroterapia, e condivise in Italia dal Collegio Italiano di Flebologia. Tali indicazioni comprendono: 1) teleangiectasie 2) varici di piccolo diametro (1-3mm) 3) vene residue dopo l’intervento chirurgico (quelle che il chirurgo ha deciso di non operare) 4) varici recidivanti dopo intervento chirurgico (se originano da una perforante di diametro <4mm) 5) varici nelle malformazioni venose (tipo Klippel-Trenaunay) per le quali non è proponibile intervento chirurgico 6) terapia d’urgenza dell’emorragia da rottura di varice (varicorragia) 7) perforanti di diametro <4mm 8) varici attorno all’ulcera. Come si vede da questo elenco, la scleroterapia è un metodo importante ed indispensabile per il trattamento ottimale di un ampio spettro di varici, dalle teleangiectasie (che non sono un problema solo estetico, ma possono causare patologia cutanea ed emorragia anche grave) a quelle nelle forme gravi ed invalidanti di IVC, come la lipodermatosclerosi, l’ulcera da stasi e le malformazioni venose congenite. Controindicazioni Le controindicazioni alla scleroterapia comprendono l’allergia al mezzo sclerosante, malattie sistemiche gravi scompensate, trombosi venosa profonda recente, infezione locale o sistemica, edema non riducibile dell’arto inferiore, paziente immobilizzato, ischemia critica dell’arto inferiore. E’ consigliata cautela nei pazienti con anamnesi di TVP recidivante, stato accertato di trombofilia oppure in terapia estroprogestinica e durante la gravidanza, pur non essendo ciascuna di queste controindicazione in assoluto. Tecnica Come ogni lavoro manuale la scleroterapia richiede apprendistato. Le diverse tecniche attualmente in uso derivano dalle tre scuole classiche europee di Tournay (Tournay, 1980), Sigg (Sigg, 1976) e Fegan (Fegan, 1967), descritte in due testi disponibili in lingua italiana (Tournay, 1984 Ed It.; Mariani, 1996; Goldman, 1991 Ed It.). Il tipo e concentrazione del liquido sclerosante variano a seconda del tipo di varice e sono riportate nella tabella . Tabella : I più comuni farmaci sclerosanti. Indicazioni e concentrazioni (non compresa la forma in schiuma). Farmaco Tipo di varice e concentrazione raccomandata Glicerina cromata Salicilato di sodio Polidocanolo Tetradecilsolfato di sodio Iodio/ioduro di sodio Teleangiectasie Varici reticolari 72% 8% 0,25-0,5% 0,1-0,2% 12% 1% 0,2-0,3% - Piccole-medie varici 20% 1-2% 1-2% Grosse varici Tronchi safenici - - 3-4% 3% 3-4% 3% 2% 2-4% 4-8-12% Le iniezioni vengono praticate in più sedute, distanziate da pochi giorni a poche settimane una dall’altra, aGrado seconda B della III tecnica personale. Gli scopi della terapia si ottengono meglio, e con meno effetti indesiderati, se immediatamente dopo delle perforanti indipendentemente dal loro diametro, e della piccola safena. le iniezioni sulle vene iniettate e sulla gamba vengono applicate delle compressioni mediante spessori, bendaggi adesivi Non esiste standardizzazione della tecnica, delle concentrazioni e quantità degli agenti sclerosanti. o mobili, o con tutori elasto-compressivi (calze) (Weiss, 1999). Tali compressioni sono tanto più importanti e prolungate La3compressione il risultato della terapia sclerosante. (da a 6 settimane migliora o più), quanto più grandi e diffuse sono le varici da trattare. In alcuni casi - per esempioGrado variciB III grandi,Ridotto gambetono con venoso tendenza all’edema - la compressione è indispensabile. Ulteriori approfondimenti rientrano nel capitolo della compressione. Il confronto tra diverse tecniche è stato oggetto di una revisione sistematica da parte della - Emoconcentrazione Cochrane collaboration (Tisi, 2002), dalla quale però non emergono dati tali da modificare le raccomandazioni - Depressione del reflusso venoarteriolare formulate nelle presenti linee-guida. In particolare risulta che il tipo di sclerosante non influisce significativamente sui - Disturbo della vasomozione risultati della scleroterapia, e questo conferma i dati istologici e della microscopia elettronica che hanno dimostrano che - Aumento dellaproducono permeabilità capillare diversi sclerosanti lo stesso tipo di lesione parietale (Mancini, 1991). La maggiore efficacia dell’iniezione Edema sclerosante sotto guida ecografica (ecoscleroterapia), seppure non del tutto validata, ha apportato un ulteriore - Cuffia di (Grondin, fibrina pericapillare avanzamento 1997). - Ridotta fibrinolisi - Aumento del plasminogeno plasmatico Alterazioniindella reologia leucocitaria ed Scleroterapia schiuma - eritrocitaria L’iniezione di sostanze sclerosanti sotto forma di schiuma (mousse o foam), sotto controllo ecografico, ha dimostrato in - Attivazione tempi più recenti leucocitaria buona efficacia per la chiusura di tronchi safenici (Wollmann, 2004). Il ruolo italiano nello studio e Microtrombosi capillare diffusione della tecnica è risultato rilevante (Tessari, 2001; Cavezzi, 2002; Frullini , 2002). La metodica può essere Stasi del microcircolo classificata come un’emulsione di schiuma a macro-, mini- e micro-bolle, possibili con liquidi di tipo detergente - Ridotto drenaggio linfatico (polidocanolo o tetradecil solfato di sodio) (Monfreux, 1997; Cabrera, 2000; Cabrera, 2001). Questa composizione Grado A migliora il contatto superficiale della sostanza sulla parete del vaso e l’effetto sclerosante dipendente dalla concentrazione sostanza dentro la vena e non nella siringa. Variabili importanti assumono pertanto la presenza di compressione della pneumatica intermittente una e la durata di tempo di esposizione. Tali caratteristiche prodotte dalla schiuma siaconcentrazione le eparine, ENFminima a bassaeffettiva dose o EBPM, a partire dal giorno dopo l’intervento. Grado B permettono pertantodiuna minore concentrazione per ottenere un miglior effettodella scleroterapico. Pur a fronte di vincoli La combinazione EBPM e compressione graduata è risultata più efficace sola compressione. Gradoche B rendono la tecnica operatore-dipendente, la relativa facilità ed il basso costo ne stanno sviluppando un impiego sempre più largo in campo internazionale. Essa è usabile inoltre in combinazione con la chirurgia sia per varici primarie (Bountouroglou, 2006) che recidive (Creton, 2007). Il principale problema della terapia sclerosante, proiettato nel tempo, rimane l’elevata incidenza di ricanalizzazioni retrograde delle vene trattate, soprattutto in follow-up a lungo termine in grossi trochi safenici e se in condizioni emodinamiche poco favorevoli. I primi risultati sono stati estremamente promettenti, ma sono necessari gruppi di pazienti più numerosi con più ampio follow-up. Risultati più recenti segnalano sull’alto numero di ricanalizzazioni con successo primario nel 52,4%, successo secondario dopo altro trattamento con obliterazione nel 76,8% (Myers, 2007). La prima Consensus Conference Internazionale specifica sulla scleroterapia con schiuma, tenutasi a Tegernsee – D nell’aprile del 2003, ha prodotto raccomandazioni sull’ uso, efficacia ed effetti collaterali (Breu, 2004). A questa è seguita la 2^ Consensus, sempre a Tegernsee-D, aprile 2006 (Breu, 2007), e altre occasioni in Congressi Internazionali che confermerebbero la nuova via aperta (Sclerotherapy-Kyoto, 2007). Anche tra i chirurghi vascolari la scleroterapia con schiuma va affermandosi come emerge da un’indagine della Vascular Society of Great Britain and Ireland, che la vede usata dal 25% dei membri (O’Hare, 2007) e dal Simposio via Internet su (Bergan, 2007). Raccomandazioni: L’asportazione chirurgica è superiore alla scleroterapia per quanto attiene alle varici che originano da incontinenza della grande safena. La tecnica della scleromousse sta tuttavia modificando tale indicazione in assoluto. Grado A I a Si possono condividere in linea generale le indicazioni dell’AVF, rimanendo aperte le indicazioni alla scleroterapia Teleangiectasie Varici reticolari Piccole-medie Grosse varici Tronchi safenici varici Glicerina cromata 72% Salicilato di sodio 8% 12% 20% Polidocanolo 0,25-0,5% 1% 1-2% 3-4% 3-4% Tetradecilsolfato 0,1-0,2% 0,2-0,3% 1-2% 3% 3% FARMACOTERAPIA PRE-E POST-OPERATORIA di sodio Iodio/ioduro di 2% 2-4% 4-8-12% Lasodio farmacoterapia dell’IVC si è sviluppata negli ultimi 50 anni. Sino ad allora poteva apparire sorprendente che non esistessero apporti clinici o sperimentali che perseguissero l’intento di studiare i problemi del tono e della contrattilità delle vene nonché della pressione venosa in rapporto coi problemi terapeutici. I farmaci del sistema venoso furono Grado B III dapprima chiamati flebotonici in relazione al più ipotizzato meccanismo d’azione sul tono venoso e fondamentalmente delle perforanti indipendentemente dal loro diametro, e della piccola safena. impiegati finora per il trattamento sintomatico e di conforto al paziente con IVC (Agence Medicament Française, 1996). I farmaci flebotropi, nella più moderna accezione targets d’azione (Tab.), sono Non esiste standardizzazione della tecnica, dellecomprendente concentrazionimolteplici e quantitàpotenziali degli agenti sclerosanti. prodotti d’origine naturale, e prodotti taluni con più principi attivi associati per migliorarne La compressione miglioraseminaturale il risultato della terapiasintetici, sclerosante. Grado B III l’efficacia. La maggiore parte di questi prodotti appartiene alla famiglia dei flavonoidi che è ricca di 600-800 sostanze Ridotto tono venoso ben - identificate e che sono raggruppate da Geissman e Hinreiner sotto il nome di flavonoidi, polifenoli vegetali con una struttura chimica del flavone cui nel 1955, per decisione della Accademia delle Scienze di New York, venne dato il - Emoconcentrazione nome “ Bioflavonoidi “. - Depressione del reflusso venoarteriolare - Disturbo della vasomozione - Aumento della permeabilità capillare -Tabella Edema fisiopatologici venosi influenzati dalla farmacoterapia. - Processi Cuffia di fibrina pericapillare - Ridotta fibrinolisi Teleangiectasie Varici reticolari Piccole-medie - Aumento del plasminogeno plasmatico varici Alterazioni della reologia leucocitaria ed Glicerina cromata 72% - eritrocitaria Salicilato di sodio 8% 12% 20% - Attivazione leucocitaria Polidocanolo 0,25-0,5% 1% 1-2% - Microtrombosi capillare Tetradecilsolfato 0,1-0,2% 0,2-0,3% 1-2% - Stasi del microcircolo di sodio - Ridotto drenaggio linfatico Iodio/ioduro di 2% sodio compressione pneumatica intermittente Grosse varici Tronchi safenici - - 3-4% 3% 3-4% 3% 2-4% 4-8-12% Grado A sia le eparine, ENF a bassa dose o EBPM, a partire dal giorno dopo l’intervento. Grado B Grado BB III La combinazione di EBPM e compressione graduata è risultata più efficace della sola compressione. Grado delle perforanti indipendentemente dal loro diametro, e della piccola safena. Non esiste standardizzazione della tecnica, delle concentrazioni e quantità degli agenti sclerosanti. La compressione migliora il risultato della terapia sclerosante. Grado B III Indipendentemente dal meccanismo d’azione di diversa natura, ma caratterizzato dalla proprietà di attivare il ritorno Ridotto tono venoso venoso - e linfatico, numerose sono le evidenze per una strategia terapeutica di scelta con farmaci flebotropi nell’IVC in cui la non sia indicata, non sia possibile o possa essere coadiuvata dalla farmacoterapia (Coleridge Smith, - chirurgia Emoconcentrazione 1994; Merlen, 1985; 1992; Zaragoza, 1998). I farmaci flebotropi largamente commercializzati e prescritti - Depressione delNicolaides, reflusso venoarteriolare in Italia, Francia,della Germania ed in generale in Europa, risultano meno utilizzati nell’area anglosassone e scandinava in - Disturbo vasomozione base- adAumento una presunta dellascarsezza permeabilità di dati capillare pubblicati in passato. Tale limite è oggi superato dalle nuove metodologie di studio. - Edema Gli effetti dei farmaci flebotropi sui parametri fisiologici quali tono venoso, emodinamica venosa, permeabilità - Cuffia di fibrina pericapillare capillare e drenaggio linfatico, possono essere valutati con vari metodi della diagnostica flebologica preferibilmente non - Ridotta fibrinolisi inasiva (Consensus St, 2000), tuttavia il principale strumento per la valutazione degli effetti clinici di un farmaco - Aumento plasmatico flebotropo è datodel dalplasminogeno trial clinico ben condotto con soddisfacenti requisiti su base clinica, scientifica ed etica (Good Cl Alterazioni leucocitaria edpossibilmente doppio-cieco, con adeguata forza per provare a rispondere Pract, 1990). Il trialdella devereologia essere randomizzato, - eritrocitaria a domande ben definite che corrispondano allo stato di malattia: la recente classificazione CEAP permette l’uso del - Attivazione medesimo sistema aleucocitaria score dei quadri clinici prima e dopo trattamento. Devono essere considerati i sintomi, i segni e la - L’efficacia Microtrombosi QoL. su talicapillare differenti outcome può essere ottenuta da farmaci che pur a diversa struttura chimica hanno la - indicazione Stasi del microcircolo stessa clinica. - Ridotto drenaggio linfatico Grado A compressione pneumatica intermittente sia le eparine, ENF a bassa dose o EBPM, a partire dal giorno dopo l’intervento. Grado B La combinazione di EBPM e compressione graduata è risultata più efficace della sola compressione. Grado B La classificazione ATC definisce i farmaci flebotropi come “vasoprotettori”, distinguendo una terapia antivaricosa topica dall’uso di “sostanze capillaroprotettrici” prevalentemente a base di bioflavonoidi. L’efficacia clinica sui sintomi (senso di peso, dolore, parestesie, sensazione di caldo e bruciore, crampi notturni, ecc) è da sempre comprovata da livelli di evidenza III, IV, V, ma sono oggi disponibili studi di livello I-II su specifici farmaci. Tra i bioflavonoidi, studi randomizzati e in doppio cieco sono riferibili alla diosmina (Dominguez, 1992; Gilly, 1994; Ramelet, 2003); ai rutosidi (Poynard, 1994; Vin, 1994; Petruzzellis, 2002; Belcaro, 2002); all’escina (Zuccarelli, 1993); agli antocianosidi del mirtillo (Allegra, 1986); tra le molecole di sintesi al calcio dobesilato (Widmer, 1990). Un’azione flebotropa ben dimostrata in classe di farmaci differenti dai flavonoidi risulta per il ruscus aculeatus (Vanhoutte, 1991; Vanscheidt, 2002), per la centella asiatica (Allegra, 1987; Cesarone, 2001) ed il mesoglicano (Arosio, 2001). L’efficacia clinica sul principale segno, l’edema, è mostrata da diversi agenti protettivi con effetti sulla microcircolazione attraverso l’abbassamento della permeabilità endoteliale; un ridotto rilasciamento di enzimi lisosomiali e sostanze infiammatorie; l’inibizione di radicali liberi e la ridotta adesione di globuli bianchi (Consensus St, 1996; Diehm, 1996; Markwardt, 1996). Ulteriorio evidenze per un ruolo fondamentale dell’infiammazione nel determinismo dei danni sia di parete che valvolari nell’IVC confermano l’uitilità del trattamento farmacologico (Nicolaides , 2005; Pascarella, 2005 ). Un miglioramento dei parametri di QoL, misurato con questionari validati è stato rilevato dopo somministrazione di Diosmina micronizzata in pazienti portatori di IVC (Launois, 1994; Jantet, 2002) e di Oxerutina in uno studio randomizzato (Cesarone, 2006). Nell'ultimo decennio si è meglio evidenziato il rapporto tra macro- e microcircolazione specie nei quadri più severi di IVC: era già noto il rapporto tra reflussi e ipertensione venosa quale causa di un danno a livello capillare (Wenner, 1980; Fagrell, 1982; Takase, 2000). Molteplici studi di base e sull’uomo hanno confermato l’effetto microcircolatorio di alcuni farmaci flebotropi sui parametri microcircolatori compromessi nella IVC (Allegra, 1995; Guilhou, 1992; Guilhou, 1997 I; Guilhou, 1997 II; Launois, 1994; Boineau-Geniaux, 1988; Glinski, 1999). Sulle suddette premesse sono stati introdotti in clinica una serie di farmaci la cui utilità clinica non sempre e non del tutto è stata evidenziata da sufficienti studi clinici di adeguata forza. Essi vengono usati come coadiuvanti il trattamento dell' IVC severa (stadi 4/5/6 CEAP) e compresi nella classificazione ATC nel raggruppamento BO1, Antitrombotici, ed in alcuni casi nel CO4/CO1E, Vasodilatatori , per la loro azione sulle alterazioni endoteliali ed emoreologiche, sulla presenza di micro trombi e sull'effetto barriera all'ossigeno. Tra i fibrinolitici sono documentati gli effetti dell'urokinasi (Ehrly, 1989; Partsch, 1991); azione profibrinolitica hanno i glicosaminoglicani quali il sulodexide, particolarmente studiato in tempi recenti per le classi più severe dell’ IVC e le loro complicanze (Harenberg, 1998; Scondotto, 1999; Coccheri, 2002; Errichi, 2004) e l' eparansolfato (Allegra, 1993); il defibrotide (Cesarone, 1997) Tra i vasodilatatori sono ben documentati gli effetti della pentossifillina (Colgan, 1990; Weitgasser 1983; Falanga, 1999) e della prostaglandina E1 (Rudofsky, 1989), entrambi nel trattamento delle ulcere. Ancora per il solo trattamento coadiuvante la guarigione delle ulcere è stata posta l'unica indicazione all'antiaggregazione piastrinica nell'IVC con ASA (Layton, 1994). Le problematiche relative alla scarsità di letteratura “di qualità” riguardante i farmaci flebotropi sone state evidenziate in recenti revisioni. Un gruppo di esperti riunitisi nel corso della 13^ Conferenza Europea della società di Emoreologia Clinica (Siena 2005) ha individuato solo 83 studi meritevoli, anche se alcune sostanze non vennero prese in considerazione (Diosmina-esperidina 24; calcio dobesilato 9; oxerutina 8; Ginkgo Biloba 7; troxerutina 6; Horse Chesnut extract 5; centella asiatica e naftazone 2; diosmina e troxerutina+coumarina 1) ( Ramelet, 2005). Considerazioni simili emergono dalle recenti review della Cochrane Collaboration riguardanti i “Phlebotonics” e gli “Horse Chestnuts extracts”. Nel primo caso sono stati individuati 110 trials randomizzati, ma solamente 44 sono stati poi ammessi all’analisi (rutosidi, diosmina, calcio dobesilato, centella, estratti di pino marittimo, vite rossa, aminaftone). Nel secondo 29 di cui 17 analizzati. In tutti i casi si conclude per una possibile efficacia sintomatica dei flebotonici e sull’azione sull’ edema, ma si sottolinea l’estrema disomogeneità dei dati e della terminologia, nonché la necessità di studi clinici randomizzati di adeguata numerosità (Pittler, 2007; Martinez, 2007) Raccomandazioni: Sono numerose le evidenze per una strategia terapeutica di scelta con farmaci flebotropi nell’IVC quando la chirurgia non sia indicata, non sia possibile o possa essere coadiuvata dalla farmacoterapia. L’uso dei farmaci flebotropi trova la sua indicazione clinica sui sintomi soggettivi e funzionali dell’IVC (stancabilità, crampi notturni, gambe irrequiete, pesantezza, tensione) e sull’edema. Grado B Ib TRATTAMENTI INCERTI, NON RACCOMANDABILI, SCONSIGLIABILI Integratori Alimentari Da qualche anno in Italia sono state introdotte “sostanze” cui viene attribuita nella etichettatura una non specifica azione capillarotropa e/o venotropa. Essendo la più parte di questi prodotti composti da flavonoidi estrattivi, si è creata una confusione nella classe medica e nella clientela acquirente tra farmaci estrattivi a base di flavonoidi, fitoterapici, prodotti di erboristeria e alimenti o integratori alimentari. Per meglio chiarire le differenze connesse alla diversa nomenclatura, ricorderemo qui appresso le definizioni secondo il Ministero della Salute Italiano e le diverse situazioni di commercializzazione nell’ambito della UE (Giachetti, 2003). FARMACO: ogni sostanza o composizione presentata come aventi proprietà curative o profilattiche delle malattie umane o animali, nonché ogni sostanza o composizione da somministrare all’uomo o all’animale allo scopo di stabilire una diagnosi medica o di ripristinare, correggere o modificare funzioni organiche dell’uomo o dell’animale. Per sostanza si intende qualsiasi materia di origine umana o animale o vegetale di origine chimica, sia naturale che di trasformazione o di sintesi. I prodotti fitoterapici e di erboristeria qualora obbediscano alle normative di registrazione con autorizzazione alla commercializzazione in vigore per i Farmaci, possono rientrare di diritto nella classe dei “ Farmaci “(Dgls n. 178 29-051991 con successive variazioni e integrazioni della EC Council Regulation, EC, n° 2309/93 22 Luglio 1993, Council regulation, EC, n° 297/95 del 10 Febraio 1995, Commission regulation, EC, n° 541-542-1662/95 del 10 Marzo e del 7 Luglio 1995, Commission regulation, EC, n° 2141/96 del 7 Novembre 1996, Regulation n° 141/2000 del Parlamento Europeo del 16 Dicembre 2000, Commission regulation, EC, n° 847/2000 del 27 Aprile 2000 ). PRODOTTO ERBORISTICO: non esiste legislativamente in Italia nessuna definizione del prodotto erboristico che può essere quindi commercializzato come : alimento, integratore alimentare, farmaco, cosmetico. Ognuna di queste definizioni possiede modalità proprie di produzione, di autorizzazione alla commercializzazione, di confezionamento. C’è attualmente in esame una proposta di Legge n° 4380 sull’erboristeria che all’articolo 2 comma 1 ne stabilisce il confezionamento, la nomenclatura, i principi attivi e l’utilizzo, in linea con la definizione EU di prodotti di erboristeria e fitofarmaci. (CPMP/QWP/2819/00 : “Note for guidance on quality of herbal medicinal products CPMP/CVMP Luglio 2000). ALIMENTO E INTEGRATORI ALIMENTARI: non esiste un articolo di Legge che definisca l’alimento. Una definizione di ciò che non può essere è desunta dall’articolo 2 del Decreto Legislativo n° 109 del 27-01-1992 in materia di pubblicità : “ l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari non devono essere tali da indurre ad attribuire al prodotto proprietà atte a prevenire, curare o guarire malattie umane ne accennare a tali proprietà che non possiede “ Gli integratori alimentari sono assoggettati al decreto legislativo del 27-01-1992 n° 111, attuazione della direttiva EC 89/398/EC e alla Direttiva 2002/46/EC del Parlamento Europeo del 10 giugno 2002. Per tale motivo il Ministero della Salute italiano sottopone dal 2002 ad una azione di controllo la produzione e l’indicazione d’uso “salutistico” priva di finalità proprie del medicinale quale quella terapeutica (Ministero della Salute G.U., circolare 18 Luglio 2002 n°3). Da questa breve disamina si deduce chiaramente che sia i prodotti di erboristeria che i fitofarmaci qualora obbediscano alle normative di registrazione in vigore per i farmaci, possono essere considerati tali e prescritti dal Medico secondo le usuali procedure che prevedono conoscenza di effetti terapeutici, interazioni, eventi avversi (Pagni; Gentile; Marcon, 2006; Ministero Salute, 2003). Vengono chiaramente esclusi gli integratori alimentari. Rimangono ancora peraltro numerosi dubbi circa la effettiva efficacia di questi trattamenti, per i quali le evidenze cliniche sono scarse o anedottiche in assenza di studi clinici randomizzati. Alcune evidenze relative ad efficacia sulla riduzione dell’edema di origine venosa sono rilevabili per estratti di ippocastano (Ippocastano: http/www.farmacovigilanza.com) e per gli estratti di “vite rossa” che avrebbero dimostrato efficacia su parametri di attività microcircolatoria (laser-doppler flow, TcpO2 ) e sulla circonferenza dell’arto (Kalus, 2004; Kiesewetter, 2000), ma il piccolo numero degli studi, la scarsa numerosità dei campioni e la mancanza di reviews non consentono di trarre conclusioni definitive sulla loro efficacia (Gentile). Ad eccezione delle sostanze ricompresse nella Classificazione ATC, non esistono al momento attuale evidenze cliniche di efficacia farmacologica nell’ IVC per altri prodotti fitoterapici e di erboristeria in commercio Raccomandazioni: In assenza di normative precise e di evidenze di efficacia terapeutica, oltre che di assenza di effetti avversi ed interazioni farmacologiche, non si può raccomandare la prescrizione di questi prodotti, a valenza di co-adiutori fisiologici e non curativi. GRADO D VI OSSIGENO-OZONOTERAPIA; CARBOSSITERAPIA; OSSIGENOTERAPIA IPERBARICA Un certo attivismo clinico e mediatico di alcune Società Scientifiche italiane dedicate a monoterapie ad indicazioni non verificate o non del tutto verificate in campo flebologico – da cui non sono esenti anche particolari tecniche chirurgiche –, richiedono un giudizio e parole di cautela sulla loro diffusione incontrollata. Ossigeno-ozonoterapia: l’ozono dissolve facilmente nel sangue ed eseciterebbe una potente azione antiossidante favorendo la cessione di ossigeno da parte dei globuli rossi, la produzione di interleuchine, interferone, TGF da parte dei globuli bianchi e numerosi altri effetti metabolici. Le applicazioni cliniche proposte sono numerosissime, eccessive e comprendenti anche la medicina estetica e la flebologia, per varici e panniculopatie (Di Paolo, 2004). Carbossiterapia: la somministrazione per via percutanea/sottocutanea di CO2 determinerebbe un aumento della velocità del flusso ematico tessutale locale ed un aumento dell’angiogenesi che influenzerebbero la perfusione microcircolatoria, vasodilatazione e lipolisi. Le indicazioni in angiologia sarebbero secondo i proponenti numerose sia sul versante arterioso che venoso (IVC e ulcere da stasi venosa, panniculopatie). Altrettannto numerose le controindicazioni (Brandi, 2001; Varlaro). Ossigenoterapia iperbarica: La OTI si basa sulle leggi della fisica che regolano l’assorbimento e la diffusione dei gas nei tessuti. La somministrazione massiva di ossigeno, realizzata in camera iperbarica di 2,5-2,8 bar (condizioni a –15 m di profondità sotto il livello del mare), determina uno stato di iperossia cui la cellula reagisce dopo 3-9 ore (Padgaonkar, 2004), modulando le funzioni redox cellulari (tioredossina ossidasi, ecc) e stimolando l’ossidazione glutatione dipendente, particolarmente attiva contro talune specie batteriche, ad esempio le pseudomonacee (Ran, 2003). Per le ulcere prevalentemente venose la letteratura fa riferimento essenzialmente a un unico studio prospettico, randomizzato, in doppio cieco (Hammarlund, 1994) su ulcere croniche degli arti inferiori in pazienti non diabetici. Nei pazienti trattati con OTI, dopo sei settimane dall’inclusione, l’area della lesione era ridotta del 35,7 ± 17%, mentre nel gruppo controllo la riduzione era solo del 2,7 ± 11%. L’Undersea and Hyperbaric Medical Society ritiene che l’OTI nelle ulcere venose sia appropriata solo in casi accuratamente selezionati, dopo valutazione chirurgica e previo appropriato debridment del fondo della lesione, con l’obiettivo di favorire la granulazione in preparazione alla eventuale chirurgia plastica (Fedmeier, 2003). Usata oggi nelle ulcere prevalentemente di tipo ischemico e diabetico, particolarmente con sovrainfezione (Brustia, 2006), la OTI non appare giustificata nel trattamento delle più comuni ulcere flebostatiche, come peraltro emerge dalla linee-guida congiunte SIMSI, SIAARTI, ANCIP 2007. Raccomandazioni: In assenza di studi clinici che ne avvalorino l’efficacia terapeutica per il trattamento dell’IVC nei vari stadi e di evidenza di assenza di effetti collaterali, la prescrizione di queste procedure terapeutiche non può essere raccomandata. GRADO D VI CHIRURGIA DELLE COMPLICANZE ULCERE VENOSE L’ulcera da stasi venosa è una lesione cutanea cronica che non tende alla guarigione spontanea, che non riepitelizza prima di 6 settimane e che recidiva con elevata frequenza. Alcune definizioni escludono le ulcere del piede, altre comprendono tutte quelle a carico dell’arto inferiore. Le ulcere venose dell’arto inferiore rappresentano il 75% di tutte le lesioni trofiche a carico di questo distretto (Fowkes, 2001). Si ritiene che l’IVC, benché sia stata meno studiata ed abbia ricevuto meno attenzione dell’insufficienza arteriosa cronica, colpisca la popolazione adulta in misura 10 volte superiore (O’Donnell, 1988). Nonostante ciò la cura dell’ulcera venosa è spesso trascurata o è del tutto inadeguata. Molti pazienti vanno avanti e camminano per mesi o addirittura per anni con l’ulcera ricoperta da medicazioni locali, senza che venga minimamente corretta l’insufficienza venosa che ne sta alla base (Consensus Alexander House, 1992; Gohel, 2005). La terapia delle ulcere venose si fonda sulla conoscenza dei meccanismi fisiopatologici che entrano in gioco nel determinismo dell’ulcera. Tali meccanismi non sono più basati esclusivamente sulle nozioni di emodinamica macrovascolare, ma coinvolgono l’unità microcircolatoria ed il laboratorio endoteliale. Nella programmazione terapeutica, nel monitoraggio e nel follow-up delle ulcere venose è indispensabile un adeguato studio ecocolordoppler e/o pletismografico dei modelli emodinamici potenzialmente correggibili. (Gohel, 2007; Kulkarni, 2007; Magnusson, 2006). Poiché l’ulcera venosa rappresenta una condizione cronica caratterizzata dalla lenta riparazione e dalla tendenza a recidivare, obiettivo della terapia è non soltanto la guarigione, ma anche e soprattutto la prevenzione della recidiva (Gillies, 1996). Allo stesso tempo è di fondamentale importanza migliorare lo stato psicologico del paziente, sia per l’accettazione e la collaborazione nel programma terapeutico, sia per la stessa QoL (Iglesias, 2005). La terapia di un’ulcera venosa può coinvolgere uno o più dei seguenti trattamenti • trattamento di base • terapia farmacologica • compressione • medicazione topica • chirurgia • scleroterapia • altre terapie • misure generali Chirurgia La chirurgia dell’ulcera venosa non è da considerarsi né in esclusiva né in alternativa, ma complementare al trattamento conservativo (van Gent, 2006). La terapia chirurgica dell’ulcera persegue due obiettivi fondamentali: a)la correzione dell’alterazione emodinamica di base (Perrin, 2005). b)la copertura dell’ulcera mediante innesti cutanei allo scopo di ridurre i tempi di guarigione. La scelta della procedura più idonea deve sempre essere preceduta da un accurato studio morfologico ed emodinamico del sistema venoso sia superficiale che profondo con le abituali metodiche diagnostiche ( Coleridge Smith, 2001). Si ritiene comunemente che in pazienti con ulcera varicosa la chirurgia del sistema venoso superficiale offra ottimi risultati, riducendo i tempi di guarigione e le recidive a distanza, specialmente in assenza di alterazioni