Fondazione per la Ricerca Farmacologica “Gianni Benzi” Onlus SERGIO RIZZO Il doping tra diritto e morale Le norme giuridiche e le riflessioni bioetiche sul fenomeno che avvelena lo sport Se dobbiamo immaginare, in un prossimo futuro, quali ostacoli si troverà ad affrontare la politica antidoping, la risposta è abbastanza scontata: d’ora in avanti si farà sempre più strada l’idea di legalizzare l’uso delle pratiche e delle sostanze attualmente vietate, almeno per quanto riguarda gli atleti professionisti. Ciò in nome della libertà individuale, della tutela della privacy e, soprattutto, della libertà professionale: perché solo agli sportivi deve essere impedito di svolgere al meglio la propria attività, non sfruttando ogni nuovo mezzo che la scienza e la tecnologia mettono a disposizione? In realtà, proprio in nome di questi principi il ricorso al doping è andato via via affermandosi in modo sempre più massiccio. Solo che nessuno o quasi aveva avuto il coraggio di esprimersi in questo senso: avrebbe infranto la presunta sacralità dello sport, scandalizzando l’opinione pubblica ed esponendosi a critiche feroci. Ma in un mondo sempre più selvaggiamente commercializzato c’è ben poco di sacro da proteggere. Eppure questo continua ad essere il mondo dello sport, basato su un’etica ottocentesca che non ha più ragione di essere, e che viene quotidianamente dimenticata. Un’etica che resta lì, inerte, mentre i costumi sociali mutano e il mercato – senza regole – occupa tutti gli spazi. Nella lotta al doping, il paradosso è sempre stato quello di non avere oppositori ufficiali: a parole tutti sono (erano?) contro il doping. Si combatte insomma contro una sorta di nemico invisibile. Ecco allora che l’uscire allo scoperto dei fautori del doping libero rappresenta una svolta importante. L’affrontare l’argomento senza ipocrisie è infatti il presupposto per una chiarificazione definitiva. Il grande merito di chi parla di legalizzazione è quello di presentare il problema nella sua realtà: il doping esiste, è generalizzato, viene sempre più spesso percepito come una necessità. Chi si dopa non è più una mela marcia (come è solito definirlo l’istituzione sportiva), ma un attore costretto (e alla fi ne disposto) a tutto pur di far parte dello spettacolo. Secondo il nostro punto di vista, c’è bisogno di una visione più laica dello sport, che ha già permesso ad Oscar Pistorius di poter gareggiare con i normodotati. Oscar Pistorius – il ragazzo sudafricano senza gambe che corre con le protesi – ha infatti laicizzato lo sport, nel senso che lo ha fatto uscire da quella equivoca condizione di religione civile nella quale un po’ tutti lo collocavano sin dalle sue origini, nell’antica Grecia. Un deciso passo avanti che può permetterci di analizzare in modo migliore quelle che sono le contraddizioni dello sport moderno. A partire dal fenomeno doping, per il quale utilizzeremo la lente d’ingrandimento della bioetica, anche se uno strumento del genere potrebbe essere considerato inusuale, essendo fondamentalmente le questioni di inizio e fi ne vita al centro della riflessione bioetica. Ma la tecnologia, l’elettronica e in generale i grandi progressi della biologia e della medicina hanno profondamente cambiato la nostra vita e, conseguentemente, anche lo sport. Ciò è reso ancora più evidente dalla nascita di riflessioni sul cosiddetto enhancement (potenziamento) e sul “trans-umano” (la capacità e il desiderio di migliorare la qualità della vita). Non è un caso che pensatori come John Harris e Michael Sandel abbiano porto più di uno sguardo al mondo dello sport. Sarà quindi inevitabile confrontarsi con la politica proibizionista che lo sport ha attuato, e in cui è stato sorretto, aiutato e persino scavalcato da istituzioni pubbliche nazionali e internazionali. Ma non abbiamo intenzione di limitarci a questo, non ci fermeremo alle ormai sempre più numerose norme legislative restrittive, avendo anzi la pretesa di ritenere che il ricorso al doping è anche – soprattutto – moralmente disprezzabile. Mentre è facile sostenere questa posizione servendosi della visione religiosa e di quella deontologica di origine kantiana, apparentemente difficile potrebbe sembrare il compito quando il confronto avviene con l’utilitarismo che fa capo a John Stuart Mill e che ha portato all’affermarsi del principio di autodeterminazione in ogni campo della vita. Ma proprio dall’utilitarismo arriverà la conferma più importante: il ricorso al doping nello sport è moralmente condannabile perché mina il principio di autonomia e, nell’ambito dell’etica biomedica, contraddice quello di non maleficenza e – punto cruciale della nostra analisi – è contrario al principio di giustizia intesa come equità. Come confermeranno le testimonianze e i drammatici episodi di cronaca, gli atleti agiscono in uno stato di coercizione, sia nei regimi totalitari che in quelli liberali. Il doping, per come si è sempre presentato nello sport, non è stato il frutto di una libera scelta da parte degli atleti: non è un caso, ad esempio, che la sua vera data di nascita coincida con la scoperta che i militari – nella seconda guerra mondiale – furono i primi individui sani chiamati a sperimentare l’effetto dei farmaci per motivi non terapeutici. L’uso delle anfetamine e degli anabolizzanti aveva lo scopo di allontanare la paura, aumentare l’aggressività, migliorare le capacità di resistenza. Esattamente come è avvenuto nello sport. Nel primo capitolo analizzeremo le legislazioni antidoping, che nascono da quanto è accaduto negli ultimi sessant’anni nello sport, mondo che ha affrontato il tema senza porsi quesiti morali, inventando il concetto di doping e limitandosi a dividere