Marco De Marinis, Il teatro dell`altro. Interculturalismo e

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Marco De Marinis, Il teatro dell’altro. Interculturalismo e transculturalismo nella
scena contemporanea
Giuliana Altamura
Un’analisi trasversale sulle questioni dell’identità e dell’alterità a teatro che, partendo
dall’insegnamento dei maestri del Novecento, mette in rilievo la capacità dell’arte scenica di
divenire scoperta, esplorazione e confronto della diversità.
Ne Il teatro dell’altro – edito da La Casa Usher – De
Marinis propone un’analisi trasversale sulle questioni dell’identità
e dell’alterità a teatro, partendo dall’insegnamento dei maestri che
hanno segnato la storia del Novecento – Artaud, Grotowski e
Barba –, in seguito alle cui rivoluzioni sceniche il problema del
confronto e allo stesso tempo del superamento delle differenze
culturali si è imposto all’attenzione dei contemporanei come tratto
costitutivo, se non fondante, del teatro stesso. Quello che lo
studioso propone è un viaggio affascinante e originario alla
scoperta del desiderio e dell’esperienza dell’altro, così come il
teatro per necessità ontologica l’ha concepito. Si tratta della stessa
necessità che rende al giorno d’oggi questa forma d’arte tanto più
difficile quanto più indispensabile, succube del livellamento delle culture, ma ancora capace di farsi
carico delle loro diversità, assimilandole senza privarle d’integrità alcuna, ma anzi traendone la
propria linfa vitale.
Teatro, dunque, come «doppio della cultura», per dirla all’Artaud – lavoro su se stessi e
incontro in primis con lo spettatore, l’altro originale. Ciò che De Marinis s’impegna a sostenere,
partendo da un riesame dell’antropologia teatrale nella prima sezione del libro, è la
complementarietà della prospettiva interculturale e di quella transculturale, per cui i grandi artistiteorici del secolo scorso – messi in crisi e spinti quindi al rinnovamento dall’incontro con l’alterità –
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avrebbero attinto a «una specie di nucleo o fondo oggettivo, che sembra precedere le differenze
culturali ed estetiche», arrivando all’affermazione di un’«unità euroasiatica» che avrebbe spalancato
incredibili margini operativi. Rileggere in questa chiave il nostro rivoluzionario Novecento teatrale
– a partire dalle relazioni fra Oriente e Occidente fino all’elaborazione di nuovi paradigmi per lo
spettatore – risulta non solo legittimo, ma addirittura basilare per poter comprendere la reale portata
di tale rivoluzione.
La prima delle tre parti che compongono l’opera è dedicata, come dicevamo, alla prospettiva
antropologica e, nello specifico, a un’analisi della Canoa di carta di Eugenio Barba, un «libro-diteatro» che è allo stesso tempo «teatro-in-forma-di-libro», dacché «incorpora alcune delle proprietà
della composizione teatrale e dell’esperienza che ne fa lo spettatore, elaborandone degli equivalenti
per il lettore». De Marinis intende sottolineare il carattere di organicità di quest’opera che – se
formalmente costituita da una sorta di montaggio di testi dai registri più disparati – avanza una
teoria ben definita e unitaria, volta ad affermare la centralità assoluta dell’attore nel fatto teatrale.
Com’è risaputo, la svolta nell’approccio alla scena di Barba sta nella riscoperta e utilizzo
consapevole da parte dell’interprete – ma utile anche a spettatori e studiosi – del serbatoio
transculturale del pre-espressivo, alla base dell’antropologia teatrale del fondatore dell’ISTA. Lo
studioso, definendo la Canoa un saggio «stratigrafico», ne ripercorre la formazione per poi offrire
un accurato confronto fra la conferenza Antropologia teatrale: prime ipotesi tenuta a Varsavia nel
1980, il saggio Antropologia teatrale pubblicato l’anno successivo e il terzo capitolo della Canoa,
che ne rappresenta una rielaborazione. Ci è così possibile osservare l’evolversi negli anni Ottanta
della teoresi di Barba, notandone la progressiva de-orientalizzazione, un allontanamento dalla
sicurezza con cui inizialmente attribuiva base scientifica alle sue scoperte e l’accentuarsi di una
dimensione storica.
Come spiegato da De Marinis, parte di questi cambiamenti è dovuta alla necessità che da
sempre accompagna Barba di difendersi dalle molte obiezioni sollevate in campo scientifico nei
confronti del pre-espressivo: lo studioso sceglie di concentrarsi sull’accusa principale, quella di
parzialità, che riguarda tanto la limitatezza della base empirica di verifica delle teorie, tanto il
metodo che l’autore definisce «comparativismo decontestualizzante», quanto ancora l’oggetto
stesso di cui si occupa, quel pre-espressivo appunto che non costituirebbe tutto il fatto teatrale. Se la
prima obiezione resta parzialmente aperta (sempre che le teorie antropologiche di Barba non
vengano circoscritte al teatro euroasiatico), alla seconda il maestro risponde facendo appello
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all’identità professionale che accomuna l’attore in quanto tale in ogni epoca e paese, permettendo
dunque un confronto transculturale; per la terza infine, se da una parte Barba sembra rivendicare la
parzialità del suo oggetto di ricerca, dall’altra invece dichiara la funzione globale del preespressivo, «nucleo generativo, […] matrice dell’intero processo creativo a teatro».