del sistema venoso profondo (Ruckley, 1996; Zamboni, 2003; Barwell, 2004; Obermayer, 2006). Più deludenti sono i risultati della chirurgia in caso di ulcere post-trombotiche (Kistner, 1997; Allegra, 2007). Circa il ruolo delle vene perforanti nell’insufficienza venosa cronica, è certo che il loro trattamento è stato migliorato dallo sviluppo della tecnica di legatura sottofasciale per via endoscopica. (Bergan, 1996). Tuttavia, dopo risultati precoci ottimi, il fallimento della guarigione dell’ulcera o la recidiva è compresa in un range percentuale che va dal 2,5 al 22%. (Pierik, 1997; Gloviczki, 1999; O’Donnell, 1999). Un limite della tecnica è inoltre la difficoltà di accedere alle perforanti perimalleolari. In uno studio è stato osservato che il 50% delle perforanti incontinenti risultano entro i 10 cm dal suolo, identificate pre-operatoriamente con ECD, non vengono trattate dalla tecnica endoscopica. (Pierik, 1997). Inoltre la tecnica endoscopica confrontata con quella aperta per un follow-up di circa quattro anni, pur dimostrando una ridotta morbilità, non ha fatto rilevare differenze statisticamente significative in termini di guarigione delle ulcere (Sybrandy, 2001). La correzione totale dell’insufficienza delle vene superficiali e delle vene perforanti dovrebbe essere sempre effettuata, prima di considerare interventi sul circolo venoso profondo (Iafrati, 2002). Le valvuloplastiche, i trapianti di valvola venosa e gli interventi di trasposizione venosa dovrebbero essere lasciati come ultima risorsa. Si tratta di procedure da lungo tempo in fase di sviluppo, le quali vanno prese in considerazione esclusivamente in centri specializzati e nell’ambito di studi clinici controllati. (Consensus Alexander House, 1992). Per quanto riguarda gli innesti cutanei, in letteratura non si ritrovano prove completamente sufficienti dei loro effetti sulla guarigione stabile delle ulcere venose. Essi possono essere attuati con varie metodiche, di cui si riportano i riferimenti d’origine: • meshed split skin grafting (Lofgren, 1965) • pinch grafting (Poskitt, 1987) • omotrapianto di cheratinociti umani coltivati in vitro (De Luca, 1992); • trapianto di lembi liberi con segmenti venosi valvolati, previa ulcerectomia e legature di perforanti insufficienti (Dunn, 1994); • shave therapy , cioè ulcerectomia, rimozione del tessuto lipodermatosclerotico ed innesto in meshed (Schmeller, 1996). I risultati migliori si ottengono con la tecnica del meshed grafting, mentre sono in fase di revisione critica gli innesti di cheratinociti umani e dei sostituti della cute umana, non essendovi attualmente dei lavori che ne dimostrino l’efficacia nelle recidive a distanza (Moneta, 1999). L’ impiego della cute artificiale e/o di equivalenti cutanei sembra promettente nel favorire una rigenerazione tessutale (Prystowsky, 2000; Bello, 2002). Raccomandazioni: La terapia delle ulcere venose è un problema vastissimo, ma non risolto, essendo queste lesioni lente nella riparazione e facilmente recidivanti. La terapia conservativa ha un ruolo importante in prima istanza, ma si è rivelata inefficace nella prevenzione delle recidive a distanza, se non supportata in molti casi dalla correzione chirurgica della turba emodinamica, la quale dà buoni risultati solo in caso di insufficienza isolata del sistema venoso superficiale. Grado BIb TROMBOSI VENOSE SUPERFICIALI La tromboflebite superficiale, meglio definita oggi in trombosi venosa superficiale (TVS) è considerata una malattia benigna, in assenza di rischio trombofilico, generalmente quale comune complicanza delle vene varicose (Edwards, 1938; Guex, 1996). Tuttavia può evolvere in embolia polmonare ed esser fatale ( Gjöres, 1962). Forse per tale motivo la letteratura sull’argomento è incentrata quasi unicamente sugli aspetti chirurgici del trattamento: la crossectomia safenofemorale con o senza trombectomia (Lofgren, 1981). In realtà la chirurgia si rende necessaria solo in presenza di tromboflebiti ascendenti oggi ben identificabili mediante eco-Doppler (Lohr, 1992; Cesarone, 2007). In casi appropriati l'incisione e la spremitura dei coagoli in anestesia locale può essere raccomandata per influenzare l'evoluzione e la sintomatologia. In anni recenti è stata evidenziata una controversa concomitanza di TVP occulte in corso di TVS (Bergqvist , 1985; Jorgensen,1993; Bounameaux H, 1997 ). Nella maggioranza delle tromboflebiti varicose o non, viceversa, a fianco della terapia farmacologica (antiinfiammatoria/eparinica),la compressione elastica sempre unita alla deambulazione trova la prima indicazione al trattamento ed alla prevenzione dell’estensione (Fischer, 1910). Nonostante tale pratica, comune e consolidata, non sono disponibili studi recenti e controllati su modalità di compressione e risultati. Entrambe le possibilità, di compressione mediante bendaggio (adesivo poco elastico) tipo Unna con ossido di Zn. (od anche con ittiolo) o calza elastica, sono diffuse. Diversi comportamenti medici o chirurgici sono invocati per la localizzazione sotto il ginocchio, benigna, o sopra, potenzialmente ascendente (Murgia, 1999; Cesarone, 2007). Raccomandazioni: I pazienti con trombosi venose superficiali hanno sempre indicazione alla compressione e deambulazione e appare raccomandabile lo studio eco-doppler sia del circolo superficiale che profondo Grado C III Sono necessari ulteriori studi per rispondere ad aspetti non verificati quali la scelta del tipo di compressione e una più diffusa profilassi con eparine . La chirurgia si rende necessaria solo in presenza di TVS ascendenti Grado C III VARICORRAGIE La possibilità di insorgenza di una emorragia da varici (varicorragia), e finanche da teleangectasie, è un’evenienza non rara, specie nella popolazione anziana e non è sufficientemente considerata (Evans 1973; Agus 1988). Essa può verificarsi in tre maniere, spontanea, secondaria a trauma diretto o tangenziale, sottocutanea, e può recidivare. La varicorragia può portare fino alla morte (Evans 1973) perché vi è poca educazione nei pazienti con IVC sui comportamenti da intraprendersi nel caso. Essi sono assai semplici, con la necessità di porre immediatamente l’arto in posizione declive, senza lacci, comprimendo direttamente il punto di emorragia se possibile con benda elastica (Wallois 1982). I provvedimenti medici sono tuttavia differenti a seconda dello specialista a cui pervenga l’osservazione dell’evento acuto o subacuto. Spesso in PS viene effettuata sutura chirurgica del punto di emorragia; lo specialista vascolare attua invece bendaggio elasto-adesivo con immediata o successiva scleroterapia dei vasi afferenti tale punto (Agus 1988; Tretbar 1996). Uno studio randomizzato sui due tipi di trattamento ha dimostrato per il gruppo sottoposto a scleroterapia-compressione un tempo di guarigione di 7 giorni e nessuna recidiva a un anno; nel gruppo sottoposto a sutura chirurgica un tempo di guarigione di 14 giorni e una recidiva nel 23% (Labas 2007). Raccomandazioni: La terapia della varicorragia non deve essere sottostimata. Essa può essere recidivante e fatale. La terapia comportamentale ha un ruolo importante in prima istanza, ma è necessario trattare la causa con scleroterapiacompressione che fornisce migliori risultati della semplice sutura. Grado B I b TROMBOEMBOLISMO VENOSO IL CHIRURGO VASCOLARE COME ESPERTO DI TEV TVP E TVS Le Linee Guida elaborate dalla Unione Internazionale di Angiologia (IUA) e pubblicate nel marzo 1997 su International Angiology (Nicolaides, 1997), costituiscono il riferimento obbligato per Linee Guida nazionali, necessariamente integrate dall’ originaria Consensus Conference dell’ NIH a Bethesda, USA, nel 1986, e da quanto emerso in acquisizioni successive (Geerts, 2001; Geerts, 2004). Le Società scientifiche vascolari italiane si sono dotate di Linee Guida proprie dal 2000 (SIAPAV, 2000; CIF, 2000; SICVE, 2001). Oggi possono essere considerate di riferimento quelle stesse dell’ IUA revisionate e pubblicate sempre su International Angiology nel 2006 (Nicolaides, 2006). E’ possibile pertanto, qui, ricordare unicamente quali siano le popolazioni a rischio che possono vedere il chirurgo vascolare interpellato quale esperto per la profilassi e la terapia, quest’ultima selettivamente anche chirurgica. Devono essere considerate le seguenti popolazioni a rischio: a) pazienti chirurgici: chirurgia generale, urologica, ginecologica, neurochirurgica, ortopedica, traumatologica, laparoscopica e la stessa chirurgia vascolare. b) pazienti con affezioni mediche: IMA, ictus ischemico ed emorragico, pazienti di medicina generale e pazienti immobilizzati per diverse cause. Le categorie di rischio di Tromboembolismo Venoso (TEV) La conoscenza dei fattori di rischio consente di classificare i pazienti in base alla probabilità di sviluppare un evento tromboembolico venoso (Heit, 2000). Il criterio principale sul quale basare la scelta tra i diversi mezzi di profilassi farmacologici e/o meccanici è il grado di rischio complessivo del singolo paziente. Tale grado è dato dall’interazione tra livello di rischio oggettivo legato alla specifica condizione clinica chirurgica e medica, e condizioni individuali che incrementano il rischio (età, obesità, neoplasie, pregresso tromboembolismo venoso, varici e condizioni trombofiliche congenite o acquisite). Nel caso della chirurgia, il rischio è inoltre influenzato dalla durata dell’intervento, dal tipo di anestesia, dalla immobilità pre e postoperatoria, dal grado di idratazione e da eventuali sepsi. In base a tali criteri è possibile suddividere i pazienti in classi di rischio basso, moderato, alto e, discutibilmente, anche con una quarta categoria di rischio definito “molto alto”nell’esperienza nordamericana. Pazienti medici I pazienti “non chirurgici” rappresentano una eterogenea ed ampia categoria di soggetti che comprende i pazienti con infarto miocardico acuto, con ictus cerebrale (ischemico o emorragico), con neoplasie e con una serie di malattie internistiche che vanno dallo scompenso cardiaco fino alle malattie respiratorie croniche ed alle malattie infettive, fino a condizioni di immobilità degli arti inferiori da svariate cause, che possono essere a rischio di TEV. Non si dispone di dati altrettanto accurati come in chirurgia, circa la reale frequenza di TEV in ciascuna delle elencate categorie di rischio, anche se sul piano epidemiologico è oggi evidente che la maggioranza delle TVP e TVS si riscontra in tali pazienti. Analogamente, sono piuttosto carenti i dati sull’efficacia dei presidi antitrombotici che sono stati considerati prevalentemente per la chirurgia generale ed ortopedica. Nonostante ciò i dati disponibili suggeriscono che la profilassi con eparine, possa determinare una riduzione del rischio relativo di incidenza delle TVP anche nei pazienti medici. Diversamente che in Chirurgia, nel paziente medico mancano studi sull’efficacia della profilassi meccanica con calze elastiche a compressione graduata o compressione pneumatica intermittente, seppure recenti studi vadano in tale direzione. Tutti i pazienti medici dovrebbero essere classificati in base al rischio tromboembolico ed una profilassi dovrebbe essere attuata nei pazienti a rischio moderato e alto. La stasi venosa come rischio vascolare di base Dovrebbe essere largamente accettato che la stasi sia il maggior fattore in causa nelle TVP. Numerosi sono stati gli studi negli ultimi decenni che supportano questo punto come cruciale nella triade di Vichow: in studi autoptici (Gibbs,1957); radiograficamente (Almen e Nylander, 1968); con misure del flusso venoso femorale (Clark e Cotton, 1968); con tecniche radioisotopiche (Nicolaides e Kakkar; 1971); con ultrasuoni peroperatori sulla dilatazione venosa (Comerota, 1989). Ciò confermerebbe la rilevanza dello specialista vascolare nell’affronto del problema del TEV, ma come noto, la ricerca e l’interesse di categorie di specialisti diversi ha spostato l’attenzione su aspetti coagulativi, talvolta neppure particolarmente incidenti sul piano epidemiologico, come nel caso delle trombofilie. Specularmente, tarda ancora la diffusione della conoscenze e del valore dell’ antistasi. E’ infatti tuttora spesso diffusa l’ idea che il paziente con TVP o a rischio di embolia polmonare debba essere tenuto immobilizzato a letto, dogma di certo da superare. Nell’ allettamento medico o chirurgico vi è abolizione dei riflessi posturali, ipotrofia muscolare, comparsa di megavene, rallentamento del flusso sanguigno. Fin dal 1988 si poté dimostrare come la mobilizzazione immediata in presenza di TVP comportasse il 51% di miglioramenti e solo l’ 1% di peggioramenti; e successivamente tale strategia è stata convalidata sulla base della triade terapeutica mobilizzazione-compressione-EBPM (Schulman, 1988; Partsch, 2003; Trujillo-Santos, 2005). Vecchi e nuovi fattori di rischio legati proprio alla stasi, a parte altri singoli fattori predisponenti più di carattere individuale, sono convincenti per tale comportamento. Raccomandazioni: Piani di profilassi dovrebbero essere preordinati da ogni reparto di chirurgia. Tali piani dovrebbero prevedere, con le irrinunciabili misure generali di profilassi (idratazione adeguata, mobilizzazione precoce, limitazione temporale per quanto possibile di posizioni o dispositivi che facilitano la stasi), mezzi di profilassi meccanica (calze, bendaggi, compressione pneumatica intermittente) e la ricerca ragionata di fattori ematologici di trombofilia quando i dati clinici e anamnestici lo suggeriscano. Pazienti chirurgici a basso rischio I dati disponibili sono insufficienti per dare precise raccomandazioni; sulla base del rapporto rischio/beneficio ed estrapolando da studi su pazienti a rischio moderato, sembra di pratica comune la mobilizzazione precoce e il mantenimento di idratazione adeguata, oltre ad eventuale utilizzo di calze a compressione graduata. Grado C Pazienti chirurgici a rischio moderato Sono raccomandati mezzi farmacologici quali eparina non frazionata o eparina a basso peso molecolare per tutti i pazienti a rischio moderato. Pazienti chirurgici a rischio elevato e molto elevato La profilassi utilizzata per i pazienti a rischio moderato, deve essere applicata a tutti i pazienti ad alto rischio. Grado A Potrebbe essere ritenuta potenzialmente più efficace la combinazione dei singoli mezzi farmacologici, quali l’eparina non frazionata a basso dosaggio o l’eparina a basso peso molecolare, con metodi meccanici di profilassi quali la compressione pneumatica intermittente o le calze a compressione graduata. Grado B La profilassi dovrebbe essere praticata nelle donne in terapia estroprogestinica contraccettiva, se l’assunzione non è stata interrotta da almeno 4-6 settimane prima dell’intervento. Il vantaggio dell’interruzione della contraccezione va soppesato con il rischio di una nuova gravidanza. Grado C Le misure di profilassi di tipo meccanico, in alternativa ai mezzi farmacologici, devono essere prese in considerazione nei pazienti ad alto rischio emorragico, sia da disordini coagulativi sia per motivi inerenti alle procedure chirurgiche. Grado C Nei pazienti