Il corpo ricreato (di Antonio Caronia, Virtual n.4, 1993)

IL CORPO RICREATO
Antonio Caronia
[Virtual n. 4, dicembre 1993]
L'epoca della comunicazione elettronica, si dice, è l'epoca della negazione del corpo. Seduti a casa
nostra, con lo schermo televisivo davanti agli occhi e il telecomando nella mano, trascorriamo ore e
ore nella contemplazione di un mondo piatto, abitato da presenze fantasmatiche che ci siamo
abituati a considerare "realtà", ma che della realtà materiale, del buon vecchio mondo, non hanno la
concretezza, la pesantezza, la ruvidezza, l'odore. Seduti davanti al nostro computer, manipoliamo
testi e immagini immateriali, depositati su fogli immaginari, scritti con inchiostro immaginario,
disegnati e dipinti con penne e pennelli simulati, senza più l'odore e la consistenza della penna, del
pennello, dell'inchiostro, dei colori di un tempo, fatti della buona vecchia materia. Il nostro
rapporto col mondo sta ormai sulla punta delle dita che sfiorano la tastiera o il mouse. I corpi con
cui entriamo in contatto sono sempre più simulacri di corpi. Domani, un domani molto vicino,
indosseremo i nostri indumenti speciali (casco, guanto, tuta) o entreremo nella nostra stanza
speciale, e vedremo, parleremo, sentiremo, toccheremo corpi che non ci sono, voci sintetiche,
oggetti fantastici che ci sembreranno esistenti. I corpi dei nostri interlocutori saranno lontani da
noi, irraggiungibili nella loro materialità, e così sarà il nostro corpo per loro: solo i simulacri si
vedranno, si parleranno, si toccheranno, e a noi toccherà di vivere un'esperienza simulata, "vicaria",
come dicono gli anglosassoni, non per interposta persona, ma per interposto simulacro. Il nostro
corpo, il primo e fondamentale strumento di mediazione col mondo, sarà relegato sullo sfondo,
sempre più atrofizzato, potrà anche scomparire per lasciare solo un cervello immerso in una vasca,
come fantasticavano gli scrittori e i cineasti di fantascienza negli anni Cinquanta (e Borges e
Casares facevano loro il verso, nel racconto "Gli immortali" che chiude le loro Cronache di Bustos
Domecq).
Naturalmente non sarà proprio così. Mi sono divertito, nel paragrafo precedente, a
sintetizzare, magari caricaturandolo, il punto di vista che potremmo definire "apocalittico ingenuo"
sul destino del corpo nell'era elettronica. Ingenuo non nel senso che suppone dei problemi o delle
catastrofi che non ci sono, ma nel senso che fa la previsione apparentemente più facile (e più
sbagliata): quella della scomparsa del corpo. Ogni volta che nella storia dell'umanità sono apparse
tecnologie e mezzi di comunicazione radicalmente nuovi c'è stato anche un mutamento del nostro
modo di vedere il mondo e di rapportarci ad esso, e questo ha comportato anche una ridefinizione
del corpo, del modo in cui ognuno di noi lo autopercepisce, del modo in cui i corpi entrano in
rapporto tra loro. Perché nell'uomo, animale culturale, anche il corpo è un concetto culturale, e
muta col mutare delle culture. E' quindi scontato che l'era della microelettronica porti con sé un
mutamento, per così dire, del "paradigma culturale" del corpo. Ma questo mutamento andrà nel
senso, semmai, di una nuova centralità del corpo piuttosto che della sua scomparsa. Negli anni
Cinquanta e Sessanta siamo stati giustamente affascinati e spaventati dalle prospettive di un corpo
artificiale, sia che si trattasse della possibilità di creare un doppio dell'uomo totalmente costruito da
noi (il robot, l'intelligenza artificiale), sia che si fosse alla vigilia di interventi massicci della
tecnologia all'interno del nostro stesso corpo (il cyborg, l'organismo cibernetico metà uomo e metà
macchina; ma adesso anche la possibilità di intervenire sul meccanismo fondamentale di creazione
e di gestione del corpo, il codice genetico). Il corpo post-industriale, in un certo senso, radicalizza
queste tendenze ma insieme le corregge, o almeno mostra nuove possibilità. Se il robot e il cyborg,
ognuno a suo modo, erano il simbolo estremo di quel processo di "massificazione" del corpo che
era connaturato alla civiltà industriale (stessi movimenti parcellizzati, stessi percorsi quotidiani,
stessi vestiti), la reinvenzione del corpo a cui in qualche modo ci costringono le nuove tecnologie
della comunicazione può andare invece nel senso di una riscoperta della specificità,
dell'individualità. Come spesso nella storia, questo cammino è irto di paradossi e di pericoli.