De Marinis prosegue la sua analisi della Canoa soffermandosi sui principi basilari, dal senso
della partitura e della sottopartitura che devono disciplinare e fornire coerenza organica alla
recitazione dell’attore, all’adozione del principio di unità psico-fisica, il cosiddetto corpo-mente.
Ma come riuscire a giustificare il pre-espressivo in quanto base dell’intero fatto teatrale? Lo
studioso tenta di rispondere passando in rassegna i possibili modelli teorici, dalla struttura marxista
all’inconscio collettivo junghiano, per poi ritenere più appropriati quello dell’esistenza di una
struttura profonda alla Lévi-Strauss e del genotipo biologico: si tratterebbe, ipotizza De Marinis, di
«isomorfismo transculturale», per cui il pre-espressivo rappresenterebbe una sorta di «tecnica delle
tecniche», non vincolato però ad una struttura di tipo gerarchico.
Le conclusioni dell’autore riguardo l’opera di Barba, per quanto «provvisorie e parziali»,
non sono meno affascinanti dell’argomento trattato: riconoscendo la debolezza dei fondamenti
scientifici dell’antropologia teatrale e allo stesso tempo le sue alte ambizioni teoriche, De Marinis
esprime il proprio timore che la disciplina possa continuare ad alzare il tiro perdendo la propria
credibilità; d’altra parte però, si domanda cosa sia «un insieme di affermazioni forti sull’Arte, che si
sottrae all’onere della verifica e del controllo, se non una estetica o, più precisamente, una
poetica?».
La seconda parte del volume, dedicata al rapporto fra rito e teatro, si sofferma su due
«esperienze chiave dal Novecento», quella di Artaud – concentrandosi specificatamente sulle sue
elaborazioni teoriche a partire dall’incontro con la tribù dei Tarahumara – e quella di Grotowski.
L’ipotesi avanzata da De Marinis, che implica la necessità oggi di approfondire il tema
rimasto in ombra del rapporto fra Artaud e la cultura messicana, si basa sulla constatazione
dell’importanza che quest’incontro ha avuto tanto per il teorico quanto per l’uomo, rappresentando
una «svolta decisiva» che congiungerebbe il lavoro degli anni Trenta (e dunque del cosiddetto
Primo Teatro della Crudeltà) a quello del Secondo, cioè di tutto il decennio successivo.
Il viaggio compiuto nel ’36 da Artaud nella Sierra Madre del Norte, alla scoperta dei
Tarahumara, è sempre passato in secondo piano rispetto al suo ben più documentato e studiato
incontro con la tradizione di Bali. Una delle ragioni è certo l’incompiutezza e la frammentarietà di
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quella «galassia testuale» (appunti, lettere, conferenze, articoli postumi o mai pubblicati) che
costituisce testimonianza di tale esperienza. De Marinis traccia in primis le contrastate vicende
compositive ed editoriali dei tre «libri mancati», ben lungi tuttavia dall’esaurire il materiale lasciato
da Artaud sull’argomento, per poi svolgerne un esame a partire dai testi preparatori del ’35. Ciò che
emerge da questi ultimi è la necessità di Artaud di congedarsi dall’Occidente per andare alla ricerca
di un Oriente inteso in senso non meramente geografico, bensì sinonimo di originario, incorrotto,
autentico. È con questo presupposto che il Nostro parte per la Sierra, deciso a tornare alle fonti del
vero teatro per poterlo poi rigenerare in tutta la sua organicità – per dirla con Barba – di corpomente.
Sono almeno tre le versioni che Artaud elabora, a partire dal ’36-’37 e fino alla fine degli
anni Quaranta, della sua esperienza presso i Tarahumara. De Marinis le ripercorre con attenzione,
mettendo in luce il passaggio da una sorta di delusione riguardo la partecipazione al loro rituale
percepibile nella prima, all’imporsi del misticismo cattolico nella seconda (elaborata nel periodo del
terribile soggiorno a Rodez), per poi divenire di segno totalmente negativo nell’ultima in cui, dopo
l’abiura di ogni trascendenza avvenuta nel ’45, finirebbe con l’iscrivere anche l’esperienza
messicana all’interno della sua teoria persecutoria degli affatturamenti, secondo la quale persino i
Tarahumara – come il resto del mondo – avrebbero tentato un’aggressione nei suoi confronti.