sottoposti ad interventi di neurochirurgia intracranica, sono raccomandati sia i mezzi meccanici come la Teleangiectasie Varici reticolari Piccole-medie varici 20% 1-2% 1-2% Grosse varici Tronchi safenici Glicerina cromata 72% Salicilato di sodio 8% 12% Polidocanolo 0,25-0,5% 1% 3-4% 3-4% TERAPIA DELLA TVP Tetradecilsolfato 0,1-0,2% 0,2-0,3% 3% 3% di sodio Considerazioni generali Iodio/ioduro di 2% 2-4% 4-8-12% L’ideale terapeutico del- TEV, con il quale indurre la rapida ricanalizzazione del lume vasale trombizzato, impedire il sodio di frammenti e/o dell’intera massa trombotica e garantire l’integrità valvolare, non è ancora stato raggiunto. distacco Con gli attuali mezzi terapeutici è possibile ostacolare l’estensione della trombosi, ridurre l’edema dell’arto cui consegue l’incremento della pressione compartimentale con conseguente probabile evoluzione in phlegmasia, gangrena venosa Grado B IIIe perdita dell’arto, ridurre le recidive trombotiche e le EP, limitare la SPT preservando la funzionalità valvolare e il delle perforanti indipendentemente dal loro diametro, e della piccola safena. deflusso venoso. In ordine alla gestione terapeutica delle TVP, la prassi più largamente sperimentata in passato Non esiste standardizzazione della tecnica, delle concentrazioni e quantità degli agenti sclerosanti. prevedeva l’ospedalizzazione del paziente e la somministrazione di eparina per via endovenosa con una prima dose in La compressione migliora il risultato della terapia sclerosante. B III bolo, seguita dal proseguimento della terapia per infusione venosa continua. E’ necessario il ricovero ed ilGrado monitoraggio frequente del livello di anticoagulazione quando si segua questa strategia terapeutica. Per l’aggiustamento dei dosaggi Ridotto tono venoso dell’eparina non frazionata sia ev che sc sono stati proposti normogrammi (Cruickshank, 1991; Raschke, 1993) - Emoconcentrazione - Depressione del reflusso venoarteriolare All’utilizzo didella Eparina non frazionata (ENF) ev e/o sotto cute, che può trovare indicazione d’uso quando è necessario il - Disturbo vasomozione monitoraggio laboratoristico dell’effetto - Aumento della permeabilità capillareanticoagulante, come nei pazienti con peso corporeo molto basso o molto - Edema - Cuffia di fibrina pericapillare - Ridotta fibrinolisi - Aumento del plasminogeno plasmatico Alterazioni della reologia leucocitaria ed - eritrocitaria - Attivazione leucocitaria elevato o con insufficienza renale di grado medio-severo, oggi si pone come alternativa sempre più diffusa l’utilizzo di una delle Eparine a basso peso molecolare (EBPM) disponibili e somministrabili per via sottocutanea, a dosaggio aggiustato in base al peso corporeo. Al di là dei vantaggi pratici rispetto all’ENF somministrata e.v., le EBPM hanno comportato una riduzione di mortalità e complicanze nel paziente con TVP (forse limitata ai pazienti neoplastici con TEV) e questo dato fa preferire le EBPM all’ENF (Dolovich, 2000) La terapia anticoagulante orale può essere iniziata il primo giorno di terapia eparinica o successivamente, a meno non sia prevista una procedura medica o chirurgica tipo trombolisi o inserimento di filtro cavale o in presenza di pazienti politraumatizzati o in situazioni potenzialmente emorragiche. La durata della somministrazione eparinica , sia ENF o EBPM, non va prolungata oltre i cinque-sette giorni (in caso di massiva TVP femoro-iliaca o iliaco-cavale o di TVP alla quale coesista una EP non massiva, qualcuno suggerisce di protrarre la terapia fino a 10 giorni). Ciò consente di ridurre il ricovero ospedaliero e conseguentemente comporta un significativo risparmio. E’ da sottolineare che l’embricatura della terapia anticoagulante orale con quella eparinica non deve essere inferiore a 4-5 giorni. La somministrazione di eparina potrà essere interrotta quando i valori di INR siano superiori a 2 per almeno due giorni consecutivi.(Hyers, 2001). La terapia iniziale con eparina si rende necessaria per l’inaccettabile probabilità di recidive correlata alla terapia iniziale con anticoagulanti orali (Brandjes, 1992). La terapia con anticoagulante orale, o, in presenza di controindicazioni a tale terapia, con EBPM o con ENF a dosaggio terapeutico, dovrebbe essere proseguita per 3 – 6 mesi nei pazienti al primo episodio con condizione a rischio transitorio e per almeno 6-12 mesi nei pazienti al primo episodio tromboembolico idiopatico. (Durac, 1997; Campbell, 2007). Raccomandazioni: L’anticoagulazione deve essere iniziata con EBPM sottocute, a dosaggio aggiustato sulla base del peso corporeo o con ENF a dosaggio aggiustato endovena o sottocute. Grado A Il potenziale vantaggio in termini di ridotta mortalità dei pazienti trattati con EBPM rispetto all’ENF e.v. e la superiore maneggevolezza delle EBPM fa preferire queste ultime all’ENF. Grado B Nel caso di impiego di ENF si raccomanda di raggiungere un aPTT compreso nell’intervallo terapeutico (1,5-2,5 volte il tempo di controllo, ovvero del tempo di aPTT del paziente prelevato prima dell’inizio della terapia, equivalente ad un livello di eparinemia di 0,2-0,4 U/ml.), utilizzando uno dei nomogrammi per l’aggiustamento della posologia della eparina sia somministrata endovena che sottocute. Grado A Il trattamento eparinico iniziale dovrebbe essere proseguito per almeno cinque giorni e la terapia con anticoagulanti orali dovrebbe essere sovrapposta all’eparina fino a quando (in genere 4 – 6 giorni) l’INR del paziente si mantiene nell’intervallo terapeutico (2,0-3,0) per almeno due giorni. Grado A La terapia con anticoagulante orale, o, in presenza di controindicazioni a tale terapia, con EBPM o con ENF a dosaggio terapeutico, dovrebbe essere proseguita per 3 – 6 mesi nei pazienti al primo episodio con condizione a rischio transitorio e per almeno 6-12 mesi nei pazienti al primo episodio tromboembolico idiopatico. Grado A In pazienti con recidive o con condizione trombofilica persistente quale neoplasia, deficit di ATIII e positività per anticorpi anti fosfolipidi o altra condizione trombofilica “forte” quale l’omozigosi per il fattore V Leiden, peraltro molto rare, o per l’associazione di più condizioni trombofiliche, la terapia dovrebbe essere proseguita per almeno 1 anno o oltre , ma non è stata definita la durata ottimale. Grado C Trattamento domiciliare della TVP Sin dai primi trial clinici randomizzati, le EBPM possono essere considerate sostitutive dell’ENF endovena nel trattamento domiciliare del TEV, almeno limitatamente ai pazienti conTVP prossimali non complicate ed a basso rischio emorragico (Koopman, 1996; Levine, 1996). Gli schemi terapeutici proposti prevedono la terapia iniziale con EBPM a dosi fisse pro peso e l’inizio rapido (anche contemporaneo in assenza di controindicazioni) della terapia con anticoagulanti orali. Uno degli argomenti a favore del trattamento domiciliare della TVP con EBPM sottocute è la non necessità di monitoraggio di laboratorio ad accezione della conta piastrinica. Restano comunque discordi i pareri sul trattamento iniziale della TVP in regime extraospedaliero poichè, a fronte della riduzione dei costi legata alla non ospedalizzazione, si deve prevedere una gestione domiciliare di non sempre semplice realizzazione, sia in ordine al monitoraggio delle condizioni cliniche che alla corretta somministrazione ed alla continuità e facilità di connessione con strutture di riferimenti (Partsch, 2001). Per il trattamento extraospedaliero è raccomandabile l’adozione di condizioni minime per la dimissione precoce quali quelle suggerite dalle Linee Guida internazionali citate: • Paziente in condizioni stabili con indici vitali normali • Basso rischio emorragico • Assenza di insufficienza renale grave • Possibilità di somministrazione di EBPM o anticoagulanti orali con monitoraggio appropriato • Possibilità di sorveglianza clinica al fine di identificare tempestivamente recidive trombotiche o complicanze emorragiche Terapia trombolitica Il ruolo di questa categoria di farmaci ha precise indicazioni per le condizioni più gravi (Verhaeghe, 2004). Elastocompressione La terapia compressiva è da considerare indispensabile nel trattamento della TVP. Per le generalità si rimanda al relativo capitolo delle Linee-Guida per il trattamento dell’IVC ed alle Linee guida specifiche (Agus, 2000; Partsch, 2003; Cornu-Thénard, 2006; Mariani, 2006). Trombectomia chirurgica Numerose review e lavori anche recenti confermano l’indicazione alla trombectomia chirurgica in casi selezionati, ed in particolare nelle TVP ischemizzanti e nelle trombosi iliaco-cavali flottanti, in caso di insuccesso del trattamento farmacologico. I buoni risultati stanno favorendo numerose esperienze di trombolisi meccanica percutanea, per le quali mancano ancora dati sufficienti per poter esprimere raccomandazioni a riguardo (Juhan, 1997). Filtri cavali Il posizionamento di un filtro cavale prevede una diagnosi accertata di TVP e l’esecuzione preventiva di una cavografia inferiore per valutare la sede dello sbocco delle vene renali, la pervietà della cava ed il suo calibro; quest’ultimo dato è indispensabile nella scelta del tipo di filtro per un corretto ancoraggio alle pareti cavali. Sono attualmente disponibili filtri definitivi che non possono essere rimossi e temporanei, da rimuovere entro 7 giorni. Al momento sono disponibili oltre ai filtri definitivi, dispositivi temporanei che possono essere rimossi entro 2 – 3 settimane e filtri permanenti ma muniti di un dispositivo che ne consente ma non ne garantisce la rimozione entro un ampio spazio temporale (anche superiore ai 6 mesi). Tali dispositivi potrebbero ampliare le indicazioni a tale procedura, ma non sono ancora disponibili studi adeguati. Indicazioni Le indicazioni comunemente accettate al posizionamento di un filtro cavale sono le seguenti: • TVP prossimale recente, anche senza EP e controindicazione assoluta alla terapia anticoagulante; • complicanze da terapia anticoagulante ben condotta; • inefficacia (EP ricorrenti e/o progressione della TVP) di terapia anticoagulante ben condotta. Per altre indicazioni, quali malattia tromboembolica con ridotta riserva cardiopolmonare, embolia polmonare cronica non trattata, trombo flottante in vena cava esistono pareri discordanti per mancanza di dati certi. Pazienti con storia pregressa di malattia tromboembolica e programma di intervento chirurgico addomino-pelvico, donne gravide con TVP prossimale e rischio embolico al parto, pazienti con trauma agli arti inferiori e al bacino, o casi di immobilità prolungata con severa ipertensione polmonare scarsamente compensata, o altre situazioni alto rischio sia embolico che emorragico, possono trarre beneficio da un filtro a scopo profilattico. In questi casi un filtro temporaneo può rappresentare una alternativa alla terapia anticoagulante, in caso di controindicazione o fallimento di questa. Quando possibile, il filtro temporaneo deve essere preferito nei pazienti in giovane età, in considerazione della possibile insorgenza di complicanze a lungo termine associate alla permanenza in sede dei filtri cavali definitivi. Uno studio multicentrico randomizzato (Decousus, 2000) ha posto in evidenza il fatto che i filtri cavali non controllano efficacemente la malattia tromboembolica in assenza di terapia anticoagulante associata. In questo studio la superiorità iniziale del filtro (minor eventi embolici) è risultata controbilanciata nel lungo periodo (2 anni) da una maggior incidenza di recidive trombotiche agli arti inferiori, possibilmente riferibili alla trombizzazione del filtro stesso. I filtri cavali sono dispositivi validi e semplici da impiantare, ma non rappresentano una protezione aggiuntiva nei pazienti con malattia tromboembolica che possono essere trattati efficacemente con terapia anticoagulante (Kaufman, 1995)). Raccomandazione: I filtri cavali sono da prendere in considerazione solo in presenza di inefficacia o impossibilità della terapia anticoagulante. In caso di pazienti con storia pregressa di TEV e programma di intervento chirurgico addomino-pelvico, donne gravide con TVP prossimale e rischio embolico al parto, in pazienti politraumatizzati, o casi di condizioni ad alto rischio tromboembolico in pazienti con severa ipertensione polmonare scarsamente compensata, o di trombo flottante in cava, le indicazioni andranno bilanciate individualmente. Grado C TVS Vedi in parte dell’ IVC, seppure non unicamente riscontrabili come complicanza delle varici. TROMBOSI VENOSA AXILLO-SUCCLAVIA La trombosi venosa axillo-succlavia, o sindrome di Paget-Von Schroetter, è un'evenienza relativamente rara costituendo circa il 2% di tutte le manifestazioni trombotiche venose. Tale limitata frequenza, rispetto all'arto inferiore, viene giustificata dalla migliore attività fibrinolitica endoteliale, dal minor numero di valvole delle vene dell'arto superiore e dal maggiore esercizio muscolare delle vene dell'arto superiore. Lo sviluppo delle tecniche diagnostiche ed in particolare l'esame ultrasonografico (US) con prove dinamiche hanno tuttavia dimostrato che nell'80% dei casi il principale fattore etiopatogenetico è il trauma cronico da compressione estrinseca costoclavicolare. E' indubbia l'importanza della diagnosi precoce, sia nelle forme precliniche da compressione intermittente per adottare un corretto trattamento preventivo, sia nelle forme da trombosi acuta per limitare il rischio elevato di embolie polmonari valutato dal 12 al 17% dei casi e la comparsa di una sindrome post-trombotica più o meno gravemente invalidante che si presenta nel 60 - 85% dei pazienti non adeguatamente trattati . Altra causa di incidenza elevata si osserva nei portatori di cateteri venosi centrali. La diagnosi clinica è in genere più agevole che per le trombosi venose degli arti inferiori, ma la diagnosi ultrasonografica (nelle modalità CUS e eco-color-Doppler) costituisce l'esame di prima scelta con elevati valori di sensibilità e specificità (Prandoni, 1997). La flebografia dinamica (esame di seconda scelta) ha un ruolo di conferma diagnostica in casi dubbi o per necessità di dettaglio anatomico finalizzato ad un planning chirurgico e per monitorare l'effetto di una terapia trombolitica. L'attuale tendenza terapeutica prevede l'uso di farmaci trombolitici in un primo tempo e la resezione della I costa ottenuta la ricanalizzazione nei casi riferibili a sindrome dello stretto toracico. Sono proposte inoltre differenti terapie dai vari autori sulla cui efficacia sussistono tuttora controversie, non esistendo studi randomizzati che dimostrino la superiorità del trattamento litico ed endovascolare a distanza. Trombolisi La trombolisi viene considerata efficace se eseguita nei primi 7-8 giorni dall'insorgenza (Rutherford, 1998). Il farmaco più utilizzato è l'UK. E' possibile infondere il farmaco nella vena afferente (trombolisi loco-regionale), oppure con cateterismo della vena ascellare all'interno del trombo (trombolisi intra-trombotica, con infusione in pompa o con tecnica pulse-spray) (Palombo, 1993). Non esiste dimostrazione di superiorità di una tecnica rispetto all'altra; tuttavia è esperienza