Paradossi e pericoli che da sempre alcuni artisti hanno visto prima e meglio degli altri.
Lo scrittore inglese James Ballard è stato uno di questi. Da sempre interessato (in modo via
via più ossessivo) a quelle che egli stesso ha definito le "nuove costellazioni dell'immaginario",
Ballard ha avuto una straordinaria capacità di visualizzare le trasformazioni che le tecnologie
inducono sull'uomo. Nei suoi romanzi e nei suoi interventi dei primi anni Sessanta, egli vedeva gli
oggetti più spettacolari della tecnologia di allora (satelliti artificiali, capsule spaziali) letteralmente
"trascriversi" nel sistema nervoso dell'uomo, come la condanna si incide sulla pelle del condannato
nel racconto La colonia penale di Franz Kafka. Nelle possibili catastrofi planetarie, nelle malattie
immaginarie che costituivano lo sfondo di quei romanzi, vedeva altrettante occasioni per l'uomo di
ristrutturare il proprio "spazio interno", il proprio sistema neurale, certo in modo non pacifico ma
traumatico. Verso la metà degli anni Sessanta, nel clima dell'arte pop londinese e internazionale, il
suo interesse si focalizzò sul media landscape, quel "paesaggio delle comunicazioni" che proprio
allora diventava l'ambiente umano per eccellenza. Con un punto di vista (non a caso) simile a
quello di Andy Warhol, Ballard esplorò meraviglie e perversioni di questo paesaggio soprattutto in
due libri, La mostra delle atrocità, del 1970, e Crash, del 1973 (entrambi pubblicati in Italia da
Rizzoli). Nel primo un personaggio dal nome e dall'identità evanescente vuole continuamente
ricreare attorno a sé eventi traumatici e mediatizzati del mondo di quegli anni (l'assassinio di
Kennedy, l'incidente dell'Apollo). Nel secondo il protagonista Vaughan, ossessionato dal
"matrimonio tra ragione e incubo che ha dominato il XX secolo" (come scrisse lo stesso Ballard
nell'introduzione all'edizione francese del libro), è attratto maniacalmente dagli aspetti sessuali
degli incidenti d'auto, e coinvolge un altro personaggio, di nome Ballard, nel suo progetto di attirare
Liz Taylor in uno di questi incidenti, per consumare con lei un coito mortale. "Mi piace pensare" ha
scritto Ballard nella stessa introduzione "che questo sia il primo romanzo pornografico basato sulla
tecnologia. In un certo senso, la pornografia è la forma narrativa a più alto contenuto politico,
poiché tratta, nella più insistita e crudele delle forme, del nostro reciproco sfruttamento." Quanto
Ballard sia attirato, in quel modo ambiguo e distaccato che è il fascino principale dei suoi scritti,
dalle prospettive della trasformazione artificiale del corpo, è testimoniato da tre dei racconti
aggiunti all'edizione americana del 1990 di La mostra delle atrocità. Si tratta di opuscoli tecnici
riguardanti operazioni di chirurgia estetica, a volte ripugnanti nella loro fredda descrittività, che
Ballard riporta letteralmente con un piccolo ma decisivo slittamento di significato, sostituendo alle
anonime pazienti personaggi pubblici ("Il lifting della principessa Margaret", "La plastica
mammaria riduttiva di Mae West", "La rinoplastica della regina Elisabetta").