La riflessione sul rituale messicano accompagna quindi evidentemente Artaud nel passaggio
alla fase più (cronologicamente) matura del suo pensiero, e perfino negli ultimi giorni di vita se si
pensa che la seconda versione del Tutuguri risale al ’48: De Marinis ha tutte le ragioni di
sottolinearne l’importanza, concludendo il suo excursus con l’ipotesi che la stessa sanguinosa
immagine del teatro come sacrificio, disfacimento e rifacimento del corpo, che incarna il senso del
suo Secondo Teatro della Crudeltà, sia da ricollegarsi direttamente alle suggestioni del «rito del sole
e della notte neri» vissuto da Artaud nella Sierra e poi, negli anni a seguire, sulla propria carne.
Il capitolo dedicato a Grotowski – partendo dalla considerazione che il grande teacher of
Performer non ha fatto altro che lavorare sul rituale, seppure a diversi livelli, per tutta la sua
carriera – è volto a sottolineare come abbia contribuito ad ampliare enormemente questo campo
d’indagine tanto in qualità di artista-artigiano, dimostrando «la percorribilità di una via del lavoro
su di sé […] definibile […] in termini di rituale laico», quanto come scienziato-antropologo,
accostando le teorie della neuro-biologia al proprio approccio teatrale-antropologico decisamente
pragmatico. De Marinis è ben consapevole delle difficoltà che a tutt’oggi hanno impedito il
compimento di una filologia completa dell’opera di Grotowski: da una parte l’incapacità del
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comprendere quanto il suo abbandono del teatro negli anni Settanta non sia affatto tale, ma
piuttosto un’affermazione della necessità di un ritorno a un qualcosa di originario (qualcosa, come
direbbe lui, di «estremamente semplice») che poco ha a che vedere con lo spettacolo
occidentalmente inteso; dall’altra il concentrarsi degli studi sull’individuazione delle tante fonti
«intellettuali, spirituali e tecniche» che certo non spiegano né esauriscono il metodo agito elaborato
dal maestro dell’arte come veicolo.
Lo studioso rilegge il percorso compiuto da Grotowski nell’ottica della necessità di trovare
un equivalente del rituale, in una società che per ragioni storico-culturali non può più esserne
capace. Dopo i primi tentativi di «rifare il rituale» – inevitabilmente falliti per l’impossibilità di
un’autentica partecipazione del pubblico in cui tentava invano di risvegliare un inconscio collettivo
con mezzi dialettici e un linguaggio scenico codificato – la «svolta» arriva col Principe costante, in
cui Grotowski decide di concentrarsi unicamente sull’arte attoriale, con l’obiettivo di raggiungere
quella verticalità, la forza originaria dell’azione interiore di cui il pubblico, divenuto testimone,
avrebbe potuto giovarsi di rimando.
La terza parte del volume, più composita, è dedicata alle prospettive pluridisciplinari del
rapporto fra teatro e alterità. Può il teatro aiutare a salvare e/o a salvarsi? Semplificando parecchio,
sembra essere questa la grande questione posta da Grotowski e in generale dal filone novecentesco
teso a considerare il lavoro dell’attore su se stesso il fine e non il mezzo. L’attore intraprende il
proprio «processo, inteso come corrente vivente di impulsi» solo nel momento in cui appare
svincolato dallo spettacolo, capace di quell’esperienza verticale che sostituisce la trance primitiva
consentendogli una conoscenza piena di sé e dell’altro.
Segnaliamo come particolarmente interessante il capitolo dedicato a una panoramica sulle
teorie etnologiche e neuroscientifiche del rituale, che permette di comprendere quanto la
complessità dell’argomento antropologico-teatrale richieda un’interrelazione sempre più stretta fra i
diversi ambiti disciplinari, come più volte sottolineato dallo stesso De Marinis in altre sedi.
Lo studioso lascia aperta la questione del beneficio della pratica teatrale: si tratta
effettivamente di un campo ricco di contraddizioni e difficilmente sondabile, che ha a che fare in fin
dei conti con la conoscenza di quanto l’uomo ha in sé di più profondo e con la sua capacità di
divenire se non il miracolato, il canale attraverso sui un miracolo altrettanto insondabile può
manifestarsi al mondo (non è questo, in fondo, il senso del sacrificio di Artaud?). Non lascia invece
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alcun margine di dubbio – ed è qui, in sede conclusiva, che ci sembra di poter cogliere l’essenza de
Il teatro dell’altro, libro ricco di tesi e ipotesi suggestive, ma soprattutto d’importanti suggerimenti
per la ricerca a venire – riguardo la capacità del teatro stesso di «diventare una grande palestra per
l’accettazione dell’altro in quanto tale; a patto però di porsi non più come specchio della realtà ma,
ben diversamente, come doppio della cultura, cioè – appunto – come viaggio verso e dentro
l’alterità, come scoperta, esplorazione e confronto con l’alterità, a partire dalla propria, e dunque
anche come viaggio verso e dentro se stessi, o più esattamente come lavoro su di sé». Ed è questo
ciò che i maestri del Novecento ci hanno insegnato.
Marco De Marinis
Il teatro dell’altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea.
La Casa Usher, Firenze 2011 (Oggi, del Teatro. Saggi, 7)
pp. 231
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