comune che la trombolisi intratrombotica è più rapida e più completa. E' in genere consigliato un successivo trattamento anticoagulante per 3 mesi. Terapia anticoagulante Nei pazienti con trombosi da oltre 1 settimana o con controindicazioni alla fibrinolisi (come nelle trombosi associate a neoplasie), il trattamento anticoagulante (eparina seguita da anticoagulante orale) è generalmente indicato per 3 mesi. Nei pazienti con trombosi da catetere , questo va rimosso, se possibile. Tecniche combinate e terapia chirurgica Qualora la trombosi fosse molto estesa è possibile un trattamento combinato chirurgico, endovascolare e farmacologico (Machleder, 1993; Kalman, 1998), oppure una trombolisi meccanica (Henry, 1997). In caso di trombosi residua si può proporre l'esecuzione di un bypass venoso quando possibile con la trasposizione di un capo della giugulare esterna (Pegis, 1997). In caso di trombosi secondaria a sindrome dello stretto toracico, risolto il problema venoso, può essere indicata una resezione della I costa. Residui trombotici parietali, stenosi da flebosclerosi o sepimenti intravascolari possono essere risolti per via endovascolare con PTA ed eventuale applicazione di stent (Cohen, 1996). Prima dell'applicazione dello stent è solitamente necessario risolvere la compressione costo-clavicolare, altrimenti la pinza ossea potrebbe portare alla rottura dello stent stesso (Meier, 1996). La riabilitazione ed un corretto allenamento potranno sostituire l'atto chirurgico in caso di compressione lieve o di trombosi residua, ma generalmente sono indicati per riportare il paziente ed in particolare l'atleta agonista il più rapidamente possibile alla normale attività dopo l'intervento di costectomia. In ogni caso è giustificato un periodo di ginnastica rieducativa da 3 a 6 mesi secondo programmi consolidati. Raccomandazioni: • Gli US costituiscono l'esame di prima scelta per la diagnosi di trombosi venosa axillo-succlavia Grado A • La flebografia trova indicazione nei casi dubbi e quando si intenda effettuare una terapia trombolitica. Lo studio dinamico dello stretto toracico va eseguito a trombosi risolta. • La trombolisi (loco-regionale o con cateterismo) è indicata nelle trombosi recenti (< 8 giorni) nelle seguenti situazioni: trombosi da sforzo, pazienti giovani, necessità di recupero funzionale completo dell'arto Grado C • Tutti i pazienti vanno sottoposti a terapia anticoagulante preferibilmente per 3 mesi Nei casi di trombosi da compressione costo-clavicolare, risolta dalla trombolisi, la terapia anticoagulante dovrebbe essere protratta fino alla risoluzione chirurgica della compressione. Grado C • Nelle trombosi secondarie a catetere, se possibile, esso va rimosso. IL TEV COME RISCHIO DI COMPLICANZA DELLA CHIRURGIA VASCOLARE La chirurgia vascolare è interessata dal rischio di TEV post-operatoria in percentuale significativamente minore rispetto ad altre chirurgie. La 7° Conferenza ACCP considera la chirurgia vascolare a basso rischio, sconsigliando la profilassi addizionale rispetto alla sola mobilizzazione precoce (Grado 2B); e riservando l’ENF o le EBPM a pazienti con fattori di rischio addizionali (Grado 1 C+) (1). La compressione elastica è da considerarsi altrettanto fondamentale nella profilassi del TEV, particolarmente nei pazienti a scarsa o difficile mobilizzazione e in concomitanza di IVC. Essa è associata, come profilassi antitrombotica, alla mobilizzazione immediata soprattutto dopo chirurgia delle varici. Linee-guida e Documenti di consenso dell’ ultimo decennio hanno diffusamente affrontato i benefici della compressione e una review di 9 studi randomizzati e controllati sull’ efficacia della calza elastica da sola e in associazione ad altri metodi, ne codificano l’uso (2, 3, 4, 5). Per tipi e modalità di compressione si rimanda al relativo capitolo delle Linee-guida per il trattamento dell’IVC. Anche la chirurgia vascolare arteriosa è interessata dal rischio di TVP e possibili EP, indipendentemente dal tempo di clampaggio, dalle dosi di eparinizzazione intraoperatoria, dalle perdite ematiche, dal tipo di trasfusione o reintegro di liquidi, dall’uso di solfato di protamina, ma come rischio minore che non ha riproposto di recente l’attenzione al problema. In chirurgia aortica, in particolare quella degli aneurismi, l’incidenza di TEV tuttavia risultava abbastanza rilevante, riscontrandosi in review della letteratura tra il 2 ed il 40% dei casi, con percentuali del 18% in studio prospettico con controllo flebografico post-operatorio (6); interessando fino al 6% anche il trattamento endovascolare degli aneurismi aortici (7). In chirurgia arteriosa periferica, il tipico quadro di edema che può comparire nei giorni seguenti l’intervento di rivascolarizzazione diretta di un arto inferiore, in apparenza riconducibile all'iperemia reattiva che si attua nel territorio di irrorazione di un'arteria precedentemente ostruita e successivamente rivascolarizzata, indipendentemente dalla tecnica impiegata, può viceversa essere indicatore di prognosi sfavorevole, quale edema premonitore di TVP. La TVP dopo rivascolarizzazione femoro-poplitea è stata calcolata tra il 5 e 43% . Il Consensus Statement dell’ International Union of Angiology-IUA considera tali incidenze dell’ordine del 18% per la chirurgia addominale e del 15% per le ricostruzioni periferiche (8). E' stato però dimostrato come la profilassi con EBPM riduca il rischio al 3-4%, fino allo 0,9% e 0,7% rispettivamente per la chirurgia aortica e periferica (9, 10, 11). Per workload della chirurgia vascolare, su basi epidemiologiche, si analizza più diffusamente qui il rischio vero o presunto di TEV dopo chirurgia venosa. Lo stripping safenico (tuttora l’intervento maggiormente praticato) appartiene alla categoria della chirurgia minore. Tuttavia, non individuando il rischio personale per TEV, con controllo dei fattori di rischio trombotico individuale, recentemente sono emersi dati di casistica medico-legale per episodi di TVP anche mortali, verosimilmente nello 0,2% per TVP e 0,02% per EP, ma fino a 5,3% di casi di TVP post-operatorie in uno studio prospettico con controllo ecocolordoppler post-operatorio, pur in meno della metà sintomatiche e nessun caso di EP; l’obesità e l’uso di contraccettivi orali non risultarono fattori di rischio dopo chirurgia delle varici (12). La letteratura specifica ha affrontato nell’ultimo decennio il problema sia dal punto di vista di effettiva possibilità dell’evento, che dal punto di vista di costo-beneficio delle varie modalità di profilassi. Uno studio sull’atteggiamento della Vascular Surgical Society of Great Britain and Ireland al proposito, informa che solo il 29% dei chirurghi considera la chirurgia delle varici quale possibile rischio di TVP e solo il 12% usa abitualmente una profilassi eparinica post-operatoria (13). Nello stesso Regno Unito, d’altronde, la casistica medico-legale per TEV post-chirurgia delle varici risulta esigua, con 8 casi su 349 notificati per questa patologia in un decennio (14). Uno studio prospettico su pazienti sottoposti a stripping safenico in day surgery, con controllo ecocolordoppler post-operatorio, ha dimostrato la sola necessità di calza elastica e movimento quale profilassi della TVP e d’altronde come i casi di TEV possano verificarsi in qualunque giorno dopo l’intervento fino a 34 giorni dopo, vanificando il vantaggio di una profilassi limitata a soli 4 giorni per ridurre disagi e rischi al paziente, nonché costi sociali eccessivi per i sistemi sanitari nazionali (15). Uno studio retrospettivo con uso di profilassi post-operatoria con varie eparine in due gruppi di pazienti con e senza controllo ecografico post-operatorio, conferma anch’esso come il rischio di TEV nella chirurgia delle varici sia estremamente basso, non dissimile da quello della popolazione generale della stessa età e sesso (16). Un ampio studio francese dal titolo emblematico “Serve davvero prescrivere gli anticoagulanti dopo la chirurgia delle varici ?”, ha considerato oltre 4200 interventi chirurgici dal gennaio 1995 al dicembre 2002, nei quali è stato riscontrato solo 0,40 % di TVP sintomatiche con una sola EP (0,002 %) enfatizzando l’inutilità della profilassi farmacologica sistematica nella maggioranza dei casi operati ed il costo di milioni di euro per anno con l’uso inutile di eparina, senza diminuire il rischio trombotico (17). Deve essere anche considerato come l’uso delle odierne EBPM sia relativamente sicuro, ma non esente da complicanze emorragiche da minime (ematomi in sede di iniezione o sedi chirurgiche) a più severe (come la trombocitopenia [18] o l’ematoma del canale vertebrale dopo anestesia spinale, sebbene le linee guida anestesiologiche rassicurino su questo aspetto [19]). Nell’analisi rischio-beneficio, e costo-beneficio, Mildner riporta il 40% di complicanze post-chirurgiche con l’utilizzo di eparina come profilassi farmacologica post-operatoria vs il 7% senza eparina (20). Il rischio TEV, già di per se basso in chirurgia standard delle varici, è stato parzialmente adombrato per la nuova chirurgia endovascolare venosa in due pubblicazioni (21, 22). Ha peraltro risposto a questo presunto rischio trombotico dei trattamenti con radiofrequenze o Laser il dibattito internazionale (23, 24, 25) e la più vasta esperienza casistica, con eventualità di TEV da 0 a 0,5% (26, 27). Le evidenze emerse sono riassumibili: a) un limitato screening per coagulopatia è indicato in caso di anamnesi familiare o personale di TEV; b) in pazienti con i comuni fattori di rischio per TEV, specie se associati, è opportuna la EBPM; c) il posizionamento del catetere guida deve avvenire sotto controllo ecografico sistematico e possibilmente evitando la sua introduzione in vena femorale; d) la punta della fibra Laser o del catetere di RF sarà mantenuta sotto l’ afferenza della vena epigastrica superficiale, ricordando che eventuali spostamenti dell’ arto quali flessione del ginocchio o abduzione dell’ anca possono spingere la fibra in vena femorale; e) l’anestesia è già determinante come profilassi: l’ anestesia locale per tumescenza, da un lato permette la mobilizzazione immediata, dall’ altro assicura che la vena safena sia collassata sulla fibra vicino alla giunzione safenica; f) infine, le rare complicanze trombotiche riferite possono essere attribuite ad insufficiente learning curve. Raccomandazioni: La mobilizzazione precoce e l’uso di compressione post-operatoria devono essere considerati i capisaldi sufficienti della profilassi antitrombotica in chirurgia delle varici. Grado B I b Sottoporre ad una terapia inutile, costosa ed anche non del tutto sicura, il 99.8% di tutti i pazienti sottoposti a chirurgia delle varici presenterebbe un NNT di pazienti da trattare eccessivo perché si abbia un reale beneficio terapeutico in un solo paziente. Non vi sono pertanto evidenze per efficacia e costo per un uso routinario di ENF o EBPM. Grado A I b L’ENF o le EBPM sono da riservarsi in chirurgia delle varici a pazienti con fattori di rischio addizionali Grado B I b e routinariamente in chirurgia vascolare arteriosa Grado A I b APPENDICE. PATOLOGIA DEI LINFATICI LINFEDEMA Considerazioni generali Il linfedema è una malattia cronica, frustrante per il paziente e per il medico. Questa patologia è causata da un difetto del sistema linfatico a cui segue un accumulo di linfa nello spazio interstiziale, che in un primo momento si localizza prevalentemente a livello sovrafasciale e successivamente a tutto il tessuto sottocutaneo. La prima funzione del sistema linfatico è quella di rimuovere dallo spazio interstiziale le grosse molecole, l’acqua e di permettere un turn-over alle cellule del sistema linfatico (Bergan, 1996). L’insufficienza linfatica dal punto di vista fisiopatologico viene suddivisa in insufficienza di tipo dinamico e meccanico. L’insufficienza dinamica (o insufficienza ad alta portata) è presente nel caso di un sistema linfatico integro che deve far fronte ad un carico proteico maggiore che supera le sue capacità di portata. L’insufficienza meccanica (o insufficienza a bassa portata) deriva da un danno primitivo o secondario del sistema linfatico, con carico proteico normale (Földi, 1983). Le proteine stimolano l’arrivo dei mastociti e dei granulociti neutrofili istaurando un processo di granulazione aspecifico che nel tempo volgerà a fibrosi dell’interstizio con un sovvertimento strutturale. EPIDEMIOLOGIA I dati ricavabili dalla Letteratura internazionale, corrispondenti a quelli ufficiali e ormai datati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (1994), riportano un'incidenza del linfedema nel mondo pari a 140 milioni di casi (circa una persona ogni 20). Quasi la metà dei linfedemi è di origine primaria, caratterizzati da una base congenita. Altri 40 milioni sono di origine parassitaria (le forme più frequenti sono rappresentate dall'infestazione da Filaria Bancrofti), particolarmnete presenti nelle aree tropicali e subtropicali (India, Brasile, Sud-Africa) ( Gypong, 1996). Altri 20 milioni sono post-chirurgici e specialmente secondari al trattamento del carcinoma mammario. Gli altri 10 milioni sono essenzialmente causati da problemi funzionali di sovraccarico del circolo linfatico (particolarmente, in esiti di flebotrombosi profonda dell'arto inferiore ed anche nella c.d. sindrome di Mayall, da iperstomia artero-venosa per iperlinfogenesi). Da studi epidemiologici nazionali che vedono implicato in maniera non rara lo stesso medico di medicina generale ( Michelini, 1998; Visintin, 2003 ), i linfedemi primari risultano più frequenti rispetto ai secondari. La localizzazione agli arti superiori riconosce quasi sempre la natura secondaria, mentre agli arti inferiori si riscontrano per lo più linfedemi primari. Il sesso più interessato è quello femminile e l'età più colpita corrisponde alla III-IV decade di vita. L'incidenza della linfangite, clinicamente più o meno manifesta, come complicanza della linfostasi, è molto elevata (praticamente nella quasi totalità dei casi), a tal punto da richiedere un trattamento antibiotico protratto, sia a scopo terapeutico che profilattico. Dal punto di vista eziopatogenetico, per quanto concerne gli arti superiori, si è trattato nella stragrande maggioranza dei casi di una ipodisplasia linfonodale ascellare. Anche i casi di linfedema scatenati da episodi di linfangite o da eventi traumatici hanno presentato alle indagini diagnostiche specifiche una condizione di ipoplasia linfatico-linfonodale responsabile della particolare predisposizione dell'arto colpito alla comparsa di una stasi linfatica. In quasi tutti i linfedemi primari degli arti inferiori abbiamo potuto constatare la presenza di alterazioni linfangioadenodisplasiche con ipoplasia e fibrosclerosi linfonodale inguino-crurale nel 93% dei casi e con reflusso gravitazionale linfatico-chiloso, anche ai genitali esterni, per incontinenza valvolare dei collettori ectasici ed insufficienti nel restante 7%. La manifestazione clinica di tali forme di linfedema è stata più frequentemente spontanea, senza causa apparente, ed in alcuni casi, invece, conseguente