L'irruzione della tecnologia meccanica (riassunta nell'auto e nella chirurgia estetica) nel
corpo dell'uomo serve a Ballard per segnalare un processo di cui ognuno nella civiltà industriale
matura fa esperienza quotidiana, senza magari rendersene conto: la distruzione del corpo
tradizionale, che da un lato si brucia nell'impatto traumatico con la tecnologia, dall'altro si perde
nell'universo di simulacri in cui i media hanno trasformato la nostra vita. La comparsa del corpo
come elemento centrale in varie tendenze artistiche degli anni Sessanta, come la performance o la
body art, costituiva una risposta a questo processo: una risposta condotta in nome di un radicale
rifiuto della tecnologia, di una valorizzazione dell'elemento "naturale" di cui il corpo era simbolo e
strumento. I personaggi di Ballard, invece, sono in bilico tra la ribellione alla logica industriale
della massificazione e l'invenzione di un nuovo paradigma. La nevrosi ossessiva di Vaughan, in
Crash, è un paradossale tentativo di ridare dignità e "senso" al corpo svilito dall'uniformità della
società di massa, dalla sua riduzione a segno scambiabile con altri segni, e perciò equivalente a tutti
gli altri, deindividualizzato. Molto acutamente Ballard ci dice che ciò è possibile con le tecnologie
elettromeccaniche (l'auto), ma solo a prezzo di ferire e mutilare il corpo. Solo pensando alle
impronte sanguinose e crudeli del metallo dell'auto sul suo corpo e su quello delle sue vittime
Vaughan si sente individuo, e può compiere l'atto che riassume in sé l'acme della personalizzazione
e il suo contrario, la perdita del sé, cioè l'atto sessuale. L'individuo cartesiano è così in un vicolo
cieco: ancora una volta, in fondo a questo percorso lo aspetta la morte.
L'avvento della tecnologia elettronica e microelettronica, l'informatizzazione, i nuovi media,
rovesciano il quadro. Non è la fine del conflitto, ma solo la sua trasformazione. La partita non si
gioca più, come nella società industriale, fra l'irriducibilità del corpo e le esigenze livellatrici della
società. Le nuove tecnologie mediali sarebbero spontaneamente egualitarie ma non livellatrici,
favorirebbero un atteggiamento attivo dell'utente e uno sviluppo delle preferenze individuali
maggiore dei media della società industriale. Ma tutto questo (se fosse pienamente realizzato, ciò
che non accade perché i gestori dell'economia e della politica hanno ancora tutti e due i piedi ben
piantati nella logica industriale) porrebbe problemi del tutto nuovi, per esempio di tipo etico. Basta
pensare alle straordinarie possibilità di travestimento che già oggi la comunicazione elettronica
consente (nel Videotel o nelle messaggerie informatiche) e che più ancora consentirà in futuro (con
le realtà virtuali). E poi, certamente, la straordinaria possibilità di rivestire corpi numerosi e diversi
(anche se virtuali) può farci correre il rischio di perdere la possibilità di coinvolgere in questa
avventura anche il nostro corpo fisico. La reinvenzione del corpo nell'era della virtualità, insomma,
richiede cautela e fantasia. Ancora una volta, è quello che ci ricordano altri artisti che mettono in
relazione il proprio corpo con le nuove tecnologie. Sono gruppi di teatranti/performer, come i
Survival Research Laboratories di San Francisco, i catalani La Fura dels Baus, gli inglesi
nomadizzati Mutoid Waste Company: ognuno di questi gruppi, in modi diversi, enfatizza il rapporto
violento del corpo con le tecnologie ricreando nuovi modi di individualità in diversi contesti.