ciò che è lecito da ciò che non lo è – in modo irrazionale e ideologico – trascurando di affidarsi a criteri scientifici affidabili, e avendo come unico valore quello del raggiungimento della vittoria ad ogni costo. Eppure ancora oggi le istituzioni nazionali e internazionali (l’Unesco, il Consiglio d’Europa, i singoli Stati) continuano a considerare lo sport come un’attività da incoraggiare perché esalta valori come l’educazione, la tutela della salute, la pace. Lo sport moderno è davvero questo? E perché c’è unanimità nel considerare intrinsecamente buoni gli obiettivi dello sport? Perché la tutela della salute degli atleti e la necessità della lealtà sportiva sono difese con grande enfasi e allo steso modo da Paesi estremamente distanti nella visione dei diritti civili, tanto da avere legislazioni assai diverse sui temi base della bioetica (procreazione assistita, aborto, eutanasia)? Nel secondo capitolo analizzeremo quanti hanno affrontato il tema del doping dal punto di vista etico. Dalla visione cattolica a quella laica, daremo conto di chi ha espresso la propria opinione, fornendo un contributo importante. Negli ultimi anni il tema del doping ha suscitato finalmente l’interesse anche della bioetica laica, e negli Stati Uniti, nonché in Italia, sono intervenuti i Comitati Nazionali di Bioetica. Tra secondo e terzo capitolo, affrontando il tema dell’autonomia, e quindi della legittima richiesta dell’individuo a migliorarsi accedendo a qualsiasi tipo di opportunità, analizzeremo come sarebbe uno sport in cui fosse consentito il ricorso al doping. Fondamentale sarà quanto sostiene John Harris a proposito dell’eguaglianza: l’obiettivo da perseguire da un punto di vista etico è quello dell’eguaglianza morale e non dell’eguaglianza fi sica. Comunque, in un mondo che legalizzasse il doping, vedremmo cambiare radicalmente il rapporto tra l’individuo e la medicina clinica e sperimentale. Il medico dovrebbe assecondare il più possibile le richieste individuali, avendo comunque la parola definitiva: il miglior atleta rischierebbe così di diventare colui che si rivolge al medico più permissivo. E ancora più forti contraddizioni emergerebbero in una ricerca scientifica volta al potenziamento di alcuni, perché dovrebbe tutelare gli interessi solo di una parte della popolazione (con una differenziazione non solo tra chi è sportivo e chi non lo è, ma anche tra chi fa sport per un club – o una nazione – e un altro). Caratteristica dello sport è infatti non solo quella di aspirare all’eccellenza umana, ma anche – soprattutto – quella di superare gli avversari. Rischieremmo di avere così una ricerca scientifica che agirebbe contro gli altri, che risponderebbe esclusivamente alle richieste del mercato, accentuando le differenze (soprattutto economiche) all’interno dello sport, e trascurando le esigenze terapeutiche di chi non fa sport. È dunque nel confronto con il principio di giustizia, inteso come equità, che la richiesta di una medicina migliorativa mostrerebbe tutta la sua opacità. Ci affideremo in questo campo alle riflessioni di Daniel Callahan e al suo concetto di medicina sostenibile, che non significa semplicemente riorganizzare l’assistenza sanitaria, ma anche ripensare al ruolo stesso che la medicina ha, com’è stato ad esempio sostenuto dal Comitato Nazionale di Bioetica nel 2001, quando il presidente era Giovanni Berlinguer e fu espresso un parere proprio sugli scopi, i rischi e i limiti della medicina. E aderiremo a quanto propone Eugenio Lecaldano: l’obiettivo dell’etica è quello di favorire la fioritura umana individuale e sociale, col riconoscimento che la tecnologia fornisce solo uno strumento – non esclusivo – per rimuovere le sofferenze, purché non discrimini chi vi ha fatto ricorso e chi no. In conclusione, sosterremo quindi che è preferibile uno sport che vieti l’utilizzo del doping, ma senza cadere nell’errore di considerare giusta la situazione attuale. C’è anzi molto da cambiare nello sport odierno, che ha perso di vista il suo scopo prioritario (la tutela della salute) a favore di una commercializzazione che pochi freni ha saputo mettere al mercato, e che ha dimenticato i motivi che lo rendono attraente. Parliamo di ciò che Sandel definisce “l’essenza dello sport”, ed Harris traduce in “bello dello sport”. Niente di metafisico, ma l’umanissimo riconoscimento che lo sport come poche altre attività sa suscitare emozioni e sentimenti attraverso quella che si chiama “empatia” e che ha trovato solide basi grazie alla neuroscienza. È in quel campo che è stata svelata la presenza dei neuroni specchio, cioè dei neuroni che ci permettono di entrare in relazione con gli altri, di capire le loro intenzioni, e che ci portano ad ammirare chi compie nel modo migliore gesti ed azioni che fanno parte del nostro repertorio. La tecnologia non va ripudiata perché artificiale, ma va considerata un’opportunità che consente, come nel caso di Pistorius, a chi ha qualche disabilità di poter competere con gli altri, e che facilita il compito di chi è chiamato a giudicare (soprattutto gli arbitri) in situazioni controverse, fortemente condizionato dagli interessi in gioco. Nello sport commercializzato di oggi la tecnologia appare anzi come l’unico strumento in grado di contrastare adeguatamente la corruzione. Biografia Sergio Rizzo è nato a Roma il 13 maggio 1953. Ha lavorato al “Corriere dello Sport-Stadio” da sempre (1979-2012). Prima redattore ordinario, in seguito caposervizio agli sport vari (1984-1990); vice caporedattore (1990-91); caporedattore centrale (1991-2004); vice direttore (2004-2012). Autore del libro Bioetica e sport. Nuovi principi per battere il doping (il Vascello, Roma 2006)