a linfangiti o trauma. Linfedemi di origine secondaria sono stati diagnosticati nel 43% dei pazienti. Per quanto riguarda la localizzazione agli arti superiori, si è quasi sempre (98%) trattati di forme secondarie a linfoadenectomia ascellare e/o radioterapia per il trattamento del carcinoma mammario, mentre nel 2% dei casi, il linfedema all'arto superiore è stato conseguenza dell'asportazione di lipomi in sede ascellare, di biopsie linfonodali ascellari o di radioterapia axillo-sovraclaveare per linfoma. Agli arti inferiori, il riscontro più frequente è stato il linfedema secondario al trattamento del carcinoma della cervice uterina (46%), quindi, i linfedemi conseguenti ad interventi urologici (39%) di tipo oncologico (carcinoma prostatico, penieno, seminoma testicolare), al trattamento di melanomi (6%), linfoma di Hodgkin (3%) ed anche all'asportazione di lipomi della coscia (3%), ad interventi per varici (2%) e per ernia inguinale o crurale (1%). Un altro dato importante scaturito dalla valutazione di circa 200 donne affette da linfedema dell'arto superiore secondario a trattamento per carcinoma mammario è quello della comparsa del linfedema nel 20-25% delle donne sottoposte a mastectomia o quadrantectomia con linfoadenectomia ascellare, sino al 35% con l'associazione della radioterapia. Tali dati corrispondono a quelli trovati nella Letteratura internazionale. Ma, soprattutto, è opportuno sottolineare l'importanza, data l'elevata incidenza del linfedema secondario, delle possibilità di prevenzione della patologia linfostatica, sia in termini di diagnosi precoce che di trattamento tempestivo. Tutto ciò non solo in considerazione dei pesanti risvolti psicologico-sociali e dell'invalidità fisica correlati a tale patologia, ma anche della possibilità di prevenzione delle gravi e frequenti complicanze linfangitiche e, specialmente, del probabile, seppur raro, impianto di un linfangiosarcoma su un linfedema secondario. PREVENZIONE Il linfedema primario è una condizione clinica ad esordio improvviso, perciò imprevedibile. Al contrario di quello secondario, che è clinicamente ipotizzabile anche se non è possibile prevedere il momento dell’esordio.Le proposte di prevenzione finora effettuate da vari esperti del settore in tutto il mondo, riguardano esclusivamente il linfedema secondario e sono prevalentemente indirizzate al chirurgo operatore, (tipo di incisione, tecnica chirurgica, conservazione dell’integrità delle zone di drenaggio linfatico di maggior importanza per l’arto), o all’oncologo (allestire una radioterapia moderatamente aggressiva, se possibile). Le possibilità di prevenzione del linfedema secondario al trattamento di tumori maligni mediante chirurgia e/o radioterapia vengono offerte oggi, soprattutto, dalla linfoscintigrafia, che consente di studiare, preliminarmente all’intervento per la patologia tumorale, oppure subito dopo, l’assetto anatomo-funzionale del circolo linfatico dell’arto superiore omolaterale. Sarebbe così possibile individuare categorie di pazienti a rischio (basso, medio ed elevato) per la comparsa del linfedema secondario. A questi pazienti potrebbero opportunamente, così, essere applicati in prima istanza, e non tardivamente, i provvedimenti terapeutici da caso a caso ritenuti più idonei, a seconda dell’entità del danno individuato a carico del circolo linfatico ( Campisi, 1998; Boccardo, 2000). Raccomandazioni: Esistono oggi concrete possibilità di prevenzione del linfedema dell’arto superiore secondario al trattamento di un carcinoma mammario, applicando un protocollo di prevenzione basato sia su criteri clinici che sull’esame linfoscintigrafico. Grado B DIAGNOSI Per una adeguata terapia è indispensabile una diagnosi precisa del linfedema. Nella maggior parte dei pazienti, sulla base dell’anamnesi e dell’esame obiettivo, si può agevolmente porre diagnosi di linfedema: edema generalmente di consistenza aumentata, a seconda della maggiore o minore componente tissutale fibrosclerotica, presenza del segno della fovea, anche negli stadi più precoci della malattia, presenza del segno di Stemmer (non plicabilità della cute alla base del 2° dito del piede), lesioni distrofiche cutanee (sequele post-linfangitiche, ipercheratosi, verrucosi linfostatica, linforrea, chilorrea, ecc.), frequenti complicanze dermato-linfangio-adenitiche (DLA). Utile, inoltre, la valutazione delle stazioni linfonodali, per evidenziare l’associazione o meno di linfoadenopatie acute o croniche. In alcuni casi, inoltre, la presenza di condizioni sovrapposte quali l’obesità patologica, l’insufficienza venosa, il trauma più o meno evidente e ricorrenti infezioni possono complicare il quadro clinico. Inoltre, nel considerare l’origine di un linfedema uni o bilaterale delle estremità, specialmente negli adulti, è necessario prendere anche in considerazione l’eventualità di una causa tumorale. Per tutte queste ragioni prima di inoltrarsi nel trattamento del linfedema, è assolutamente indispensabile un valutazione diagnostica completa ed integrata. L’associazione di altre condizioni patologiche, quali l’insufficienza cardiaca congestizia, l’ipertensione arteriosa e patologie cerebrovascolari, compreso l’ictus, possono a loro volta influenzare l’iter terapeutico. Valutazione strumentale La Linfoscintigrafia è l’esame di prima scelta per la definizione diagnostica dell’edema, per confermarne la natura linfostatica, per l’individuazione della causa (da ostacolo o da reflusso), per valutare l’estensione della malattia (dermal back flow), la compromissione maggiore o minore del circolo linfatico profondo rispetto a quello superficiale, il drenaggio attraverso le stazioni linfonodali. Utile, pertanto, lo studio della circolazione linfatica sia superficiale che profonda, mediante l’opportuna iniezione del tracciante nelle sedi specifiche di drenaggio dei due sistemi. L’esame non è invasivo, facilmente ripetibile, eseguibile anche in età neonatale. Consente, infine, di individuare la linfostasi, ancora clinicamente non manifesta, svolgendo così un ruolo fondamentale nella prevenzione del linfedema secondario. Utile, infine, lo studio nel follow-up dei diversi metodi terapeutici del linfedema e, in particolare, delle tecniche di microchirurgia linfatica ( Mariani, 1998; Pecking, 1998). La Linfografia rappresenta modernamente un’indagine indispensabile per lo studio delle complesse patologie congenite o acquisite dei vasi chiliferi, della cisterna chyli e del dotto toracico. Viene più modernamente eseguita in sala operatoria, in anestesia locale e con preparazione dei vasi linfatici mediante tecnica microchirurgica (Bruna, 1996; Partsch, 1998).L’Ecografia, la TC e la RM rappresentano strumenti diagnostici utili per la definizione delle complesse sindromi in cui si associano quadri di angiodisplasia e linfedema, oltre che per lo studio della eventuale natura organica ostruttiva del linfedema secondario a malattia tumorale. In particolare, per i linfedemi degli arti, l’Ecografia ad alta risoluzione (sonde lineari da 10-14 MHz) evidenzia l’incremento degli spessori sopra e sottofasciali basali e la riduzione dello stesso dopo trattamento. Evidenzia altresì il grado di compressibilità tissutale e le caratteristiche ecogeniche diverse a seconda della prevalente componente idrica o fibrotica tissutale. Utile, a questo proposito, ai fini del monitoraggio del trattamento ed ai fini prognostici. Un ulteriore apporto della metodica è rappresentato dalla possibilità di individuare gli spessori muscolari sottofasciali consentendo di mirare l’intervento terapeutico atto ad ottimizzare il trofismo muscolare stesso.La Linfangio-RM, in particolare, eseguita con la metodica di sottrazione del tessuto adiposo, può fornire informazioni importanti nei quadri avanzati di natura ostruttiva, in cui le vie linfatiche si presentano dilatate e ripiene di linfa.Indispensabile è lo studio della circolazione venosa mediante Eco-Color-Doppler (indagine costantemente impiegata nella valutazione strumentale di un arto edematoso), Fleboscintigrafia e Flebografia (se necessarie sulla base dell’esame eco-Doppler). Anche lo studio della circolazione arteriosa può rendersi indispensabile nei quadri di panangiodisplasia con associato linfedema. In questi casi, oltre all’esame Eco-Color-Doppler, può essere utile lo studio arteriografico digitale. La Linfografia indiretta, la Microlinfografia fluoresceinica, il Test linfocromico di Houdack - Mc Master, la misurazione del flusso e delle pressioni linfatiche e il Laser-Doppler possono fornire utili informazioni sulle condizioni anatomiche e funzionali, oltre che della microcircolazione sanguigna (Laser-Doppler), anche dei linfatici iniziali e dei collettori linfatici, ma la loro utilità clinica è limitata. Studio genetico Si sta cominciando ad utilizzare in maniera concreta gli esami genetici per la definizione di un numero limitato di sindromi ereditarie specifiche con mutazioni genetiche distinte, quali quella del linfedema-distichiasi ed alcune forme della malattia di Milroy. Si ritiene che, in futuro, questo tipo di esame, associato a descrizioni fenotipiche accurate, possa diventare di routine per la classificazione delle sindromi linfangiodisplsiche familiari e altre alterazioni congenite-dismorfogenetiche caratterizzate da linfedema, linfangectasia e linfangiomatosi. Studi recenti hanno evidenziato la associazione tra linfedema ed alterazioni dei cromosomi 5, 16, 18 e 21. Esame bioptico In presenza di linfedema periferico di lunga durata, si dovrebbe prestare la massima cautela prima di asportare linfonodi regionali ingrossati, dal momento che raramente le informazioni istologiche che se ne ricavano sono effettivamente utili, mentre tali manovre potrebbero aggravare significativamente l’edema periferico. La biopsia con ago aspirato e successivo esame citologico condotto da un patologo esperto offre una valida alternativa nel caso di sospetta neoplasia maligna. Raccomandazioni: il primo livello diagnostico è rappresentato dalla linfoscintigrafia, dall’Ecografia ad alta risoluzione e dall’Ecocolordoppler; il secondo livello, dall’ecografia, TC, RM, linfografia; il terzo livello, flebografia, arteriografia, genetica, biopsia. Grado A CLASSIFICAZIONE Numerose sono state le classificazioni proposte per inquadrare i linfedemi , questi vengono generalmente suddivisi in primari o congeniti e acquisiti o secondari. I linfedemi primari sono ulteriormente distinti in connatali, cioè presenti già alla nascita, oppure a manifestazione precoce, se compaiono prima dei 35 anni, o tardiva, se si manifestano dopo i 35 anni. Tra i connatali si distinguono le forme sporadiche da quelle eredo-familiari, che per lo più possono essere inquadrate in sindromi malformative più o meno complesse, correlate o meno a specifiche alterazioni genetiche. Nel termine displasia si include: agenesia, ipoplasia , iperplasia, fibrosi, linfangiomatosi, amartomatosi, insufficienza valvolare. I linfedemi secondari possono essere distinti in post-chirurgici, post-attinici, post-traumatici, post-linfangitici e parassitari. Classificazione CEAP-L Questo nuovo criterio classificativi nasce da un gruppo di ricerca tutto italiano e sta avendo grandi consensi nel mondo linfologico internazionale (Gasbarro, 2004). Nell’inquadramento clinico del linfedema, esiste da tempo la necessità di disporre di un metodo classificativo che possa raccogliere una serie di informazioni fondamentali sull’entità e sulla evoluzione clinica della malattia utilizzando un linguaggio comune e di facile applicabilità clinica. La classificazione C.E.A.P. – L. si pone come obiettivo quello di standardizzare con sigle le casistiche cliniche, al fine di poter creare gruppi di pazienti statisticamente più omogenei. La diagnostica clinica e strumentale del linfedema, ha subito negli ultimi una certa standardizzazione, questo ha permesso di inquadrare con la clinica e pochi esami strumentali quali la linfoscintigrafia e l’ecografia dei tessuti molli, il paziente con linfedema. Lo scopo di questa classificazione è di avere dei riferimenti che rappresenti il lessico comune per ogni specialista che si occupi di linfedema..Questa classificazione, è stata divisa in varie sezioni: C. (Clinica), E. (Eziologia), A. (Anatomica), P. (fisioPatologica), L’aggiunta della lettera L è semplicemente per differenziarla da quella sull’insufficienza venosa cronica. Clinica (C0-C4). La classificazione clinica è basata sul segno clinico maggiormente obiettivabile in questi pazienti, ovvero l’edema, ed in base al suo comportamento si definiscono 5 classi. Nello stadio C0 non sono visibili segni i segni della malattia (fasi iniziali dell’edema linfatico). Lo stadio C 1 si riferisce a quelle condizioni cliniche in cui la dimensione dell’edema è variabile durante il giorno e recede con il riposo notturno. Lo stadio C2 è riservato a quegli edemi persistenti a prescindere dal riposo (edemi fissi). Gli stadi C 3 e C4 sono riservati a quelle particolari condizioni cliniche in cui il paziente con linfedema presenta ulcerazioni (C3: chiuse; C4 attive). La classificazione è completata da un parametro soggettivo per distinguere il paziente asintomatico (A) e quello sintomatico (S). I sintomi considerati per definire la sintomaticità sono: il dolore, i crampi, la sensazione di gambe pesanti, le parestesie, la sensazione di freddo dell’arto, ma anche altri sintomi correlati con la patologia linfatica. Il trattamento terapeutico può modificare i segni clinici e i sintomi, di conseguenza l’arto deve essere riclassificato dopo il trattamento. In questo capitolo consideriamo anche altri aspetti clinici importanti quali il grading dell’estensione dell’edema e l’associazione di altri segni clinici quali la linfangite ed essudazione. L’estensione anatomo-topografica dell’edema rappresenta un parametro clinico importantissimo, certamente è da considerare tra i maggiori indicatori prognostici . In questa fase della valutazione clinica, può essere di valido aiuto l’utilizzo dell’ecografia dei tessuti molli per meglio valutare l’estensione dell’edema. Se il paziente non ha avuto fenomeni di linfangite si definisce L0, se ha avuto da 1 a 3 episodi di linfangite, L1; se ha avuto più di 3 episodi di linfangite, L2. La presenza di essudazione definisce un superamento della barriera di contenimento cutanea e dunque un eccessivo accumulo di linfa. Se non è presente essudazione si definisce E 0, in caso di lieve essudazione “a goccia” si parla di E1; nel caso in cui la trasudazione è abbondante, ovvero la cute sembra completamente bagnata si parla di E 2. A seguito della Clinica si riporta la parte funzionale perché il grado di deficit funzionale fa parte integrante dell’esame clinico del paziente. La particolarità della C.E.A.P-L è l’introduzione di criteri di valutazione del grado di disabilità del paziente affetto da linfedema.. Classificazione Eziologica (Ec, Es) La classificazione eziologia considera due tipi di alterazioni del sistema linfatico: congenite (Ec) e acquisite o secondarie (Es). I problemi congeniti possono essere diagnosticati alla nascita o riconosciuti