Oppure sono artisti che lavorano da soli, come l'australiano Stelarc o la francese Orlan. Nelle
"sospensioni" di Stelarc il corpo dell'artista rimaneva appeso, dapprima con imbragature, poi con
ganci e uncini direttamente infilati nella pelle, e monitorizzato o, più significativamente, utilizzato
per produrre segnali visivi o sonori con la mediazione di tecnologie informatiche. Queste
performance sono state spesso interpretate in termini di masochismo o di automutilazione. Stelarc
le ha spiegate in modo diverso. "Sono sempre stato affascinato dall'immagine del corpo nello
spazio" ha detto in un'intervista. "Spesso sognamo di fluttuare e volare, e queste 'sospensioni' si
collocano tra la fantasticheria e la realtà dell'astronauta. La transizione ai ganci è stata
un'operazione semplice, per ridurre l'ingombro visuale delle funi. Non avevo pensato alle
implicazioni sado-maso e mi hanno sempre lasciato perplesso quelli che ricorrevano a performance
con crocifissioni o ganci." L'ispirazione "tecnologica" dell'arte di Stelarc è ancora più esplicita nel
suo progetto di "terza mano" [v. scheda]. Anche il lavoro di Orlan è significativo da questo punto di
vista. Le operazioni di chirurgia plastica a cui essa si sottopone provocano ovviamente un processo
di mutazione dell'identità, sono una decisione cosciente di trsformazione del proprio corpo, certo
forte e in qualche modo "catastrofica", ma neppure in questo caso assimilabile a un gesto di
autolesionismo. Sia Orlan che Stelarc parlano di "obsolescenza del corpo". Quello che il loro lavoro
dimostra, però, non è tanto l'obsolescenza del corpo in quanto tale, ma piuttosto la fine di una
vecchia visione, fissa e immutabile, del corpo stesso.
Antonio Caronia
STELARC
L'uomo con la terza mano
Stelarc, artista/performer australiano di origine greca (è nato a Cipro nel 1946), ha sviluppato
alcune fra le più originali esperienze di ibridazione fra uomo e macchina. Dopo aver trascorso
diciotto anni in Giappone, vive adesso vicino a Melbourne. Negli spettacoli che porta in giro per il
mondo il suo corpo diventa teatro di esperienze inedite. Tra le più interessanti quella della "terza
mano", una protesi robotizzata collegata al suo avambraccio destro, che Stelarc comanda per mezzo
di sensori che aderiscono alla pelle. E' un vero gioiello di tecnologia, derivato da un prototipo
costruito all'Università Waseda di Tokyo dal professor Ichiro Kato, grande esperto di robotica.
Dopo 4 anni di lavoro, e 10.000 dollari in meno, Stelarc completa il suo "strumento" nel 1981: una
mano con cinque dita articolate, dotata di micromotori al polso e a ogni articolazione. La prima
dimostrazione ebbe luogo nel 1984 al Lindon Johnson Center della NASA a Houston, Texas. I
sensori disposti sul corpo trasmettono gli impulsi dovuti alla contrazione di certi muscoli
facilmente controllabili, come gli addominali o i muscoli delle cosce, mentre le mani (quele vere!)
sono completamente libere. I segnali mieloelettrici provenienti dai muscoli sono amplificati
elettricamente e interpretati da un programma che li associa ai vari movimenti della mano
meccanica. Se le dita toccano qualche oggetto o vengono in contatto tra loro, c'è un ritorno di
informazione tattile che arriva alla superficie dell'avambraccio destro (quello che porta la mano
artificiale). Stelarc conosce questa mano extracorporea come se fosse sua, e le fa eseguire ogni
sorta di bizzarre contorsioni.
L'artista telepresente
Questa mano può funzionare anche a distanza, come nella performance in cui Stelarc stava a
Yokohama, mentre i sensori sulla sua pelle comandavano i movimenti della terza mano fissata a un
altro artista a Tokyo. La telepresenza avveniva grazie a un collegamento ISDN. In un'altra
performance svoltasi a Londra il partner di Stelarc era invece un robot industriale, e una telecamera
fissata all'estremità del braccio, le cui immagini andavano su un grande schermo, costituiva una
specie di "terzo occhio" dell'artista. Da circa due anni Stelarc sperimenta al Royal Melbourne
Institute of Technology una "mano virtuale", un'immagine in 3D che egli comanda tramite due
guanti Dataglove, o simili, e un programma di realtà virtuale. Il guanto destro anima la mano
virtuale in tempo reale, mentre il guanto sinistro serve per riconoscere i gesti. A ogni gesto che il
sistema riconosce sono associate particolari funzioni. Stelarc può far ruotare la mano virtuale di
360° attorno al polso, o può innestare una nuova mano su un dito della mano primitiva, o creare
escrescenze corporali simboliche di altro tipo (gocce che si staccano dalle dita, per esempio). "La
realtà virtuale, che è un altro modo di amplificare le possibilità del corpo, mi interessa perché
permette di creare esperienze del tutto nuove", dice, e fa l'esempio di una persona con una
amputazione che sente ugualmente l'arto che gli manca.
Jean Segura
ORLAN
Si può essere belle, sensuali, desiderabili, e decidere ugualmente di cambiare il proprio aspetto
fisico? Se ci si chiama Orlan e si ha una sorta di vocazione per l'arte (qualcuno usa invece il
termine "monomania"), sì. Orlan è lo pseudonimo (il vero nome viene tenuto ben nascosto) di
un'artista e performer francese che ha attraversato varie esperienze a partire dalla metà degli anni
Sessanta. Negli anni Settanta distribuiva per le strade "baci d'artista" al prezzo di cinque franchi. E'
passata poi a costruirsi un'identità fittizia, scopertamente fittizia, Santa Orlan. In una serie di film
(La vierge noire, 1980, Le couronnement et l'assumption del Sainte Orlan, 1981, Apparition et
gloires de Sainte Orlan, 1983, Sainte Orlan et les viellards, 1984) ha mescolato iconografia
cristiana tradizionale e immagini contemporanee: è stata una Santa Teresa del Bernini a seno nudo,
una Venere in pelliccia. Poi, nel 1990, il progetto che la impegna ancora oggi, "La reincarnazione di
Santa Orlan". Il suo corpo, in particolare il viso, deve essere sottoposto a una serie di operazioni di
chirurgia plastica per adattarlo a un'immagine da lei stessa creata al computer e basata su ritratti
famosi: la fronte della Gioconda, il mento della Venere di Botticelli, e poi Diana, Europa, Psiche.
Ogni intervento, che Orlan affronta con la sola anestesia locale, è l'occasione di una performance:
musicisti, cantanti, ballerini circondano l'equipe medica, lei stessa legge dei testi. Il prossimo
intervento, il settimo, avrà luogo a New York in novembre, e verrà diffuso via satellite. Quando la
trasformazione del suo viso sarà completata, un concorso pubblico deciderà il nuovo nome
dell'artista. "La vita dev'essere vista tutta come un fenomeno estetico" afferma Orlan, "un tentativo
di misurarsi con l'idea di Dio. Il corpo è ormai un costume obsoleto, spesso ci delude. Oggi
pobbiamo allargare l'idea di evoluzione, trasformarla in una pratica. Perché la chirurgia estetica
dovrebbe essere usata solo per farci più belli? Ci si può trasformare in tante direzioni. Nella
prossima operazione mi farò allungare il naso, forse sarà un po' più brutto, ma non importa." Il
critico Pierre Restany, commentando questa "esperienza di superamento dell'identità, quest'atto
transessuale da donna a donna", lo ha definito "il più estetido degli atti morali. Orlan, madre delle
nostre angosce e figlia del suo destino..."