più tardi. I problemi secondari originano da un danno acquisito dimostrabile del sistema linfatico, ad esempio da filariasi, da radioterapia di stazioni linfonodali, da pregresso trauma dell’arto , ecc. Classificazione Anatomica (As, Ap - N) Ha lo scopo di precisare le strutture anatomiche coinvolte nella malattia. I linfatici negli arti inferiori si dividono in superficiali (AS) e profondi (AP). I linfatici superficiali (AS) hanno un decorso a livello mediale e laterale. I mediali (M) seguono il decorso della vena grande safena; i laterali (L), la parte laterale della rete dorsale del piede e dai vasi plantari, si portano lateralmente alla gamba ed alla coscia dove si portano verso i collettori mediali. I linfatici profondi (AP), satelliti dei vasi profondi, seguono le arterie tibiali e femoro-iliaci, dando origine, con i collettori pelvici e addominali, al dotto toracico. I linfatici superficiali (AS) dell’arto superiore originano dalle dita e dal palmo della mano e, all’avambraccio, si identificano in collettori esterni (E), Interni (I) e mediani (Me). I linfatici esterni si confluiscono nei linfonodi epitrocleari, gli altri proseguono il loro decorso ascendente percorrendo il lato anteromediale (M) del braccio. I linfatici profondi (AP) dell’arto superiore provengono dalle masse muscolari, dalle ossa e dal periostio, raggiungono il cavo ascellare seguendo, come le vene, il decorso delle arterie e per lo più sono due per ciascuna arteria; così abbiamo dei linfatici ulnari (U), radiali (R) e brachiali (B). Come i linfatici superficiali, tutti i linfatici profondi sboccano nei linfonodi del cavo ascellare. A questo aspetto si associa lo stato delle stazioni linfonodali ( N). Le sedi a livello dell’arto inferiore vengono espresse con le seguenti sigle: N PO : Poplitei; NIN : Inguinali; NIL : Iliaci; NLA: lomboaortici. A carico dell’arto superiore con: NEP: epitrocleari; NAS : ascellari: e infine i pelvici con NPE. I linfonodi ascellari (NAS) ricevono, come linfatici afferenti quelli dei linfonodi epitrocleari (N EP), i linfatici superficiali e profondi dell’arto superiore, quelli superficiali della metà sopraombelicale del tronco, i linfatici superficiali della nuca e quelli della mammella. La classificazione prende in considerazione anche la caratteristiche morfologiche dei linfonodi evidenziabili con la linfoscintigrafia e con l’ecografia dei tessuti molli. Questi possono essere definiti nella norma (N0), ipoplasici (N1 ), o aplasici (N2). Un dato di estrema importanza nella valutazione prognostico è lo studio ecotomografico del tessuto sottocutaneo degli arti. Questo può essere nella norma (nelle prime fasi evolutive della malattia (S0), può essere visibile l’edema in forma diffusa o localizzata (falde linfatiche) (S1), e può predominare la componente fibrotica (S2). Classificazione FisioPatologica (Pa, Pi, Po, Pr, Ps) Basandosi sulle numerose classificazioni che ripercorrono sinteticamente i momenti fisiopatologici salienti alla base del linfedema abbiamo 5 gruppi. P a: agenesia-ipoplasia (assenza strumentale di linfatici o scarsa rappresentazione) P i: iperplasia (maggiore rappresentazione di linfatici. In questo caso si associa spesso patologia da reflusso valvolare) P o: ostruzione (da parassiti, neoplasia, iatrogena, radioterapia, …) Pr: reflusso (patologia primitiva valvolare) P s: sovraccarico (classificazione di Foldi – Stadio da deficit dinamico). L’ecografia associata alla linfoscintigrafia ci permette di definire il livello fisiopatologico del linfedema dell’arto interessato. L’ostruzione od il reflusso ad esempio possono essere definite in base alle sedi interessate maggiormente. Punteggio di Gravità Alla classificazione vera e propria si è affiancato un metodo di punteggio di gravità della malattia. Per stabilire il punteggio di gravità complessivo si associa un punteggio di gravità anatomica (quanti arti e segmenti anatomici sono interessati) ed un punteggio di gravità clinica (gravità dell’edema, sintomaticità e grado di disabilità funzionale). Nel caso di un paziente con linfedema postmastectomia dell’arto superiore sinistro (punto 1), con classe Clinica 2 (punti 2 ), con distribuzione anatomica mano-avambraccio-braccio (punti 3 ), con disabilità moderata (punti 2), sintomatico (punti 1), avremo un indice di gravità complessiva di 9 punti. Raccomandazioni: Nei linfedemi secondari, in particolare per le forme post-traumatiche, post-linfangitiche, ma anche per quelle conseguenti a chirurgia e/o radioterapia, si riscontra quasi sempre una predisposizione costituzionale (displasia linfatica e/o linfonodale congenita). Grado B TRATTAMENTO La terapia del linfedema periferico viene suddivisa in metodologie conservative e chirurgiche. a) Fisioterapia La Terapia fisica combinata (Combined Physical Therapy – CPT) ( Foldi, 1993), consta generalmente di un programma di trattamento in due fasi: la prima fase prevede la cura della pelle, linfodrenaggio manuale, una serie di esercizi di ginnastica ed elastocompressione normalmente applicata con bendaggi multistrato. La seconda fase, che va iniziata non appena completata la fase 1, con l’obiettivo di mantenere ed ottimizzare i risultati ottenuti nella fase 1, comprende la cura della pelle, l’elastocompressione per mezzo di tutore (calza o bracciale) a basso grado di elasticità, la ginnastica per il recupero funzionale del o degli arti e ripetute sedute di linfodrenaggio manuale a seconda dei singoli casi. Condizioni essenziali per la riuscita del protocollo fisico combinato sono la disponibilità di personale medico, infermieristico e di fisioterapisti adeguatamente formati su tale metodica terapeutica (Leduc, 1980). L’elastocompressione, se non applicata adeguatamente, può essere inutile ed anche dannosa. Per la cura a lungo termine, è indispensabile che vengano prescritti tutori per l’elastocompressione (se necessario, anche realizzati su misura) per il mantenimento dei risultati ottenuti dopo CPT. La Pressoterapia a pressione uniforme peristaltico-sequenziale, solitamente consiste in un programma di 3 fasi: trattamento delle stazioni linfonodali prossimali dell’arto, per la preparazione delle stesse e per evitarne l’ingorgo (possibile causa di fibrosi reattiva); terapia compressiva a pressioni adeguate a seconda dello stadio clinico della malattia; applicazione di un tutore elastico (calza, bracciale o bendaggio multistrato). Il Linfodrenaggio manuale viene eseguito per lo più seguendo le metodiche classiche delle scuole tedesca e belga. A seconda dei casi le diverse tecniche di linfodrenaggio manuale possono essere combinate. Non deve essere praticato in modo eccessivamente vigoroso per evitare possibili danni alle strutture linfatico-linfonodali. In alcune regioni corporee rappresenta l’unico presidio terapeutico fisico applicabile (es.: volto, regioni genitali). Il Bendaggio dell’arto affetto, viene effettuato con materiali fondamentalmente anelatici o ipo-elastici, avvolti attorno all’arto in assenza di trazione, in multistrato. Questo determina una riduzione della filtrazione capillare, sposta i liquidi extracellulari, incrementa e stimola il trasporto linfatico, migliora la pompa venosa, riduce la fibrosclerosi (Badger, 2004) Raccomandazioni: l’uso a lungo termine del bendaggio elastico multistrato rappresenta una componente efficace e fondamentale nella terapia decongestionante . Grado B b) Terapia farmacologica La farmacoterapia prevede l’utilizzo dei benzopironi, che danno un incremento tono capillare, una diminuzione della permeabilità capillarealle proteine, in aumento numerico dei macrofagi, una attivazione della loro attività proteolitica, la stimolazione attività propulsiva del linfangione e l’inibizione della sintesi delle prostaglandine e dei leucotrieni. La cumarina agisce direttamene sulle fasi della flogosi, in particola modo sul macrofago accelerando se usata in maniera continua la degradazione proteica attivando l’assorbimento extralinfatico (Casley-Smith, 1968). I benzopironi vengono utilizzati in tutte le fasi del linfedema sia esso di natura primitiva o secondaria. Recenti studi hanno dimostrato un alta tossicità a livello epatico della cumarina sintetica ad alti dosaggi in corso di trattamento del linfedema secondario (Agence du medicament France, 1996). Le Cumarine naturali, da somministrare a dosaggi di 8 mg/die per 60 giorni, hanno dimostrato una efficacia terapeutica nel miglioramento della sintomatologia soggettiva, del recupero funzionale dell’arto linfedematoso, riduzione della consistenza dell’edema, potenziamento della riduzione del volume in eccesso ottenuta dopo trattamento fisico e/o microchirurgico, senza determinare alcun effetto tossico sul fegato. Una review del 2006 della Cochrane Collaboration ha analizzato 15 trial su farmaci di uso comune vs placebo nei pazienti con linfedemi (Oxerutina, Diosmina/Esperidina, Curarina/Troxerutina e Curarina) e ha concluso che, alla luce di questi trial, a tutt’oggi, non si possono trarre dati certi circa l’efficacia di questi farmaci nel trattamento del linfedema. Gli antibiotici vengono utilizzati in fase acuta (terapia per lo streptococco B-emolitico), per il trattamento delle dermato-linfangio-adeniti (DLA), e a scopo preventivo per la profilassi degli episodi di linfangite acuta (penicillina ad azione protratta). Gli antimicotici sono indicati per il trattamento delle infezioni fungine delle estremità (fluconazolo, ecc.). La dietilcarbamazina trova impiego per l’eliminazione della microfilaria dal circolo sanguigno nei pazienti affetti da linfedema su base parassitaria e per i portatori sani. I diuretici sono usati solitamente a basso dosaggio e per brevi periodi di trattamento, in particolare nei quadri di linfedema associato a flebedema o altre patologie quali cardiopatie, nefropatie, ascite, patologie dei vasi chiliferi, ecc. Non rimuovendo la componente proteica interstiziale dell’edema, non si rivelano etiologici ma esclusivamente sintomatici. Le proteasi sono in grado di ridurre le macromolecole proteiche interstiziali a macromolecole, più facilmente riassorbibili e trasportabili dal sistema linfatico. La dieta: in pazienti obesi, la riduzione dell’apporto calorico, in associazione ad un idoneo programma di attività fisica, ha una sua specifica efficacia nella riduzione del volume dell’arto linfedematoso. Non è stata dimostrata la validità di un apporto limitato di liquidi. Nelle sindromi con reflusso chioso, una dieta a basso contenuto di lipidi e con l’assunzione esclusivamente di trigliceridi a catena media (medium chain triglicerides – MCT), che vengono assorbiti attraverso il circolo portale, non andando a sovraccaricare il sistema dei vasi chiliferi, è risultata estremamente efficace, anche in età pediatrica. Esiste, pertanto, una vasta gamma di principi terapeutici farmacologici. La scelta è basata sugli aspetti etiopatogenetici e fisiopatologici di ciascun tipo di linfedema. Raccomandazioni: A tutt’oggi non esiste un farmaco ideale per il trattamento dei linfedemi . Grado B Raccomandazioni: E’ importante utilizzare le diverse metodiche terapeutiche non chirurgiche in modo combinato ed integrato, a seconda del singolo caso e dello stadio clinico del linfedema, personalizzando il tipo di trattamento in ogni singolo caso clinico. Grado B Trattamento chirurgico Le tecniche chirurgiche impiegate in passato per la cura dei linfedemi miravano alla riduzione volumetrica degli arti mediante interventi di tipo demolitivo-resettivo (cutolipofascectomia, linfangectomia totale superficiale, intervento di Thompson, ecc.). Si trattava, pertanto, di soluzioni di natura sintomatica non etiologiche che, non rimuovevano la causa dell’ostruzione al flusso linfatico, fornivano una temporanea riduzione dell’edema, attraverso lunghi periodi di degenza ospedaliera, frequenti infezioni e ritardate guarigioni delle ferite, perdita della sensibilità, edema residuo e ingravescente della caviglia e del piede, ampie cicatrici retraenti deturpanti. La Linfoliposuzione permette la rimozione di falde linfatiche con una buona diminuzione del 50% dell’edema ad un anno ed è caratterizzata, rispetto alle altre metodiche, da una minore invasività.(Gasbarro, 2003). Gli interventi di tipo fisiologico o derivativo prevedono un ripristino del normale flusso linfatico attraverso la creazione di anastomosi linfatico-venose, linfatico-venoso-linfatiche, e trapianti di linfatici autologhi con anastomosi linfolinfatica. L’avvento della chirurgia derivativa ha consentito di studiare e realizzare soluzioni terapeutiche funzionali e causali del linfedema con lo scopo di drenare il flusso linfatico o di ricostruire le vie linfatiche ove ostruite o mancanti mediante tecniche fini, riparatrici, intervenendo direttamente sulle strutture linfatiche stesse. Le tecniche microchirurgiche ricostruttive consentono di ripristinare una continuità di flusso del circolo linfatico, superando la sede del blocco anastomizzando direttamente i vasi linfatici afferenti ed efferenti o mediante l’impianto di segmenti autologhi linfatici o venosi tra i collettori a valle e a monte dell’ostacolo. Le indicazioni alle varie tecniche di Microchirurgia Linfatica si basano sulla presenza di un valido gradiente pressorio linfatico-venoso nell’arto interessato. Nei casi in cui alla patologia linfostatica si associ un'insufficienza venosa (situazione di prevalente riscontro agli arti inferiori: varici, ipertensione venosa, incontinenza valvolare), le metodiche derivative sono controindicate, mentre devono essere impiegate le tecniche microchirurgiche ricostruttive. Le anastomosi linfatico-venose hanno in un primo momento riscontrato gran successo nell’ambiente linfologico ma la loro efficacia a lungo termine è risultata essere dubbia, in quanto non si riesce a ben documentare la pervietà a distanza dell’anastomosi, comunque in alcune casistiche il miglioramento ad un anno è stato del 74% dei casi trattati. (Zhu,1987; Campisi, 1999). Raccomandazioni: Le procedure microchirurgiche sembrano essere vantaggiose soprattutto negli stadi più precoci della malattia. L’efficacia a lungo termine delle anastomosi linfatico-venose risulta dipendere essenzialmente dal rigore della tecnica microchirurgica adottata (indispensabile è l’impiego del microscopio operatore) e dallo stadio della patologia. Grado B Raccomandazioni: Attualmente la migliore indicazione per un intervento chirurgico di tipo escissionale è la compromissione funzionale dell’arto dovuta all’eccessivo linfedema refrattario al trattamento conservativo. I migliori risultati si sono ottenuti con l’associazione della linfoliposuzione con l’intervento di Homans modificato, benché le casistiche a livello internazionale siano esigue. Non ci sono studi multicentrici che dimostrino la reale efficacia degli interventi derivativi. La terapia chirurgica dev’essere eseguita in strutture altamente specializzate con esperienza specifica. Grado C QUALITA’ DELLA VITA Nel nostro paese la maggior parte della terapia del linfedema è affidata alla gestione di diversi operatori medici: angiologi, medici estetici, fisiatri,chirurghi generali, vascolari, plastici, microchirurghi che sono portati a vedere il problema ognuno dalla propria angolazione. Ciò produce un confuso approccio terapeutico e quindi una non buona qualità di vita. Il linfedema primario e, tra i secondari, i linfedemi conseguenti a trattamenti chirurgici per cancro, soprattutto della mammella, rappresentano delle condizioni di riferimento per comprenderne le ripercussioni sulla qualità di vita del paziente (Casley-Smith 1997). Recenti indagini in proposito concordano sul fatto che il paziente è più preoccupato della differenza di volume tra i due arti che non della sintomatologia. (Bross,1999). Inoltre è l’edema della mano che in maggior misura aggrava psicologicamente la paziente rispetto all’edema dell’intero braccio suscettibile di essere “nascosto”. Nel corso di linfedema post-mastectomia l’arto gonfio può rappresentare una vera e propria disabilità sia per movimenti macroscopici come lavarsi, pettinarsi, indossare una camicia, lavare i piatti, sia per azioni più fini come allacciarsi una collana o scrivere, sia per altre attività od hobbies come stirare, trasportare pesi, praticare il giardinaggio, etc. La qualità di vita del paziente con linfedema dipende da una diagnosi precoce, dall’informazione e da una terapia il più adeguata possibile alle sue esigenze. L’assenza di centri dedicati al trattamento del linfedema, la scarsità delle scuole e dei corsi di preparazione in campo linfologico, l’alto costo delle terapie e la loro durata “ad vitam”e condizioni specifiche, rappresentate essenzialmente dalla compliance del paziente, rendono difficoltoso perseguire buoni risultati. E’ possibile affermare che l’approvazione e la consapevolezza del paziente rappresentano circa il 40% del successo della strategia terapeutica. Il danno estetico (asimmetria degli arti), il danno funzionale (inadeguatezza o perdita di alcune funzioni ) e l’alterazione della vita di relazione ( imbarazzo nel rapporto col proprio partner o nell’ambiente di lavoro) rappresentano i cardini della reazione emotiva alla malattia. L’accettazione del trattamento nelle sue varie proposte rimane a volte un ostacolo per il linfologo: il DLM e la PT sono i trattamenti preferiti nonostante debbano essere effettuati a cadenza costante; al contrario il bendaggio o la compressione, insostituibili se ben allestiti ed adeguatamente indossati mal tollerati e mal accettati per l’aggravio estetico, perché costringono il paziente a rendere evidente la malattia e per la necessità di essere indossati quotidianamente sia durante il riposo che nella pratica di esercizi specifici (ginnastica decongestionante). Nella compliance del paziente con linfedema riveste un ruolo fondamentale l’ambiente sociale e familiare che circonda il malato. Il sostegno psicologico e la sollecitazione all’autoterapia da parte dei parenti devono associarsi alla partecipazione attiva alla cura dell’arto malato (DLM, bendaggio, assistenza alla GD) da sotto la guida e l’insegnamento del medico linfologo. (Casley-Smith 1986, 1997; Oliva 1996; Alliot 1997; Bross,1999) Raccomandazioni: La diagnosi di linfedema deve essere il più possibile precoce e considerare i fattori patogenetici che lo hanno determinato. E’necessario verificare se sianio stati effettuati trattamenti adeguati in precedenza. E’consigliabile una strategia terapeutica mirata e personalizzata allo stadio clinico e alle esigenze del paziente.Grado B LINFORRAGIA O LINFORREA Dopo un trauma, o interventi vascolari ricostruttivi o dopo interventi per patologia neoplastica, può essere inevitabile la lesione del sistema linfatico. I vasi linfatici, di solito, decorrono paralleli alle corrispondenti arterie e vene e le principali stazioni linfonodali sono in stretta vicinanza dei vasi principali. Comunque, i linfatici legati o sezionati hanno una notevole capacità di rigenerarsi e riprendere il normale trasporto della linfa. La lesione linfatica spesso guarisce spontaneamente e provoca scarsa o nulla morbilità. Al contrario, a volte, l’interruzione dei vasi linfatici durante la dissezione chirurgica può provocare una fistola linfatica (linforragia) o un linfocele. Data la ricca rete di vasi linfatici presente a livello del triangolo di Scarpa, all’angolo giugulo-succlavio, al cavo ascellare, la fistola linfatica è proprio in queste sedi che è più frequente. Importanti fattori favorenti la linforragia sono la mancata legatura o cauterizzazione di linfatici sezionati ed il mancato avvicinamento degli strati tessutali al momento della chiusura della ferita. La linforragia si verifica più spesso in pazienti defedati o diabetici, le cui ferite hanno scarso tendenza alla guarigione. Altre possibili cause sono la mobilizzazione eccessivamente precoce dell’arto, l’infezione dell’arto operato o del piede, il reintervento ed il posizionamento di una protesi sintetica a livello inguinale (Kalman, 1991). DIAGNOSI La fuoriuscita persistente di liquido giallo chiaro da un’incisione o dal punto di inserzione del drenaggio, stabilisce la diagnosi. Se la fistola si sviluppa entro alcuni giorni o settimane dall’intervento, è raro che sia necessaria una linfoscintigrafia per confermare che il liquido è di origine linfatica. Se la linforragia si verifica alcuni mesi od anni dopo la ricostruzione vascolare, la linfoscintigrafia può essere utile. Tuttavia in questi pazienti si devono eseguire la tomografia computerizzata e la scintigrafia con leucociti marcati per escludere l’infezione di una sottostante protesi vascolare. TRATTAMENTO Una diagnosi ed un trattamento precoci della linforragia sono importanti per evitare lunghi periodi di ospedalizzazione e ritardo di cicatrizzazione della ferita. Diversi studi hanno inoltre riportato un rischio, ridotto ma certo, di infezione della ferita da persistente linforragia (Kwaan, 1979). Nei primi giorni in questi pazienti è indicato un trattamento conservativo. Questo comprende la medicazione locale della ferita, la somministrazione di antibiotici per via sistemica, il bendaggio compressivo ed il riposo a letto con sollevamento dell’arto per ridurre il flusso linfatico Recentemente è stato proposto l’uso di somatostatina e octeotride dopo chirurgia oncologica al fine di ridurre la quantità di linfa prodotta e i risultati ottenuti sono certamente interessanti ( Carcoforo, 2003; Suver, 2004). Altra ipotesi di trattamento e quella proposta da autori che hanno utilizzato un sistema a pressione negativa con buoni risultati (Abai, 2007). Qualora la fistola continui ad essere ad alta portata malgrado la terapia conservativa di wound therapy, occorre eseguire la chiusura chirurgica con copertura mediante flap muscolare (Shermak, 2005). LINFOCELE Un linfocele è una raccolta localizzata di linfa. Subito dopo il danno della rete linfatica la linfa si raccoglie tra i piani tessutali. A meno che non si riassorba spontaneamente o venga drenata attraverso una fistola cutanea, si può sviluppare una pseudo-capsula. Contrariamente al seroma, un linfocele ha, di solito, una connessione ben definita con uno o più vasi linfatici. Per questa ragione la linfoscintigrafia può facilmente evidenziare un linfocele. Linfocele inguinale Come accade per la fistola linfatica, la sede più frequente del linfocele successivo ad una ricostruzione vascolare è l’inguine. Molti linfoceli si sviluppano precocemente nel post-operatorio, ma possono rendersi evidenti anche più tardi, nel follow-up. Linfoceli di ampie dimensioni possono provocare fastidio, dolore ed edema della gamba. La diagnosi differenziale va posta con l’ematoma, il seroma e l’infezione della ferita. La presenza di una cisti morbida, a contenuto liquido ed il drenaggio intermittente di linfa chiara attraverso una fistola conferma la diagnosi di linfocele. L’esame ultrasonografico è utile per distinguere un ematoma denso e solido da un linfocele cistico. Se il linfocele si sviluppa alcune settimane od alcuni mesi dopo l’intervento è bene eseguire una tomografia computerizzata. Questa è utile per escludere l’infezione protesica o per identificare un linfocele retroperitoneale esteso all’inguine. Linfoceli di piccole dimensioni possono essere controllati perché possono riassorbirsi spontaneamente. Qualora questo non avvenisse, i linfoceli sintomatici possono essere trattati mediante scleroterapia. Nei pazienti con linfoceli sintomatici che tendono ad aumentare di diemensioni, o in quei pazienti con linfoceli in stretta vicinanza di una protesi sintetica, è consigliabile un intervento precoce per ridurre il rischio d’infezione protesica. Il linfocele viene escisso ed il peduncolo linfatico viene legato o suturato a sopraggitto. Utile l’uso di colle di fibrina. La ferita viene chiusa in più strati dopo aver applicato un drenaggio in aspirazione. Linfocele retroperitoneale I linfoceli retroperitoneali sintomatici sono rari. I sintomi più comuni sono la distensione addominale, nausea e dolore addominale, mentre il reperto più frequente è quello di una massa addominale o localizzata al fianco. Sebbene i segni ed i sintomi possano svilupparsi precocemente, in quasi la metà dei casi il linfocele viene individuato uno o alcuni giorni dopo l’intervento. Nei pazienti con segni e sintomi di linfocele retroperitoneale si deve eseguire una tomografia computerizzata. Frequente risulta una comunicazione tra linfocele inguinale e linfocele retroperitoneale. Se si sospetta la presenza di un’infezione si deve eseguire anche una scintigrafia con leucociti marcati, a meno che la tomografia computerizzata non abbia già confermato la presenza d’infezione protesica. La linfoscintigrafia può essere diagnostica per un linfocele retroperitoneale e dovrebbe fare una diagnosi differenziale con il seroma periprotesico. Tuttavia una linfoscintigrafia positiva per un linfocele non esclude l’infezione protesica. In pazienti con un piccolo linfocele retroperitoneale asintomatico è giustificato un controllo con esami ultrasonografici ripetuti o con una tomografia computerizzata. Se il linfocele aumenta di dimensioni o provoca compressione delle strutture adiacenti, si esegue un’aspirazione con con ago TC- guidata o eco-guidata e contemporanea scleroterapia con etanolo o acido acetico(Adani, 2005; Akhan, 2007) . Qualora l’aspirazione ripetuta non ha successo si deve prendere in considerazione la revisione chirugica. LINFANGITI Il sistema linfatico è sempre coinvolto quando si determina un processo flogistico di qualsiasi natura. Esso può essere sede di flogosi e di propagazione della stessa ed è specificatamente a questi casi che ci si riferisce quando si parla di linfangiti. Più precisamente la risposta del sistema linfatico deve rappresentare il momento prevalente della sintomatologia e della propagazione del processo morboso. Esistono forme primitive e secondarie in relazione all’eziopatogenesi. Clinicamente vengono descritte due forme: linfangiti acute e linfangiti croniche. I germi responsabili sono vari e spesso in associazione: stafilococchi, streptococchi, pneumococchi, colibacilli etc. Le condizioni favorenti l’infezione sono costituite da particolari situazioni cutanee e sottocutanee quali ferite, foruncoli, celluliti, dermatiti in genere, tricofizie, oltre a condizioni generali particolari quali cachessia, deficit immunitari e situazioni anatomo-funzionali linfatiche particolari. Linfangiti acute Le linfangiti acute si distinguono in tre forme: reticolari, tronculari e profonde. -Linfangiti reticolari: (Linfangite erisipeloide): nella forma reticolare, forma simile all’erisipela, prevale un arrossamento cutaneo diffuso, accompagnato da edema, dolorabilità alla compressione e comparsa di un reticolo non confluente costituito da vasi linfatici interessati. Il grado dell’edema risente della conformazione anatomica dell’area interessata dal processo flogistico. L’insorgenza delle linfangiti reticolari è molto rapida sia come comparsa delle manifestazioni cutanee, accompagnate da stato febbrile ed ipertermia locale, sia come reattività linfonodale regionale. L’iter del processo flogistico generalmente si compie e quindi si attenua nell’arco di due settimane. La diagnosi differenziale in modo particolare va fatta con le forme erisipelatoidi in cui si ha una rezione cutanea più estesa e nettamente demarcata senza una costante reazione linfonodale. -Linfangiti tronculari: le linfangiti tronculari sono caratterizzate dalla comparsa di strie dermiche di colore rosso, dolenti, rilevate con decorso rettilineo corrispondente a quello dei collettori linfatici. Anche in queste forme si osserva una reazione linfonodale satellite precoce e stato febbrile che può assumere carattere intermittente. L’infiltrato flogistico perivasale è importante e favorisce il progredire della patologia. Complicanze suppurative possono manifestarsi sia localmente, sia lungo il decorso dei collettori linfatici, sia a distanza come ascessi metastatici. Altre complicanze sono rappresentate da flebiti, borsiti e linfedemi. - Linfangiti profonde: le linfangiti profonde sono più rare delle precedenti, soprattutto come forme primitive senza contemporaneo e concomitante interessamento venoso. Si manifestano con dolore sia spontaneo sia evocato dalla palpazione lungo il decorso dei fasci vascolari dell’arto interessato, accompagnato da reazioni febbrili di tipo settico. Anche in queste forme si possono avere complicanze suppurative locali e a distanza. La diagnosi differenziali delle linfangiti tronculari e delle linfangiti profonde va fatta con le forme tromboflebitiche. Nelle linfangiti è consigliabile il riposo con arto in scarico senza immobilizzazione. La terapia farmacologia si basa sulla copertura antibiotica preferibilmente mirata. È consigliabile l’uso di antiflogistici, antiedemigeni, di una attenta e corretta toilette locale e periferica, oltre a farmaci, quali l’eparina, per la prevenzione di ulteriori complicanze vascolari. La terapia chirurgica è indicata nelle complicanze purulente più o meno circoscritte, locali e a distanza. Linfangiti croniche Le manifestazioni flogistiche croniche a carico del sistema linfatico possono essere sostenute da agenti specifici come ad esempio il bacillo di Koch o forme parassitarie quale la filaria. Vanno inoltre considerate gli stessi germi, in forma attenuata, alla base delle linfangiti acute. La sintomatologia preponderante riguarda in genere l’agente causale mentre il fenomeno linfangitico riveste un ruolo secondario. Va inoltre considerata la tendenza all’alternarsi di fasi quasi silenti ad episodi acuti, e l’evoluzione clinica obiettiva in quadri molto eterogenei secondo il grado di proliferazione connettivale più o meno abbondante, e della compromissione del sistema linfatico. La terapia deve essere indirizzata alla rimozione dell’agente causale, prolungata nel tempo onde evitare recidive per le manifestazioni secondarie cronicizzate, avvalendosi delle varie terapie fisiche riabilitative, di contenzione elastica e farmacologche. La terapia chirurgica si limita alle complicanze, alle manifestazioni secondarie costituite dai linfo-flebedemi, e si avvale delle stesse tecniche utilizzate per i linfedemi.